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LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA NELLA SEPARAZIONE E DIVORZIO

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1 INTRODUZIONE

Il diritto positivo della famiglia, dopo l’entrata in vigore del codice nel 1865, è rimasto invariato nel suo impianto fondamentale fino alla codificazione del ‘900. Per sessanta anni la famiglia patriarcale ha resistito nelle sue strutture più arcaiche, pur non essendo mancate iniziative volte a promuovere, in sede parlamentare, l’elaborazione di progetti rinnovatori. Il codice civile del 1942, a sua volta, non ha certamente visto la luce in una fase storica propizia per un deciso ammodernamento degli istituti familiari e ci ha consegnato l’immagine di una famiglia sempre centrata sulla primazia maritale.

Un’elaborazione complessa ma guidata sul piano dei valori dai precetti costituzionali, inevitabilmente travagliata e solcata da contrasti, poneva in primo piano il tema dell’eguaglianza tra i coniugi. La riforma del 1975, nelle sue linee ordinatrici fondamentali, si collocava all’interno del tradizionale orizzonte dove l’istituto matrimoniale era il cardine dell’intera struttura familiare (secondo il modello recepito dall’art. 29 della Costituzione). Così facendo mirava principalmente a realizzare lo spirito egualitario della Carta fondamentale, adeguando la regola giuridica all’evoluzione dei rapporti sociali e culturali attraverso un intervento che si concentrava proprio sulla disciplina del matrimonio.

Il disgregarsi del modello familiare, un tempo unitario, rende impossibile pensare a un complesso di norme con ambizione di coerenza sistematica e completezza che esaurisca l’ambito tematico, ricordando che nella letteratura giuridica costituisce il “diritto di famiglia”. Nei decenni successivi al 1975, si aprì una stagione di riforme settoriali (tra le quali possono iscriversi i

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2 reiterati interventi sulla crisi del matrimonio che hanno portato per ultimo ad introdurre la negoziazione assistita e un susseguirsi di ulteriori istituti), anch’esse, non di rado, approvate sotto la pressione di istanze contingenti e pressioni sociali. La conseguenza non era soltanto la disorganicità del materiale normativo, ma ancor più la radicale difficoltà di ricostruire un sistema nell'assenza di valori e principi unificanti. Questo effetto è determinato, da un lato, dall’affievolirsi dei tratti culturali e di costume sottesi all’impianto ancora percepibile nella riforma del 1975 e, dall’altro lato, dall’affermarsi di nuove sensibilità e modelli comportamentali, caratteristici di una società dapprima secolarizzata e poi globalizzata, traducendosi in un nuovo atteggiarsi delle fonti primarie che orientano l’attività legislativa.

La Costituzione, stella polare dell’elaborazione della riforma del 1975, ad oggi è affiancata (anche per effetto del formale richiamo operato dall’art. 117 Cost.) da fonti di carattere sovranazionale come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; la stessa legge che viene commentata e che, in più occasioni, è stata toccata da decisioni degli organi giurisdizionali dell’Unione Europea, spesse volte con pronunce orientate a imprimere radicali innovazioni al nostro sistema interno. Anche in questa occasione si rivela attuale l’immagine ripetuta e con varie formule descritta, di un diritto positivo perennemente costretto, in questa materia, a seguire il procedere discontinuo e non lineare, ma non arginabile dall’atto di volontà del legislatore, dei fenomeni sociali.

L’insieme di queste spinte ha mutato le coordinate di riferimento, stemperando progressivamente “l’antico biunivoco legame tra matrimonio e

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3 famiglia”.

Con il passare degli anni, purtroppo, nel nostro ordinamento è venuto a disgregarsi il concetto di “matrimonio” come vincolo indissolubile tra due persone di sesso opposto, causando conseguentemente l’affievolirsi di principi portanti come quello della “famiglia”.

L’abbandono del principio di indissolubilità del vincolo matrimoniale ha portato il legislatore ad introdurre delle soluzioni di volontaria giurisdizione per lo scioglimento del matrimonio, come la separazione personale e successivamente il divorzio. Questi due passaggi prevedevano la partecipazione del giudice mediante il suo provvedimento nella composizione collegiale del tribunale per produrre i loro effetti. Ciò accadeva perché il legislatore ha sempre considerato questa crisi di coppia come un momento in cui le parti dovevano confrontarsi con un modello di regole e verifiche d’interesse pubblico.

Con l’evolversi della società, e forse anche con il maturarsi del genere umano, siamo arrivati a sottrarre all’apparato giudiziario alcune attribuzioni, incentivando così l’utilizzo di mezzi alternativi alla giurisdizione che producono lo stesso risultato, fedelmente riconosciuta come la “negoziazione assistita”.

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4 LA NEGOZIAZIONE ASSISTITA NELLA SEPARAZIONE E

DIVORZIO

La validità e l’efficacia degli accordo tra coniugi/genitori prima della riforma della negoziazione assistita

SOMMARIO: 1. - L’accordo “nel corso della vita familiare” nel matrimonio. 2. - L’applicazione dell’art. 144 c.c. da parte della giurisprudenza. 3. - Gli accordi relativi ai figli. 4. - L’irrilevanza giuridica interna degli accordi “nel corso della vita familiare”. 4.1. - La debole rilevanza esterna degli accordi. 5. - L’importanza delle obbligazioni assunte in regime di comunione dei beni. 6. - La convenzione matrimoniale. 7. - La posizione della giurisprudenza sugli accordi prematrimoniali e predivorziali.

1. - Il sistema primario del matrimonio e dell’unione civile prevede come modalità di relazione tra le parti in corso di rapporto quella dell’accordo. La regola dell'accordo è posta a salvaguardia del principio di parità e di uguaglianza.

L’art 144 c.c “Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia” al comma 1 cita:“I coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia”. Al 2 comma prevede:“A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato”.1

1. Mentre per le unioni civili l'art 1, comma 12 delle Legge n. 76 del 2016

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5 In caso di disaccordo sulla fissazione della residenza comune o su altri affari essenziali, per i coniugi viene attuato il procedimento previsto all’art 145 c.c. (Intervento del giudice) che, prevede la possibilità di ciascuna delle parti di ricorrere al giudice, il quale, tramite sentenza, potrebbe imporre “con provvedimento non impugnabile la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze dell'unità e della vita della famiglia”.2

(Nei rapporti di convivenza, invece, non troviamo riscontro sulla regola dell’accordo per quanto riguarda i rapporti di natura personale in corso di rapporto, ma altresì non si vede quale possa essere il principio che accompagna la vita di coppia se non quella del concordare l'indirizzo comune).

Il nostro legislatore ha voluto indicare la regola dell'accordo per i coniugi solo per rafforzare quel principio di uguaglianza e di parità del matrimonio che il testo dell'art. 144 c.c. negava prima della riforma del diritto di famiglia del 1975. Infatti, sotto la rubrica di “Potestà maritale” la regola prevedeva che “il marito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”. Giunti meno questi principi di asimmetricità nella coppia che si unisce per un progetto di vita in comune, l'unica regola apprezzabile diventa quella dell'accordo tra persone in condizione di parità.

dichiara in corrispondenza che “le parti concordano tra oro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato”.

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6 2. - Gli “accordi nella vita familiare” si riferiscono all’indirizzo della vita familiare, al vivere insieme, a tutto ciò che riguarda le scelte della vita in comune riferendosi quindi, non solo agli accordi personali ma bensì anche a quelli patrimoniali.

Gli accordi sul regime patrimoniale (scelta della convenzione matrimoniale o della convenzione patrimoniale nell’unione civile o la decisione per un contratto di convivenza) sono sì “accordi nel corso della vita familiare” con rilevanza esterna, al contrario degli altri accordi, a cui la giurisprudenza non ne riconosce né una rilevanza interna, né una rilevanza esterna.

Gli “accordi nel corso della vita familiare” tra coniugi o partner hanno sostanzialmente contenuto personale (per esempio: la scelta della residenza comune, dove trascorrere vacanze, le scelte sulle attività o relative alle necessità dei figli) con la precisazione che la natura personale dell'accordo non viene meno nel momento in cui il suo contenuto presuppone conseguenze patrimoniali, come può succedere per le scelte sui regimi patrimoniali o per le decisioni sugli investimenti o anche sui rapporti bancari o su acquisti dei beni familiari o ancora sulle modalità di contribuzione alle esigenze comuni.

La caratteristica degli accordi nella vita familiare è quella di presupporre l’unità nella vita familiare.

A dispetto del principio contenuto nell’art. 144 c.c., la giurisprudenza non è stata in grado di dare a questo principio la dignità di principio primario, non solo isolando gli accordi in questione nella sfera dell'intimità domestica in cui di fatto ciascuna parte è libera di ignorarli senza conseguenze, ma soprattutto non attribuendo sostanzialmente alcuna rilevanza esterna, cioè

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7 nei confronti dei terzi, se non nella misura in cui possa essere dimostrata l'esistenza di una procura espressa o tacita, comprendendo così che la regola dell'accordo è una regola senza sanzioni.

In altri ordinamenti un coniuge, per esempio, non può vendere i mobili che arredano la casa o la stessa casa familiare senza il consenso dell'altro coniuge. Nel nostro ordinamento questo può essere fatto senza alcun rischio. L'indirizzo della vita familiare può essere senza indugio disatteso tranquillamente in base alle regole sulla proprietà.

3. – L’art. 144 c.c. si riferisce certamente anche agli accordi che riguardano l'educazione dei figli e le scelte sulla loro socializzazione.

Questi riferimenti sull’educazione e sulla socializzazione dei figli possono poi essere attuati anche da ciascun genitore separatamente, secondo l’affidamento condiviso dei figli in sede di separazione, il che risulta essere la condivisione di qualcosa che ciascun genitore s’impegna ad attuare separatamente nel rapporto con il figlio. In questo, l’affidamento condiviso si differenzia dall'affidamento congiunto, suo progenitore.

Nella famiglia unita l’art. 316 c.c. si riferisce agli accordi sui figli, attribuendo ad entrambi i genitori la responsabilità genitoriale “che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abitale del minore”.

La stessa norma prevede che “in caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice

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8 indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio”.

L’art. 145 c.c. e l’art 316 c.c. sono le uniche due norme che prevedono un qualche intervento del giudice nella famiglia unita. In entrambi i casi si tratta di interventi tesi a sanare un disaccordo ma che sono così, oggettivamente, deboli da essere quasi inutili.

4. - Gli accordi nella vita familiare nonostante la dichiarazione contenuta nell'art. 144 c.c. da un punto di vista sostanziale non hanno nemmeno una rilevanza giuridica interna. Questi accordi in concreto valgono solo tra le parti, seppur siano solo accordi fondati sulla parola, la loro attuazione dipende da ciascuna delle parti.

Nessuna norma attribuisce a loro un valore obbligatorio, come può essere per un contratto stipulato tra le parti che ha forza di legge. Per questo gli accordi “nel corso della vita familiare” vengono etichettati accordi “deboli”, perchè non hanno una sanzione in caso di inosservanza.

Nel nostro ordinamento non esistono strumenti che consentono l' attuazione in modo coattivo degli accordi di natura personale, anzi la loro attuazione è demandata alla volontà delle parti e, se una parte non rispetta l'accordo di natura personale, l'altra non può nulla se non liberarsi dal rapporto.

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9 In riferimento a ciò, l'art 144 c.c. risulta una norma programmatica del modo con cui le parti del rapporto familiare devono condurre il loro rapporto ma, allo stesso tempo, si rivela una direttiva debole dal momento che non prevede alcuna sanzione in caso di inosservanza degli obblighi assunti. Difatti risulterebbe incerto che nel caso la violazione di “accordi sulla vita familiare”, possa di per sé essere messa a fondamento di un addebito della separazione considerando che tra i doveri coniugali indicati all'art 143 c.c. non vi è quello di attuare l'indirizzo concordato, come non sono nemmeno previsti per i coniugi strumenti d'intervento giudiziario in caso di violazione di un accordo personale. Infatti l'art. 145 c.c. non è strutturato per sanzionare la violazione di un accordo, ma solo per risolvere un disaccordo su affari essenziali. Questa norma viene classificata come una norma attributiva: consente di richiedere l'intervento del giudice nel caso in cui vi sia la violazione di un accordo, ma certamente non attribuisce al giudice il potere di dare per forza esecuzione all'accordo che le parti avevano preso.

In riferimento a ciò la Cassazione con la sentenza n° 5415 del 7 maggio 1992, chiarisce che:”per dirimere i conflitti che insorgono tra i coniugi in relazione ad assunte violazioni delle intese coniugali sull'indirizzo da impartire alla vita familiare ai sensi dell' art. 144 c.c., la legge prevede un procedimento speciale, disciplinato all'art. 145 c.c., avente carattere non contenzioso che può chiudersi, se i coniugi raggiungono un accordo, con una conciliazione o con una pronuncia di non luogo a provvedere, o in caso di disaccordo, con un provvedimento che, non avendo natura giurisdizionale, deve equipararsi al pronunciato di un arbitratore ed è di per sé insuscettibile di coercizione, in quanto privo di efficacia esecutiva”. Si

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10 nota, sul tema della incoercibilità dell'accordo, che ”il rispetto dell'intesa coniugale non può mai essere imposto al coniuge recedente, posto che dalla costrizione all'osservanza di un intesa non più accettata, potrebbe scaturire un senso d'intollerabilità della convivenza nocivo allo stesso permanere dell'unità familiare”.

Il caso citato lascia intravedere sul punto una macroscopica lacuna nel nostro diritto di famiglia.

Infatti la sentenza afferma anche che3:“non è configurabile, in costanza di

matrimonio, alcun potere in capo al coniuge non proprietario sull'immobile adibito a residenza familiare di appartenenza esclusiva dell'altro, ove questi intenda, senza il consenso del primo, alienare il bene e trasferire altrove l'abitazione della famiglia; e ciò anche nell'eventualità in cui l'atto di disposizione concretizzi la violazione di un preesistente accordo.”

4.1. - Il sistema intorno al quale ruota la disciplina degli accordi “nel corso della vita familiare ”prevede che in relazione agli accordi presi ciascuna delle parti possa poi darvi autonoma attuazione”.

Per cui ciascuna parte può contrarre autonomamente specifiche obbligazioni al fine di dare attuazione agli accordi presi con il proprio partner.

Nella maggior parte dei casi, la giurisprudenza ha applicato il principio secondo cui, l'obbligazione assunta da un coniuge, per soddisfare i bisogni familiari, non pone l'altro in una veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi. Fatto salvo, ovviamente, che vi sia la prova che il

3. GIANFRANCO DOSI, il diritto contrattuale della famiglia , Le funzioni di consulenza e negoziazione dell' avvocato, Giappichelli editore, Torino, 2016, pag.14.

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11 partner contraente abbia conferito all'altro coniuge, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, ovvero quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere che l'onere sia stato assunto anche in nome dell'altro partner.

La Cassazione con la sentenza n° 19947 del 6 ottobre 20044, trattò un caso di

due coniugi che si erano accordati per effettuare un trasloco di mobili in un’altra abitazione. La moglie materialmente aveva preso accordi con il traslocatore, restando inadempiente rispetto al pagamento del dovuto stabilito. Il traslocatore si rivolgeva quindi, per il pagamento al marito della donna, il quale costituendosi eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva, prendendo atto che il contratto descritto nella citazione introduttiva era stato stipulato dalla moglie e chiedendo, quindi, in sintesi l'applicazione della regola stabilita all' art. 1372 c.c. comma 2, secondo cui “il contratto non produce effetti rispetto ai terzi”.

Il tribunale accoglieva la domanda del traslocatore ma la Corte d'Appello riformava la decisione “atteso che unico stipulante del contratto era la moglie e che non esisteva alcuna prova che quest'ultima avesse agito come mandataria rappresentante del marito”. La Corte di Cassazione confermava la decisione affermando che la moglie, di regola, è responsabile in proprio per le obbligazioni da lei contratte nell'interesse della famiglia; il marito, tuttavia, è responsabile delle obbligazioni contratte in suo nome dalla moglie oltre che nei casi in cui egli le abbia conferito, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, tutte le volte in cui sia stata posta in essere una

4. GIANFRANCO DOSI, il diritto contrattuale della famiglia , Le funzioni di consulenza e negoziazione dell' avvocato, Giappichelli editore, Torino, 2016, pag. 15.

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12 situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell'apparenza giuridica, che la moglie abbia contratto una determinata obbligazione non già in proprio ma in nome del marito.

La giurisprudenza in tutte le altre vicende di cui si è occupata ha negato, con la stessa motivazione, che gli accordi tra i coniugi che abbiano rilevanza esterna, salvo che vi sia la prova che il partner contraente abbia conferito all'altro coniuge, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, ovvero quando sia configurabile una situazione tale da far ritenere, che l'obbligazione sia stata assunta anche in nome dell'altro partner.

Sempre la Cassazione in un altra sentenza, la n° 6118 del 18 giugno del 19905, la cui vicenda prevedeva che il marito aveva acquistato alcuni beni di un certo valore e pretendeva che il prezzo venisse pagato anche dalla moglie assumendo che l'obbligazione era stata contratta nell'interesse della famiglia. I giudici di merito gli avevano dato torto ed egli ricorreva per cassazione ma il ricorso veniva rigettato sostenendosi che “fatta salva la responsabilità sussidiaria specificamente disposta dall'art 190 c.c. per i debiti gravanti sulla comunione, tanto in regime di comunione legale che di separazione dei beni solo il coniuge che abbia personalmente stipulato l'obbligazione per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia risponde del debito contratto”.

Per cui se ne deduce che è stata una precisa volontà del legislatore, quella di non introdurre una deroga al principio ex art. 1372, comma 2, c.c. Per cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi.

5. GIANFRANCO DOSI, il diritto contrattuale della famiglia , Le funzioni di consulenza e negoziazione dell' avvocato, Giappichelli editore, Torino, 2016, pag. 18.

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5. - L'art. 186 c.c. (obblighi gravanti sulla sui beni della comunione) prevede che i beni della comunione rispondono non solo di ogni obbligazione contratta congiuntamente ma anche di ogni obbligazione contratta dalle parti separatamente nell'interesse della famiglia. L'art. 190 c.c. (responsabilità sussidiaria dei beni personali) dispone che i creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuna parte nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non risultano sufficienti a soddisfare i debiti su di essi gravanti.

In sostanza ciò significa che le obbligazioni contratte separatamente dalle parti nell'interesse della famiglia, in genere attuative di accordi tra le parti, hanno una particolare rilevanza esterna consistente nel fatto che il creditore della comunione è creditore anche della parte non stipulante potendo rivalersi in via sussidiaria sui beni di entrambe le parti.

In tutto questo discorso si parte da un presupposto, cioè che:”i beni di comunione rispondono delle spese per il mantenimento della famiglia ed in specie di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia (186 c.c.)”.

Qui siamo in presenza di una tipica rilevanza esterna dell'obbligazione contratta separatamente da un coniuge nell'interesse della famiglia; cioè, rilevanza, anche nei confronti del coniuge non stipulante, dell'atto compiuto dall'altro coniuge in attuazione di un accordo.

La Cassazione a proposito di ciò afferma sempre nella sentenza n° 6118 del 18 giugno del 19906 che ex art. 177 lettera a) oggetto della comunione sono

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14 gli accordi compiuti dai coniugi anche separatamente, dunque anche i beni per l'acquisto dei quali uno dei coniugi ha assunto obbligazioni, seppur autonomamente. I beni divenuti oggetto della comunione sono destinati prima o poi a divenire proprietà individuale di uno dei due coniugi, a divisione avvenuta che può avvenire non solo a seguito di divorzio o separazione dei coniugi, ma anche per mutamento convenzionale del regime patrimoniale.

Questi beni, sono goduti ed amministrati da entrambi nel corso della vigenza della comunione ma soprattutto sono potenzialmente destinati a divenire proprietà o individuale di uno o dell'altro coniuge, senza che sia rilevante in sede di divisione chi dei due avesse a suo tempo acquistato quel bene.

Il creditore che volesse agire anche nei confronti del coniuge dello stipulante deve dimostrare non solo che il convenuto è coniuge dello stipulante e che l'obbligazione era nell'interesse della famiglia, ma anche che i beni della comunione non sono sufficienti e, soprattutto, che l'unico debitore principale, il coniuge stipulante, non ha lui adempiuto l'obbligazione, contrattualmente a suo, ed esclusivamente suo, carico.

La differenza tra gli atti attuativi di accordi nel regime di cui all'art. 144 c.c. e gli atti attuativi o meno di accordi nel regime della comunione dei beni sta, nel primo caso (art. 144 c.c.) l'atto asseritamente attuativo dell'accordo ha rilevanza (esterna), nei confronti del creditore, alla condizione che gli dimostri di aver fatto ragionevole affidamento sul fatto che il coniuge stipulante abbia agito anche in nome e per conto dell'altro coniuge. Nel secondo caso (beni in comunione) il creditore che volesse agire anche nei confronti del coniuge dello stipulante deve dimostrare soltanto che il

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15 convenuto è coniuge dello stipulante, che l'obbligazione era nell'interesse della famiglia, che i beni della comunione sono sufficienti e che l'unico debitore principale, il coniuge stipulante, non ha adempiuto l'obbligazione, contrattualmente a suo carico.

6. - Nel matrimonio, secondo l'art. 159 c.c. il regime patrimoniale legale della famiglia è quello della comunione dei beni, salvo diversa convenzione stipulata a norma dell'art. 162 c.c. “forma delle convenzioni matrimoniali”. La dicitura che il codice civile sceglie per riferirsi agli accordi con cui i coniugi prediligono all'atto del matrimonio il loro regime patrimoniale è quello della “convenzione matrimoniale”, la cui rilevanza esterna, cioè il fatto di essere opponibile ai terzi, è data dalla sua forma e non dall'accordo di per sé.

Riguardo a ciò l'art. 162 c.c., comma 1, prevede che le convenzioni in questione “debbano essere stipulate con atto pubblico sotto pena di nullità” e non possono essere opposte ai terzi quando non risultano annotate a margine dell'atto di matrimonio. É il notaio che ha l'obbligo di provvedere entro trenta giorni a richiedere l'annotazione ( art. 34-bis disp. att. c.c.). Purtroppo, ad oggi, il regime di separazione è molto più utilizzato rispetto a quello della comunione, portando si, ad un impiego inferiore delle convenzioni per il regime della comunione convenzionale.

Le convenzioni matrimoniali in genere vengono stipulate contestualmente o successivamente al matrimonio, ma non è escluso, secondo la legge, che la convenzione con cui si sceglie il regime patrimoniale, alternativo a quello legale, possa essere stipulata anche prima del matrimonio. Ciò viene dedotto

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16 dall'art. 163 c.c., comma 1, ”Le modifiche delle convenzioni matrimoniali, anteriori o successive al matrimonio, non hanno effetto se l'atto pubblico non è stipulato con il consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni medesime, o dei loro eredi”.

Chiaramente una convenzione stipulata anteriormente al matrimonio si atteggia come patto prematrimoniale, regime alternativo a quello legale, che sta assumendo una forte rilevanza nel nostro ordinamento. In questa circostanza, la convenzione sarà annotata a richiesta del notaio rogante entro trenta giorni dal successivo matrimonio. Nel caso in cui il matrimonio non si verificasse la convenzione non avrà alcuna efficacia.

In questo articolo, vi è un richiamo alle “persone” o “loro eredi” che possono essere “parti” in una convenzione matrimoniale anteriore o successiva al matrimonio e ciò risulta del tutto irrilevante, in quanto, con la morte di un coniuge viene meno la convenzione matrimoniale e qualsiasi altro problema, perché d'altronde, la morte del coniuge, produce lo scioglimento del matrimonio, togliendo così interesse a qualsiasi mutamento del precedente regime pattizio.

7. - Si parla di accordi predivorziali in senso stretto per riferirsi specificamente ai patti stipulati tra coniugi nel corso del matrimonio in vista dell' eventuale divorzio e di accordi prematrimoniali per riferirsi ai patti stipulati prima del matrimonio per disciplinare preventivamente l' eventuale futura crisi coniugale. In entrambi i casi siamo in vista del fallimento dell' unione matrimoniale.

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17 tipo di accordo è avvilita dalla mancanza di una disciplina legale ad hoc e da un interpretazione dei principi generali nel suo complesso ostile a riconoscere validità agli accordi predivorzili compresi quelli prematrimoniali.

Nell’opinione della giurispudenza (ma anche di buona parte della dottrina) ciò che accomuna l’ostilità verso gli accordi predivorzili e prematrimoniali è la loro ritenuta nullità. Questi accordi, secondo l’orientamento maggioritario, sarebbero nulli perchè oggettivamente diretti a condizionare la libertà dei coniugi i quali, viceversa, dovrebbero restare sempre liberi di poter accedere alle tutele specifiche previste dalla legge, soprattutto nel momento della crisi del rapporto coniugale.

Contro l’opinione maggioritaria si è formata, ormai da anni, un consistente fronte di esaltazione dell’autonomia negoziale dei coniugi in questo settore che, ha fatto breccia in qualche decisone della giurisprudenza. Il principio della nullità degli accordi in senso ampio predivorzili è stato affermato finora in giurisprudenza.

Una delle decisioni in argomento (Cass. Civ., Sez. I, 11 giugno 1981, n. 37777) affermava il principio secondo cui l' assegno di divorzio è

indisponibile prima dell' inizio del relativo giudizio con la conseguenza che vanno considerati sempre invalidi gli accordi dei coniugi intesi a stabilire il

7. ( Foro.it., 1982,I,184,nota di DI PAOLA) L'assegno di divorzio è indisponibile prima dell' inizio del relativo giudizio tanto nella sua parte assistenziale quanto nella parte risarcitoria e compensativa; pertanto vanno considerati invalidi gli accordi dei coniugi separati intesi a stabilire il regime economico non solo per il contestuale periodo di separazione ma anche per quello successivo al giudizio di divorzio. Lo scioglimento del matrimonio non dipende dalla mera volontà delle parti, non esistendo un divorzio consensuale; e pertanto per il suo corretto funzionamento, deve essere assicurata ai soggetti la libertà di invocare, pur nei limiti del sistema, l' inderogabilità dei diritti e dei doveri connessi con il matrimonio, indipendentemente da accordi fatti in vista di promesse sistemazioni future o di vantaggi patrimoniali.

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18 regime economico divorzile.

In realtà il riconoscimento dell' assegno di divorzio è collegato al principio dispositivo per quanto riguarda la richiesta del suo riconoscimento e la pretesa per il suo adeguamento, cosicché la sua manifestazione di volontà delle parti deve essere tenuta in conto dal giudice, negandosi invece generale efficacia vincolante agli accordi fra ex coniugi. Per cui, se conclusi prima della sentenza, gli accordi sull’assegno di divorzio anche se si riferissero alle componenti risarcitoria e compensativa non sono riconosciuti validi, in quanto il muovente che li ha determinati appare legato al condizionamento del contegno processuale delle parti.

Anche la rinuncia alla possibilità di chiedere la revisione dell' assegno intervenuta fra i coniugi, prima della pronunci del divorzio è inefficace. In sostanza, gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio prima che esso sia pronunciato hanno sempre lo scopo o quanto meno l'effetto, di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio riguardante uno status, limitandone la libertà di difesa.

Separazione consensuale e divorzio congiunto in rapporto alla negoziazione assistita

SOMMARIO: 1. - La separazione e divorzio prima della riforma. 2. - La separazione consensuale. 2.1. - L’udienza presidenziale. 2.2. - Il contenuto dell’accordo di separazione. 2.3. - L’omologazione del tribunale. 2.4. - Gli accordi non omologati. 3. - Il divorzio congiunto 3.1. - Il procedimento. 4. - Gli accordi di separazione e divorzio nel loro contesto processuale. 5. - La natura della separazione consensuale e del divorzio a domanda congiunta. 6.

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19 - La natura negoziale degli accordi di separazione e la giurisprudenza. 7. - La clausola “rebus sic stantibus” ed il contenuto necessario ed eventuale degli accordi di separazione e divorzio. 8. - I vizi della volontà. 9. - La nullità dei contratti. 9.1. - Contrarietà alle norme imperative o nullità stabilita dalla legge. 9.2. - La mancanza dei requisiti del contratto. 9.3. - L’illiceità della causa o del motivo comune che ha determinato le parti a concludere il contratto, contratto in frode. 9.4. - L’oggetto impossibile, illecito, indeterminato, indeterminabile. 10. - La stabilità degli accordi. 11. - L’inadempimento degli accordi. 12. - La rinuncia all’assegno di mantenimento.

1. - Prima della riforma avvenuta con il Decreto legge n.132 del 2014, convertito con modifiche nella Legge n. 162 del 2014, le forme concordate di separazione e divorzio erano prive di effetti giuridici senza la partecipazione del giudice mediante il suo provvedimento nella composizione collegiale del tribunale, in materia familiare.

Le forme d'intervento del giudice diversificano l'esperienza della separazione consensuale da quella del divorzio congiunto.

Nel caso di separazione consensuale, l'accordo perfezionato dai coniugi è avviato su ricorso congiunto alla volontaria giurisdizione, forma alternativa alla negoziazione assistita, subordinata all'art. 150, 2° comma c.c. e all'art. 158 dello stesso codice tutt' ora in vigore.

L'accordo di separazione per produrre i suoi effetti deve essere omologato per decreto dal giudice (che può intervenire sui contenuti dell'accordo) esclusivamente sull'affidamento e mantenimento dei figli minori,

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20 convocando così i coniugi per suggerire modifiche all' accordo, nel caso in cui fossero ritenute poco opportune nell'interesse dei figli minori.

Il caso del divorzio congiunto, disciplinato dall'art. 4, 16° comma, della legge n. 898 del 1970, prevede che la domanda congiunta dei coniugi conduca ad una sentenza nella quale ci sia la rispondenza delle soluzioni suggerite dai coniugi innanzitutto all'interesse primario e indisponibile del minore, ed, in secondo luogo, alla verifica dell'esistenza di presupposti atti allo scioglimento del matrimonio.

In entrambi i casi l'intervento del giudice è necessario, anche se le loro decisioni si orientano in primis alla verifica della rispondenza degli accordi, nell'interesse del minore.

Nell'ipotesi della separazione consensuale, se il tribunale non ravvisa una rispondenza degli accordi stabiliti nell'interesse del minore esprime semplicemente un rifiuto, al contrario del divorzio in cui il giudice converte il rito da congiunto a contenzioso, ai sensi dell'art. 4, 8° comma, legge 898 del 1970.

2. - Il procedimento di separazione consensuale si articola in una prima fase a carattere presidenziale, in cui il presidente sente le parti, procura di conciliarle e, in caso di esito negativo, raccoglie nel verbale d'udienza il consenso dei coniugi a procedere alla separazione convalidando le condizioni concordate tra le parti.

La seconda fase, di stampo ufficioso, è finalizzata all'omologazione dell'accordo da parte del collegio attraverso l'emanazione di un decreto mediante il quale, il tribunale, assolve una funzione di controllo.

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21 Il giudizio in esame si introduce con ricorso che, di regola, è depositato presso la cancelleria o attraverso lo strumento telematico da entrambi i coniugi con un unico atto (ricorso congiunto), od anche, seppur raramente, da soltanto uno di essi (ricorso unilaterale).

La dottrina maggioritaria nega che la domanda possa essere presentata da un procuratore speciale, non solo sulla base del dato legislativo ricavabile dall'ultimo comma dell'art 150 c.c.:“il diritto di chiedere la separazione giudiziale o l'omologazione di quella consensuale spetta esclusivamente ai coniugi”, ma anche in forza della natura personalissima del diritto fatto valere e della necessità di una comparizione personale dei coniugi all'udienza (art. 707, comma 1°, c.p.c.); la natura personalissima dei diritti familiari, infatti impedisce di configurare un rapporto di rappresentanza sostanziale espresso dall’ex art. 77 c.p.c. (rappresentanza del procuratore e dell'institore) che si pone come presupposto della rappresentanza sul piano processuale.

La separazione consensuale si configura come un procedimento di volontaria giurisdizione a carattere non contenzioso, per cui non dovrebbe sussistere la necessità della difesa tecnica, anche se, nella pratica, non è così. È difficile prescindere dall'assistenza di un difensore per il raggiungimento di una regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali che non racchiuda al proprio interno aspetti pregiudizievoli per un coniuge e in particolare per i figli.

Per assicurare maggiore garanzia alle parti comunque coinvolte nella separazione, ed anche nel rispetto del principio secondo cui le parti non possono stare in giudizio dinanzi al Tribunale senza il ministero di un

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22 difensore (art. 82 c.p.c.), appare preferibile optare per l'ausilio della difesa tecnica in ogni stato del procedimento.

L'atto introduttivo del giudizio di separazione consensuale, racchiude generalmente, oltre i requisiti contemplati all'art. 125 c.p.c., le condizioni dell'accordo raggiunto dai coniugi attinente ai rapporti personali ed economici tra loro, nonché nell'interesse dei figli.

Il ricorso è indirizzato al presidente del Tribunale, il quale, entro i cinque giorni successivi, fissa con decreto l'udienza di comparizione dei coniugi che dovrebbe tenersi entro il termine ordinario di novanta giorni dal deposito del ricorso presso la cancelleria, applicando analogicamente l'art. 706, comma 3° c.p.c..

Essendo lo stesso un procedimento a base consensuale, non appare necessaria la notifica del ricorso e del passivo decreto all'altro coniuge dal momento che sarà il legale a comunicare la data dell'udienza alle parti. La notifica diviene necessaria nel momento in cui la domanda è effettuata da uno soltanto dei coniugi. In tal caso il presidente fisserà il termine per la notifica senza però assegnare un termine in favore del resistente per il deposito di una memoria difensiva di cui non vi è alcuna necessità nel procedimento di separazione consensuale.

Per quanto riguarda i criteri di competenza, in caso di ricorso congiunto, la perizia spetta al Tribunale del luogo di residenza o domicilio di entrambi i coniugi se gli stessi sono residenti o domicilianti nel medesimo luogo, altrimenti sorge una competenza facoltativa in capo ai Tribunali dei rispettivi luoghi di residenza o domicilio. Nel caso in cui la domanda sia presentata da un solo coniuge, la competenza spetta al Tribunale del luogo di residenza o

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23 domicilio dell'altro coniuge, cioè di quello che non propone la domanda. Se il ricorso è depositato da uno soltanto dei coniugi e la controparte ha la propria residenza fuori dal territorio italiano, viene in rilievo il foro del luogo di residenza o domicilio del ricorrente, applicandosi il foro sussidiario previsto all'art. 18, comma 2° c.p.c. Se poi entrambi i coniugi sono residenti all'estero, la competenza spetta a qualunque Tribunale della Repubblica italiana.

Con la lettura combinata degli art. 28 c.p.c. e 70, n. 2, c.p.c., la competenza per territorio è inderogabile dalle parti, con la conseguenza che la relativa eccezione seguirà la disciplina contenuta nell'art. 38, comma 1°, con la possibilità per il giudice di rilevare d'ufficio l'incompetenza.

2.1. - L'udienza presidenziale si configura come il momento formale in cui i coniugi confermano dinnanzi al presidente del Tribunale la volontà di separarsi. La presenza fisica dei coniugi all'udienza, assistiti da un difensore, è di primaria importanza poiché consente di prestare il proprio consenso alla separazione innanzi al presidente del Tribunale. L’intervento di entrambi viene interpretato come un onere di comparizione, alle quali le parti devono adempiere personalmente.

Qualora uno, od entrambi i coniugi, non si presenti all'udienza prospettando però un giustificato motivo (ad esempio: l'indisposizione per malattia, stato di detenzione di un coniuge, etc.), il presidente del Tribunale fissa una nuova udienza, senza che da tale assenza possa derivare un pregiudizio per le parti. Se il giorno dell'udienza, senza invocare un giustificato motivo, il ricorrente

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24 non si presenta, la sua assenza può essere considerata come una rinuncia agli atti del giudizio con successiva cessazione della materia del contendente, in quanto viene a mancare uno dei presupposti fondamentali, cioè il consenso dei coniugi a separarsi. Nonostante ciò resta invariata la possibilità degli stessi di riproporre la domanda di separazione (consensuale o giudiziale) in un successivo momento.

Nel caso di assenza del coniuge convenuto, è lasciata alla discrezionalità del presidente la scelta tra la fissazione di una nuova udienza oppure l'archiviazione della domanda per mancanza del consenso.

Di regola, entrambi i coniugi presenziano il giorno dell'udienza, alla quale il presidente, esperisce il tentativo di conciliazione, nel caso di mancata effettuazione, ciò comporta la nullità del giudizio; nel caso della mancata conciliazione in questa sede, l'eccezione di nullità dovrà essere sollevata dalla parte interessata. Nel caso, invece, che la conciliazione si ottenga, il presidente dispone la redazione di un apposito processo verbale che comporta la cessazione della materia del contendere. Quando invece, il tentativo non va in porto, il presidente, chiede ai coniugi la conferma della volontà di separarsi, ed avendone ricevuto una risposta positiva, provvede a redigere, attraverso la collaborazione del cancelliere, il verbale contenente la prestazione del consenso e le condizioni concordate dai coniugi.

La dottrina afferma che il giudice può indicare ai coniugi la necessità di mutare le condizioni dell'accordo poiché, nell’eventualità che l'accordo non fosse modificato dagli stessi coniugi, rischierebbe di non essere omologato.8

8. Per evitare un dispendio di attività processuale, il presidente , può già sollevare all’udienza alcune questioni processuali o di merito che potrebbero incidere sull’accordo rendendolo invalido: MANDRIOLI, Il procedimento di separazione consensuale, cit., p. 51,

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25 Nulla preclude però ai coniugi di modificare consensualmente l'accordo di separazione od aggiungere nuove clausole a quelle già contenute nel ricorso introduttivo, tenendo di conto anche dei consigli provenienti dal presidente del Tribunale.

La dottrina prevalente, tende ad ammettere l'intervento del p.m. nel procedimento, soprattutto nel caso in cui nel giudizio di separazione siano coinvolti figli minori (art. 70 c.p.c.). L'organo inquirente svolge un ruolo di garante a tutela degli interessi preminenti della prole, esprimendo un parere negativo in ordine alla concessione dell'omologa qualora si ravvisi un contrasto di una clausola dell'accordo nell'interesse dei figli minori, ovvero rilevi un vizio di carattere processuale nel giudizio di separazione consensuale.

Se la revoca avviene da parte di entrambi i coniugi, il presidente ordina l'archiviazione del procedimento di separazione, anche se ciò non preclude per ciascun coniuge la possibilità di ripresentare in un secondo momento la domanda di separazione giudiziale o consensuale nell’ipotesi in cui subentrasse un nuovo accordo.

Nel caso in cui la revoca del consenso, giungesse da uno solo dei coniugi, sarebbe preferibile ritenerla rilevante solo se arrivasse prima dell'udienza presidenziale, oppure all'udienza stessa, ma non successivamente. Venendo meno il consenso in sede d'udienza, verrebbe così a mancare un requisito fondamentale, in mancanza del quale il Tribunale non può procedere all'omologa della separazione coniugale. La revoca del consenso di un

nota 14., anche se a parere di DI BENEDETTO, op. cit., p.357, il presidente del tribunale non è fornito del potere di riscontrare eventuali vizi del procedimento o illegittimità a cui è affetto l’accordo dei coniugi; queste eccezioni a parere dei suddetti autori potranno essere rilevate solo in occasione dell’omologa da parte del collegio.

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26 coniuge non sarebbe poi ammissibile successivamente all'udienza, tenendo conto anche del fatto che il passaggio dalla fase presidenziale a quella di omologa avviene d'ufficio, senza possibilità per il coniuge d'intervenire nel procedimento.

2.2. - Nell'accordo di separazione si può riconoscere un contenuto necessario ed un contenuto eventuale. Il contenuto ”necessario“ racchiude in sé il consenso dei coniugi a voler vivere separati in presenza, con le condizioni relative al mantenimento, all'educazione, all'affidamento e al diritto di visita della prole. Ovviamente, nel caso in cui dal matrimonio non sia nata prole ed i coniugi sono autosufficienti da un punto di vista economico e non vi sia alcuna contitolarità di immobili, mobili o mobili registrati, l'accordo conterrà soltanto il consenso a separarsi.

Il contenuto “eventuale“ include le altre clausole dell' accordo coniugale, cioè quelle relative al contributo di mantenimento versate da un coniuge all'altro, il trasferimento di un immobile, al versamento di una somma di denaro volta alla restituzione di spese sostenute da un coniuge in costanza di matrimonio. Questo risulta un contenuto inderogabile, che non può prescindere dall' esame del Tribunale perché pertinente a diritti indisponibili, come lo status coniugale, la tutela dell'interesse dei figli ed un contenuto relativo ai rapporti patrimoniali fra i coniugi.

La giurisprudenza, ha aggiunto che, l’accordo coniugale può contenere, per giunta a quelle tipiche, ulteriori pattuizioni che si trovano in connessione anche occasionale con la separazione dei coniugi.

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27 oggetto diritti patrimoniali, i quali, pur non essendo legati direttamente alla qualità del coniuge e non attinente alla separazione, hanno comunque lo scopo di definire i rapporti di natura economica intercorrenti fra i coniugi in occasione della separazione consensuale. Per tali finalità, ai coniugi è consentito compiere atti di disposizione dei beni patrimoniali che riceveranno, mediante l’omologa, la garanzia del Tribunale, il quale verificherà soltanto la conformità delle clausole ai doveri inderogabili previsti all’art. 160 c.c. (regime patrimoniale legale tra coniugi).

Un aspetto caratteristico dell'accordo, riferito alla validità delle clausole volte a trasferire la titolarità di diritti reali immobiliari ad uno dei coniugi al fine di concorrere al suo mantenimento o a quello del figlio minore, ovvero a titolo transattivo.

Ad oggi, appare frequente la tendenza dei coniugi ad effettuare trasferimenti di questa portata dovuti dalla favorevole tassazione fiscale contenute in un atto giudiziario, che la legge consente; anche se parte della giurisprudenza di merito esclude la validità di tali trasferimenti adducendo che la sfera della giurisdizione non si estende all'attività di ricevimento di atti negoziali e che il giudice non può esercitare il potere di attribuire pubblica fede ad una dichiarazione negoziale ove questa non rientri nelle condizioni necessarie di separazione.

2.3. - Il passaggio alla fase di omologazione di fronte al collegio avviene ex officio. Questo procedimento di omologazione, che si svolge in camera di consiglio senza la presenza delle parti e dei loro difensori, prende avvio con la relazione del presidente al collegio e necessita, preventivamente,

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28 dell'acquisizione delle conclusioni del p.m., al quale viene trasmesso il fascicolo di causa al termine dell'udienza presidenziale.

L’omologazione, è una condizione di efficacia della separazione consensuale che istaura lo status di coniuge separato, sostanziandosi in un controllo sulla regolarità formale del giudizio (si pensi ai controlli inerenti la competenza territoriale dell'autorità giudiziaria, alla verifica della sottoscrizione del ricorso e del verbale d'udienza da parte dei coniugi, all’effettivo svolgimento del tentativo di conciliazione, alla comunicazione del fascicolo al P.M.) e sull’opportunità dell'accordo raggiunto relativamente all’interesse dei figli, verificando le condizioni riguardo all' affidamento, al diritto di visita, ed al mantenimento.

Il Tribunale dovrà verificare la sussistenza del consenso e la libertà nell’esprimerlo, verificare che l'accordo non presenti profili di nullità per contrarietà a norme imperative o all'ordine pubblico ed accertare in maniera più incisiva la congruità dell'accordo nell'interesse morale e materiale dei figli minori.

Se il controllo di legittimità ed opportunità sui rapporti tra genitori e figli si conclude positivamente, il Tribunale pronuncia decreto motivato che, acquista efficacia esecutiva, decorso il termine per proporre reclamo ai sensi dell' art. 741 c.p.c.. Generalmente il decreto non viene né comunicato e/o notificato alle parti né al P.M. con la conseguenza che in difetto di comunicazione e/o notificazione è da ritenere che il termine per presentare reclamo decorra dalla pubblicazione del decreto in cancelleria.

La separazione consensuale comporta acquisizione dello “status” di coniuge separato, con la conseguenza che, in capo alle parti, sorgano gli obblighi

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29 derivanti dall'accordo di separazione. Per consentire il rispetto delle clausole dell'accordo coniugale, non vi è dubbio che il decreto di omologa sia munito di efficacia esecutiva al pari di ogni titolo giudiziale e che costituisca al tempo stesso un titolo idoneo all'iscrizione di ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c.. Lo stesso decreto di omologa, nel caso di trasferimenti di diritti reali immobiliari, può anche valere come titolo idoneo per la trascrizione nei registri immobiliari.

In caso di inadempimento dell’onorato, il coniuge avente diritto, può chiedere la pronuncia della misura del sequestro (art. 671 c.p.c.) comunque applicabile alla separazione consensuale.

Secondo il dettato normativo contenuto nell’art. 158, comma 2°, c.c. “Quando l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di questi il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell'interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’omologazione”.

Il punto principale della norma lo si coglie nella salvaguardia dell'interesse della prole, la quale deve essere tutelata maggiormente sia sotto il profilo personale che patrimoniale quando si scioglie la famiglia d’origine. Quindi, il Tribunale deve prendere in considerazione l'entità del contributo mensile versato dal genitore al figlio, gli aspetti patrimoniali in grado di influire sul mantenimento della prole non autosufficiente economicamente. Il Tribunale deve valutare l’idoneità delle condizioni relative all’affidamento del minore, individuandone ogni aspetto rilevante, tra cui spicca il rispetto del diritto di visita al genitore non affidatario, l’assegnazione della casa coniugale e

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30 comunque ogni altra clausola dell’intesa coniugale che incida sulla qualità di vita del minore.

2.4. - I provvedimenti adottati in tema di separazione hanno efficacia rebus sic stantibus e sono pertanto suscettibili di modifica al variare della situazione sostanziale; di solito la modifica delle condizioni di separazione avviene seguendo le forme e il procedimento dell’art. 710 c.p.c.. Riguardo a ciò, è sorta la questione se la modifica possa essere efficace anche sulla base di un intesa fra i coniugi, senza passare per la via giudiziaria dell’art. 710 c.p.c.; dovendo valutare la legittimità dei patti con cui le parti siano giunte in un momento anteriore, contestuale o posteriore all’omologazione e non li abbiano immesso nell’accordo di separazione.

Riguardo a questo si è aperto un dibattito in cui la dottrina prevalente sostiene che, non tutti gli accordi che ampliano e completano quello principale siano invalidi, ma semmai quei patti attinenti all' affidamento e al mantenimento del figlio, che hanno l’abitudine di essere invalidi qualora modifichino il regime di affidamento, ovvero diminuiscono o azzerino il contributo di mantenimento della prole.

Diversa è la posizione della giurisprudenza sugli accordi non esaminati dal Tribunale attinenti ai rapporti fra i coniugi, che ha fatto una distinzione tra patti aggiunti anteriormente o contestualmente all’accordo di separazione e patti successivi al decreto di omologa.

Quest’ultimi sono stati considerati validi a norma dell’art. 1322 c.c. (autonomia contrattuale) quando non superino il limite di derogabilità previsto dall’art. 160 c.c.; mentre gli accordi anteriori o contestuali sono

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31 considerati validi quando hanno ad oggetto clausole che non interferiscono con le condizioni dell’accordo omologato. Sullo stesso piano, la giurisprudenza considera invalidi gli accordi che attengono allo status coniugale perché risultano contrari ai diritti fondamentali della persona, e i patti che fissano una rinuncia alla richiesta di modifica delle condizioni di separazione poiché violano il carattere delle decisioni in materia di famiglia. In conclusione, la giurisprudenza ha affermato che solo per le situazioni inserite nel contenuto necessario dell’accordo, come lo status coniugale, mantenimento e affidamento dei figli, è imprescindibile il controllo del Tribunale ed i patti successivi dovrebbero trovare un limite nell’indisponibilità di tali diritti.

Al contrario, gli accordi che hanno per oggetto i rapporti patrimoniali fra i coniugi sono validi in quanto rientrano nella disponibilità delle parti, con la conseguenza che i patti modificativi posteriori all’accordo di separazione assumono validità ed efficacia anche se non omologati.

3. – L’art. 4, comma 16°, legge sul divorzio, disciplina la domanda congiunta di divorzio, volta ad estinguere il vincolo coniugale che contiene al proprio interno la regolamentazione dei rapporti economici ed inerenti la gestione della prole.

Con questo istituto, il nostro ordinamento, una volta accertato il venir meno della comunione materiale e spirituale fra le parti, consente ai coniugi di sciogliere il rapporto matrimoniale, attraverso un procedimento snello che comporta una deflazione del contenzioso divorzile.

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32 da sola a sciogliere il rapporto matrimoniale, il quale cessa soltanto dopo la verifica compiuta dall’autorità giudiziaria sull’esistenza dei presupposti oggettivi contenuti nell'art. 3 legge sul divorzio.

Di fatto, il Tribunale non dove quindi fermarsi a recepire la volontà dei coniugi, o degli uniti civilmente, ma deve procedere all'accertamento dei presupposti che l'ordinamento richiede per addivenire alla sentenza di divorzio.

In teoria, nel divorzio congiunto vi è un unica domanda proveniente dalla comune volontà dei coniugi o delle parti di un unione civile, all'incirca un unica udienza che si tiene in camera di consiglio ed un accertamento dell'esistenza delle cause previste dall'art. 3 l. div., spettante al Tribunale, il quale dovrà verificare che l’accordo dei coniugi o dei partners non sia contrario alla legge o all'ordine pubblico, rifiutandosi in tal caso di recepirlo. Questo procedimento non si suddivide in due fasi, ma si svolge integralmente innanzi al Tribunale in composizione collegiale. L’istanza, rivolta al collegio, assume la forma del ricorso.

Il ricorso deve contenere l'indicazione del Tribunale adito, le generalità delle parti e dei figli avuti in costanza di matrimonio, l’oggetto della domanda, l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto, l’indicazione delle condizioni patrimoniali e personali relative ai coniugi e alla prole, le conclusioni e l'indicazione (documentale) dei mezzi di prova unitamente alla produzione delle dichiarazioni dei redditi.

Il ricorso va depositato presso la cancelleria del Tribunale del luogo di residenza o domicilio di uno dei coniugi; ricevuto il ricorso e formato il fascicolo d’ufficio, il collegio fissa con decreto la data dell’udienza. Mentre

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33 la legge espressamente prescrive l’intervento del P.M., nel giudizio di divorzio contenzioso (art. 5, comma 1°, l. div.), nulla impedisce, l'intervento dell’organo requirente nel giudizio a domanda congiunta.

Sembrerebbe comunque corretto ritenere necessario l’intervento del P.M. (al quale deve essere trasmesso dalla cancelleria il fascicolo d’ufficio) anche in tale procedimento dal momento che la sentenza che chiude il giudizio di divorzio su domanda congiunta produce i medesimi effetti della pronuncia che definisce il processo contenzioso. A rafforzare questa presa di posizione della dottrina si pone l’art. 70, comma 1°, n.2, c.p.c. il quale prevede l’intervento del P.M. Nelle cause matrimoniali, facendo sì, che il suo intervento appaia di primaria importanza, dal momento che egli ha il potere di rilevare un eventuale contrasto dell’accordo con l'interesse del figlio minore.9 L’intervento obbligatorio del P.M. determina come corollario la

competenza inderogabile per territorio del Tribunale.

Fonte di dibattito è stata la necessità dell’assistenza tecnica da parte di un legale. Nonostante parte della dottrina configuri il giudizio in esame come un procedimento di volontaria giurisdizione non conflittuale, non ritiene necessario l’ausilio di un difensore, ma è stata avvalorata l’interpretazione offerta dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti, secondo cui i coniugi non possono stare in giudizio personalmente, ma devono ricorrere all’assistenza di un difensore, che può essere anche comune per entrambe le parti ed al quale conferiscono apposito mandato.

Tale soluzione si fa gradire in ragione della natura contenziosa del

9. Il p.m. Sarebbe legittimato ad impugnare la sentenza limitatamente al capo che contiene un potenziale contrasto con l' interesse dei figli minori: TOMMASEO, Le disposizioni di diritto processuale, in BONILINI- TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio,cit., p. 757.

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34 procedimento in esame ed anche per il fatto che i coniugi non possano derogare al disposto dell'art. 82, comma 3°, c.p.c. sull’onere del patrocinio davanti al Tribunale. Sembra poi corretto ritenere che se dovessero sorgere dei contrasti fra i coniugi, l’unico difensore dovrebbe rinunciare alla difesa di entrambe le parti, onde evitare un conflitto di interessi nella materia familiare che coinvolge situazioni assai delicate.

3.1. - Il procedimento risulta molto semplice, risolvendosi in un unica udienza nella quale il giudice dovrà sentire i coniugi o le parti legate dall'unione civile, ed anche se la legge non lo impone, tentare la conciliazione fra le parti cercando in extremis di salvare il matrimonio. Qualora questa non dia esito positivo, i coniugi od i partners, provvederanno a confermare dinnanzi al collegio il contenuto del ricorso congiunto.

La mancata comparizione di una od entrambe le parti all'udienza, senza che sia stato presentato un giustificato motivo, rende improcedibile il ricorso. In tale situazione rimane comunque possibile la presentazione di una nuova istanza congiunta di divorzio, ovvero, nel caso in cui difetti la suddetta richiesta, si dovrà necessariamente passare per le fasi del procedimento contenzioso allorquando permanga l’interesse di un coniuge (o di un unito civilmente) ad ottenere la pronuncia di scioglimento del matrimonio. L’assenza di un coniuge o di uno dei due partners impedisce lo svolgimento del tentativo di conciliazione e preclude l’accertamento di un eventuale riconciliazione avvenuta fra gli stessi. Una verifica di tale tipo può dedursi solo dalle dichiarazioni rese dalle parti in udienza.

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35 venir meno dell’affectio maritalis, ossia la comunione spirituale e materiale tra i coniugi ed accertare la sussistenza del consenso allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, in presenza di una causa di divorzio prevista dalla legge.

La giurisprudenza ha ritenuto essenziale che la volontà dei coniugi o degli uniti civilmente di giungere al divorzio su domanda congiunta persista per tutto il corso del giudizio fino alla pronuncia della sentenza. Venendo a mancare il consenso a causa della revoca unilaterale, difetta un presupposto indispensabile richiesto all’art. 4, comma 16°, l. div. per arrivare allo scioglimento su domanda congiunta del vincolo coniugale o dell’unione civile, con la conseguenza che la parte avente ancora interesse ad ottenere la pronuncia di divorzio dovrà intraprendere un giudizio contenzioso, ovvero riproporre un ricorso congiunto se ancora sussiste il consenso. La soluzione non è pacifica, dal momento che la Cassazione ha precisato che in caso di revoca del consenso la domanda non arresta ed il Tribunale adito dovrà comunque pronunciarsi sul merito senza dichiarare inammissibile il ricorso, e ciò in virtù del fatto che l’altro coniuge certamente conserva interesse ad una pronuncia di divorzio.10

Con le prese di posizione della giurisprudenza di legittimità e della dottrina, sembra comunque che il dato normativo risultate dall’art. 4, comma 16°, l. div., richieda, conformemente a quanto afferma la giurisprudenza di merito richiamata sopra nell'orientamento più rigoroso, come presupposto necessario il consenso di entrambi i coniugi che deve permanere fino al

10. Cass., 8 luglio 1998, n. 6664, in Foro.it., 1998, I, c. 2370, secondo la quale la revoca del consenso è inammissibile poiché alla domanda possono rinunciare congiuntamente soltanto entrambe le parti.

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36 momento della decisione; in caso contrario il giudice non potrà fare altro che chiudere il giudizio con una dichiarazione di improcedibilità.

Venendo alla fase istruttoria, in linea di principio nel giudizio di divorzio a domanda congiunta, non dovrebbe trovare spazio lo svolgimento di un attività istruttoria in quanto le parti hanno già regolato, riportandoli nel ricorso, i rapporti personali e patrimoniali tra loro ed inerenti alla prole. Generalmente risultano sufficienti per la verifica dell’esistenza dei presupposti indicati dalla legge le prove documentali unite alla domanda introduttiva, ma ciò non toglie che un’attività istruttoria, in senso stretto, non possa svolgersi. Si pensi ai casi in cui la domanda di divorzio si fonda su circostanze difficili da provare in via documentale od ancora, a seguito delle dichiarazioni rese dai coniugi o dai partners in udienza, emergano dubbi sulla sussistenza della causa di divorzio tanto da richiedere un approfondimento in sede istruttoria. Ne si deduce che, dopo aver interpellato le parti all’udienza fissata, il giudice, qualora ne ravvisi l’opportunità, provvederà a disporre gli accertamenti istruttori necessari a valutare l’esistenza della causa di divorzio, fissando un’altra udienza ed un termine per il deposito delle memorie scritte.

L’art. 315 bis c.c. (diritti e doveri del figlio), appare essenziale l’ascolto del minore da parte del Tribunale anche nel giudizio di divorzio su domanda congiunta, onde evitare disparità di trattamento coi procedimenti di separazione giudiziale e divorzio contenzioso che devono comunque tutelare l’interesse del minore coinvolto. Nel giudizio di divorzio su ricorso congiunto, maggiori possono essere i rischi che l’accordo coniugale si trovi in contrasto con l’interesse della prole, con la conseguenza che appare più

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37 penetrante la necessità per il Tribunale d’acquisire l’opinione della prole.

4. - Separazione e divorzio sono due passaggi di questo percorso di fuoriuscita dal matrimonio. Tutto sommato, però, il divorzio è solo eventuale, infatti nulla impedisce a due coniugi di continuare a vivere sempre insieme risultando solo separati legalmente.

Le modalità giudiziarie consensuali sono la separazione consensuale, il divorzio “a domanda congiunta”, nonché la precisazione congiunta delle conclusioni nella causa di separazione o di divorzio (ove non vi sia stata la trasformazione del rito da contenzioso a consensuale).

La separazione consensuale è regolamentata dal principio che ”la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza omologazione del tribunale (art. 158 c.c.)” e che quindi, per separarsi consensualmente, i coniugi devono presentare un ricorso al tribunale e confermare davanti al presidente le condizioni concordate. Il tribunale omologa l’accordo con un decreto. Il giudice ha il potere di chiedere alle parti di modificarlo, ovvero di rifiutare l’omologazione, solo nella parte in cui l’accordo si presenta in contrasto con l’interesse dei figli.

La domanda congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è prevista nell’art. 13 della legge sul divorzio, in cui si prescrive che “la domanda congiunta […] che indichi anche le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici, è proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio”. Il tribunale decide con sentenza (a meno che non ritenga le condizioni relative ai figli in contrasto con il loro interesse) decidendo così di adottare d’ufficio eventuali provvedimenti provvisori e urgenti, dando

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38 disposizioni per il prosieguo del procedimento nelle forme contenziose. Il nostro sistema giuridico non conosce il divorzio consensuale, riferendosi al fatto che “la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostruita”. In realtà questa affermazione perde di credibilità nel momento in cui non è ipotizzabile che un tribunale possa rifiutare il divorzio a coniugi che lo chiedono e non è più sostenibile dopo gli interventi di degiurisdizionalizzazione operati con il decreto legge del 12 settembre 2014, n. 132 convertito dalla legge di novembre, n. 162.

L’art. 3 della legge sul divorzio è stato riformulato con la legge 6 maggio 2015, n. 55, chiamata sul “divorzio breve”. Con la nuova riformulazione è stata operata una sensibile riduzione dei tempi minimi per poter accedere al divorzio dopo la separazione. Per la proposizione della domanda di divorzio (preceduta dalla separazione), il periodo di separazione legale deve essersi protratto non più da tre anni, come veniva dichiarato nel precedente testo della legge, ma da almeno dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale, e di sei mesi nel caso di separazione consensuale. Tutto questo vale anche nel caso in cui il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale: ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzioni di negoziazione assistita da un avvocato (uno per parte), oppure dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale di stato civile.

Una volta ottenuta e omologata la separazione consensuale, i coniugi potrebbero divorziare già dopo sei mesi. Infatti si tratta di un periodo talmente ridotto da rendere inspiegabile il permanere della duplicazione delle

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