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Neuropsicologia della schizofrenia. Taratura della Wechsler Memory Scale IV su un campione di pazienti schizofrenici

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Il mio lavoro di tesi consiste in una parte compilativa e in una parte sperimentale. La parte compilativa comprende una rassegna delle principali teorie interpretative, psicologiche e neuropsicologiche, sulla schizofrenia. La trattazione si concentrerà specificamente sugli aspetti che permettono di descrivere in che modo i deficit cognitivi sottendano i sintomi schizofrenici. Questo intento è sorretto dalla teoria di fondo della psicopatologia cognitiva. L’approccio della psicopatologia cognitiva afferma che il deficit cognitivo abbia un ruolo diretto nella determinazione dei sintomi della malattia mentale -nel nostro caso, nella schizofrenia-, contrariamente a quanto sostenuto dai classici modelli sulle malattie mentali, che ritenevano il deficit cognitivo una conseguenza della distorsione del pensiero insita nelle sindromi psichiatriche. La psicopatologia cognitiva sostiene che la malattia mentale sia in realtà un disturbo neurocognitivo, sull’assunto della coessenza di mente e cervello (vedi oltre). Per meglio organizzare la trattazione ed evitare un’esposizione caotica degli argomenti, ho suddiviso la parte compilativa nelle sezioni Teorie psicologiche e

neuropsicologiche sui sintomi positivi, Teorie psicologiche e neuropsicologiche sui sintomi negativi e Alterazioni delle funzioni cognitive. Le prime due comprendono le

teorizzazioni (neuro)psicologiche più generali sui sintomi schizofrenici, senza particolari riferimenti a funzioni cognitive specifiche. La sezione sulle funzioni cognitive prende invece in esame dettagliatamente le diverse funzioni cognitive al fine di interpretare in che modo i deficit cognitivi siano in grado di determinare i sintomi schizofrenici. Questa sezione è infatti il focus teorico della mia tesi. Particolare importanza è stata riservata alla sezione sulla memoria, poiché la Wechsler Memory Scale-IV, usata nel lavoro sperimentale, fornisce un dettagliato assessment proprio dell’intero sistema della memoria (escluso il dominio della working memory uditivo-verbale, valutato con il test dello Span di cifre). Un’attenzione specifica è stata posta al deficit della memoria episodica, che, considerando la generale teorizzazione di Gazzaniga (2009), rappresenta lo spunto di riflessione più interessante e innovativo per una reale comprensione della condizione schizofrenica. Non ho mai inteso realizzare un manuale di neuropsicologia, né tantomeno riassumere in poche pagine la psicopatologia della schizofrenia. Per questo motivo, alcuni aspetti teorici di cui mi sono avvalso per la trattazione sono stati soltanto accennati. Allo stesso modo, ho sviluppato

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ampiamente alcuni argomenti, mentre ne ho tralasciati altri. Per fare chiarezza nelle definizioni, ho ritenuto opportuno riportare una breve sezione con le definizioni dei vari tipi di deliri e allucinazioni, poiché i termini utilizzati dai vari autori non sono gli stessi. Non ho fatto lo stesso nella sezione delle alterazioni cognitive, che è stata sviluppata senza ricorrere alla definizione manualistica di ogni funzione cognitiva trattata.

La parte sperimentale della tesi consiste nell’analisi dei dati ricavati dalla somministrazione della Wechsler Memory Scale-IV e del test dello Span di cifre ad un campione di 15 pazienti schizofrenici. Verranno esposti tutti gli aspetti fondamentali del lavoro sperimentale. Verrà presentata brevemente la Wechsler Memory Scale-IV, verranno riportati tutti gli aspetti metodologici e della valutazione neuropsicologica e verrà poi esposta la vera e propria analisi dei dati (che contiene già alcuni accenni di interpretazione dei risultati). Successivamente, verranno discussi i limiti del lavoro sperimentale.

Abbiamo attualmente in progetto la standardizzazione italiana della Wechsler Memory Scale-IV. Il mio lavoro di tesi rappresenta l’inizio della realizzazione dello

special group schizofrenia. I creatori della Wechsler Memory Scale-IV hanno

somministrato il test a vari gruppi di popolazioni speciali (gli special group), ovvero soggetti a cui è stata fatta diagnosi di disturbi neurologici, psichiatrici o dello sviluppo, frequentemente associati a disturbi di memoria. Tra gli special group è inclusa anche la schizofrenia. Sul campione di soggetti schizofrenici inclusi nel progetto di tesi, abbiamo effettuato analisi statistiche descrittive e inferenziali per esplorare le peculiarità del sistema mnestico e dei suoi deficit nella schizofrenia.

All’esposizione dell’analisi dei dati segue la sezione delle conclusioni, dove verrà fornita una visione d’insieme sintetica della letteratura sulla neuropsicologia della schizofrenia e dove verranno discussi definitivamente i risultati del lavoro sperimentale.

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1. LA SCHIZOFRENIA

1.1.

LA SCHIZOFRENIA NELL’OTTICA DELLA PSICOPATOLOGIA

COGNITIVA

“Da qualche tempo mi lamentavo di “essere presa in giro” dalle cose e ne soffrivo enormemente; benché esse non facessero nulla di speciale, non mi attaccassero direttamente e non mi parlassero nemmeno. Esse mi prendevano in giro con la loro presenza. Vedevo gli oggetti senza relazione tra loro, ritagliati e nitidi come minerali; e la loro luce, la loro tensione mi davano una paura intensa. […] Per strada mi sembrava che le persone fossero impazzite, che circolassero senza ragione incontrandosi fra loro e con le cose che mi sembravano diventate più reali di loro. […] avevo questo sentimento di stonatura e di incoerenza per tutto il mio comportamento. In realtà non era così, perché ero profondamente sincera, ma se disobbedivo al Sistema per salvare l’integrità della mia persona mi sentivo incoerente poiché era come se non tenessi in considerazione i suoi ordini, e se gli obbedivo mi sentivo anche incoerente perché non ero d’accordo con lui. Soffrivo enormemente per quegli ordini e per il sentimento di incoerenza così contrario alla mia personalità. Mentre lottavo con tutte le mie forze per non essere sommersa dalla Luce, mi sentivo derisa dagli oggetti intorno a me, che ironizzavano con aria minacciosa e nel mio capo ronzavano infaticabilmente frasi insulse.

Allora per sfuggire a tanta animazione che mi circondava e di cui ero il centro, chiudevo gli occhi ma non avevo pace, poiché ero assalita da immagini così orribili e viventi che ne provavo delle reali sensazioni fisiche. […] Ben presto dei gridi stonati che mi perforavano il cervello si aggiunsero alle mie fantasie. […] li sentivo senza udirli, li percepivo interiormente e li localizzavo alla mia destra. Soffrivo intensamente del mio stato, poiché capivo che pian piano il Sistema mi assorbiva completamente e che stavo precipitando nel paese della Luce, o dei Comandi, come lo chiamavo. ”

(Sechehaye, 1955/2006, pag. 39,41,42)

Da questi brevi estratti dal libro Diario di una schizofrenica (ormai un classico della saggistica psicologica), in cui la paziente schizofrenica dell’autrice, Renée, racconta dettagliatamente il suo vissuto mentale quotidiano, si può evincere quanto la schizofrenia sia una malattia totalizzante, pervasiva di ogni aspetto della mente e del

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comportamento, causa della completa frammentazione di ogni aspetto della persona e della sua vita psichica. Riprendendo l’analisi psicopatologica di Karl Jaspers, al pensiero del malato schizofrenico non possiamo né accedere né partecipare in termini di comprensibilità (Sarteschi e Maggini, 1982). “[…] nella vita psichica schizofrenica giungiamo ai limiti dove normalmente potremmo ancora comprendere, e d’altro canto troviamo incomprensibile ciò che al malato stesso non appare affatto

incomprensibile, ma giustificato e per niente strano” (Jaspers, citato in Cutting, 1985.

pag. 32): in questo modo Jaspers evidenzia che i vissuti mentali degli schizofrenici non possono essere né rivissuti, né motivabili né derivabili psicologicamente (Sarteschi e Maggini, 1982). La schizofrenia risulta quindi una realtà mentale incomprensibile e inderivabile. Non a caso, la schizofrenia è sempre stata considerata la malattia mentale per eccellenza, il simbolo stesso della “follia” presente nell’immaginario generale sotto forma di suggestioni e memorie di vario genere.

La schizofrenia è universalmente considerata la più grave malattia mentale poiché comporta una continua difficoltà a mantenere un solido contatto con la realtà e la dissociazione di funzioni mentali che nella persona non schizofrenica sono inscindibili. Con fatica, infatti, possiamo immaginare cosa voglia dire pensare a qualcosa e allo stesso tempo sentire che non siamo noi a pensare, ma che a farlo sia qualche altra forza, o persona, o spirito ecc. Questo però rappresenta solo un esempio di cosa sia la realtà mentale di una persona affetta da schizofrenia. Come questa, altre esperienze patologiche sono totalmente estranee e avulse dalla mente normale, quali le allucinazioni riguardanti le varie modalità sensoriali, i deliri di vario genere, le distorsioni della forma del pensiero e le alterazioni percettive di tutte le modalità sensoriali.

La natura della schizofrenia e della sua eziopatogenesi non è mai stata chiarita né spiegata in modo soddisfacente. Molti modelli teorici hanno dominato la letteratura scientifica, ma, analogamente a molte altre malattie mentali, non sono state ancora trovate le “unità” esplicative, un modello che riesca a spiegare quali fattori patogenetici siano alla base della malattia e come questi si articolino in modo da determinare i sintomi. Abbiamo a disposizione molti dati provenienti dagli studi anatomici post-mortem, dalle indagini neurochimiche e, più recentemente, dall’esplorazione funzionale del cervello, ma questi non possono, da soli, spiegare l’essenza del disturbo. Le anomalie cognitive non possono essere interpretate

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soltanto come la risultante delle alterazioni biologiche cerebrali. L’alterazione cognitiva non è l’alterazione biologica, deve essere letta in un altro modo. La psicologia può dare un contributo fondamentale alla comprensione di cosa sia la schizofrenia. Di recente, la ricerca neuropsicologica, in particolare, ha fornito le evidenze più entusiasmanti e promettenti sulla comprensione della natura del disturbo. Lo studio delle alterazioni e dei deficit delle funzioni cognitive, riscontrabili nei pazienti schizofrenici, sembra essere la strada giusta nel processo di individuazione del nucleo, del “nocciolo” del disturbo schizofrenico. Più in generale, considerare il disturbo cognitivo come fondante la malattia mentale, e non più come una conseguenza accessoria di essa, sancisce definitivamente un passo in avanti epistemologico sia nello studio della psicopatologia sia nel rapporto tra le varie discipline che studiano la mente. È evidente come la psicologia, (la neuropsicologia,) la psichiatria e le neuroscienze non potranno più avere gli stessi rapporti reciproci se passeremo, in un futuro, alla considerazione della malattia mentale come un complesso sistema di disfunzioni derivanti da alterazioni cognitive. Se in passato si riteneva giustificata una dicotomia tra “disturbi psichiatrici” e “disturbi cognitivi”, è ancora sensato, alla luce delle nuove riflessioni e delle nuove evidenze, ritenere un “disturbo del pensiero” di stampo psichiatrico altra cosa rispetto a un deficit di tipo esecutivo che produce un dissesto cognitivo generale e quindi anche del pensiero? Se esiste un universale accordo sul fatto che i lobi frontali siano il correlato neuroanatomico delle funzioni mentali superiori, ritenere un disturbo del pensiero indipendente dal funzionamento esecutivo-frontale è ammettere che ci sia qualcos’altro di molto sfuggente e incomprensibile, forse qualcos’altro che non esiste. Considerare la malattia mentale primariamente come un disturbo cognitivo potrebbe risolvere molti problemi. È pratica comune, nella clinica neuropsicologica, considerare i disturbi esecutivi come interfaccia naturale delle varie forme di psicopatologia. Senza entrare nel campo della psicopatologia, tutti i pazienti che hanno subito un offesa vascolare o traumatica piuttosto grave riferiscono di “essere diversi da prima”, di “sentirsi strani”, “cambiati”, di “non essere più gli stessi”, di essere “instupiditi” o addirittura “impazziti”, per non parlare dei quadri di completo discontrollo cognitivo e comportamentale nella sindrome disesecutiva o della vera e propria sociopatia acquisita (Damasio, 1994). A prescindere dal coinvolgimento delle funzioni esecutive nell’essenza stessa della malattia mentale, le alterazioni di molte altre funzioni cognitive possono contribuire alla genesi dei vari disturbi

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psicopatologici. Prendiamo, ad esempio, il caso della depressione. Risulta ormai scontato che i pazienti depressi riferiscano molto spesso disturbi di memoria, che vengono additati come ovvia conseguenza del quadro psicopatologico. In realtà sembra avere più senso considerare la depressione proprio come conseguenza, e non causa, di un complesso sistema di alterazioni dei processi di memoria, come la

predisposizione a un apprendimento ipertrofico di fatti negativi,

un’ipergeneralizzazione -in negativo- della memoria retrograda e una tendenza alla

mood congruence memory (Bower, 1981), che determina un ciclo infinito di

aggravamento dei sintomi depressivi. Gli studi neuropsicologici sulla malattia mentale mirano ad individuare alterazioni cognitive non per una ricerca fine a se stessa (e francamente poco utile), ma allo scopo di interpretare in che modo i singoli disturbi cognitivi, attraverso le loro combinazioni, possano determinare la complessità sintomatologica della malattia e i vissuti personali dei pazienti. Questa è la teoria di fondo della psicopatologia cognitiva, appartenente all’impostazione neurocognitiva nello studio della malattia mentale.

L’impostazione neurocognitiva riconosce la completa e sostanziale identità tra mente e organo cervello, ovvero non riconosce contrapposizione tra versante

organico/biologico e versante mentale/funzionale[1]. Ciò non rappresenta

un’antinomia, poiché si tratta di due diverse modalità di lettura degli stessi fenomeni (ovvero i fenomeni mentali) che devono operare obbligatoriamente in parallelo. L’impostazione neurocognitiva sostiene la coessenza tra mente e cervello, ma ciò non produce un’asimmetria teorica, come invece risulta dall’impostazione neuroscientifica, che considera la mente come prodotto scaturito dall’attività del sistema nervoso cerebrale.

Per indagare la natura e l’origine della malattia mentale si sono ricercate le basi anatomo-funzionali; ciò ha indirizzato la ricerca delle analogie tra la fenomenica dei quadri psicopatologici e le espressioni comportamentali delle lesioni cerebrali. Per esempio, alcune manifestazioni comportamentali frequentemente riscontrabili nei disturbi epilettici (soprattutto nelle crisi parziali semplici), come le crisi visive (caratterizzate dalla comparsa di illusioni e allucinazioni visive anche complesse), le distorsioni del vissuto psichico della diplopia mentale (una sorta di sdoppiamento della coscienza), il pensiero forzato (l’improvviso e coercitivo presentarsi alla mente di un pensiero costante), il dreaming state (una sorta di stato sognante, la sensazione di vivere in un sogno), la depersonalizzazione e i fenomeni paramnesici

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(erronee convinzioni di familiarità o non familiarità di uno stimolo) sono perfettamente sovrapponibili alle anomalie cognitive degli schizofrenici (Timpano Sportiello in Bianchi, 2008). I neurologi Wilder Penfield e Theodore Rasmussen hanno analizzato le manifestazioni psichiche delle crisi epilettiche e hanno condotto studi di stimolazione elettrica cerebrale. I risultati ottenuti mostravano che la corteccia temporale e le adiacenti zone parieto-occipitali possono essere considerate la sede delle associazioni appercettive e della discriminazione dei caratteri qualitativi e quantitativi delle sensazioni (Bini e Bazzi, 1971) -funzioni danneggiate nell’epilessia così come nella schizofrenia-. Inoltre, le illusioni paramnesiche, le esperienze di depersonalizzazione e le allucinazioni complesse degli epilettici sono state messe in rapporto, dagli stessi studiosi, all’attività alterata di un sistema diffuso di neuroni della corteccia temporale. Questo sistema, in condizioni di non patologia, permette la normale funzione mnestico-associativa delle rappresentazioni e delle esperienze depositate nella memoria della persona, mentre in condizioni patologiche il sistema non produce un atto di memoria ma attiva un disturbo psicosensoriale (Bini e Bazzi, 1971). La similitudine tra i sintomi epilettogeni appena esposti e le manifestazioni sintomatologiche schizofreniche pone a favore della considerazione della schizofrenia come un disturbo essenzialmente neurocognitivo. L’individuazione delle basi neuroanatomiche dei disturbi mentali ha favorito enormemente questo filone di ricerca sulla psicopatologia cognitiva. Grazie agli studi di imaging funzionale, è stato possibile chiarire la natura specifica di alcune sindromi di difficile interpretazione, che avevano portato le varie discipline ad un impasse conoscitivo. È il caso della sindrome di Cotard, la sindrome di Capgras, i disturbi dissociativi e i disturbi della percezione del dolore, che si configurano in modo inequivocabile come sindromi neuropsicologiche da alterata connessione anatomica di differenti aree cerebrali. Non è infrequente -e in alcuni casi è la regola- trovare manifestazioni tipiche di queste sindromi in alcuni disturbi psicopatologici. Nella schizofrenia è spesso riscontrabile il corredo sintomatologico della Sindrome di Cotard, dovuta a un’interruzione della comunicazione tra regioni sensoriali e sistema limbico (Ramirez-Bermudez et al., 2010). Un’interruzione pre-amigdaloidea di queste vie percettive comporta la sensazione di essere morti, conseguenza dell’impossibilità di “sentire emotivamente” le informazioni sensoriali provenienti dal proprio corpo. Tale sindrome si associa strettamente ai deliri di negazione, che rappresentano l’unica possibile interpretazione che il cervello può dare ad uno stato neuropsichico alterato (la

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convinzione che il proprio corpo si sia pietrificato, che alcuni organi siano scomparsi, la sensazione di non esistere più ecc.) (Cassano e Tundo in Cassano, 2006). Nella

Sindrome di Capgras, invece, il paziente è convinto che una persona, solitamente un

familiare, un amico o un dottore, sia stata sostituita con un’altra persona identica, che interpreta come un impostore con intenzioni malevole (Vallar e Papagno, 2007). Si è giunti alla scoperta che tale sindrome dipende da una disconnessione della via dorsale che collega la corteccia visiva al sistema limbico e quindi anche all’amigdala (David e Cutting, 1994). In questo caso, la persona in questione viene correttamente riconosciuta ma non identificata come essa, proprio perché l’informazione gnosica è intatta ma non integrata con l’informazione emotiva, cosa che non permette di “sentire emotivamente” una persona conosciuta. Così, ciò che prima veniva considerato un disturbo delirante di imprecisata natura, adesso si configura chiaramente come una sindrome neuropsicologica. Appare del tutto lecito e sensato, quindi, estendere queste considerazioni ad altre condizioni tipicamente schizofreniche e, in generale, psicopatologiche.

Il deficit cognitivo presente nella schizofrenia, nonché nelle altre forme di psicopatologia, è interpretabile come endofenotipo, ovvero una componente oggettivabile “a metà strada” tra il genotipo e il disturbo psichiatrico manifesto inteso come ultimo fenotipo osservabile (Pancheri, 2007, pag. 147). L’endofenotipo è un tratto quantitativo ed ereditabile geneticamente che rappresenta un fattore di rischio per caratteri poligenici complessi, come appunto la schizofrenia. Le alterazioni cognitive peculiari della schizofrenia sono esattamente un endofenotipo. L’endofenotipo di tipo cognitivo, ereditato geneticamente e riscontrabile strumentalmente anche nei familiari diretti del paziente schizofrenico, potrebbe rappresentare un fattore di vulnerabilità allo sviluppo di schizofrenia (Pancheri, 2007). È di centrale importanza evidenziare che l’endofenotipo cognitivo presente nei pazienti schizofrenici è rintracciabile sia nei familiari sani che nei familiari affetti dalla stessa malattia mentale o da altre psicopatologie “in continuum”. Il concetto di endofenotipo, infatti, si collega strettamente al concetto di spettro psicopatologico, argomento che approfondiremo successivamente in riferimento al continuum

schizotassia – schizotipia – schizofrenia (Meehl, 1990). Ulteriori evidenze

dell’ereditabilità delle varie forme di endofenotipo riguardano la misurazione di alcuni parametri neurofisiologici (la riduzione della P300, della N400 e la soppressione inibitoria della P50 nei potenziali evocati, le anomalie del movimento oculare, la

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diminuita ampiezza della variazione negativa contingente, le alterazioni della risposta della corteccia prefrontale durante sessioni di fMRI ecc.) rilevabili sia nei pazienti schizofrenici che nei loro familiari diretti non affetti (Pancheri, 2007) (Palomba e Stegagno, 2004) (Kumar e Debruille, 2004).

Per concludere, l’approccio che ha indirizzato questo lavoro sulla neuropsicologia della schizofrenia è sicuramente quello della psicopatologia cognitiva, tramite il quale verrà letto ed interpretato tutto il materiale che andrò ad esporre.

1.2. SINTOMATOLOGIA CLINICA

Prima di iniziare la stesura della rassegna di studi sulla neuropsicologia della schizofrenia, credevo che la divisione del lavoro nelle sezioni “sintomi positivi”, “sintomi negativi” e “alterazione delle funzioni cognitive” fosse legittimata da un’autentica possibilità di distinzione tra i tre domini. Mi sono subito reso conto che questa intenzione era talmente difficile da mettere in pratica che sicuramente aveva in sé qualcosa di sbagliato. In effetti non c’è alcuna netta distinzione tra i tre domini, non si possono in alcun modo analizzare separatamente, non si possono spiegare i sintomi positivi e negativi senza considerare le alterazioni delle funzioni cognitive, così come non ha senso esaminare le anomalie delle funzioni cognitive senza fare continua menzione dei sintomi positivi e negativi. I domini sono intercorrelati indissolubilmente e non può essere altrimenti. Ho deciso di lasciare comunque la separazione tra sintomi positivi, sintomi negativi e alterazione delle funzioni cognitive, ma soltanto per permettere una trattazione meno caotica delle molteplici teorie e dei tanti argomenti ricchi e controversi che caratterizzano la letteratura.

La classificazione dei sintomi schizofrenici in sintomi positivi e sintomi negativi è stata introdotta dallo psichiatra Tim Crow nel 1980 (vedi Crow, 1980). Si tratta forse della classificazione più accreditata tra quelle proposte dai vari autori, nonché la più utilizzata nella pratica clinica[2]. Tramite questa classificazione, possiamo sommariamente individuare pazienti a prevalenza di sintomi positivi (talvolta, per praticità, chiamati pazienti “positivi”) e pazienti a prevalenza di sintomi negativi (talvolta, per praticità, chiamati pazienti “negativi”). In realtà, è impossibile classificare rigidamente un paziente schizofrenico in una o nell’altra categoria, come verrà discusso più avanti. Tendenzialmente, consideriamo “positivi” quei pazienti che presentano una produttività psicotica florida, con scarse o non predominanti

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componenti di negativismo. Consideriamo invece “negativi” quei pazienti le cui manifestazioni di negativismo rappresentano un elemento più o meno predominante sulla produttività psicotica.

Crow (1980), oltre che a dividere i sintomi schizofrenici in positivi e negativi, propone una suddivisione della schizofrenia in sottotipi I e II, corrispondenti alla prevalenza di sintomi positivi o negativi. La schizofrenia di tipo I comprende quei quadri con predominanza di sintomi positivi sui sintomi positivi; è associata a decorso tendenzialmente acuto, buona risposta al trattamento con antipsicotici e a prognosi più favorevole (Cassano e Tundo, 2006). La schizofrenia di tipo II comprende i quadri con predominanza di sintomi negativi, marcata riduzione della funzionalità socio-lavorativa e perdita delle autonomie, alterazioni morfologiche cerebrali rilevabili con esami strumentali, decorso cronico, progressivamente ingravescente, prognosi sfavorevole e scarsa risposta agli antipsicotici (Cassano e Tundo, 2006). I sintomi positivi possono essere reversibili, mentre la genesi della schizofrenia di tipo II contiene in sé qualcosa di irreversibile (Crow, 1980).

1.2.1. I SINTOMI POSITIVI

Vengono definiti positivi i sintomi schizofrenici anomali per la loro presenza (Frith,

1992) e vengono considerati alterazioni di funzioni (Pancheri, 2007).

Tradizionalmente, i sintomi positivi comprendono i disturbi del contenuto del pensiero -i deliri-[3], i disturbi della percezione relativa a tutte le modalità sensoriali -allucinazioni e illusioni- e i cosiddetti “sintomi schneideriani”.

I deliri

Viene universalmente accettata la definizione classica di Emil Kraepelin, secondo cui il delirio, nelle sue varie forme, è un “errore morboso di giudizio che non si lascia rettificare dall’esperienza e dalla critica” (Sarteschi e Maggini, 1982, pag. 141). I deliri, secondo Jaspers, hanno 3 caratteristiche fondamentali in comune: sono caratterizzati da assoluta certezza soggettiva (attribuzione di un unico, esclusivo e indiscutibile significato ad un evento o ad uno stato mentale, con esclusione di tutte le altre possibili interpretazioni e dell’effetto della casualità), non influenzabilità e incorreggibilità di fronte ad ogni esperienza e confutazione logica (ogni prova, seppur incontrovertibile, della falsità della convinzione viene sistematicamente rifiutata) e

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assurdità/impossibilità di contenuto (quest’ultimo criterio è però piuttosto relativo poiché si devono sempre considerare gli elementi autobiografici della persona e la sua estrazione socioculturale nella determinazione del delirio) (Sarteschi e Maggini, 1982) (Pancheri, 2007). Citando ulteriormente la psicopatologia classica di Sarteschi e Maggini, i contenuti deliranti possono essere di svariata natura. Quelli di maggiore riscontro nella schizofrenia sono i seguenti [4]:

Deliri di persecuzione

Riguardano la convinzione persistente che determinate azioni vengano eseguite con uno specifico intento di danneggiamento. Le modalità di danneggiamento possono essere molteplici. Appartengono a questa categoria il delirio di nocumento (convinzione di essere osteggiato in modo aspecifico da qualcuno), il delirio di

persecuzione propriamente detto (convinzione di essere, appunto, perseguitato con

intenti ostili da una persona, da un gruppo di persone o da un sistema, di essere vittima di un complotto e simili), il delirio di riferimento (convinzione che le azioni e gli eventi avvengano con un preciso riferimento a sé, che si esprime nella certezza di essere osservati, di essere oggetto dell’attenzione di altre persone, di essere l’oggetto di riferimento di precisi atteggiamenti da parte di altri ecc.; è un tipo di delirio piuttosto frequente nella schizofrenia), il delirio di influenzamento (di gran lunga il più tipico e peculiare della schizofrenia: la persona esperisce il proprio pensiero e il proprio comportamento come se fossero determinati o forzati da influenze esterne, estranee al proprio corpo e alla propria mente, contrarie alla propria volontà; i mezzi con cui hanno la certezza di essere influenzati comprendono spesso le volontà di altre persone, onde magnetiche, raggi provenienti dallo spazio, la telepatia, dispositivi alieni ecc.), e infine i deliri di veneficio (convinzione che qualcuno stia attentando alla propria incolumità o alla propria vita attraverso varie modalità di avvelenamento). (Sarteschi e Maggini, 1982) (Cassano e Tundo, 2006).

Deliri di grandezza

Si configurano come convinzioni riguardanti un’ipervalutazione della propria persona, delle proprie capacità e della propria posizione e funzione nel mondo, la quale può essere vagamente realistica (è il caso del delirio ambizioso, in cui prevale la convinzione di possedere capacità uniche e formidabili, e il delirio erotomanico, che consiste nella certezza di essere amati da una persona estranea solitamente

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appartenente a una classe sociale superiore) oppure decisamente estrema e disancorata alla realtà (come nel caso del delirio megalomanico, in cui compaiono convinzioni deliranti sull’enormità delle proprie qualità materiali e spirituali, il delirio di

potenza, in cui il soggetto si identifica con ferma convinzione con personaggi storici

più o meno famosi, il delirio genealogico, in cui compare la convinzione di discendere da nobili stirpi e da famiglie illustri, e il delirio di enormità, che comporta la sensazione che il proprio corpo e la propria mente rappresentino un’entità cosmica di vastissime dimensioni, che la propria persona sia il centro dell’universo ecc.) (Sarteschi e Maggini, 1982).

Deliri mistici

Riguardano esperienze deliranti di tipo religioso e spirituale innestate su uno sfondo di delirio di grandezza. Il paziente con delirio mistico può essere convinto di essere in contatto con Dio, di essere il suo prescelto, di avere un rapporto privilegiato con lui e con altre figure sacre [5],di essere incaricato di compiere gesta grandiose, di essere il tramite di entità ultraterrene o cosmiche ecc. Il paziente può addirittura identificarsi con una divinità o con un’altra figura sacra. (Sarteschi e Maggini, 1982) (Cassano e Tundo, 2006).

Per Kurt Schneider si può parlare di intuizione delirante quando il paziente è colto da una “nuova, improvvisa e inspiegabile certezza non basata su una percezione” (Pancheri, 2007, pag. 102), oppure di percezione delirante “quando a una percezione reale [e corretta] viene attribuito, senza un motivo comprensibile conforme alla ragione (razionale) o al sentimento (emozionale), un significato abnorme, generalmente nel senso dell’autoriferimento.” (Schneider, 1965, pag. 75). Jaspers descriveva poi un particolare stato d‟animo delirante, per il quale coniò il termine

Wahnstimmung, che compare nella persona delirante tramite una “modificazione

della coscienza dell’Io e del sentimento del giudizio di realtà che sono alla base della sicurezza soggettiva ed intersoggettiva dell’Io nel mondo” (Sarteschi e Maggini, 1982, pag. 144), con una trasformazione della realtà di tipo indescrivibile e incomunicabile che comporta sentimenti di preoccupazione, angoscia e terrore (Sarteschi e Maggini, 1982). La Wahnstimmung viene considerata da Schneider una “disposizione d’animo a delirare” dal momento che la percezione delirante in sé non è deducibile da un particolare stato d’animo (un particolare stato affettivo); essa si

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presenterebbe quindi come un processo di mutamento della coscienza in cui l’esperienza del mondo assume un connotato di “estraneità sinistra” (Schneider, 1965, pag. 78). Da qui il delirio scaturisce come conseguenza di una “perdita di significato della realtà e rappresenta l’esito finale del tentativo di (ri-)conferire significato a esperienze ineffabili” (Cassano e Tundo, 2006, pag. 49). La drammaticità con cui i pazienti schizofrenici vivono il delirio, infatti, rappresenta comprensibilmente la norma.

Le allucinazioni

Il medico Bénédict Morel definì le allucinazioni come “percezioni senza oggetto”, ovvero percezioni che si sviluppano in assenza di segnali sensoriali idonei (Cassano e Tundo, 2006). La semeiotica comune di tutti i tipi di allucinazioni si articola in due grandi aspetti: la percezione senza oggetto propriamente detta (ovvero il carattere di fisicità e l’attribuzione di un’origine esterna al “sé” della percezione allucinatoria) e la connotazione delirante (che si esplica nella certezza soggettiva, nella incorreggibilità di fronte alle prove contrarie e nel carattere autocentrico della percezione allucinatoria) (Pancheri, 2007). Le allucinazioni possono presentarsi alla coscienza della persona in tutte le modalità sensoriali, possono essere più o meno complesse (esperienze percettive vaghe oppure ben distinte e dettagliate), possono essere accompagnate da una partecipazione emotiva più o meno intensa, possono avere o meno un effetto sul comportamento (percezioni di fronte alle quali la persona non cambia atteggiamento, oppure percezioni allucinatorie per le quali il paziente non può astenersi dal cambiare il proprio comportamento, come nel caso delle voci imperative che spingono verso una certa azione) (Cassano e Tundo, 2006) e infine possono presentarsi più o meno frequentemente (periodi in cui le allucinazioni si presentano raramente, periodi in cui si presentano saltuariamente ad intervalli oppure periodi in cui sono costantemente presenti e assillanti) (Pancheri, 2007). Per quanto riguarda la modalità sensoriale, nella schizofrenia le forme allucinatorie di gran lunga più frequenti sono quelle uditive, seguite poi, in ordine, da quelle visive e molto meno frequentemente da quelle tattili, cenestesiche, olfattive e gustative (Pancheri, 2007):

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Allucinazioni uditive

Costituiscono un aspetto peculiare della patologia schizofrenica. La loro prevalenza è stimata all’incirca tra il 60% e il 74% tramite studi su gruppi sperimentali di pazienti schizofrenici (David e Cutting, 1994). La loro complessità può essere molto variabile, da percezioni uditive elementari (come ronzii, fischi, colpi ecc.) fino a voci umane singole o multiple confuse oppure chiaramente distinguibili (Cassano e Tundo, 2006). Nella schizofrenia, le allucinazioni uditive spesso sono caratterizzate dalla percezione di parole e frasi ben distinte e chiare, ma queste possono anche essere confuse e difficilmente discriminabili (allucinazioni parafasiche) oppure ricche di neologismi (allucinazioni neologistiche) (Sarteschi e Maggini, 1982). Le voci possono avere connotati emotivi che il paziente percepisce come gradevoli o sgradevoli: in particolare, le voci possono essere amichevoli e rassicuranti oppure imperative (impartiscono ordini, talvolta con conseguenze disastrose per il paziente o per altri), dialoganti o critiche nei confronti dell’operato del paziente (commento allucinatorio

degli atti) (Cassano e Tundo, 2006), possono veicolare messaggi con contenuto

sessuale, violenti oppure con contenuto neutrale (David e Cutting, 1994). Spesso i pazienti riescono a specificare, più o meno precisamente, a chi appartengono le voci (una voce maschile o femminile, la voce di un demone, la voce di Dio ecc.).

Allucinazioni visive

Come nelle allucinazioni uditive, quelle visive, seconde per frequenza di comparsa nella schizofrenia, possono essere semplici e poco complesse oppure nitidamente distinguibili, complesse e perfettamente caratterizzate, con tutti i connotati di un oggetto fisico (dimensioni, rapporti con gli altri oggetti dell’ambiente, movimento ecc.) (Sarteschi e Maggini, 1982).

Altri tipi di allucinazioni

Meno frequenti nella schizofrenia, ma non rare, sono le allucinazioni che riguardano le altre modalità sensoriali dell’olfatto, del gusto, somatiche, cenestesiche e chinestesiche. Le allucinazioni olfattive e gustative si manifestano di solito con la percezione di odori sgradevoli e persistenti, spesso associate a deliri di veneficio (Cassano e Tundo, 2006). Le allucinazione somatiche riguardano il dominio della sensibilità corporea e si manifestano come particolari parestesie (diffuse percezioni idriche, termiche, aptiche e di “formicazione”, oppure sensazioni tattili più

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precisamente distinguibili[6], spesso accompagnate da deliri sulla loro causa) (Cassano e Tundo, 2006). Le allucinazioni cenestesiche riguardano la percezione di bizzarri e impossibili (nonché inquietanti) cambiamenti del proprio corpo o di alcuni organi, oppure la percezione di un’influenza esterna che manipola il corpo e parti di esso, anche in questo caso in associazione con vissuti di tipo delirante (Sarteschi e Maggini, 1982). Nelle allucinazioni chinestesiche il soggetto percepisce il movimento del proprio corpo e l’attività muscolare come controllate da un agente esterno ed estraneo alla propria volontà, il quale lo costringe a compiere azioni complesse come camminare o parlare (allucinazioni motrici verbali); allo stesso modo il paziente con questo tipo di allucinazioni può percepire di essere costretto all’immobilità nonostante la sua volontà (Sarteschi e Maggini, 1982).

Tramite una visione d’insieme della fenomenica dei deliri e delle allucinazioni, possiamo constatare che tra delirio e allucinazione vi è spesso una relazione bidirezionale che mantiene e rafforza entrambe le esperienze patologiche. Il delirio favorisce le allucinazioni e le allucinazioni innescano e/o alimentano il delirio (Cassano e Tundo, 2006). Tutto ciò avviene solitamente in uno stato di intensa (e terrifica) trasformazione della realtà, la già citata Wahnstimmung.

Le pseudoallucinazioni

Sono particolari fenomeni interni al soggetto, essenzialmente uditivi, consistenti nella percezione di “voci senza suono” all’interno della mente, di “mormorii intrapsichici”, di voci del pensiero senza nessun connotato uditivo (Sarteschi e Maggini, 1982). Spesso vengono vissuti come estranei ed imposti, tanto che De Clérambault li includeva in un gruppo di fenomeni mentali -allucinatori e non- caratterizzati da un senso incoercibile di estraneità e mancanza di controllo soggettivo, la sindrome da

automatismo mentale (Sarteschi e Maggini, 1982).

Le pseudoallucinazioni rappresenterebbero un’interessante intersezione tra il linguaggio interiore e le allucinazioni, elementi che, come vedremo, sono strettamente correlati. Esse sono di frequente riscontro nella schizofrenia, e secondo molti autori sarebbero più frequenti delle vere allucinazioni (Sarteschi e Maggini, 1982).

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I sintomi schneideriani

I sintomi schneideriani, o sintomi di primo rango secondo Schneider, comprendono particolari esperienze in cui il confine tra delirio e allucinazione non è netto, per cui non possono essere rigidamente classificate né in una né nell’altra categoria. Questi sintomi includono l’eco del pensiero (la “sonorizzazione del pensiero”: udire i propri pensieri come fossero verbalizzati da sé o da qualcun altro, oppure sentirli

“pronunciati” da animali o da oggetti che producono rumore[7]

), il furto del pensiero (percezione che i propri pensieri vengano prelevati o rubati da una persona o da un’organizzazione di persone), l’inserimento del pensiero (la percezione che nella propria mente vengano inseriti pensieri di qualcun altro, spesso con una specifica volontà), la trasmissione del pensiero (percezione che i propri pensieri siano sentiti dagli altri come esito di una diffusione acustica), le esperienze di Gemacht (percezione della sottrazione della propria mente, dei propri pensieri, come perdita della proprietà di sé e delle proprie azioni. Schneider parla a tal proposito di disturbi dell’esperienza dell’Io, o della “meità”, intesi come la percezione che i propri atti non vengono vissuti come propri ma come guidati e influenzati da agenti esterni), e i

disturbi dell‟ecceità (ovvero un’alterazione della “coscienza dell’esistenza”, dell’

“esperienza dell’esserci”, strettamente collegata al delirio nichilistico) (Schneider, 1965, pagg. 86, 87) (Pancheri, 2007) (Gozzetti, 1999). Schneider considerava questi ed altri sintomi indispensabili per la diagnosi di schizofrenia, mentre adesso vengono considerati solo come sintomi secondari.

Teorie psicologiche e neuropsicologiche sui sintomi positivi

I modelli che hanno tentato di spiegare il meccanismo patogenetico dei deliri e delle allucinazioni sono numerosi ed eterogenei. Qui esporrò soltanto alcune delle più accreditate teorie psicologiche e neuropsicologiche.

Disturbo di coscienza e pensiero primitivo

Nella prima metà del XX secolo, molti autori individuavano un’associazione tra sintomi positivi schizofrenici e un’alterazione della coscienza. Il disturbo della coscienza invocato per spiegare deliri e allucinazioni veniva declinato nelle teorizzazioni peculiari dei vari autori. Per lo psichiatra Ernest Dupré nella schizofrenia compaiono stati cenestopatici, ovvero modificazioni o distorsioni della sensibilità cenestesica causate da un’alterazione della coscienza (Jenkins e Röhricht, 2007)

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(Cutting, 1985) da cui scaturiscono le particolari esperienze schizofreniche dei sintomi positivi. Un contributo rilevante sull’argomento è stato quello dello psichiatra e psicoanalista Henry Ey, che rintracciava nella sintomatologia schizofrenica una liberazione di funzioni sottocorticali, normalmente inibite dalla corteccia e quindi sotto il controllo della coscienza (Cutting, 1985). I sintomi positivi, per Ey, si configurano in questo senso come una dissoluzione della coscienza che permette l’emergere di livelli di coscienza primitivi, inferiori o onirici (Garrabé, 2005) (Cutting, 1985). La teoria di Ey è strettamente ricollegabile alla concezione dello psichiatra Silvano Arieti, che elaborò il concetto di “regressione teleologica progressiva” della schizofrenia, ovvero l’impiego di meccanismi psichici arcaici e primitivi, appartenenti a remote tappe filogenetiche dell’evoluzione dell’uomo (Arieti, 1985) (Pancheri, 2007). Tale forma di pensiero paleologico racchiude in sé tutte le caratteristiche del pensiero primitivo. Questo è caratterizzato da processi di ragionamento di tipo

grossolanamente induttivo e non ipotetico-deduttivo, un’impossibilità di

simbolizzazione per assenza di capacità associative tra significanti e significati, un pensiero magico che si sviluppa dalla “legge della partecipazione” (l’individuazione di rapporti inesistenti tra eventi che guida una simbolizzazione irreale o connotata da una fusione completa tra significante e significato), un conseguente pensiero concreto e non simbolico che porta all’incapacità di scambi verbali simbolici e l’antropomorfizzazione dei fenomeni materiali (Levy-Bruhl, 1923) (Arieti, 1985) (Pancheri, 2007). Risulta evidente per quale motivo il pensiero primitivo sia stato associato con grande interesse all’intepretazione dei sintomi positivi della schizofrenia. Il pensiero paleologico descritto da Levy-Bruhl ha delle impressionanti analogie con il pensiero schizofrenico.

Nella psicopatologia classica, il disturbo della coscienza nella schizofrenia veniva messo in relazione al concetto di depersonalizzazione. Per Jaspers, essa consiste nell’angosciante vissuto che gli eventi psichici non appartengano più al sé, che si sviluppino senza intervento della volontà, mentre per Schneider assume il connotato di un estraneamento dal sé, un disturbo della “meità” (Sarteschi e Maggini, 1982) che

approfondiremo nella prossima sezione. Carl Wernicke distinse una

depersonalizzazione autopsichica (i contenuti dell’esperienza vengono vissuti come

estranei al sé, il soggetto si sente impersonale e vago, con la percezione dell’automatismo della propria attività psichica e delle proprie azioni) una

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parti di esso, accompagnato spesso da deliri di tipo nichilistico), e una

derealizzazione (condizione in cui il mondo esterno è vissuto come estraneo, irreale)

(Mecacci, 2012) (Sarteschi e Maggini, 1982). Questi fenomeni vengono considerati fondanti la malattia schizofrenica da molti autori classici. Un particolare fenomeno di disturbo della coscienza è l’eautoscopia, ovvero la visione di un duplicato di sé, inteso come un disturbo della coscienza collegato allo schema corporeo. Ho fatto menzione di questo peculiare disturbo perché uno dei pazienti che ho conosciuto, D.M., mostra frequentemente questo sintomo (vedi profilo di D.M.). Per collegare il disturbo della coscienza al pensiero primitivo, è interessante notare che particolari forme di eautoscopia vengono narrate nella mitologia di molte società antiche. Nella credenza popolare tedesca è ancora presente la leggenda del doppelgänger, la visione, appunto, di un duplicato di sé, presagio, per chi ne fa esperienza, dell’incombere della morte (Sarteschi e Maggini, 1982). È probabile che esperienze allucinatorie fossero più comuni nell’uomo primitivo rispetto al presente. Lo psicologo Julian Jaynes ha ipotizzato che gli uomini primitivi fossero guidati, nel loro comportamento, non dalle intenzioni ma da una sorta di linguaggio interiore, simil-allucinatorio, a causa di una coscienza non abbastanza sviluppata e poiché incapaci di introspezione (vedi la teoria della mente bicamerale: Jaynes, 1996). Crow (1997) esamina le possibili implicazioni che potrebbe avere la riduzione delle normali asimmetrie emisferiche nei cervelli degli schizofrenici. Dedicherò una sezione agli squilibri emisferici per la trattazione di questa teoria, ma per adesso basta accennare ad un dato. Il rapido incremento del volume cerebrale, nel corso dello sviluppo filogenetico dell’uomo, si è verificato contemporaneamente alla specializzazione emisferica per determinate funzioni e alla corrispondente formazione di asimmetrie strutturali tra i due emisferi (Crow, 1997). La ridotta asimmetria del planum temporale nel cervello degli schizofrenici è stata ricondotta ad un globale disturbo del linguaggio che secondo Crow è la determinante primaria dei sintomi positivi. Il cervello dell’uomo primitivo mostrava una minore specializzazione emisferica, non era ancora predisposto al linguaggio, senza il quale non si può avere un controllo e una regolazione degli eventi psichici e del comportamento (Mazzucchi, 1999). Le particolari convinzioni mistiche e religiose con cui gli uomini primitivi spiegavano il mondo potrebbero essere per questo ricondotte a particolari esperienze psicotiche scaturite da un cervello ancora immaturo, capace soltanto di stati di coscienza grossolani e molto diversi dai nostri, così come descrive Jaynes nella teoria della

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mente bicamerale (Jaynes, 1996). C’è da chiedersi se sia plausibile considerare che la mente e il cervello degli schizofrenici siano approssimabili alla mente e al cervello degli uomini primitivi.

L’alterazione della coscienza e gli stati psicofisiologici anomali sono stati evocati anche per comprendere specificamente la natura dei deliri. Diversi studi hanno osservato la comparsa di convinzioni deliranti durante gli stati di deprivazione di sonno. Brauchi e West (1959), ad esempio, hanno descritto l’esperimento di due uomini che sono rimasti svegli per 168 ore e che, dopo un periodo di veglia considerevolmente lungo, hanno iniziato a delirare. Uno credeva che la fidanzata avesse una relazione clandestina con uno degli assistenti dell’esperimento ed entrambi si convinsero di essere membri di un’associazione segreta di non-dormienti (Cutting, 1985). Diversi altri studi hanno indagato la correlazione tra deprivazione di sonno e comparsa di fenomeni psicotici (West et al., 1962), anche se i risultati sono controversi e soggetti a interpretazioni eterogenee.

Sarebbe poi interessante indagare quanto le allucinazioni schizofreniche hanno in comune con le allucinazioni ipnagogiche e ipnopompiche. Si tratta di distorsioni percettive più o meno simili alle allucinazioni, registrabili rispettivamente durante la fase di addormentamento o di risveglio, ovvero in un chiaro stato di alterazione della coscienza (Mecacci, 2012).

Disturbo dell‟ipseità

Questa sezione racchiude in sé ciò che probabilmente rappresenta il nucleo centrale della malattia schizofrenica. Il disturbo di coscienza, precedentemente descritto, potrebbe consistere più verosimilmente in un’alterazione della consapevolezza di sé e delle proprie funzioni mentali. Gli schizofrenici sarebbero dotati di una consapevolezza eccessiva delle proprie funzioni cognitive, una “iperconsapevolezza” di sistemi psicologici che normalmente rimangono inconsci o comunque silenti

nell’ambito di un funzionamento cerebrale non patologico. Questa

iperconsapevolezza potrebbe essere alla base dei sintomi positivi (Cutting, 1985). Un contributo fondamentale alla comprensione di questo aspetto della schizofrenia è stato fornito dagli psicologi Louis A. Sass e Josef Parnas (2003). Questi autori affermano che la schizofrenia sia essenzialmente un disturbo dell‟ipseità (Sass e Parnas, 2003), un concetto molto affine all’esperienza di meità già descritta da Schneider (Schneider, 1965). Con ipseità, Sass e Parnas intendono la sensazione di

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appartenenza alla propria volontà di tutti gli atti psichici e motori. Una grande quantità di studi psicofisiologici indica che la coscienza normale è caratterizzata da 3 importanti proprietà: la qualità (il “cosa” viene esperito), la soggettività (il percepire in prima persona) e l’unità (l’esperienza di un campo di coscienza unico). L’alterazione di una sola di queste proprietà causa irrimediabilmente un’alterazione della coscienza[8]. È evidente con quale portata, nella schizofrenia, si trovino alterazioni di tutte e 3 le componenti. Sass e Parnas, però, specificano che vi è un’altra componente fondamentale della coscienza, ovvero l’intenzionalità: una direzionalità verso un oggetto, intesa non nell’accezione di volizione ma nel senso filosofico di coscienza di “qualcosa che è oggetto” (Sass e Parnas, 2003). Nella vita di tutti i giorni “la sensazione del sé e la sensazione di immersione nel mondo sono inseparabili; noi siamo consapevoli di noi stessi per mezzo del nostro essere assorti nel mondo degli oggetti” (Sass e Parnas, 2003, pag. 430). Nella schizofrenia questa sensazione di unitarietà del Sé, della soggettività della propria vita mentale e della propria esistenza sono danneggiate proprio da un’ipseità alterata: ciò produce l’esperienza soggettiva di esistere come oggetto della propria mente e di vivere se stessi non in prima persona. Per Sass e Parnas, il disturbo dell’ipseità deriverebbe da due tipi di distorsioni della consapevolezza del sé: l’iperriflessività e la ridotta

autoaffezione[9]. Definiscono l’iperriflessività come un’eccessiva consapevolezza di

sé e delle proprie funzioni mentali. Questa consisterebbe in una “deprivazione di quel tacito sentimento della soggettività che normalmente è inseparabile dall’esperienza stessa” (Piazzalunga, 2004, pag. 1). È quel fenomeno che porta a una rottura dell’automatismo, della spontaneità e della naturalezza con cui vengono vissute le esperienze soggettive. L’attribuzione al sé delle proprie esperienze, dei propri pensieri e delle proprie percezioni non ha bisogno di uno sforzo cosciente, perché, in condizioni non patologiche, è un processo che avviene intrinsecamente “come coscienza di sé in modo tacito e preriflessivo” (Piazzalunga, 2004, pag. 1). Lo schizofrenico ha l’impressione che la propria esperienza di sé non gli appartenga. In presenza di un funzionamento iperreflessivo, il paziente schizofrenico non riesce a distinguere “ tra soggetto e oggetto, e tra soggetto dell’esperienza in quanto oggetto nel mondo e altri oggetti del mondo” (Piazzalunga, 2004, pag. 1). Come fa notare Frith (1992), il “senso del sé” non ha bisogno di un automonitoraggio o di un’autoriflessività: ciò comporterebbe un’alienazione del soggetto e la rottura dell’unitarietà del sé (Frith, 1992) (Sass e Parnas, 2003). L’altra forma di disturbo

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dell’ipseità, la ridotta autoaffezione, sarebbe invece un “indebolimento della sensazione della propria esistenza in qualità di fonte inscindibile di coscienza e azione” (Sass e Parnas, 2003, pag. 427). I sintomi positivi schizofrenici rappresentano quindi gli irrimediabili esiti di un’esperienza in tal senso alterata. Lo psichiatra Blankenburg parlava di questi sintomi in termini di “perdita dell’evidenza naturale” (Selbstverstandlichkeit) (Blankenburg, 1998). Egli individua negli stadi iniziali paucisintomatici la vera essenza della schizofrenia, ovvero la perdita, appunto, dell’ovvietà e dell’automatismo di funzioni inscindibili e del “senso comune” della realtà (Blankengurg, 1971).

Il disturbo dell’ipseità di Sass e Parnas è molto affine al concetto di depersonalizzazione e della derealizzazione, ma anche al fenomeno della Wahnstimmung.

L’iperriflessività e la ridotta autoaffezione portano necessariamente a un senso di alienazione nei confronti di tutti gli aspetti del sé: ogni percezione, gesto, parola, pensiero, movimento, perde per questo motivo il suo intrinseco automatismo, la sua naturale mancanza di auto-osservazione, il suo carattere inconscio, il suo aspetto non riflessivo. La pluralità di queste esperienze distorte si troverebbe così all’origine dei fenomeni psicotici tipici dell’influenzamento psichico e somatico delirante, dei sintomi schneideriani e di tutti gli altri sintomi positivi schizofrenici. Per fare un esempio, il paziente M.G., nel momento in cui percepiva che una volontà esterna gli allargava le narici per fargli respirare ossigeno puro, stava vivendo un’esperienza che potremmo comodamente definire un disturbo dell’ipseità: ciò causava la perdita del senso di appartenenza a sé di un atto automatico, inconscio e spontaneo quale è la respirazione normale.

In una condizione così severamente compromessa, non è possibile percepire i limiti del sé, le conseguenze delle nostre azioni sul mondo, i limiti del mondo esterno e gli effetti che produce su di noi. In questi termini, non è neanche possibile percepire correttamente la nostra posizione nell’universo, la nostra funzione in esso e le nostre dimensioni rispetto ad esso. Ritengo di non usare un’espressione iperbolica parlando di universo, poiché è proprio la perdita dei confini del sé e della corretta percezione di sé in rapporto all’universo che determina i deliri di grandezza cosmica, mistici e religiosi. La paziente C.M. (vedi profili pazienti), ad esempio, è persistentemente convinta di essere la madre di tutte le persone che abitano sulla Terra, probabilmente proprio a causa di un disturbo della consapevolezza del sé che ha

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interessato la corretta percezione del corpo e dei suoi rapporti rispetto al mondo. È su queste esperienze di distorsione globale che si sviluppano deliri e allucinazioni come unico modo di percepire la realtà.

I sintomi negativi si svilupperebbero analogamente per le stesse cause. Non potendo contare sulla corretta percezione del sé, né dei rapporti del sé con il mondo, tutta l’esperienza appare trasformata, distorta nei modi più vari. Non potendo “sentire” il sé che genera pensieri e comportamenti, conseguentemente non vi sarebbe nemmeno la possibilità di sviluppare l’azione. In questi termini si svilupperebbe il disturbo dell’ecceità descritto da Schneider (1965), ovvero un’alterazione della “coscienza dell’esistenza”, dell’ “esperienza dell’esserci”, strettamente collegata al delirio nichilistico e quindi alla sindrome di Cotard (Schneider, 1965, pagg. 86, 87) (Vallar e Papagno, 2007), che produce la sensazione della “non-esistenza”. È evidente come

questa esperienza non permetta né una normale iniziativa all’azione né il

mantenimento di un normale livello di attività. Allo stesso modo si possono spiegare anche i manierismi, ovvero tentativi mal riusciti di utilizzare modelli esterni per riempire il vuoto lasciato da un sé non percepito (Mecacci, 2012) (vedi sezione sui sintomi negativi).

Teorie dell‟output delle allucinazioni e linguaggio interiore

Le allucinazioni uditive sono state messe in relazione a meccanismi analoghi al disturbo dell’ipseità. Le più accreditate teorie psicologiche sulle allucinazioni riguardano modalità eziopatogenetiche piuttosto simili, tanto che sono state didatticamente denominate “teorie dell‟output”. Con “output” ci riferiamo a un’erronea attribuzione esterna di contenuti psichici normalmente presenti nella mente. Vari autori hanno messo in relazione le allucinazioni uditive a percezioni non riconosciute e anomale del proprio “linguaggio interiore” (inner speech). Il concetto di linguaggio interiore è stato mutuato dallo psicologo russo Lev Vygotskij, per il quale rappresenta una sorta di linguaggio mentale costituito da tutti i pensieri privati, egocentrico, non comunicativo, silente e condensato nella mente in forme che possono essere comprensibili solo per il pensatore (Blom, 2010). Il linguaggio interiore dovrebbe essere mediato dalla corteccia di Broca (area 44 di Brodmann), per cui un mancato riconoscimento del proprio linguaggio interiore, esperito come allucinazione, potrebbe riguardare una disfunzione a carico dell’area di Broca (Blom, 2010). Questa ipotesi riporta direttamente il focus teorico sull’alterazione della consapevolezza di sé

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e dei propri stati mentali. Nella rottura tipicamente schizofrenica dell’ipseità, i processi mentali e il linguaggio interiore “non sono più permeati dal senso del sé ma diventano oggetti di introspezione, con proprietà di reificazione, spazializzazione e esternalizzazione sempre maggiori” (Sass e Parnas, 2003, pag.432). Le allucinazioni uditive sarebbero quindi il linguaggio interiore, il contenuto tacito e privato del pensiero, che diventa oggetto di percezione localizzabile all’esterno. È importante notare che molte caratteristiche delle percezioni uditivo-verbali allucinatorie hanno dei tratti in comune con il linguaggio interno così come teorizzato da Vygotskij (sono comprensibili solo dal pensatore in virtù di costruzioni frasali particolari, presentano omissioni di connessioni logiche esplicite e causali e assenza di regole grammaticali, neologismi ecc.) (Blom, 2010) (Sass e Parnas, 2003). Queste considerazioni ci pongono di fronte ad un interrogativo su ciò che è stato dato per scontato per molto tempo: è vero che i sintomi positivi rappresentano un’aggiunta di funzioni rispetto al normale funzionamento mentale? Se accettiamo l’ipotesi del disturbo dell’ipseità, e quindi del linguaggio interiore “esternalizzato”, dobbiamo considerare che le allucinazioni uditive non sarebbero altro che la consapevolezza iperriflessiva e con minor autoaffezione di ciò che è normalmente presente nel repertorio mentale umano, ma radicalmente e patologicamente trasformato da una condizione abnorme dell’esperienza di sé (Sass e Parnas, 2003).

Le allucinazioni visive sono tradizionalmente spiegate come l’esito di disturbi di comunicazione neurale a carico del lobo temporale (Bini e Bazzi, 1971) (Blanke, Landis e Seecke, 2000). È stato ipotizzato che queste abbiano origine da un’interferenza elettrica tra la via visiva ventrale, afferente alle regioni laterali del lobo temporale, e le strutture delle regioni mediali del lobo temporale implicate nei sistemi di memoria (Blanke, Landis e Seecke, 2000). La via visiva ventrale è costituita da fibre che dipartono dalla corteccia visiva primaria (area 17 di Brodmann), ed è coinvolta nell’elaborazione visiva di oggetti e di volti (Vallar e Papagno, 2007). Bini e Bazzi (1971) considerano la corteccia temporale e le adiacenti zone parieto-occipitali come la sede delle associazioni appercettive e della discriminazione dei caratteri qualitativi e quantitativi delle percezioni. Affermano quindi che le allucinazioni visive siano riconducibili all’attività alterata di un sistema diffuso di neuroni della corteccia temporale. Questo sistema, in condizioni di non patologia, permette la normale funzione mnestico-associativa delle rappresentazioni e delle esperienze depositate nella memoria della persona, mentre in condizioni patologiche non produce un atto di

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memoria ma attiva un disturbo psicosensoriale (Bini e Bazzi, 1971), proprio a causa di un meccanismo di interferenza comunicativa.

Allucinazioni uditive e visive si possono manifestare anche in condizioni di deprivazione sensoriale e di isolamento. Siegel (1984) reclutò un gruppo di uomini che erano stati prigionieri di guerra, vittime di abusi, terrorismo, furti o rapimenti. Queste persone avevano vissuto, in vari gradi, condizioni di isolamento, deprivazione visiva, contenimento fisico, abusi e minacce di morte. Circa un quarto di queste persone hanno sviluppato allucinazioni visive più o meno complesse (Siegel, 1984). Questi stati di isolamento e deprivazione ricordano da vicino lo scollamento della consapevolezza di sé della schizofrenia, ma verranno approfonditi nella prossima sezione.

Deprivazione sensoriale e deafferentazione

Possiamo ipotizzare che particolari stati dissociativi e di isolamento -anche in condizioni di non patologia ma, a maggior ragione, nella schizofrenia- possano produrre una suscettibilità per distorsioni dell’esperienza del sé e quindi percezioni allucinatorie. Questa constatazione rappresenta ormai un classico nella ricerca psicofisiologica sugli stati di isolamento sensoriale. John Cunningham Lilly, pioniere degli studi sulla deprivazione sensoriale, progettò le famose vasche di deprivazione sensoriale. L’autore, in una serie di studi condotti negli anni 1950, notò che in assenza di stimoli esterni gli individui posizionati nelle vasche rivolgevano l’attenzione esclusivamente a stimoli interni, provenienti dal proprio corpo (Gussoni, Monticelli e Vezzoli, 2006). Osservò inoltre che in queste particolari condizioni artificiali il cervello modifica la sua attività bioelettrica: i soggetti sperimentali, pur essendo perfettamente coscienti, mostravano uno spostamento dell’attività cerebrale dalle onde alfa verso le onde theta e delta, tipiche di stati semionirici e del sonno NREM (Gussoni, Monticelli e Vezzoli, 2006). Questo si associava costantemente ad alterazioni della percezione della realtà. A tal proposito, spostandoci nel dominio dell’uditivo-verbale, Oliver Sacks ha studiato a fondo il fenomeno delle allucinazioni musicali. L’autore ha descritto pazienti che riferivano la percezione di costanti, persistenti e incessanti motivetti e frammenti di canzoni, solitamente jingle, sigle tv, canzoncine natalizie e vari “tormentoni” (earworms) (Sacks, 2007). Non a caso, molti di questi pazienti erano in condizioni di deprivazione uditiva da anni a causa di sordità. Sacks osserva che queste ed altri tipi di allucinazioni si verificano in persone

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i cui sensi e i cui sistemi percettivi cerebrali siano stati esposti in modo prolungato ad una stimolazione troppo scarsa o assente (Sacks, 2007). Come ulteriore prova dell’ipotesi della deprivazione sensoriale possiamo citare il caso della sindrome di Charles Bonnet. Questa sindrome è caratterizzata dalla comparsa di allucinazioni visive anche molto complesse in pazienti mentalmente sani che, per molteplici ragioni, hanno subito un’importante perdita della vista (Menon et al., 2003).

Un’interessante teoria neurofisiologica può mettere in relazione la perdita della funzionalità sensoriale e le allucinazioni. Il neurofisiologo Jerzy Konorski, nel 1967, ebbe l’intuizione di ricercare per quale motivo le allucinazioni non avessero luogo nell’individuo normale, piuttosto che studiare l’origine delle allucinazioni in pazienti psicotici (Sacks, 2007). Si chiese quindi perché le allucinazioni non abbiano luogo in continuazione e tramite quale meccanismo siano limitate. Elaborò l’idea di un meccanismo normalmente presente nel cervello umano: un sistema dinamico che comprende le normali connessioni afferenti dirette dagli organi di senso al cervello, ma anche retroconnessioni, che viaggiano in direzione opposta. Queste retroconnessioni sono presenti in numero molto scarso confrontate con le connessioni afferenti, e normalmente non farebbero sentire il loro effetto poiché le connessioni afferenti fisiologiche proveniente da occhi, orecchie e altri organi di senso inibiscono qualsiasi flusso retrogrado (Sacks, 2007). La generazione delle allucinazioni sarebbe possibile qualora si verificasse una carenza critica di segnali provenienti dagli organi di senso, una deafferentazione che faciliterebbe il flusso di retroconnessioni in grado di produrre allucinazioni di varia natura, per altro soggettivamente indistinguibili dalle percezioni reali (Sacks, 2007). La teoria si armonizza molto bene con le conoscenze sulle allucinazioni derivanti da deprivazione sensoriale. L’ipotesi della deafferentazione di Konorski può essere inoltre molto coerente con la più generale ipotesi del neurosviluppo della schizofrenia.

Ipotesi del neurosviluppo

L’ipotesi del neurosviluppo, molto accreditata, considera che un’alterazione nei normali processi di neurosviluppo cerebrale favorirebbe l’insorgere della sintomatologia schizofrenica (Cassano e Tundo, 2006). A causa di un neurosviluppo alterato “i processi eziopatogenetici agirebbero molto prima dell’insorgenza della malattia (durante il periodo gestazionale o nelle fasi perinatali) alterando il corso del

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normale neurosviluppo cerebrale e portando a modificazioni patologiche di popolazioni e di circuiti neuronali” (Cassano e Tundo, 2006, pag. 336). Questa alterazione condurrebbe alla vera e propria anomalia strutturale cerebrale degli schizofrenici, riccamente documentata in tutti gli studi di neuroimaging cerebrale e nelle rassegne scientifiche dell’ultimo decennio (solo per citare alcuni lavori, si vedano gli studi di Sallet et al., 2003; Thompson et al., 2001; Buckley, 2005). Secondo l’ipotesi del neurosviluppo ci sarebbero almeno due fasi maturative cruciali per il sistema nervoso centrale: la prima fase corrisponde al periodo embrionale in cui avviene la migrazione neuronale dalla profondità alla superficie; la seconda, molto più tardiva, avviene nell’adolescenza, in occasione del normale processo di sfoltimento delle sinapsi e dei dendriti esuberanti (Cassano e Tundo, 2006), il cosiddetto pruning. Fino ai 12 anni, infatti, la corteccia cerebrale si sviluppa progressivamente. Successivamente il suo volume si riduce per lo sfoltimento di sinapsi non funzionali e risultate “inutili”. Sembra che nella schizofrenia questo processo vada fuori controllo (Wolf, 2013). Thompson (2001) ha scoperto infatti che gli adolescenti schizofrenici presenterebbero una riduzione del volume corticale superiore alla media dei coetanei, soprattutto nelle aree frontali. Giedd (2008) ha addirittura scoperto che i parenti sani degli schizofrenici presentano lo stesso pattern di riduzione corticale anomalo durante l’adolescenza, che però, a differenza dei parenti malati, non prosegue con l’avanzare dell’età (Wolf, 2013). La ricerca è particolarmente interessante perché fornisce un indizio per la comprensione dell’esordio relativamente tardivo di molte forme di schizofrenia (circa 15-20 anni negli uomini e 25-35 anni nelle donne) (Cassano e Tundo, 2006).

Sarebbe interessante approfondire sperimentalmente il ruolo delle determinanti genetiche nella regolazione del pruning, e soprattutto individuare quali geni siano verosimilmente implicati in questo processo.

L’ipotesi del neurosviluppo, nella letteratura scientifica sull’argomento, è sempre risultata in contrasto con l’ipotesi neurodegenerativa, che vede nella schizofrenia un processo neurodegenerativo analogo alle sindromi demenziali. Una recente metanalisi (Gupta e Kulhara, 2010) ha evidenziato che la schizofrenia è un disturbo estremamente complesso che probabilmente non può essere spiegato da un unico processo di sviluppo o di degenerazione. Vi è una notevole eterogeneità nei risultati clinici, ci possono essere diversi contributi patogenetici responsabili delle alterazioni neurostrutturali e neurofisiologiche (Gupta e Kulhara, 2010). I dati a favore del

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