DigitCult | Scientific Journal on Digital Cultures
Published 28 December 2017
Correspondence should be addressed to Enrico Pedemonte. Email: [email protected]
DigitCult, Scientific Journal on Digital Cultures is an academic journal of international scope, peer-reviewed and open access, aiming to value international research and to present current debate on digital culture, technological innovation and social change. ISSN: 2531-5994. URL: http://www.digitcult.it
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Piattaforme digitali: la dittatura vorace che piace
Abstract
A livello internazionale tra le élites cresce l’allarme per l’eccessivo potere economico-finanziario dei colossi dell’economia digitale. Le autorità Antitrust cominciano a porsi il problema di modificare le norme anti-monopoli per adeguarle al nuovo contesto dell’economia delle reti, ma a tutto ciò non corrisponde una adeguata consapevolezza da parte dell’opinione pubblica. Questa contraddizione si spiega analizzando il rapporto particolare che le piattaforme digitali hanno instaurato con i singoli utenti-consumatori e la loro capacità di influenzare l’immaginario collettivo. La possibilità di personalizzare i servizi forniti a ciascun utente fornisce alle piattaforme un potere inedito nel monitorare e determinare le idee dei cittadini e la loro visione del mondo. L’articolo esplora le distorsioni generate dal rapporto tra i nuovi poteri economici e i cittadini. E denuncia i rischi per la democrazia creati dallo sviluppo di monopoli digitali sempre più invasivi.
Digital Platforms: The Voracious Dictatorship That Pleases
The international elites are always more alert to the dangers coming from the big players of the digital economy. The antitrust authorities are starting to tackle the problem of changing traditional regulations concerned with real-world monopolies, however, this has not been met by a commensurate degree of awareness in public discourse. One explanation for this contradiction is the relationship which digital platforms created with their users, and their power to influence collective reasoning. Power to monitor influence ideas and thoughts they derive from personalized services tailored to the tastes, wishes and characteristics of each and every user. This article explores the distortions in behavior between the new big players and citizens. It denounces the risks for democracy created by this development of digital monopolies that are becoming ever more invasive.
Enrico Pedemonte
GiornalistaC’è un paradosso che accompagna l’evoluzione del mondo digitale. Da un lato le élites internazionali (giornali, intellettuali, un numero crescente di politici) stanno mettendo sotto processo i giganti dell’high-tech per difendere dal loro crescente potere i cittadini. Dall’altra i cittadini sembrano di tutt’altro avviso: i servizi forniti dalle aziende digitali hanno un altissimo gradimento e la discussione sui freni da porre al loro crescente potere non interessa più di tanto. Le élites culturali vogliono difendere il popolo, ma il popolo non sembra interessato a essere difeso da élites sempre meno amate.
Su questo numero di DigitCult Massimiliano Valerii sostiene, sulla base di una ricerca appena pubblicata dal Censis, che il sistema dei new media ha profondamente influenzato la formazione dell’immaginario collettivo, modificando i valori, i simboli, le icone e i miti della contemporaneità. Accanto al posto fisso, la casa di proprietà e l’automobile nuova, nella classifica dei miti più popolari troviamo lo smartphone, i social network, i selfie che ormai giocano un ruolo importante nella vita di milioni di persone.
La fotografia scattata dal Censis, e descritta da Valerii, è nitida e fornisce un’adeguata prospettiva storica. A venticinque anni dalla nascita del web i processi di personalizzazione e disintermediazione sono arrivati a maturità e hanno sancito “il primato dell’io-utente”. Ma gli eventuali guasti causati dalla nuova economia digitale non sembrano interessare l’opinione pubblica. Dalla ricerca del Censis (e da altre effettuate a livello internazionale, per esempio dal Pew Research1 negli Stati Uniti) emerge una sostanziale fiducia da parte dei cittadini nei confronti della nuova infrastruttura mediatica. L’utente si sente “in charge”: è lui a decidere cosa leggere e condividere, chi considerare “amico”, come commentare, quali programmi vedere, in che modo trascorrere il proprio tempo.
Al contrario, a livello internazionale, i giornali più prestigiosi e un numero crescente di uomini politici mandano vigorosi segnali d’allarme.
L’Economist2, in una recente inchiesta di copertina, si chiede se i social network stiano minacciando la democrazia. Negli stessi giorni, a Lisbona, la commissaria europea Margrethe Vestager ha trasformato quell’interrogativo in un’affermazione categorica: i grandi dell’high tech – ha detto3 – sono una minaccia per il tessuto democratico. Andando avanti in un elenco che potrebbe non finire mai, Rana Foroohar, opinionista del Financial Times4, ha spiegato perché sia necessario “regolamentare” le piattaforme digitali. Brian Bergstein, su Technology Review5, ha invocato nuove norme per consentire alternative a Facebook. Daniel Kishi (su The American Conservative6) ha auspicato la crescita di un movimento dei conservatori contro i nuovi monopoli digitali. Ev Elrich (su Usa Today7) ha sottolineato l’urgenza di rompere il monopolio di Google, Facebook e Amazon. Nick Srnicek (sempre sul Guardian8), ha chiesto addirittura di
1 Lee Rainie, “The Reckoning for Social Media”, 1 agosto 2017,
http://www.pewinternet.org/2017/08/01/the-reckoning-for-social-media
2 “Do Social Media Threaten Democracy?”, The Economist, 4 novembre 2017,
https://www.economist.com/news/leaders/21730871-facebook-google-and-twitter-were-supposed-save-politics-good-information-drove-out
3 “Big tech companies threaten our democracy, warns EU Commissioner Margrethe Vestager”, 7 novembre 2017, https://www.thenational.ae/business/technology/big-tech-companies-threaten-our-democracy-warns-eu-commissioner-margrethe-vestager-1.673711
4 Rana Foroohar ed Edward Luce, “Why We Need to Regulate Tech”, Financial Times, 5 novembre 2017,
https://www.ft.com/content/339a30ac-c281-11e7-a1d2-6786f39ef675
5 Brian Bergstein, “We Need More aAlternatives to Facebook”, Technology Review, 10 aprile 2017,
https://www.technologyreview.com/s/604082/we-need-more-alternatives-to-facebook
6 Daniel Kishi, “Time for a Conservative Anti-Monopoly Movement”, The American Conservative, 19 settembre 2017, http://www.theamericanconservative.com/articles/amazon-facebook-google-conservative-anti-monopoly-movement/
7 Ev Elrich, “Break-up the Google-Facebook-Amazon Web Monopoly”, Usa Today, 19 ottobre 2017,
https://www.usatoday.com/story/opinion/2017/10/19/google-facebook-amazon-time-to-break-up-web-trusts-ev-ehrlich-column/759803001/
8 Nick Srnicek, “We Need to Nationalize Google, Facebook and Amazon. Here’s Why”, The Guardian, 30 agosto 2017, https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/aug/30/nationalise-google-facebook-amazon-data-monopoly-platform-public-interest
nazionalizzare Google. Il 16 maggio, nel corso di una Conferenza indetta dal Partito Democratico, la senatrice Elizabeth Warren (in prima fila tra i candidati alle prossime presidenziali) ha detto9 che “è tempo di tornare a fare quello che fece Teddy Roosevelt (all’inizio del secolo scorso, ndr): riprendere di nuovo in mano il bastone dell’Antitrust”.
Si potrebbe andare avanti a lungo con le citazioni di articoli, saggi o libri pubblicati negli ultimi mesi contro i grandi dell’high tech. Ma c’è qualcosa di anomalo e di asimmetrico in questa ondata di grida d’allarme: mentre gli esperti si sbracciano indicando i pericoli connessi al nuovo capitalismo digitale, l’opinione pubblica appare del tutto ignara e inconsapevole. Contenta e beata, verrebbe da dire, a godersi i servizi – spesso gratuiti – offerti in rete dalle grandi corporation. Perché questo scollamento?
Facciamo un passo indietro, riprendendo alcuni degli argomenti citati anche da Valerii. Se dovessi sintetizzare in poche righe quanto è accaduto negli ultimi venticinque anni, con l’irruzione della rete nelle nostre vite, mi limiterei a registrare un paio di svolte cruciali.
La prima svolta – annunciata fin dall’inizio degli anni Novanta – è stata certamente (come rileva Valerii) la personalizzazione dei media e l’emergere del consumatore-produttore di informazione (il prosumer di Alvin Toffler10), cioè l’utente che naviga, si informa ma contemporaneamente produce egli stesso informazione attraverso commenti, like, condivisione di testi e immagini. Una (probabile) conseguenza di questo fenomeno è stato un rapido peggioramento del rapporto tra massa ed élites: se ogni cittadino può esprimere la sua opinione su qualunque argomento esattamente come un premio Nobel, allora le competenze assumono meno valore, la fiducia negli esperti diminuisce e crolla la deferenza verso ogni casta: partiti, giornali, scienziati, economisti…
La seconda svolta (forse ancora più importante della prima e certamente più inattesa), maturata negli ultimi dieci anni, è stata la nascita e il dilagare delle piattaforme web (Google, Facebook, Amazon, Uber, Netflix…) che non solo hanno amplificato in modo estremo la personalizzazione di ogni servizio al consumatore, ma hanno dato il via a una profonda trasformazione del tessuto economico. Tanto che numerosi autori parlano ormai di “capitalismo delle piattaforme”11, una nuova economia in forte espansione che ogni anno cresce a due cifre e consente a poche grandi corporation di drenare quote crescenti di ricchezza.
Lasciatemi riassumere in poche righe alcuni dei problemi che stanno suscitando allarme nel mondo. Il primo problema è costituto dall’enorme potere economico che i colossi del digitale stanno concentrando su di sé. Sommando la capitalizzazione in Borsa dei cinque grandi (Apple, Amazon, Google, Facebook, Microsoft) si ottiene una cifra superiore a quella del Pil di Francia e Gran Bretagna, e di poco inferiore a quello della Germania, che è la quarta potenza economica del mondo. La crescita di questi giganti procede a ritmi giustificati solo dall’assenza di una vera concorrenza: solo per fare un esempio, nel terzo trimestre 2017 Facebook ha registrato un aumento del fatturato del 47%, e un margine operativo di circa il 50% del fatturato. L’incredibile massa di profitti accumulata da queste aziende consente loro non solo di acquistare a cifre record qualunque concorrente (l’acquisto di Whatsapp da parte di Facebook per 19 miliardi di dollari è emblematico) ma anche di entrare in settori limitrofi senza incontrare resistenza. Solo per citare pochi casi: Facebook e Amazon nella produzione di contenuti, Google nell’auto e nella sanità.
Nell’ultimo decennio lo strapotere delle grandi aziende digitali ha avuto un impatto devastante su gran parte dell’industria legata all’editoria12 e più in generale alla creatività (un problema per giornalisti, musicisti, autori, registi, fotografi) e al commercio (piccoli e grandi
9 Senator Elizabeth Warren, Center for American Progress Ideas Conference, 16 maggio 2017,
https://www.warren.senate.gov/files/documents/2017-5-16_CAP_Ideas_Conference_Speech.pdf 10 Alvin Toffler, The Third Wave, Bantam Books, 1980
11 Nick Srnicek, Platform Capitalism, Polity Press, 2017
12 Basti pensare che in Italia Google e Facebook assorbono i quattro quinti degli investimenti pubblicitari online. Dei 2,5 miliardi di euro complessivi, 1,8 miliardi vanno a Google, 0,2 a Facebook e solo 0,5 a tutti gli altri player nazionali, giornali compresi. https://www.ft.com/content/41a36778-cd07-11e7-b781-794ce08b24dc
distributori). Ora la stessa sorte – grazie ai rapidi progressi dell’intelligenza artificiale - potrebbe toccare a gran parte dell’economia dei servizi.
Tutto ciò naturalmente, può essere considerato semplicemente come il frutto di una sana concorrenza e del libero mercato. Queste aziende ci offrono servizi che sono un miracolo di comodità e ci cambiano la vita in meglio. Siamo noi – i cittadini-consumatori – a scegliere questi servizi ogni giorno della nostra vita. E perché non dovremmo farlo? Google ci consente di trovate un ago nel pagliaio del web (che conta ormai un miliardo di siti); grazie a Facebook possiamo comunicare con centinaia di “amici”; Amazon ci permette di fare acquisti in modo conveniente e rapido; Skype (di Microsoft) e Whatsapp (di Facebook) ci regalano telefonate ; Uber abbatte i costi delle corse; e così via.
Non c’è dunque da stupirsi se i sondaggi indicano un’estrema popolarità di queste corporation, tanto da permeare l’immaginario collettivo. Ma sta proprio qui il problema: il consenso raccolto da questi giganti è uno dei sintomi della svolta culturale che stiamo vivendo nel passaggio dal capitalismo tradizionale a quello delle piattaforme.
Nel secolo scorso i cittadini avevano a disposizione strumenti politici solidi (i partiti e i sindacati) e ideali (il marxismo) per leggere le forme assunte di volta in volta dal potere economico, e di conseguenza organizzarsi e lottare. Quella tradizione politico-culturale aveva individuato nelle grandi masse di lavoratori concentrate nell’industria l’antidoto al potere delle corporation.
Oggi i nuovi colossi dell’economia hanno un numero limitato di lavoratori spesso a reddito medio alto. E i cittadini-consumatori sono atomizzati, semplici punti terminali di una rete dove ciascuno di noi è diventato la nicchia di se stesso. Il potere economico accumulato dai colossi del digitale e l’impatto che essi hanno sulla nostra vita non hanno paragoni nella storia del capitalismo. Ma oggi, grazie alla particolare forma assunta da questo nuovo potere economico, enormi concentrazioni di ricchezza e di privilegio non suscitano ondate di sdegno. E il fatto che il nuovo potere continui a consolidarsi in un ambiente sostanzialmente privo di regole non genera sussulti di antagonismo. Perché?
Il potere economico ha sempre prodotto cultura, e ha sempre plasmato l’immaginario collettivo. Ma il nuovo potere delle piattaforme digitali ha una forma più subdola ed efficiente rispetto al passato. Il suo potere non è basato sui prodotti che ci vende. Una piattaforma non possiede i mezzi di produzione ma fornisce (e controlla) i mezzi di connessione. Secondo una definizione largamente accettata, una piattaforma è un modello di business che crea valore facilitando gli scambi tra gruppi di persone o di aziende: per lo più tra produttori e consumatori.
Rispetto al passato, lo schema è rovesciato perché i servizi che queste piattaforme ci forniscono senza chiedere soldi in cambio (la ricerca e la casella elettronica di Google, le connessione video di Skype, i social network…) o a basso costo (Amazon, Uber…) sono legati ai dati che noi forniamo loro; lo schema è rovesciato perché in questo caso noi siamo, contemporaneamente, consumatori (acquistiamo beni online); produttori (produciamo contenuti e giudizi sulla merce); e prodotti (sono i nostri dati che vengono accumulati, elaborati e venduti per ottimizzare il processo). Siamo noi stessi il prodotto che le aziende digitali “vendono” sul mercato.
Il meccanismo creato dalle piattaforme provoca una distorsione del tutto nuova nel rapporto tra potere economico e cittadini. Un tempo questo rapporto era da uno a molti. Oggi è uno a uno. Il consumatore viene seguito, studiato, blandito nei suoi desideri, accontentato. Google facilita le nostre ricerche online, anticipa i nostri desideri pre-scrivendo l’indirizzo dei siti a cui vogliamo accedere, suggerisce proposte sui prodotti a cui potremmo essere interessati, ci fornisce un menu di news costruito a misura di ciascuno di noi. Amazon ci propone merci centrate sulle nostre preferenze. Facebook asseconda i nostri desideri mostrandoci i post più graditi sulla base di un’analisi accurata delle scelte passate e ci colpisce con messaggi pubblicitari incredibilmente personalizzati.
La capacità di gestire la connessione con il mondo di ciascuno di noi fornisce alle piattaforme un potere inedito nel monitorare e determinare le nostre idee e la nostra visione del mondo. Grazie ad algoritmi continuamente aggiornati, le piattaforme non solo selezionano i messaggi da fornire a ciascuno grazie a un’attività puntiforme che è totalmente incontrollabile. È
stato necessario l’intervento di una commissione del Congresso per obbligare Facebook a rendere noti i contenuti dei messaggi pubblicitari pagati con finanziamenti di fonte russa nel corso della campagna per le presidenziali del 2016. Mentre l’attività editoriale e pubblicitaria dei giornali e delle televisioni è sottoposta a regole precise e si svolge alla luce del sole, quella delle piattaforme non solo non è regolata, ma è oggi incontrollabile.
Le grandi corporation digitali esercitato un controllo totale e riservato del rapporto che intrattengono con ogni singolo utente. Sono in grado di valutare la “customer satisfaction” in tempo reale. Non devono rendere conto a nessuno dei dati memorizzati, dei messaggi pubblicitari inoltrati agli utenti, dei test effettuati. L’opinione pubblica è per loro un campo di sperimentazione esclusivo, privo di regole, protetto dal diritto alla riservatezza. Non c’è da stupirsi se – al contrario di quanto accadeva con l’industria tradizionale – gli utenti non provano rabbia nei confronti delle grandi corporation digitali.
Cass Sunstein sostiene13 che Internet (grazie alle piattaforme) esalta la libertà del consumatore (fornendogli tutte le informazione che egli richiede) ma soffoca la libertà del cittadino (negandogli le informazioni di cui ha davvero bisogno) perché lo rinchiude nella gabbia delle idee che ha già e non gli consente di scoprire visioni del mondo alternative. Gli algoritmi che decidono la dieta mediatica di ciascuno di noi ci suggeriscono letture che ci proteggono da ogni dialettica. Sunstein dimostra, con evidenza empirica, che su Internet le persone che si immergono all’interno di una comunità culturalmente omogenea alla fine avranno sempre le stesse opinioni, solo un po’ più estreme. Questo meccanismo perverso provoca una “polarizzazione di gruppo”, che è forse la principale responsabile degli estremismi che proliferano sul web.
Il meccanismo è diabolico perché l’utente, sentendosi in una situazione di totale controllo delle proprie scelte, tende a sottostimare il ruolo dell’infrastruttura nel determinare i messaggi a cui è esposto e il suo modo di pensare. Non conosco sondaggi in merito, ma tutte le persone con cui ho parlato di questo problema ha reagito dicendo che il rischio di restare imprigionati in una bolla mediatica – ammesso che esista – riguarda solo gli altri. La percezione individuale suggerisce che l’infrastruttura creata dalle piattaforme consenta la piena libertà, fornisca servizi utili e gratuiti, aumenti la capacità di ogni individuo di ottenere informazioni, sviluppare rapporti sociali, acquistare beni in modo efficiente, rintracciare nicchie di mercato altrimenti introvabili e così via. L’immaginario di ogni singolo individuo si plasma in base alla percezione del proprio potere all’interno della rete. È esattamente come aveva teorizzato Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.
Quando l’Economist scrive che “la moderna industria dell’entertainment è un Nirvana per i consumatori”14 indica che le piattaforme, grazie alla conoscenza sempre più raffinata di ogni singolo utente, riescono ad appagare ogni loro desiderio. E questo ha ovviamente un ruolo decisivo nel determinare l’opinione che i singoli individui hanno dell’infrastruttura digitale.
Richard R. John, docente di Storia e Comunicazione alla Columbia University, sostiene15 che “nella sostanza ai cittadini, sui temi economici, importa più la convenienza dell’ideologia: se un monopolio funziona bene e offre buoni servizi, allora monopolio sia”. E siccome ogni piattaforma, grazie ai dati accumulati sugli utenti, diventa sempre più efficiente nel settore in cui opera, questo porta a considerare giusto e opportuno che l’economia delle piattaforme digitali sia popolata da monopoli naturali. Tutto ciò ha conseguenze assai profonde sulla nostra cultura collettiva”.
Alex Moazed e Nicholas L. Johnson16 sostengono, con una buona dose di ironia, che le piattaforme digitali realizzano (almeno in parte) l’utopia socialista realizzando una gigantesca
13 Cass R. Sunstein, #republic: Divided Democracy in the Age of Social Media, Princeton University Press, 2017 (edito in Italia da Il Mulino, Bologna)
14 “The Modern Entertainment Industry is a Nirvana for Consumers”, The Economist, 11 febbraio 2017,
https://www.economist.com/news/leaders/21716611-americas-bloated-pay-tv-providers-not-so-much-modern-entertainment-industry-nirvana
15 Richard R. John, Network Nation. Inventing American Telecommunications, Harvard University Press, 2010.
16 Alex Moazed e Nicholas L. Johnson, Modern Monopolies: What It Takes to Dominate the 21st Century Economy, Applico, LLT, 2016.
economia pianificata a livello centrale. Cos’altro sono Facebook, Twitter e Google se non economie centralizzate che servono miliardi di persone? Il problema è che il “central planner” non è più lo Stato sovietico, ma un algoritmo gestito da aziende private.
Peter Thiel, fondatore di PayPal e personaggio influente dell’amministrazione Trump, prende sul serio questa ipotesi e porta il ragionamento alle estreme conseguenze: secondo lui17 le piattaforme digitali dimostrano che la cultura della competizione, un’ideologia che ha permeato la nostra società per decenni, è una sciocchezza: in realtà, capitalismo e competizione sono l’uno l’opposto dell’altro; i monopoli sono l’anima del capitalismo, mentre la competizione (che non consente l’accumularsi di grandi capitali) è “per i perdenti”. In questo modo Thiel non esprime solo un’opinione largamente condivisa nella Silicon Valley, ma propone uno dei capisaldi della nuova cultura che i padroni delle piattaforme vogliono diffondere.
Negli anni Novanta, quando in molti credevano alla favola utopica dell’Internet come regno della libertà, uno dei termini magici di quell’ideologia dominante era “disintermediazione”. La rete avrebbe eliminato tutti gli intermediari (a quei tempi intesi come parassiti) liberando l’economia da inutili orpelli. Vent’anni dopo quella profezia si incarna nelle macerie di molti corpi intermedi (dai media ai partiti tradizionali) e i vincitori (le piattaforme) possono rivolgersi direttamente ai cittadini, saltando qualunque intermediario, occupando una porzione sempre maggiore del nostro tempo e della nostra attenzione. Si tratta di un tragico paradosso. Abbiamo rinunciato agli intermediari tradizionali per affidarci a pochi, unici, potenti intermediari digitali che hanno vinto la battaglia per ottenere la nostra attenzione.
Tim Wu18 sostiene che in questo processo – sia come società sia a livello individuale – abbiamo accettato un’esperienza di vita che in tutte le sue dimensioni – economiche, sociali, politiche – sono mediate (cioè intermediate) come mai era avvenuto prima nella storia umana. L’industria vincente – quella dei mercanti dell’attenzione – ha invaso la nostra vita e ha costruito un business che può essere descritto così: influenzare la nostra coscienza e palmare radicalmente la nostra esistenza. È la natura stessa delle nostre vite che è in gioco, dice Tim Wu. Ma questo non sembra interessare nessuno. Rivolgendosi direttamente al popolo, le piattaforme digitali plasmano a loro piacere l’immaginario collettivo.
È probabile che la mancanza di una reazione apprezzabile da parte dell’opinione pubblica di fronte a questa dittatura vorace ma apparentemente benigna sia dovuta alla rapidità del cambiamento a cui stiamo assistendo. Nonostante le numerose grida d’allarme che si levano qua e là nel mondo, manca ancora una sedimentazione culturale che consenta di “leggere” il nuovo dilagante potere economico, e i suoi effetti globali sulle disuguaglianze, la cultura collettiva, la politica. Ma sarebbe bene cominciare a studiare il problema più a fondo, e a discuterne.
17 Peter Thiel, From Zero to One. Notes on Startups, or How to Build the Future, Crown Business, 2014 (in Italia pubblicato da Rizzoli).