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Risposte delle papille gustative a stimoli sensoriali multipli: analisi mediante la metodica del calcium imaging.

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Farmacia

Corso di Laurea Magistrale

in

Scienze della Nutrizione Umana

TESI DI LAUREA

Risposte delle papille gustative a stimoli

sensoriali multipli:

analisi mediante la metodica del calcium imaging

Relatore Candidata

Chiar.mo Prof. Gian Carlo Demontis Dott.ssa Francesca Liva

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Dedico questo mio lavoro Che si pone a conclusione di un lungo cammino formativo

Alle persone che più mi hanno aiutato ed insegnato:

mia mamma e mio babbo.

«…Portò alla bocca il primo boccone, non l’ingoiò subito. Lasciò che il gusto si diffondesse dolcemente e uniformemente su lingua e palato, che lingua e palato si rendessero pienamente conto del dono che veniva loro offerto …»

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INDICE

1.INTRODUZIONE pag. 5

1.1 Taste: senso chimico pag. 5

1.1.1 Anatomia del sistema gustativo pag. 5

1.2 Gusto del dolce pag. 11

1.2.1. Relazione tra utilizzo di zuccheri

nell’alimentazione ed obesità pag. 12 1.2.2. Controversa utilità/efficacia dolcificanti

sintetici per controllo peso corporeo pag. 12

1.2.3. Saccarina pag. 13

1.2.4. Eritritolo pag. 15

1.2.5. Fruttosio pag. 16

1.3. Gusto dell’amaro pag. 19

1.4 Gusto dell’umami pag. 20

1.4.1. Principali cibi ad alto contenuto di umami pag. 20

1.4.2 Produzione di glutammato pag. 21

1.4.3 Altre sostanze umami pag. 23

1.5. Trasduzione stimoli gustativi pag. 24

1.5.1 Processo trasduzione dolce, amaro, umami pag. 24

1.6. Cellule di tipo 2 pag. 26

1.6.1 Recettori del dolce pag. 26

1.6.2 Recettori dell’ amaro pag. 27

1.6.3 Recettori dell’ umami pag. 28

1.7 Recettori canale TRP pag. 30

1.8 Il calcio come messaggero intracellulare pag. 33

1.9 Il fenomeno della fluorescenza pag. 35

1.9.1 Le molecole fluorescenti utilizzate

per valutare la [Ca2+] pag. 37

(4)

3.MATERIALE e METODI pag. 42

3.1 Materiale pag. 42

3.2 Metodo pag. 43

4. RISULTATI e DISCUSSIONE pag. 47

4.1 Messa a punto del metodo pag. 47

4.2 Autoflorescenza delle papille gustative pag. 48

4.3 Risposta ai diversi stimoli pag. 51

5. CONCLUSIONI pag. 61

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1. Introduzione

1.1 TASTE: SENSO CHIMICO

La sensibilità gustativa è definita come la modalità chemiosensoriale preposta al riconoscimento di stimoli chimici idrosolubili presenti negli alimenti. Il senso del gusto origina infatti dall’interazione di molecole, presenti nel cibo o nelle bevande, con le cellule sensoriali gustative presenti per lo più sulla superficie della lingua, ma anche nel palato, nel faringe e nella laringe. Le varie centinaia di sapori che è possibile percepire sono generate da stimoli chimici, che si possono raggruppare in base a sei gusti principali: DOLCE, SALATO, ACIDO,

AMARO, UMAMI (GUSTO DEL GLUTAMMATO), GUSTO DEL GRASSO (Lindemann,

1996).Il gusto, insieme all’olfatto, è stato sviluppato dalla Natura per giocare un ruolo primario nella regolazione dell’introduzione del cibo. Nell’uomo la percezione gustativa serve o a controllare l’ingestione volontataria di sostanze, il suo grande potere discriminatorio consente, infatti, di valutare la qualità del cibo, il valore nutrizionale di alcuni composti o la nocività di altri.

La percezione del dolce permette il riconoscimento di fonti di cibo ad alto contenuto calorico. La capacità di sentire come salati alcuni cationi monovalenti, specialmente il Na+, si è probabilmente evoluta per garantire l’omeostasi ionica ed idrica. Tra le cinque modalità gustative riconosciute dall’uomo, il gusto amaro svolge un importante ruolo di difesa contro l’ingestione di composti tendenzialmente tossici, che vengono generalmente riconosciuti come amari, mentre l’Umami consente il riconoscimento degli amminoacidi (Chandrashekar J. Et al., 2006).

Le percezioni gustative guidano le scelte alimentari compiute dagli uomini e la dieta può aver rivestito un ruolo importante nella salute e nella sopravvivenza durante il periodo dell’espansione umana nei nuovi ambienti.

1.1.1.Anatomia generale del sistema gustativo

Organo di senso specializzato per il gusto

L'organo deputato alla sensibilità gustativa è la lingua, in particolare la mucosa che ricopre la sua superficie dorsale. A differenza di quanto si credeva un tempo, la percezione dei sapori è distribuita indifferentemente in tutta la lingua e anche in altre zone della bocca, quali l'epiglottide e il palato molle. Le ricerche di Hanig nel 1901 portarono all’origine del mito noto come “mappa dei sapori”, evidenziando piccole differenze nella soglia di percezione dei sapori in differenti regioni della lingua, trasmettendo nell’opinione comune la falsa credenza che la lingua sia divisa a chiazze che ricoprono incarichi differenti e specifici. Virginia Collins rivide questa teoria originale, dimostrando che sebbene la lingua abbia diversa sensibilità ai diversi gusti, le differenze sono minime.

La mucosa della lingua è formata da un epitelio di rivestimento pavimentoso stratificato, che risulta cheratinizzato presso l'apice della lingua e non cheratinizzato posteriormente. Al di sotto di esso vi è la lamina propria della mucosa, costituita da tessuto connettivo fibroso denso, ricco di vasi sanguigni e nervi. La lingua non possiede una sottomucosa, e la mucosa è direttamente a contatto con i muscoli linguali. Sulla mucosa dorsale della lingua si distinguono al microscopio (e alcune anche ad occhio nudo) quattro tipi di papille(figura 1), ovvero proiezioni della mucosa linguale: le papille filiformi, le fungiformi, le foliate e le circumvallate. Contengono tutte calici gustativi tranne le papille filiformi. L'intensità della percezione varia a seconda della zona, ed è correlata alla densità delle papille.

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Fig. 1 Particolare delle papille viste al microscopio a scansione.

Le papille presentano una struttura diversa a seconda della localizzazione sulla lingua (Lindemann, 1999). Le papille fungiformi, di circa 500 μm di diametro, situate sui due terzi anteriori della lingua, contengono una o poche gemme del gusto. Il loro numero varia da 500 a 5.000 a seconda degli individui e la densità è massima all'estremità della lingua. Le papille caliciformi, sono costituite da un solco circolare nel quale sboccano i pori delle centinaia di gemme presenti. Le papille foliate, situate sui bordi esterni della lingua, sono costituite di solchi lineari e paralleli nei quali sboccano i pori delle gemme del gusto (Fig.2).

Fig. 2 Schema delle papille gustative

-Le papille filiformi sono le più piccole e numerose della lingua, sono proiezioni di forma allungata (descritta come conica o cilindrica) disposte in direzione antero-laterale, parallela al solco terminale, che divide la porzione orale dalla porzione faringea della lingua. Strutturalmente

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sono escrescenze della lamina propria, contengono quindi un nucleo centrale di tessuto connettivo fibroso denso e sono ricoperte da tessuto epiteliale pavimentoso cheratinizzato. Sebbene non contengano calici gustativi, il loro numero e la ruvidità che conferiscono alla lingua permette di intrappolare piccoli frammenti del cibo ingerito, facilitandone così sia la distribuzione agli altri tipi di papille che conferiscono la sensibilità gustativa, sia a spingerlo verso la faringe sotto forma di bolo alimentare.

-Le papille fungiformi si trovano esclusivamente nella porzione orale della lingua, particolarmente ai margini della mucosa dorsale e sono visibili ad occhio nudo come piccoli punti tondeggianti di colore rosso. Strutturalmente sono formazioni cilindriche di tessuto connettivo denso ricoperto da epitelio pavimentoso non cheratinizzato. La lamina propria compresa nel loro "nucleo" è molto vascolarizzata. Possiedono sulla superficie apicale alcuni calici gustativi.

-Le papille foliate sono delle pieghe mucose di colore rosso, ben visibili anche ad occhio nudo, anch'esse costituite centralmente da connettivo fibroso denso ricoperto da epitelio pavimentoso non cheratinizzato. Si trovano ai lati della mucosa dorsale della lingua, dietro il solco terminale, quindi nella porzione faringea della lingua. Il loro epitelio contiene circa 3 calici gustativi per papilla.

-Le papille circumvallate sono le più voluminose, sono strutture cilindriche schiacciate di 1-2 mm di diametro, che si trovano appena davanti al solco terminale e formano una fila che segue il suo bordo a "V"; il loro numero varia da 8 a 12. La papilla vera e propria è circondata da un solco circolare il quale si approfonda in direzione infero-mediale rispetto alla papilla e che la separa da un rilievo circolare della mucosa, il vallo. A causa dell'andamento del solco, la papilla circumvallata è più stretta alla base che all'apice. I calici gustativi sono numerosi (circa 100 per papilla) e si trovano nelle pareti laterali che guardano verso il solco, mentre alla base del solco sboccano le ghiandole di Von Ebner.

-Il calice gustativo (“taste buds”) media le sensazioni gustative e si trova soprattutto in corrispondenza delle papille vallate, ma anche delle foliate e delle fungiformi e più raramente nell’epitelio che riveste il palato, le vallecole glossoepiglottiche, l’epiglottide, la parete posteriore della faringe. I calici gustativi vengono costantemente rimpiazzati approssimativamente ogni 10-12 giorni. E’ una struttura cilindrica (Fig. 3), isolata dalla lamina propria da una lamina basale e definita “a cipolla”, con una piccola apertura alla sommità, il poro gustativo. Il poro gustativo è una fessura di 1-3 μm, formato da un numero variabile da 50 a 150 cellule fusiformi, da cui protrudono i microvilli che prendono contatto con le sostanze disciolte nella saliva. In ogni bottone gustativo si osservano quattro tipologie cellulari: cellule chiare, scure, intermedie e basali (Fig.4). Gli assoni afferenti perforano la lamina basale e si spiralizzano attorno a ciascuna cellula sensitiva del bottone gustativo.

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Fig.3 Illustrazione del bottone gustativo

Fig. 4 Struttura ed innervazione delle papille gustative

-Le cellule basali sono cellule staminali che permettono il turnover dei componenti del bottone gustativo; le cellule gustative, infatti, hanno vita breve (circa 10÷15 giorni) e vengono rigenerate continuamente;

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-Le cellule di tipo 1 (denominate anche cellule scure per la presenza di un citoplasma opaco

quando osservate in microscopia elettronica) svolgono funzioni di supporto simili a quelle delle cellule gliali del sistema nervoso centrale;

-Le cellule di tipo 2 (denominate anche cellule chiare o cellule recettrici) e cellule di tipo 3 o cellule presinaptiche, le uniche dotate dotate di vescicole contenenti neuromediatori,

rappresentano le cellule recettoriali gustative vere e proprie.

Le cellule di tipo 1,2,3 (Fig. 5) hanno un aspetto affusolato, con la porzione apicale di ciascuna cellula in contatto con il poro gustativo che si apre sulla superfice linguale. Al polo opposto, quello basale, le cellule di tipo 3 prendono contatto con le terminazioni nervose tramite sinapsi chimiche. Mediante una serie complessa di eventi molecolari queste cellule sono in grado di trasformare gli stimoli chimici presenti negli alimenti in stimoli biologici in grado di arrivare alle fibre nervose afferenti (Tirindelli R, 2013).

Fig. 5 Illustrazione del bottone gustativo e delle diverse tipologie cellulari presenti (S=cellule scure; R= cellule recettrici; B= cellule basali).

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Innervazione delle cellule sensoriali gustative

Le molecole presenti nel cibo una volta entrate nella cavità orale vengono intrappolate dalla lingua e alcune riescono a penetrare nel poro di un bottone gustativo. Qui si legano a recettori presenti sulle cellule gustative che, tramite processi di trasduzione del segnale, portano alle generazione di potenziali d'azione nelle fibre nervose di uno dei tre nervi cranici responsabili del gusto, ovvero il nervo intermedio del facciale (VII), il nervo glossofaringeo (IX) o il nervo vago (X) (Fig. 6). Le fibre nervose eccitate conducono lo stimolo, via talamo, ai centri corticali del gusto, dove l’informazione è integrata e processata.

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1.2 GUSTO del DOLCE

Le molecole dolci sono sostanze che provocano il sapore dolce e possono essere sia di origine biologica che di sintesi, come la saccarina (1,2 –benzenisotiazolin - 3-one-1,1-diossido).

Tra le più comuni sostanze di origine biologica tutti i carboidrati semplici possono risultare dolci in diversa misura. Il saccarosio viene utilizzato in soluzione come riferimento per valutare la dolcezza relativa delle altre sostanze: in questa scala empirica la sua dolcezza viene convenzionalmente fissata a 1 ; il fruttosio invece è più dolce, misurando 1,7 sulla stessa scala (Guyton, Arthur C., 1991) Nella tabella viene riportata il grado di dolcezza delle principali molecole dolci.

NOME Tipo di Sostanza Scala dolcezza

Lattosio Disaccaride 0,16

Maltosio Disaccaride 0,33 ÷ 0,45

Glucosio Monosaccaride 0,74 ÷ 0,8

Saccarosio Disaccaride 1,00 (riferimento)

Fruttosio Monosaccaride 1,17 ÷ 1,75

Ciclamato Sulfonate 26

Aspartame Dipeptide methyl ester 180 ÷ 250

Saccarina Sulfonyl compound 300 ÷ 675

Alcune piante producono dei glicosidi che sono dolci a concentrazioni molto più basse dello zucchero, esempio importante è lo steviolo, prodotto dalla stevia, una pianta sudamericana, circa 250 volte più dolce del saccarosio.

Per soddisfare il desiderio di “dolce”, sino alla fine del secolo scorso l’uomo disponeva solo di quello che la natura metteva a sua disposizione in abbondanza: zucchero, miele, il glucosio derivato dall’amido, il lattosio, cioé nutrienti ad alto valore calorico. Nel 1879 fu scoperto per caso un prodotto di sintesi ad alto potere dolcificante: la saccarina. I numerosi altri sostituti dello zucchero, naturali o di sintesi, sono molto più recenti. L’aspartame, oggi tra i più diffusi, ricevette la sua prima autorizzazione nel 1974 da parte delle autorità Americane (Food and Drug Administration). In un primo tempo gli edulcoranti sono stati autorizzati in Italia solo nei prodotti dietetici, utilizzati nell’ambito di diete per soggetti diabetici o obesi. L’impiego di questi sostitutivi è adesso regolamentato dalla direttiva CE 94/35. Il loro utilizzato è giustificato e quindi autorizzato: “per la fabbricazione di prodotti alimentari a basso contenuto calorico, di alimenti non cariogeni o di alimenti senza zuccheri aggiunti, nonché per la produzione di alimenti dietetici”. Questi prodotti sono di uso corrente e largamente diffusi.

E’ opportuno distinguere due categorie di sostituti dello zucchero: - gli edulcoranti

intensivi e - i polioli. Vengono talvolta chiamati semplicemente “edulcoranti”. Per edulcoranti intensivi si intendono sostanze edulcoranti ad alto potere dolcificante. Ad oggi sono 7 i

dolcificanti artificiali utilizzati più frequentemente: ciclamato, aspartame. acesulfame K, -sucralosio, -alitame e -neotame e la saccarina. Gli edulcoranti intensivi sono presenti sia nei cosiddetti “edulcoranti da tavola” (in compresse, bustine, polvere o gocce), che nella maggior parte dei prodotti cosiddetti “senza zucchero”, “light” o “diet”: gomme da masticare, caramelle, bevande analcoliche, yogurt, marmellate. Gli ultimi decenni hanno visto una rilevante crescita del numero di prodotti alimentari contenenti dolcificanti artificiali non calorici, come conseguenza dell’elevato consumo degli stessi da parte dei consumatori.

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I polialcoli (detti anche i polioli ) sono alcoli presenti in natura (per esempio il sorbitolo e

eritritolo nella frutta, il mannitolo nelle foglie di ulivo e nella manna del frassino). Il principale impiego dei polialcoli è nell’industria dolciaria (per esempio caramelle dietetiche e nei chewing-gum), ma vengono usati anche nei latticini. I polialcoli non presentano problemi di tossicità (negli Usa sono definiti GRAS, Generally Recognized As Safe).

1.2.1 Relazione tra l’utilizzo degli zuccheri nell’alimentazione ed obesità

Elevati livelli di assunzione degli zuccheri aggiunti richiedono attenzione, per la loro associazione con scadente alimentazione, obesità e rischio di NCD. Nella maggior parte dei Paesi, l’apporto di carboidrati semplici supera il valore attualmente raccomandato del 10% dell’energia totale. Le stime attuali riportano che l’assunzione media degli zuccheri aggiunti degli americani in questi ultimi anni, rappresenta il 15,8% dell’energia totale (Guthrie et al., 2000), la cui fonte principale sono le bevande zuccherine (47% degli zuccheri totali aggiunti). In questi ultimi anni il consumo medio pro-capite di zuccheri aggiunti è salito da 7 sino a 30-45 kg/anno (80-120 g/d). Molti sono gli studi epidemiologici (Berkey et al., 2004; Andersen et al., 2005) che coinvolgono adulti, ma soprattutto bambini ed adolescenti, studi che evidenziano come un consumo elevato di zuccheri aggiunti e in particolar modo bevande zuccherate sia associato ad un più alto IMC (Indice Massa Corporea) o all'aumento del peso corporeo (Malik et al 2006). Per esempio, Liebman et al. (2003) evidenzia una elevata incidenza di sovrappesi in soggetti adulti che consumano ≥1 bevande zuccherate /settimana , rispetto a che ne consuma meno.

Di contro, vi sono molti studi epidemiologici negli adulti, adolescenti e bambini che hanno ripetutamente dimostrato che esiste una correlazione inversa tra assunzione di saccarosio e peso corporeo o IMC così come tra assunzione di saccarosio e assunzione di grassi totali (Janssen et al. 2005; Johnson et al. 2007). Alcuni autori evidenziano che i carboidrati, compreso il saccarosio, sono riconosciuti dal sistema corporeo di regolazione dell'appetito, promuovendo il senso di sazietà (Anderson et al., 2003). Lo studio HBSC (Health Behaviour in School-Aged Children) sullo stato di salute e sugli stili di vita dei giovani in età scolare condotto dall'Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001-2002 su circa 140000 adolescenti di 34 Paesi (per lo più europei) di età compresa tra i 10 e i 16 anni, ha confrontato prevalenza di obesità e sovrappeso in relazione all'attività fisica e alle abitudini alimentari. È emersa una correlazione negativa tra consumo di dolci e IMC negli adolescenti di 31 Paesi su 34 (91% dei Paesi). Un consumo elevato di dolci era associato a un basso rischio di sovrappeso, senza alcuna associazione con il consumo di bevande zuccherate (Janssen et al. 2005). Questi risultati potrebbero essere in parte dovuti a fattori di confondimento; i bambini in sovrappeso o obesi potrebbero avere già ridotto il consumo di dolci a causa del peso corporeo; inoltre tendono a non riportare esattamente il consumo di questi alimenti quando in realtà potrebbero consumarne di più. Appare quindi evidente che non è facile trarre delle conclusioni definitive riguardo alla diretta connessione tra consumo di bevande zuccherate e aumento del peso corporeo. È difficile quindi stabilire un legame diretto tra obesità e assunzione di un singolo alimento, nutriente o ingrediente.

1.2.2 Controversa Utilità/efficacia dei dolcificanti sintetici per il controllo del

peso corporeo

Tutti gli studi epidemiologici fin ora condotti dimostrano la scarsa efficacia dei dolcificanti sintetici nel controllo del peso corporeo soprattutto nei bambini. Al contrario, ne suggeriscono il coinvolgimento nell’aumento del peso (Ambrus et al., 1976; Brown et al., 2010). Infatti è ampiamente dimostrato come il sapore dolce agisca aumentando la sensazione di

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appetito. Questo effetto è ancora più potente in caso di assunzione di dolcificanti ipocalorici o di alimenti che ne contengano. E’ possibile che la mancanza di apporto calorico da parte di questi dolcificanti renda parziale la soddisfazione ottenuta, inducendo la ricerca di altro cibo dal quale attingere la componente calorica mancante (Di Sabatino A., 2000). È noto, infatti, che l’assunzione di cibo sia correlata all’attivazione di circuiti cerebrali connessi a sensazioni di ricompensa emotiva e di piacere: questi dipendono sia dalla fase sensoriale (odore, gusto e consistenza del cibo), che dai prodotti del metabolismo degli alimenti (nutrienti e calorie prodotte). La mancanza di apporto calorico da parte dei dolcificanti sintetici potrebbe eliminare la componente post-ingestiva, rendendo parziale la soddisfazione ottenuta e inducendo la ricerca di altro cibo. In genere questo contribuisce a causare un aumento della quota calorica giornaliera con conseguente contributo all’aumento di peso (Birch LL. et al.,1986).

Inoltre i dolcificanti artificiali, proprio perché dolci, hanno la potenzialità di incoraggiare il desiderio e la dipendenza da zucchero. È nota, infatti, l’esistenza di una forte correlazione tra la consuetudine di una persona ad assumere alimenti con un certo sapore e l’aumento della preferenza per quel dato sapore, sia esso dolce o salato e indipendentemente dall’intensità dello stesso. Questo meccanismo è anche uno dei fattori della dipendenza da merendine e bibite dolci, che contribuisce all’aumento dell’obesità e del sovrappeso in età evolutiva (Johnson L. et al., 2007).

Come per la maggior parte degli additivi alimentari, l’abuso può provocare danni all’organismo, pertanto è consigliabile non superare la Dose Giornaliera Ammissibile (DGA), cioè la quantità, calcolata in funzione del peso corporeo, che si può assumere quotidianamente per tutta la vita senza rischio per la salute. Comunque i calcoli dimostrano che nell’adulto il rischio di superare la Dose Giornaliera Ammissibile esiste solo se un soggetto consuma tutti i giorni diverse categorie di alimenti che contengono lo stesso edulcorante o un unico alimento, ma in quantità elevate. Questo rischio teorico è più elevato con il consumo di bevande che non con il consumo di caramelle o gomme (per via della quantità più elevata ingerita in ogni occasione di consumo). Il rischio teorico è inoltre più elevato per la saccarina che per gli altri edulcoranti intensivi per via della sua DGA più bassa.

1.2.3 Saccarina

Fig.7 Struttura chimica del sale sodico

della Saccarina

La saccarina (anche solfoniuro benzoico, Fig. 7), è stata il primo dolcificante artificiale indicato con la sigla E954 nei prodotti che la contengono. Fu scoperto nel 1879 da Ira Remsen e Constantin Fahlberg della Johns Hopkins University. Ha un potere dolcificante 450 volte superiore a quello del saccarosio (Remsen and Fahlberg, 1880). Inoltre risulta stabile al calore anche in ambiente acido, è inerte rispetto agli altri ingredienti alimentari e non dà problemi di conservazione. La sua diffusione è cresciuta in questi ultimi anni tra le persone obese e diabetiche, soggette a diete alimentari, in quanto dolcificante praticamente privo di calorie (Ambrus et al., 1976; Iback et al., 2003; Schiffmen et al., 1993). La saccarina infatti

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transita attraverso l'apparato digerente senza alterare i livelli sanguigni di insulina e senza fornire praticamente alcuna energia all'organismo. Spesso viene consumata in sostituzione del saccarosio e usata nelle versioni "light" delle bibite gassate.

Presenta però un retrogusto amaro o metallico generalmente considerato sgradevole, specialmente ad alte concentrazioni. E’ stato ipotizzato in passsato che questo retrogusto sia causato dall’interazione della saccarina con recettori per l’amaro (Bartoshuk et al., 1975) o con particolari recettori per il dolce (Sclafani and Nissenbaum, 1985). E’ oggi noto che la saccarina è riconosciuta da 2 sottotipi dei recettori per l’amaro (Kuhn et Al,2004 , Horne et al, 2002), mentre i recettori per il dolce sono di un solo tipo. Inoltre sebbene si ritenesse in passato che il meccanismo di trasduzione del segnale per il retrogusto della saccarina fosse diverso dai meccanismi che mediano le risposte ad altri composti amari (Schiffman et al., 1979), nuove evidenze sperimentali hanno messo in evidenza come il meccanismo di trasduzione della saccarina presenti analogie con quello degli altri stimoli amari. E’ in un recente lavoro (Kuhn et al, 2004) che è stato identificato il recettore che media il retrogusto amaro per la saccarina. Lavorando su modelli di topo privi di recettori per il gusto dolce, questi ricercatori continuavano a registrare risposte amare alla saccarina; rilevando come questi recettori non mediassero la risposta al gusto dolce, bensì al retrogusto amaro. Inoltre , usando un inibitore per il recettore del gusto dolce (lattisolo), non si verificava un blocco della risposta al retrogusto amaro in cellule trasfettate con i geni che codificano per i recettori di questo retrogusto, bensì si bloccava la risposta al gusto dolce in cellule che presentavano il recettore per il dolce. Questo recettore per il retrogusto amaro è espresso nelle papille gustative della lingua ed inoltre viene attivato dalla saccarina in concentrazioni elevate, note per evocare la sensazione del retrogusto amaro (Horne et al., 2002).

In commercio la saccarina è disponibile sotto tre forme: acido saccarinico, saccarina di sodio e saccarina di calcio. La forma di saccarina più utilizzata è la saccarina di sodio, in quanto rispetto alle altre è maggiormente stabile e più solubile. Sia la saccarina di sodio che quella di calcio sono due sostanze che presentano una buona solubilità, diversamente dall’acido saccarinico.

Fin dalla sua introduzione la saccarina è stata al centro di preoccupazioni sulla sua potenziale nocività. Alcuni studi suggerivano che la saccarina fosse una sostanza cancerogena (diverse ricerche mostrarono la correlazione con il tumore alla vescica in ratti maschi trattati con dosi elevate di saccarina sodica) e nel 1977 la saccarina venne vietata in Canada; la FDA statunitense dispose l’obbligo di indicare nell’etichetta dei prodotti che la contenevano i potenziali pericoli della saccarina per la salute umana. Da allora molti studi sono stati condotti sulla saccarina, con risultati controversi; lo studio del 1977 è stato criticato per via delle altissime dosi di saccarina date ai ratti, un valore ritenuto assolutamente irrealistico per un normale consumatore. La saccarina, infatti, si comporta come sostanza cancerogena se ingerita nella quantità di 4 g/kg in dose unica mentre le concentrazioni di tale dolcificante negli alimenti è nell'ordine dei milligrammi. Finora nessuno studio ha evidenziato pericoli per l'uomo, alle dosi normalmente utilizzate.

La saccarina non viene metabolizzata dall’organismo dell’uomo e, una volta assunta, viene quasi del tutto assorbita ed escreta come tale tramite la diuresi (Bourgoignie et al., 1980). Non fornisce energia all’organismo e non ha alcuna influenza sui livelli della glicemia. Trattandosi di un prodotto sintetico, l’OMS suggerisce comunque di non superare la dose di 2,5 mg/kg di peso al giorno; occorre una certa prudenza nell’uso da parte delle donne in stato interessante in quanto la saccarina può attraversare la placenta.

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Interazione della saccarina con il metabolismo

Gli studi fatti nel XX secolo sulle possibili interazioni della saccarina con le vie metaboliche cellulari, sono stati eseguiti allo scopo di verificare la sicurezza di questa molecola.

La saccarina, in effetti non è una molecola totalmente inerte. Alcuni studi pubblicati negli anni settanta hanno evidenziato che essa interferisce con alcune proprietà enzimatiche della glucosio-6-fosfatasi l'enzima che scinde il glucosio-6-fosfato per immettere glucosio libero nel torrente sanguigno e mantenere l'omeostasi glicemica. Da un lato questo potrebbe sembrare pericoloso; tuttavia, questa proprietà potrebbe risultate utile alle persone affette da diabete mellito con iperglicemia resistente al trattamento insulinico (Lygre D.G., 1974, 1976). Anche se l'ipotesi originale ammette che la saccarina potrebbe non inibire l'enzima in vivo in modo significativo, come riportato dallo studio suddetto, se ciò si verificasse si invertirebbe la tendenza di un fegato diabetico a rilasciare eccessive quantità di glucosio nel sangue, specie nelle condizioni di insulino-resistenza. È da sottolineare che questa ipotesi non è stata mai confermata e che non sono note interazioni di sorta tra l'insulina e la saccarina nell'uomo (Segura et al 1987). È anche vero, però, che uno studio successivo ha dimostrato che la saccarina ha effetto anti-iperglicemizzante nei topi obesi geneticamente modificati per malfunzionamento dell'ormone leptina (ob/ob). Tale effetto non è stato studiato in dettaglio, ma sembrerebbe essere indipendente dall'insulina (Bailey et a., 1997).

Esiste un secondo effetto biologico della saccarina sodica sulle cellule adipose (adipociti): quello di inibire l'attività di alcune forme di adenilato ciclasi, enzima che sintetizza il secondo messaggero AMP ciclico. L'effetto è stato riportato su adipociti di ratti trattati per 14 giorni con una concentrazione alimentare del 2.5 o del 5%, ma non si verificava su preparazioni di cellule tiroidee, cardiache o cerebrali. Solo le alte dosi di saccarina (5%) condizionavano la crescita corporea e l'introito di cibo. Le dosi del 2.5%, invece, stimolavano l'attività enzimatica su adipociti isolati. Questo potrebbe indicare che una isoforma dell'enzima adenilato ciclasi, presente soltanto in specifici tessuti (Dib et al., 1997), è sensibile alla saccarina.

1.2.4 L'eritritolo

Fig.8 Struttura chimica dell’Eritritolo

L’eritritolo ((2R,3S)-butan-1,2,3,4-tetraolo, o E968, Fig. 8) è un polialcol naturalmente presente nella frutta e nei cibi fermentati (Shindou et Al., 1977), utilizzato con successo come dolcificante naturale. A livello industriale è ottenuto da substrati zuccherini (amido, glucosio, saccarosio, ecc.) tramite fermentazione microbica ad opera di lieviti osmofili selezionati (es. Moniliella pollinis) (Moon et Al., 2010). In Giappone e negli Stati Uniti è approvato e disponibile da più di un decennio. Nel 2006 la Commissione europea ha inserito l'eritritolo nell'elenco degli additivi alimentari polivalenti (2006/52/CE) e l'approvazione è risultata definitiva nel febbraio 2008 (Direttiva 2008/100/CE), assegnando all'eritritolo valore energetico

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pari a 0 kcal/gr. Poiché l'eritritolo non possiede solo proprietà edulcoranti, il suo impiego è stato autorizzato per le stesse applicazioni alimentari degli altri polioli e alle stesse condizioni d'impiego.

Come additivo alimentare l'eritritolo può svolgere diverse funzioni, ma viene impiegato soprattutto come dolcificante: il profilo aromatico è molto simile al saccarosio, con un potere dolcificante pari a circa il 60-70% del saccarosio e questo lo rende un'utile alternativa allo zucchero tradizionale. Grazie alla sua consistenza cristallina si combina in maniera ottimale con i dolcificanti intensivi come i glicosidi della Stevia e la saccarina esaltandone il potere dolcificante, aggiungendo corposità e mascherando retrogusti indesiderati (esempio: bustine myDietor, myDietor sfuso e bustine My Dietor Cuor di Stevia).

Anche grazie alle ridotte dimensioni (scheletro a quattro atomi di carbonio) e al basso peso molecolare (122.12 g mol-1), il profilo metabolico dell'eritritolo è unico. Oltre il 90% dell'eritritolo ingerito è assorbito prontamente nel piccolo intestino attraverso diffusione passiva. Questa frazione non viene metabolizzata e viene escreta immodificata attraverso le urine. La frazione rimanente (< 10%) raggiunge il grande intestino dove è solo parzialmente metabolizzata. Di conseguenza, il valore calorico complessivo dell'eritritolo è bassissimo e varia da 0 ad un massimo di 0,2 kcal/gr.(De Cock et Al, 2002).

L'eritritolo ha una tolleranza digestiva molto più elevata rispetto agli altri polialcoli, i quali, consumati in quantità elevate, possono provocare effetti collaterali indesiderati a livello intestinale (rilassamento, crampi addominali, flatulenza, diarrea). Studi clinici hanno evidenziato che negli adulti gli effetti gastrointestinali in seguito all'assunzione di eritritolo, fino ad 1 gr/Kg di peso corporeo (per un massimo di 80 g/giorno), non differiscono statisticamente da quelli provocati dall'assunzione di simili livelli di saccarosio (Munro et Al. , 1998). L'eritritolo è caratterizzato da valori pressoché nulli di indice glicemico (IG) e indice insulinico (II) e rappresenta quindi un valido ingrediente sostitutivo del saccarosio per ridurre l'impatto glicemico della dieta, adatto ai soggetti a rischio o affetti da diabete ( Livesey et Al. , 2003). Studi recenti hanno inoltre evidenziato l'attività antiradicalica dell'eritritolo, che ha dimostrato essere un ottimo scavenger di radicali ossidrilici, con proprietà protettive per le membrane cellulari. L'eritritolo agisce quindi come antiossidante in vivo e può aiutare a ridurre l'impatto glicemico degli alimenti e delle bevande, contrastando gli effetti dei radicali liberi indotti dall'iperglicemia (Hartog Den et Al.,2010).

L'eritritolo è stato certificato come prodotto tooth-friendly. La sua acariogenicità è ampiamente dimostrata: non viene convertito in acidi dai batteri presenti nella bocca, pertanto non favorisce la carie dentale. Al contrario, sembra avere un ruolo protettivo, analogo a quello dello xilitolo, contro la placca batterica (Kawanabe et Al, 1992).

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1.2.5 Fruttosio

Fig.9 Struttura chimica del Fruttosio

Il

fruttosio (o fruttoso), è un monosaccaride isomero topologico (o costituzionale) del glucosio, dal quale si differenzia in quanto chetoso anziché aldoso (Fig. 9). Entrambi sono importanti nella nutrizione umana e animale.

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Il fruttosio naturale (D-(−)-fruttosio) appartiene, come tutti gli zuccheri naturali, alla serie sterica D di Fischer ed è otticamente attivo (levogiro, da cui il nome storico di levulosio). È solubile in acqua e la sua soluzione, come per il glucosio, dà luogo a mutarotazione, sebbene in questo caso il fenomeno sia rapido, complesso e temperatura-dipendente. Il D-fruttosio condensa con il D-glucosio per dare il saccarosio, ovvero D-glucopiranosil-(1α→2β)-D-fruttofuranoside, un disaccaride non riducente, in quanto i carboni anomerici delle due unità sono bloccati tra di loro da un legame bis-acetalico a ponte d'ossigeno.( Kanters et Al.,1977). In natura si presenta, solido o in soluzione acquosa, nella maggior parte dei frutti zuccherini e dei loro relativi succhi, quindi nel miele. Per questo motivo a volte viene chiamato “lo zucchero della frutta”. Un po' impropriamente poiché solitamente la frutta contiene una miscela di saccarosio, glucosio e fruttosio dove questi ultimi due sono spesso presenti in percentuali simili. Mentre è presente in percentuale più bassa in diversi vegetali, ad esempio la bietola da zucchero o la canna da zucchero, dai quali tuttavia si ricava il più noto saccarosio.

Il fruttosio ha molta affinità per l’acqua ed è molto difficile da cristallizzare. Solo recentemente si sono trovati dei metodi efficaci per la sua produzione su grande scala e quindi lo possiamo trovare sui banconi di negozi e supermercati. Il fruttosio commerciale infatti si può ottenere dagli scarti di frutta oppure chimicamente convertendo il glucosio presente nell'amido di mais mediante isomerizzazione, che dà luogo a un denso sciroppo di mais ricco di fruttosio (55-60%), noto anche come HFCS (High Fructose Corn Syrup). L'uso del fruttosio commerciale è oggi quadruplicato rispetto all'inizio del '900. (Bray GA et al, 2004). Il fruttosio è utilizzato dalle industrie alimentari per il suo potere dolcificante superiore del 33% rispetto a quello del glucosio.

ll fruttosio, sia quello ingerito tal quale che quello che il nostro corpo ricava dal saccarosio, viene metabolizzato dal nostro organismo in modo completamente differente rispetto al glucosio. Viene assorbito più lentamente del glucosio dal tratto gastrointestinale, viene però metabolizzato velocemente dal fegato (Henry R. et al,1991).

A differenza del glucosio ha un basso indice glicemico ed un effetto modesto sulla secrezione di insulina, di cui non ha bisogno per permeare attraverso la membrana cellulare. Per questi motivo diversi studi hanno valutato la possibilità di sostituire il glucosio con il fruttosio come dolcificante per i pazienti diabetici. Sempre più spesso però anche persone non affette da diabete hanno iniziato a consumare fruttosio per motivi puramente dietetici. Un grammo di fruttosio contiene praticamente le stesse calorie di un grammo di saccarosio, tuttavia è molto più dolce. Il fruttosio infatti è, tra gli zuccheri in natura, quello più dolce: a seconda di come viene misurata la dolcezza alla temperatura corporea risulta tra il 20 per cento e il 50 per cento più dolce del saccarosio. Quindi per ottenere la stessa sensazione di dolcezza è possibile usare meno fruttosio, e quindi ingerire meno calorie. Diversi studi però hanno riportato risultati contrastanti rispetto alla possibilità di sostituire il glucosio con il fruttosio come dolcificante per i pazienti diabetici, in parte spiegati con le variazioni delle condizioni sperimentali (durata del trattamento, tipo di carboidrati sostituiti con il fruttosio nella dieta, ecc.). Solo circa la metà di essi ha riportato una significativa riduzione della glicemia. Tuttavia, questi studi sottolineano che il fruttosio induce un sostanziale aumento dei trigliceridi e un abbassamento delle lipoproteine ad alta densità (HDL-colesterolo). Gli studi condotti sull’epidemiologia dell’obesità indicano che l’incremento nel consumo di fruttosio corrisponde ad un aumento dell’obesità e di conseguenza ad un aumento della sindrome metabolica. Oppure può portare all’insorgenza dello stress ossidativo, a danni microvascolari, iperuricemia, e, soprattutto, ipertrigliceridemia (con conseguente steatosi epatica), ipertensione, insulino-resistenza e deplezione di minerali. Da evidenziare è quanto questi effetti si manifestino sia con il fruttosio presente negli alimenti (in

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forma di D-Fruttosio) che nei dolcificanti in forma di L-fruttosio, assente in natura. Per questi motivi, l'American Diabetes Association (ADA) oggi sconsiglia l'uso abituale di fruttosio come dolcificante nei soggetti diabetici, e suggerisce altresì ai non diabetici di moderarne il più possibile l'assunzione nella dieta (Bray GA et Al.,2004).

I benefici del fruttosio rispetto al saccarosio, sono reali sebbene di minima entità:

 Essendo contenuto in buona quantità anche nel comune miele e nella frutta, può essere assunto in quantitativo sufficiente per il fabbisogno giornaliero anche solo consumando questi alimenti.

 maggiore potere dolcificante;

 apporto calorico leggermente inferiore al saccarosio (3,75 kCal/g contro 4 kCal/g);

 indice glicemico più basso del saccarosio (20 circa vs. 50-70 c.ca), esso veniva consigliato soprattutto ai sofferenti di iperglicemia e ai diabetici, sebbene oggi sia stato soppiantato da dolcificanti sostituitivi molto più efficaci;

 Alcuni ipotizzano che l'uso di fruttosio commerciale come dolcificante sia più "sano" rispetto al consumo di zucchero raffinato industrialmente (e spesso anche rispetto a quello grezzo), poiché quest'ultimo viene lavorato ripetutamente con processi industriali chimicamente più aggressivi. Altri invece sostengono che i processi di lavorazione dello zucchero raffinato sono comunque monitorati da rigide normative imposte agli zuccherifici stessi, al fine di garantire saccarosio ad altissimo grado di purezza.

 Il fruttosio inoltre, trattenendo meglio l'umidità, viene usato nell'industria alimentare dei panificati, per preservare meglio i prodotti dalle muffe e dalle fermentazioni. Con l'aggiunta di fermenti lattici, esso produce acido acetico e ATP (adenosina trifosfato), e quindi utilizzato per migliorare la conservazione di prodotti lievitati da forno, ottenendo una crosta più morbida e profumata, e il rallentamento del raffermamento del prodotto. Si tratta però in questo caso di vantaggi tecnologici a cui non corrispondono vantaggi nutrizionali per il consumatore.

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1.3. GUSTO DELL’AMARO

A differenza dei gusti dolce e umami, che si sono evoluti per riconoscere un numero limitato di nutrienti, il gusto amaro ha l’oneroso compito di prevenire l’ingestione di un grandissima numero di composti tossici strutturalmente distinti. Sorprendentemente, anche considerando la vastità di questo repertorio, tutti questi composti evocano la stessa sensazione conosciuta come “amaro”. Secondo un'ipotesi finora prevalente, il senso del gusto si sarebbe evoluto per permettere agli animali, esseri umani inclusi, di distinguere tra i cibi vantaggiosi dal punto di vista nutrizionale, come lo zucchero, importante fonte di energia, e quelli potenzialmente dannosi. La percezione del gusto amaro sarebbe quindi stata selezionata come meccanismo difensivo nei confronti delle componenti tossiche di alcune piante. ( Kuhn et al, 2004 ; Chandrashekar J. Et al., 2006).

Tra i composti tendenzialmente tossici ritroviamo:- molecole organiche prodotte da alcune

piante (caffeina, nicotina, stricnina, chinino, β-glucopiranosidi), che inducono potenti effetti

farmacologici, - alcuni aminoacidi (triptofano) ed - il denatonio, il composto più amaro riconosciuto dall’uomo, - composti sintetici, - ioni inorganici (Cu++ e Cd++) e - grassi rancidi. (la percezione di rancido è olfattiva)

L’uomo è in grado di riconoscere composti amari a basse concentrazioni (submicromolari) e mostra reazioni aversive verso cibi che sono riconosciuti eccessivamente amari.

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1.4 . GUSTO DELL’ UMAMI

Il gusto umami, si differenzia da acido, salato, dolce e amaro (Lindemann et al., 2002). All’inizio del ventesimo secolo il chimico giapponese Kikunae Ikeda stava cercando di capire quale fosse il gusto fondamentale di una tipica zuppa giapponese di alghe e pesce, il dashi, poiché non classificabile con i quattro gusti conosciuti. Scoprì che il gusto di quella zuppa era dovuto principalmente al glutammato monosodico, un sale dell’acido glutammico, un amminoacido, e decise di chiamarlo “umami”. Nella nostra lingua potremmo chiamarlo “sapido”. Così come il cloruro di sodio stimola i recettori del gusto “salato”, il glutammato e l’acido glutammico stimolano il gusto umami. Il Glutammato è uno ione negativo, che in soluzione è normalmente accompagnato da uno ione positivo, come lo ione sodio. L'acido glutammico è uno degli amminoacidi non-essenziali più abbondanti in natura e lo si può trovare, libero, in molti alimenti quali latte, pomodori, funghi, e in alcune alghe utilizzate dalla cucina giapponese. Costituisce l’11-22% degli amminoacidi nelle proteine animali e fino al 40% in quelle vegetali. Le proteine non hanno sapore, ma i loro amminoacidi costituenti sì, e possiamo apprezzarlo degradando le proteine, . Questa degradazione, anche parziale, può avvenire durante la cottura dei cibi, oppure per via enzimatica, ad esempio per mezzo della nostra saliva (Li et al.,2002).

In natura esistono due forme di glutammato: una forma “bound” (legato) che possiamo trovare nelle proteine insieme ad altri amminoacidi e una forma “free” (libera) che si trova nella maggior parte delle piante e dei tessuti animali. Ed è proprio quest'ultima forma di acido glutamico che conferisce il sapore a molti cibi, come ad esempio il formaggio e i pomodori, in cui la concentrazione di glutammato aumenta con la maturazione. In generale ogni amminoacido dona un gusto al cibo e la loro combinazione aumenta queste possibilità.

Il riconoscimento dell’Umami come gusto fondamentale distinto dai quattro classici (salato, aspro, dolce, amaro) è stato immediato nella cultura asiatica, ma molto lento in quella occidentale, forse per un motivo culturale. Nella cucina occidentale spesso l’Umami è stimolato insieme al gusto salato e supportato dalla presenza di grassi animali. Questo fatto può aver ritardato la sua accettazione come gusto indipendente dagli altri. Solo nel 2000 l’Umami è stato accettato pienamente tra i gusti fondamentali, con la scoperta dei recettori che vengono stimolati dal glutammato e dalle altre sostanze.

1.4.1 Principali cibi ad alto contenuto di umami

Nella tabella 2 è riportato in mg il contenuto di glutammato nei principali cibi (Loliger, 2000; Ninomiya K. 2002, 2014). La cucina italiana, oltre a molte erbe aromatiche che concorrono a stimolare il gusto, usa prodotti ad alto contenuto di umami. Il glutammato monosodico é presente in quantità maggiore in cibi altamente proteici. Tutti i formaggi sanno di umami, col parmigiano che spicca ad un livello di glutammato naturale di ben 1200 mg/100g. Anche il pesce è umami, grazie al suo livello medio di glutammato libero di 188 mg/100g. Per passare ai vegetali, i pomodori hanno un livello di glutammato naturale di 140 mg/100g, i funghi 120, le patate 102, mentre le carote hanno un livello di glutammato naturale di 33 mg/100g. Il pomodoro, in particolare, è uno dei vegetali a più alta concentrazione di acido glutammico libero, concentrazione che aumenta molto con la maturazione e la cottura, inoltre contiene anche un altro stimolatore dell’umami: il 5’-adenosin monofosfato (AMP).

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Cibi Glutammato libero (mg/100g) Parmigiano 1200 Roquefort 1180 Piselli 200 Pesce 188 Pomodoro 140 Mais 130 Funghi 120 Patate 102 Cipolla 70 Pollo 44 Vitello 33 Maiale 23 Latte Materno 22 Salmone 20

Tabella 2 Principali cibi contenenti elevati livelli di Glutammato monosodico

1.4.2 La produzione di glutammato

Fig.10 Formula chimica dell'acido glutammico

Ikeda, nel 1908, riuscì ad estrarre 30 grammi di acido glutammico (Fig. 10) partendo da 40 Kg di alghe konbu fatte bollire in acqua e procedendo con i metodi della chimica classica: estrazione in fase acquosa, rimozione di altri contaminanti (mannitolo, NaCl, KCl) tramite cristallizzazione, precipitazioni con uso del piombo e altri processi di chimica preparativa ed infine evaporazione a bassa pressione. In questo modo si arriva alla cristallizzazione lenta di una singola sostanza, il glutammato monosodico (C5H9NO4).

Questo amminoacido era già stato isolato, nel 1866, dal chimico tedesco Ritthausen, attraverso l’idrolisi della gliadina, un componente del glutine del grano. Immediatamente Ikeda pensò di

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brevettare la produzione di glutammato di sodio (MSG = Mono Sodium Glutamate) a partire dal glutine, che ne contiene fino al 25% in peso. Nel 1909 il primo barattolino di glutammato di sodio, con il nome commerciale di “Ajinomoto” (che significa “all’origine del gusto”) veniva messo in commercio. Nel periodo tra le due guerre mondiali, negli USA e in parte dell’Europa, il glutammato venne isolato a partire dei residui dell’estrazione dello zucchero dalla barbabietola. Dopo la seconda guerra mondiale i chimici cominciarono a cercare delle vie per sintetizzare il glutammato completamente in laboratorio (Kuriara, 2015). Nel 1963 la Ajimoto company iniziò a produrre glutammato non più dalla decomposizione del glutine, ma per sintesi chimica, producendo circa 1000 tonnellate al mese (Addison, 2004). Tuttavia questo metodo di produzione ebbe vita breve, perché da lì a pochi anni sarebbe stato soppiantato completamente da un metodo di produzione, usato ancora oggi, che utilizza una fermentazione batterica. Molti scienziati sono riusciti a selezionale alcuni batteri che sono in grado di svolgere questo compito e di poter essere manipolati per incrementare al massimo la produzione industriale. Tutt'oggi l'industria si avvale di tre metodi per la produzione di grandi quantità di amminoacidi:

1. Fermentazione amminoacidica: si utilizzano i microrganismi affinché loro stessi convertano i nutrienti forniti in un grande fermentatore in amminoacidi (metodo più usato in quanto a basso costo);

2. Reazione enzimatica: vengono utilizzati appropriati enzimi per convertire precursori amminoacidici;

3. Estrazione: vengono degradate proteine naturali per estrarre i diversi amminoacidi che le compongono.

Ad oggi la produzione mondiale (Fig.11) di glutammato stimata è circa di due milioni di tonnellate all’anno, di cui un milione solamente in Cina, mentre la produzione, e il consumo, in occidente è abbastanza limitata.

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1.4.3 Altre sostanze stimolatrici del gusto Umami

Nel corso degli anni furono scoperte altre sostanze stimolatrici del gusto Umami presenti nei cibi (Komata, 1962): in particolare il 5’-guanosin monofosfato (GMP) e il 5’-inosin monofosfato (IMP). Sono sostanze naturali che per secoli, inconsapevolmente, i cuochi giapponesi e cinesi hanno utilizzato per costruire piatti complessi, spesso stimolando tre o quattro gusti fondamentali contemporaneamente, a differenza della cucina occidentale che raramente ne stimola più di due alla volta. I funghi shiitake ad esempio, molto usati nella cucina cinese e giapponese, sono ricchi di GMP mentre il tonno è ricco di IMP (Kuriara, 2015). Nel 1958 dei ricercatori scoprirono che il glutammato e i 5’-ribonucleotidi hanno un’azione sinergica: in presenza del GMP serve molto meno glutammato per esercitare la stessa stimolazione del gusto umami.(Yamaguchi, 1967) .

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1.5 TRASDUZIONE DEGLI STIMOLI GUSTATIVI

La percezione di ognuno dei gusti fondamentali è associata ad una particolare via di trasduzione del segnale che schematicamente può essere riportata a due tipologie principali: -recettori legati a proteine G, per amaro, dolce e umami (Nelson et al., 2002), -canali ionici di membrana per aspro e salato (Chaudhary et Roper, 2010) ). Dalla stimolazione della cellula si ottiene un potenziale di recettore che stimola l'ingresso di ioni Calcio nella cellula determinando la liberazione di neurotrasmettitori a livello basale e la genesi di un potenziale d'azione nelle fibre afferenti.

stimolo chimico

cellula sensoriale gustativa: interazione sui microvilli a livello dei recettori gustativi

DIVERSI PROCESSI DI TRASDUZIONE

depolarizzazione della terminazione presinaptica

rilascio del neurotrasmettitore a livello della sinapsi tra cellula gustativa e neuroni afferenti

1.5.1 Processo di trasduzione del dolce, amaro e umami

Recenti studi hanno dimostrato che i recettori per i gusti dolce, amaro e umami, sebbene vengano espressi in subsets separati di cellule (Nelson et al., 2001), condividono un pathway comune per trasdurre in attivazione cellulare il riconoscimento degli stimoli gustativi (Damak et al., 2006; Zhang et al., 2003). Il processo di trasduzione per il gusto dolce, amaro e umami è di tipo metabotropico, ossia accoppiato a proteina G (Fig. 12). Quando un recettore appartenente alla famiglia delle GPCRs viene attivato, la trasduzione del segnale inizia dapprima con l’attivazione della G-protein eterotrimerica ad esso associata. I dati a disposizione infatti suggeriscono che il legame ai recettori T1Rs e T2Rs di sostanze stimolanti il gusto attivano l’α-gustducina (McLaughlin et al., 1992) o la Gi2 , subunità α delle G protein eterotrimeriche

(Kusakabe et al., 2000), provocando il rilascio delle subunità Gβγ,comprese Gγ13 e Gβ1 o Gβ3 (Huang et al., 1999 , Zhang et al., 2003) e la susseguente stimolazione della fosfolipasi Cβ2 (PLC-β2) (Rossler et al., 1998). L’inattivazione genica della PLCβ2 induce un calo drastico, ma non totale della sensitività del gusto (Zhang et al., 2003; Dotson et al., 2005). La PLC β2 attivata, che a sua volta idrolizza il fosfatidilinositolo-4,5-difosfato (PIP2), produce i due messaggeri intracellulari diacilglicerolo (DAG) e inositolo-1,4,5-trifosfato (IP3). Gli IP3 sintetizzati, attivano l’apertura dei canali ionici IP3R3 situati sul reticolo endoplasmatico provocando un rilascio di ioni calcio nel citosol delle cellule recettoriali (Simon et al., 2006; Roper, 2007).

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L’elevata concentrazione di Ca2+

raggiunta, agisce su due diversi target presenti nelle cellule chemosensoriali: il canale cationico non selettivo TRPM5 (Pérez et al., 2002) e un emicanale di “gap junction” formato da pannexina (Panx) (Huang et al., 2007; Dando e Roper, 2009). Quando nella cellula viene raggiunto un livello “soglia” di Ca2+, si aprono i recettori-canale TRPM5, che determinano variazioni transitorie di potenziale causando la depolarizzazione delle cellule recettoriali (Liu e Liman, 2003). L’ attivazione dei recettori, da parte delle sostanze stimolanti il gusto, provoca così nella cellula una variazione del voltaggio transmembrana e un incremento del Ca2+ citoplasmatico, che rendono possibile la diffusione di ATP attraverso i pori degli emicanali Panx (Huang e Roper, 2010), andando ad aumentarne la concentrazione negli spazi extracellulari dove stimola le fibre afferenti del nervo gustativo ) (Huang et al., 2007; Romanov et al., 2007; Huang e Roper, 2010). L’ATP è unico trasmettitore secreto dalle cellule chemosensoriali di tipo II e stimola anche le cellule presinaptiche adiacenti (cellule di tipo III) a secernere le amine serotonina (5-HT) e norepinefrina (NE ) (Dvoryanchikov et al., 2007; Huang et al., 2008). Inoltre l’ATP secreta funge come trasmettitore autocrino andando a stimolare/inibire le stesse cellule recettoriali (Huang et al., 2009).

Fig. 12 Il percorso di trasduzione

canonico per stimoli dolci, amari e umami (Chaudhari et al.,2010)

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1.6 CELLULE DI TIPO 2

La percezione dei gusti avviene attraverso la stimolazione di due gruppi specifici di proteine recettoriali appartenti ad altrettante famiglie geniche, denominati T1R (dolce e umami) e T2R (amari) posti sulla superfice microvillare delle cellule gustative di tipo 2. Queste proteine sono distribuite all’interno delle papille in modo che ciascuna cellula gustativa risponda in modo selettivo ad una sola modalità gustativa: le cellule che contengono i recettori T1R2 e T1R3 sono sensibili al dolce, quelle con i recettori T1R1 e T1R3 all’umami, e quelle che esprimono i recettori della famiglia T2R all’amaro. Nonostante la segregazione recettoriale, tutte queste cellule utilizzano gli stessi effettori finali per la generazione del potenziale di recettore, vale a dire il canale cationico TRPM-5 la cui apertura è dipendente da una via di trasduzione del segnale innescata dall’attivazione delle proteine G. (Nelson et al., 2001)

1.6.1 I recettori del dolce

Esistono 2 famiglie di recettori GPCRs: la famiglia dei TAS1R (taste receptor, type 1), chiamata anche T1R, composta da tre geni e la famiglia multigenica dei TAS2R (taste receptor, type 2), denominata anche T2R . Entrambe le famiglie possiedono, come tutti i recettori GPCRs, 7 domini α-elica transmembrana, un dominio intracellulare C-terminale, ma solo la TAS1Rs possiede un largo dominio extracellulare N-terminale (Fig. 13). Il terzo lungo loop citoplasmatico (che intercorre fra la quinta e la sesta α-elica) dei recettori corrisponde alla regione della molecola che si accoppia alla proteina G. Nei mammiferi il recettore dedicato al dolce è un eterodimero formato dalle subunità specifiche TAS1R2 e TAS1R3 (Max et al., 2001; Montmayeur et al., 2001; Nelson et al., 2001; Kitagawa et al., 2001; Sainz et al., 2001; Bachmanov et al., 2001). Tas1R3 partecipa anche alla rilevazione del gusto umami, mediante la formazione di un diverso eterodimero con la subunità TAS1R1. Infatti il blocco della subunità TAS1R3 mediante l’agonista lactisole inibisce la percezione di entrambe queste due sensazioni gustative (Jiang et al., 2004; Winnig et al., 2005; Xu et al., 2004). Studi di co-espressione eterologa di TAS1R2 e TAS1R3 in linee cellulari hanno permesso di capire che il loro eterodimero riconosce numerose sostanze dotate di caratteristiche strutturali molto differenziate.

Fig. 13 Eterodimero recettore del dolce formato dai GPCRs TAS1R2 (viola) e TAS1R3

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1.6.2 I recettori dell’amaro

Sono una famiglia multi-genica di GPCRs denominata TAS2R (taste receptor, type 2), o anche T2Rs (figura 14) (Adler et al., 2000; Chandrashekar et al., 2000; Matsunami et al., 2000; Mueller et al., 2005). Tutte le specie di vertebrati possiedono un numero variabile di varianti di recettori. È stato stimato da studi di sequenziamento genico che nel ratto e nell’uomo ci sono circa 30 diversi geni di recettori per l’amaro e qualche pseudo gene, e che possiedono una identità aminoacidica variabile dal 21 al 90% (Bufe et al., 2002). Una nomenclatura completa e aggiornata dei TAS2Rs umani e murini è riportata da una recente review (M. Behrens e W. Meyerhof, 2011). I TAS2Rs hanno l’importante ruolo di segnalare l’assunzione di tutte le sostanze amare, che sono generalmente pericolose. Data l’ampia diversità chimica dei composti rilevati è chiaro che questi recettori riconoscano una grande varietà di gruppi chimici differenti. Non è ancora compreso come così pochi recettori siano sufficienti per monitorare la presenza dei tanti composti amari presenti in natura. Da studi di “deorfanizzazione” del ligando appare comunque chiaro come lo stesso composto possa essere riconosciuto da diversi recettori e che alcuni recettori possano riconoscere un ampio range di molecole mentre altri hanno un target più selettivo (Meyerhof et al., 2010). Inoltre risulta enormemente differente anche il grado di sensibilità alle rilevazioni, con valori di EC50 indotti da quantità di composto che vanno da livelli nanomolari (Kuhn et al., 2004) a livelli millimolari (Bufe et al., 2002).

Attualmente per l’80% (20 su 25) (Meyerhof et al., 2010) dei TAS2R umani sono stati identificati dei ligandi. Comunque oltre questa importante funzione collegata all’alimentazione ve ne sono altre, poiché sia i Tas1R che i TAS2Rs sono presenti anche al di fuori della cavità orale, dove assumono ruoli ovviamente non gustativi. Nel tratto digerente la presenza dei recettori della famiglia dei TAS2R, assieme a quella adibita al “sensing” del dolce e dell’umami è correlata all’analisi del contenuto del lume intestinale, mentre la loro presenza nelle vie aeree implica diverse questioni sulla loro funzione.

Fig. 14 Recettore dell’amaro e trasduzione del segnale.

( Figura tratta dalla review “Gustatory and extragustatory functions of mammalian taste receptors”, M. Behrens e W. Meyerhof, 2011)

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1.6.3 I Recettori per l’umami

I recettori TAS1R1 e TAS1R3 di roditore si combinano per formare il recettore ad ampio spettro degli L-amminoacidi (Nelson et al., 2002). Questi risultati convalidano ampiamente il ruolo delle subunità TAS1R1 e TAS1R3 come recettore per gli amminoacidi, e delle cellule esprimenti l’eterodimero TAS1R1/TAS1R3 nel riconoscimento dello stimolo gustativo umami (figura 15). Devono essere inoltre ricordati altri recettori per gli amminoacidi, quali i recettori ionotropici e metabotropici del glutammato, ed in particolare l’mGluR4 legato al gusto, che è una forma troncata dell’mGluR4 del cervello (Li et al., 2002). Le subunità TAS1R1 e TAS1R3 vengono coespresse nei calici gustativi della parte anteriore della lingua, mentre l’mGluR4 legato al gusto viene espresso nei calici gustativi delle papille vallate e foliate (Hi et al., 2004). Di molto interesse sono i saggi su cellule umane, nelle quali il complesso TAS1R1/TAS1R3 funziona da recettore specifico, rispondendo selettivamente al MSG, all’aspartato e all’analogo del glutammato L-AP4, con una selettività consistente con la soglia psicofisica per il gusto umami. In aggiunta, come atteso per il recettore per l’umami, gli eterodimeri TAS1R1/TAS1R3 sia di uomo che di roditore mostravano un potenziamento in risposta ai nucleotidi purinici (Nelson et al., 2002). Infine, prove definitive che il complesso TAS1R1/TAS1R3 è recettore del gusto umami in vivo è stata ottenuta dallo studio di topi knockout per il TAS1R1 e il TAS1R3 (Zhao et a., 2003). Mutanti omozigoti, mancanti delle due subunità, mostravano una totale perdita del gusto umami, includendo tutte le risposte all’IMP e la preferenza comportamentale per il MSG e gli L-amminoacidi. Nell’insieme, questi risultati stabiliscono il ruolo del complesso GPCR eterodimerico TAS1R1/TAS1R3 come recettore del gusto umami dei mammiferi e forniscono un esempio sorprendente di come i GPCRs eterodimerici alterino radicalmente la loro selettività a seconda dell’arrangiamento combinatoriale delle subunità (gusto dolce con TAS1R2/TAS1R3 e umami con TAS1R1/TAS1R3). Oltretutto, questi studi rivelano che i gusti dolce e umami, considerati i due inputs chemosensoriali responsabili del comportamento attrattivo, condividono un repertorio di recettori e origine evoluzionaria comuni.

Fig 15 Eterodimero recettore dell’ umami formato dai GPCRs TAS1R1 e TAS1R3

La genetica molecolare ha fornito uno spunto importante per definire il ruolo di questi recettori. Partendo dal presupposto che T1R3 è il recettore comune per la percezione dei gusti dolce e umami, è logico presuppore che un individuo sprovvisto di questa proteina perderebbe

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contemporaneamente la percezione di entrambi, mentre l’eliminazione del solo gene per T1R1 o T1R2 altererebbe una sola delle due modalità gustative. Innfatti In alcuni ceppi di topo no taster, una mutazione genica spontanea nel locus cromosomico Sac che contiene il gene T1R3 preclude la possibilità a questi animali di percepire il gusto dolce. Ad avvalorare ciò è stato dimostrato che topi mutanti negativi per T1R1 perdono la percezione per il gusto umami, mentre mutanti per il T1R3 perdono entrambi i gusti. In questi animali la pecezione del salato e dell’acido è immutata (Chaudhari and Roper , 2010).

Fig. 16 le tre principali classi delle cellule del gusto (da Chaudhari and Roper , 2010)

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1.7 RECETTORI CANALE TRP

I canali ionici di membrana hanno un ruolo centrale in molti processi cellulari. Il flusso ionico generato dall’apertura di tali canali infatti è capace di variare l’eccitabilità di membrana o di attivare secondi messaggeri intracellulari, come gli ioni Ca2+. Esistono molte famiglie di canali ionici che modulano l’entrata di tale ione tra i quali la famiglia dei recettori “transient receptor potential” (TRP) (Clapham et Al., 2003). La famiglia dei canali TRP rappresenta un eterogeneo e vasto gruppo di recettori-canale di membrana permeabili ai cationi, ma in maniera non selettiva. La maggior parte dei canali TRP sono composti da sei eliche membrane-spanning con N- intracellulare e C-terminale (Fig 17). Il primo esempio, identificato già 30 anni fa in uno studio sui meccanismi di fototrasduzione nel moscerino della frutta Drosophila melanogaster, era costituito da un canale associato alla rodopsina, il pigmento fotosensibile del tipo accoppiato a proteina G, la cui attivazione determinava il reclutamento di una fosfolipasi C-β (PLC- β), responsabile dell’influsso di Ca2+

(Minke et al., 1977). In seguito sono stati clonati recettori canale omologhi al primo TRP, espressi sia negli invertebrati che nei vertebrati, e questa famiglia recettoriale è diventata oggetto di grande interesse sia in campo fisiopatologico che farmacologico, per la sua vasta distribuzione nei vari tipi cellulari e per il caratteristico pleiotropismo funzionale. Cellule di lievito, ad esempio, utilizzano un sottotipo recettoriale dei canali TRP per percepire ed adattarsi ad un ambiente esterno ipertonico. Il maschio del topo utilizza un canale TRP sensibile ai feromoni per distinguere i maschi dalle femmine. L’uomo, infine, utilizza canali TRP per percepire il caldo, il freddo ed alcuni gusti come il dolce ed il salato (Huang et al. 2011, figura 17). Le proteine canale TRP sono coinvolte inoltre in processi di trasduzione di stimoli sensoriali di natura meccanica, ed alcune anche in fenomeni di nocicezione. Ad oggi la famiglia di recettori TRP conta 56 sottotipi suddivisi in 7 classi (Tabella 3) in base all'omologia nella sequenza amminoacidica dei differenti 16 sottotipi recettoriali (Nilius et Al., 2007).

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Tab.3 Elenco dei principali recettori trp

TRPP Questi recettori sembrano essere localizzati a livello nucleare ed avere come bersaglio funzionale gli endosomi/lisosomi

Recettori melastatinici o TRPM

caratterizzati da una elevata permeabilità agli ioni Ca2+ e Mg2+.

TRPN comprendono il sottotipo NONMPC nella Drosophila, necessario per il volo e per la trasduzione di stimoli di natura meccanica.

Recettori attivati dai vanilloidi o TRPV

I TRPV sono attivati da stimoli di varia natura chimica (il recettore TRPV1 è noto anche come recettore per la capsaicina) e meccanica, ma i sottotipi TRPV1- TRPV4, sono sensibili anche a stimoli termici. I sottotipi TRPV5-TRPV6, in condizioni fisiologiche, presentano, unici tra tutti i TRP, un'elevata selettività per lo ione Ca2+, dal quale risultano direttamente attivabili (Story et al., 2003)

I recettori TRP sono quindi coinvolti in numerosi eventi fisiopatologici e la loro distribuzione, vasta e complessa, risulta di difficile sintesi e schematizzazione. Di particolare interesse è l’osservazione che TRPV1, TRPV2, TRPV3, TRPV4, TRPM8 e TRPA1, sono espressi in neuroni sensitivi primari nocicettivi. Un aspetto rilevante di alcuni canali TRP espressi nei nocicettori, come il TRPV1 ed il TRPA1, è

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relativo alla possibilità di una loro attivazione di tipo “metabotropo”, per cui in seguito alla stimolazione di recettori accoppiati a proteine G (GPCR), si produrrebbe una cascata metabolica con generazione di molecole di natura lipidica capaci di attivare i TRP e quindi provocare l’entrata di Ca2+

. Questa modalità di attivazione dei TRP sembra essere anche legata alla stimolazione di recettori tirosin-chinasici, come il recettore ad alta affinità per il fattore di crescita nervoso (NGF). L’attivazione della PLC che segue la stimolazione recettoriale, idrolizza il fosfatidil-inositolo-difosfato (PIP2) con formazione di diacilglicerolo (DAG) e inositolo-tri-fosfato (IP3), ne determina il distacco dal canale TRP, causando così il gating di quest’ultimo. Tra i numerosi esempi di recettori in grado di attivare indirettamente i TRP troviamo il recettore muscarinico, il recettore H1 per l'istamina, i recettori per le purine, il recettore B2 per la bradichinina e i recettori attivati dalle proteasi (PAR). Il TRPV4 come il TRPV1, va incontro a sensibilizzazione ed attivazione da parte di stimolazione del recettore PAR2.

Fig.19 La famiglia dei recettori “transient receptor potential” (TRP) . (a) Il gene trp codifica per

un canale con sei eliche transmembrana (S1-S6). (b) Particolare del complesso tetramerico del canale TRP. (c) Modello molecolare della regione dove è presente il loop del canale.

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