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GENDER DIVERSITY E PERFORMANCE AZIENDALI. UN’ANALISI DELLE SOCIETA’ QUOTATE ITALIANE.

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Indice

Introduzione  ...  2  

Capitolo  1  “Gender  Diversity”  ...  5  

1.1.  “Gender  diversity”:  breve  analisi  della  letteratura  ...  5  

1.2.  Gender  Diversity  e  Corporate  Governance  nel  contesto  europeo  ...  53  

1.3.  Gender  Diversity  e  Corporate  Governance  nel  contesto  italiano  ...  65  

1.4  Limiti  e  criticità  della  normativa  italiana  ...  76  

Capitolo  2  Analisi  Empirica  ...  83  

2.1.  Research  Questions  ...  83  

2.2.  La  raccolta  dati  ...  84  

2.3.  Le  variabili  investigate  ...  87  

2.4  Il  metodo  utilizzato  ...  87  

Capitolo  3:  I  Risultati  dell’analisi  empirica  ...  95  

Conclusioni  ...  105  

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Introduzione

Quando è arrivato il momento di scegliere la tesi il mio desiderio sarebbe stato quello di poter approfondire un tema attuale che avrebbe potuto mettere in evidenza qualcosa in più rispetto a quanto già si sapeva. Gli argomenti, per fortuna, erano numerosi ma inizialmente nessuno di essi mi entusiasmava a tal punto da divenire quello a cui avrei dedicato il mio tempo con impegno e, soprattutto, con passione. Finalmente però è emerso il tema della Gender Diversity nelle società quotate ed ho percepito che quella sarebbe stata la scelta giusta. L’emancipazione femminile nella società, soprattutto in quella italiana, aveva subito un lento ma crescente miglioramento e, in quanto donna, volevo scoprire ciò che si stava mettendo in atto per migliorarne le aspettative. La gender diversity in ambito societario si incontra all’interno di una più ampia strategia sulle pari opportunità tra uomo e donna che è fortemente voluta dall’Europa. Essa riguarda la presenza delle donne all’interno del consiglio di amministrazione delle società quotate e delle società a controllo pubblico. Questo organo sociale rappresenta la sede in cui le principali e le più importanti decisioni aziendali vengono prese, per cui la scelta dei suoi membri riveste particolare importanza. Seppur il dibattito sia presente già da diversi anni (basti pensare alla Norvegia in cui la legge sulle quote di genere è presente dal 2003), molti paesi si stanno ancora adeguando al riguardo. In Italia, ad esempio, la legge Golfo-Mosca è passata solo nel 2011 mentre, in altri, non è ancora entrata in vigore e forse mai succederà. In ogni caso, dal momento in cui si parla di quote di genere, in Italia la percentuale delle donne presenti nel consiglio di amministrazione sta crescendo. Sia nella letteratura accademica sia in ambito professionale, le quote rosa suscitano notevole interesse per le conseguenze che esse implicano. Gli studiosi sostengono, in alcuni casi, che la presenza del genere femminile all’interno del Cda abbia effetti positivi sulle performance aziendali (Enhardt et al.

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2003, Carter et al. 2003, Smith et al. 2006, Campbell e Mínguez- Vera 2008, Lückerath – Rovers 2011, Torchia et al. 2011, Ali, Kulik, Metz 2011, Joecks, Pull e Vetter 2012, Boulouta 2013, Wang e Kelan 2013), in altri effetti negativi (Shrader et al. 1997, Adams e Ferreira 2008, Ahern e Dittmar 2012) e in altri ancora nessun impatto (Randøy et al. 2006, Miller e del Carmen Triana 2009, Haslam et al. 2010). I vari consensi suggeriscono che, grazie alla legge, le donne potrebbero raggiungere ruoli di potere apicali (sino ad oggi raramente ricoperti) in un arco temporale inferiore, migliorare, oltre che l’ambiente lavorativo, le performance aziendali e fungere da esempio per tutte le altre. In sostanza, si prospetta un importante cambiamento culturale all’interno delle società. Le critiche però non mancano: infatti, gli oppositori sostengono che in questo modo le donne siano strumentalizzate e trattate come una specie da proteggere, inoltre potrebbe aumentare la possibilità di trovare all’interno dei consigli mogli, figlie e parenti senza considerare invece il merito a cui punta la legge. In più, sempre secondo alcuni oppositori, potrebbero subentrare importanti modifiche alle prassi fino ad ora presenti in azienda (riduzione del mandato del cda, modifica dello statuto, etc.). Col presente lavoro, quindi, ci siamo posti lo scopo di indagare sul comportamento delle società italiane quotate nel mercato azionario a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 120/2011. Nella prima parte la tesi presenta un quadro teorico sul tema della disuguaglianza spiegando le principali teorie che permettono di comprendere il fenomeno della Gender Diversity. Tra di esse si incontra la teoria sulla Social Identity di Turner et al. (1986, 1987) per cui l’uomo ha la tendenza ad identificarsi in un gruppo che rispecchia le sue caratteristiche e a differenziarsi dai soggetti diversi da lui e i vari contributi della Kanter (1977) tra cui quello sul tokensim per cui i soggetti in inferiorità numerica devono sopportare una pressione maggiore1. Nel paragrafo successivo, si                                                                                                                

1 Kanter (1977) argues that the contrast between tokens and the numeric majority may lead to the social and professional isolation of tokens, which suggests that tokens need not have an impact.

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svolge una rassegna dei papers più significativi sul tema. Ciascuno di essi contribuisce a svelare, in relazione alle variabili utilizzate, l’impatto della presenza della donna all’interno della società. Successivamente è stata analizzata a livello europeo e nazionale la normativa sulle quote di genere e i relativi punti di forza e di debolezza. Nel capitolo secondo è svolta l’analisi empirica sul database realizzato. Il campione utilizzato per l’indagine comprende 197 aziende quotate nella Borsa Italiana. Una volta terminata la raccolta dati sono stati calcolati i risultati che permettono di rispondere alle research questions che la presente tesi si è proposta di rispondere. In particolare, si è indagato se la presenza femminile all’interno del consiglio di amministrazione permetterebbe all’azienda di ottenere performance superiori. In seguito, la ricerca punta a verificare se assume rilievo anche il ruolo ricoperto dalla donna, ovvero se una donna amministratrice esecutiva incide maggiormente sulle performance di una che ricopre un ruolo non esecutivo o indipendente o è sufficiente la sua presenza. Visto che la ricerca non ha individuato alcun tipo di relazione tra la presenza della donna e le performance aziendali, non è stato possibile rispondere alla seconda reserach question così come per l’ultima che prevedeva di indagare sul percorso di carriera della donna esecutiva. Si ritiene che il risultato della ricerca sia concorde con quanto annunciato nella letteratura accademica per cui gli effetti della donna si possono mostrare solo quando esse raggiungono il livello critico, individuato nel numero tre. La composizione media di un board italiano, infatti, mostra circa una donna su 8. Lo studio evidenzia inoltre che la presenza di amministratrici indipendenti è in grado di influire positivamente sull’Ebitda e sul reddito operativo per cui richiede una loro maggioranza all’interno del consiglio di amministrazione. In conclusione, si propone di indagare con maggior grado di dettaglio sul tema proposto per i cambiamenti che le quota di genere possono implicare all’interno delle organizzazioni.

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Capitolo 1 “Gender Diversity”

1.1. “Gender diversity”: breve analisi della letteratura

L’obiettivo del presente paragrafo è di offrire una panoramica esaustiva sul tema della disuguaglianza di genere all’interno dell’organizzazione; nel caso trattato il termine disuguaglianza, tradotto dall’inglese “diversity”, si riferisce a quelle situazioni in cui, all’interno di un ambiente lavorativo, i soggetti differenti tra loro per età, cultura, status sociale e genere devono collaborare insieme. Gli studi sulla “diversity” presentano una vastità di contributi che abbracciano i campi della psicologia e dell’economia. Ad esempio, Jackson, Stone e Alvarez (1993) definiscono la diversità tra soggetti all’interno di un gruppo in base alle caratteristiche personali o demografiche. Le prime sono attributi immutabili (età, sesso, cultura, etc.), le seconde, invece, sono qualità soggettive (status sociale, educazione, esperienze vissute, etc.). Diversamente, Konrad e Gutek (1987) si concentrano sulle caratteristiche salienti dei membri di un gruppo. Wittenbaum & Stasser (1996) definiscono, poi, la diversità in termini di variazioni d’informazioni e/o di competenze. Infine, gli studi sulla demografia esprimono il medesimo concetto sulla base di attributi visibili come l’età, la cultura e il genere o su attributi legati all’incarico lavorativo come il background o la mansione ricoperta. È evidente che il tema della disuguaglianza all’interno dell’organizzazione può essere studiato sotto diversi punti di vista. Questo lavoro è concorde con il filone socio-psicologico nella visione di Turner (1987) e della sua teoria sulla categorizzazione sociale successivamente descritta. Come sostengono Triandis, Kurowski e Gelfanc, gli uomini tendono per loro natura a essere “ethnocentric2” ovvero, nelle relazioni di                                                                                                                

2  Etnocentrismo: termine coniato dal sociologo G.W. Sumner (Folkways, 1907) per indicare la tendenza a

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gruppo, i soggetti preferiscono utilizzare le caratteristiche visibili per creare delle categorie-gruppi, anche se tali possono sembrare superflue o chiaramente casuali. Gli uomini, insomma, utilizzano qualsiasi caratteristica per differenziarsi da altri. A supporto di questa teoria anche la Kanter (1977) ha affermato che qualsiasi caratteristica o categoria sociale sotto-rappresentata in un dato gruppo probabilmente diventerà una base importante per la categorizzazione. Inoltre, alcuni studiosi hanno evidenziato che determinate caratteristiche demografiche quali la razza, il sesso o l’età sono più percepibili e diventano ancora più importanti in determinate circostanze. Sono proprio queste tipologie di caratteristiche a essere le più utilizzate per il processo di categorizzazione. Quindi, anche se esistono molti attributi per differenziare le persone, quelli visibili o più predominanti saranno quelli che marcheranno maggiormente la diversità; tra di essi rientrano l’età, il genere, la razza o etnia, il ruolo occupato nel gruppo e il background educativo. Prima di affrontare ciascun tema nel dettaglio, però, è necessario esporre le teorie che spiegano gli effetti della disuguaglianza all’interno del processo organizzativo e sulle performance. Le teorie più importanti per comprendere l’impatto di ciascuna dimensione nell’organizzazione sono la teoria dell’identità sociale di Tajfel e Turner (1989), la “similiarity/attraction” e, infine, l’ “Information diversity e decision making”.

La “social identity theory,” "SIT" concettualizza il gruppo come luogo di origine dell'identità sociale: nell'uomo è spontanea la tendenza a costruire gruppi, a sentirsene parte e a distinguere il proprio gruppo di appartenenza (in-group) da quelli di non-appartenenza (out-group). La composizione eterogenea di un gruppo influenza il lavoro del gruppo stesso in termini di conflitti, coesione e comunicazione alterandone quindi

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    valori, alle norme e ai costumi ai quali si è stati educati. Quasi sempre l’etnocentrismo comporta la supervalutazione della propria cultura e, di conseguenza, la svalutazione della cultura altrui. [Definizione elaborata da Enciclopedia Treccani.]

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anche i risultati. Gli individui hanno un forte desiderio di mantenere elevato il loro livello di autostima e lo fanno attraverso un processo di comparizione con gli altri. Secondo la “SIT”, l'identità sociale dell'individuo si costruisce attraverso tre processi funzionalmente collegati:

1. Nella categorizzazione, l'individuo costruisce delle categorie discriminanti di appartenenza, basate su fattori di vario tipo (età, genere, posizione sociale o lavorativa, religione, appartenenza politica, ideologie di riferimento, appartenenza etnica, etc.), con lo scopo di massimizzare le somiglianze tra i soggetti all'interno di ciascuna di esse e le differenze con le categorie contrapposte.

2. Nella fase d’identificazione, l’appartenenza ad un gruppo fornisce la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale.

3. Nell’ultima fase, quella del confronto sociale, l'individuo confronta continuamente il proprio “in-group” con “l'out-group” di riferimento. Il proprio gruppo è implicitamente considerato migliore rispetto agli altri i quali sono metodicamente svalutati.

Questa teoria evidenzia, quindi, come gli individui di un certo team di appartenenza differiscono dai membri di un altro e come la diversità all’interno di essi riesca a promuovere la creazione di “in-group” e “out-group”. Gli studi che fanno riferimento a questa teoria solitamente mostrano effetti negativi della disuguaglianza all’interno di un gruppo tra i quali è possibile identificare minore comunicazione, aspettative basate sul ruolo svolto, mancanza di coesione e cooperazione e maggiori conflitti.

Nel paradigma della somiglianza/attrazione, Pfeffer (1983) affermò che la distribuzione delle differenze demografiche nei gruppi e nelle organizzazioni riesce a influenzarne i processi e i risultati. La varietà nella composizione di un gruppo, infatti, causa discrepanze nelle modalità di comunicazione, coesione e integrazione. Ogni membro percepisce se stesso rispetto agli altri in maniera simile o diversa: l’omogeneità di

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capacità, valori o variabili demografiche aumentano l’attrazione e la propensione tra gli individui, mentre la difformità in determinate caratteristiche provoca, invece, la perdita di performance, atteggiamenti negativi, scarsa comunicazione, alta probabilità di turnover, in particolare modo tra i soggetti che differiscono maggiormente tra loro. Se gli individui si assomigliano, riescono a condividere esperienze di vita e valori e possono trovare l’interazione con gli altri membri del gruppo più facile, positiva e più auspicabile.

L’ultima teoria, “Information diversity e decision making”, asserisce che le relazioni all’interno di un gruppo sono in grado di condizionare le informazioni e l’attività decisionale: anche se le persone comunicano con più facilità con soggetti affini, le informazioni che si possono ottenere al di fuori del proprio gruppo hanno una prospettiva differente e potenzialmente migliore. Un gruppo eterogeno potrebbe quindi migliorare la propria performance grazie a queste informazioni aggiuntive mentre, al contrario, un gruppo omogeneo potrebbe fallire perché si è basato solo sulle informazioni possedute dai membri “simili” del gruppo, perché si è isolato da quei membri che potevano introdurre una prospettiva diversa o perché ha dato maggiore importanza alla conoscenza comune.

Queste importanti teorie sono state sfruttate dai vari studiosi come punto di partenza per le loro ricerche. La disuguaglianza all’interno dell’organizzazione può essere analizzata sotto diversi aspetti.

Innanzitutto, si può studiare la diversità nel momento della nomina di un soggetto a un determinato incarico: Pfeffer (1985) notò una maggiore comunicazione che migliorava la coesione e l’integrazione tra i soggetti nominati nello stesso momento. L’uniformità del periodo della nomina conduceva quindi a effetti positivi per il gruppo ed era in

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accordo con i fondamenti della teoria dell’identità sociale e della “similiarity/attraction”.

La diversità si presenta anche rispetto al background dei soggetti appartenenti ad un gruppo: visto che le informazioni che circolano all’interno di un gruppo eterogeneo differiscono da quelle di un gruppo omogeneo, si crede che tale differenza sia dovuta all’educazione o alle capacità dei soggetti appartenenti al gruppo. Le ricerche compiute su questo tema suggeriscono che un diverso background può condurre a effetti positivi nel miglioramento della performance ma, allo stesso tempo, anche all’aumento dei tempi necessari per prendere le decisioni o a una minore coesione.

In termini di età, le difformità all’interno di un’organizzazione possono portare a una comunicazione più difficoltosa, frequenti conflitti e un’integrazione più difficile da raggiungere. Come annunciato dalla teoria dell’identità sociale, l’età rientra tra le caratteristiche visibili in grado di influenzare il lavoro di un gruppo. Nonostante ciò, le differenze di età possono portare anche a effetti positivi come maggiore creatività e migliori performance. Un altro interessante aspetto della diversità è quello riferibile alla razza e all’etnia dei soggetti partecipanti al gruppo. Le scarse ricerche compiute portano a risultati non soddisfacenti: infatti, una parte degli studiosi basandosi sulla teoria dell’informazione/decisione ritiene che anche tale tipo di diversità conduca a una maggiore creatività e a un miglioramento delle performance mentre, un altro filone, basandosi sulla teoria dell’identità sociale, crede che siano maggiori gli effetti negativi. In generale, le prove ottenute sono maggiormente concordi con la teoria dell’identità sociale e la “similiarity/attraction”.

Nonostante la numerosità degli attributi in questione, quello sul quale questa tesi vuole concentrarsi riguarda la diversità all’interno di un’organizzazione in base al genere.

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Versioni più recenti hanno definito la disuguaglianza di genere come la composizione di differenti qualità, caratteristiche ed esperienze individuali dei membri in relazione al processo decisionale e agli altri compiti che sono eseguiti all’interno del consiglio di amministrazione (Van der Walt e Ingley, 2003).

Gli studi in merito sono numerosi e hanno portato a risultati discordanti tra loro: alcuni studiosi hanno individuato nessi positivi tra una composizione mista del gruppo decisionale e i risultati aziendali, altri negativi e altri ancora assenti. Grazie agli studi fino ad oggi elaborati, sappiamo che, in base alla composizione di un gruppo, gli effetti dell’eterogeneità si ripercuotono negativamente più sugli uomini che sulle donne e che i due generi reagiscono in maniera diversa all’interno di un gruppo3. La diversità di genere permette una migliore comprensione del mercato, poiché il gruppo composto sia da uomini che da donne, soddisfa in maniera più esaustiva i bisogni dei clienti potenziali e dei dipendenti.4 Inoltre, come per le altre dimensioni della “diversity”, quella di genere può contribuire ad aumentare la creatività e l’innovazione. Ulteriormente può contribuire a risolvere i problemi grazie al fatto che differenti soluzioni possono emergere proprio da un consiglio misto. La “gender diversity” può potenziare, infine, la competitività dell’azienda grazie a un’immagine più forte e ad un miglior atteggiamento dei clienti (Smith, 2006). Anche Carter et al. (2003) considerano il legame tra la diversità di genere all’interno del consiglio di amministrazione e il valore dell’azienda sulla base del modello principale-agente di Fama e Jensen5. Essi                                                                                                                

3  L’eterogeneità può condurre sia a maggiori punti di vista e quindi più creatività e innovazione

all’interno del board (Murray, 1989) sia a maggiori conflitti e difficoltà nel prendere le decisioni( Cannella et al., 2008). La letteratura suggerisce che il consiglio di amministrazione dovrebbe essere composto da un gruppo di professionisti che presenta un insieme completo di competenze, esperienza e diversità e che le differenti prospettive apportate dagli amministratori dovrebbero portare le discussioni del board a decisioni migliori e maggiormente creative (Hill e Jones, 1998).  

4  Per un approfondimento si veda: Robinson, G. and K. Dechant: 1997, ‘Building a Business Case for

Diversity’, Academy of Management Executive 11, 21–30.

5

Michael Jensen e William H. Meckling sostengono “an agency relationship as a contract under which one or more persons (the principal(s)) engage another person (the agent) to perform some service on their behalf which involves delegating some decision making authority to the agent”. Fonte: Jensen, M. C., &

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suggeriscono che una maggiore diversità può incrementare l’autonomia del board in quanto le donne risultano più inclini a fare domande rispetto ai loro colleghi uomini. Esistono, al contrario, interventi che ritengono la disuguaglianza di genere all’interno dell’organizzazione come un fattore negativo che conduce a scarsa comunicazione, maggiori conflitti e minore cooperazione. Secondo questo filone, all’interno di un gruppo omogeneo accade che vi sia una comunicazione più frequente e che sia più facile condividere le opinioni6. La presenza delle donne all’interno del gruppo direttivo potrebbe causare allora solo un rallentamento del processo decisionale e una minore efficacia dello stesso. Alcuni studiosi affermano poi che l’altruismo sia maggiormente presente nel genere maschile quando questo comporta ridotti compromessi mentre, in caso contrario, la situazione si ribalta.

Sempre a sostegno delle tesi contrarie alla diversità di genere all’interno dell’organizzazione, alcuni ricercatori ritengono che gli amministratori si trovino più a loro agio con le persone del loro stesso sesso e delle loro stesse opinioni. La situazione peggiora nelle realtà in cui la competitività si basa sul tempo perché è richiesta una capacità di reazione al mercato elevata maggiormente presente nei gruppi omogenei (Williams e O’ Reilly,1998).

Per offrire una visione più chiara della letteratura si considerano i vari interventi in ordine cronologico (Tabella 1). Le ricerche empiriche presentate utilizzano un campione di aziende appartenenti ai paesi di tutto il mondo e si differenziano principalmente per le variabili dipendenti adoperate (le misure di performance come, ad esempio, ROA, ROE o Tobin’sQ7), per la nazione in cui è avvenuta la ricerca e per gli anni indagati.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     Meckling, W. H. (1979). Theory of the firm: Managerial behavior, agency costs, and ownership structure (pp. 163-231). Springer Netherlands.

6  Le caratteristiche di un gruppo omogeneo sono la somiglianza e una mancanza di apertura a nuove

informazioni.(Wiersema e Bantel, 1992)  

7  Tobin’s Q: tale misura è stata sviluppata da Tobin nel 1969 nel articolo “A general equilibrium approach to monetary theory, «Journal of Money, Credit and Banking», 1969, 1, 1”, e compara la somma

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Tabella  1  Analisi  della  letteratura     Autore/i (anno) Misura della disuguaglianza di genere Misura di performance Data base (n, nazione, anni) Risultati della ricerca Shrader et al.

(1997) Numero di donne (%) ROS, ROA, ROI, ROE 200 aziende americane (dal Wall Street Journal) (1992) Impatto negativo Enhardt et al. (2003) Numero di donne (%)

ROA, ROI 112 aziende americane (dalla rivista Fortune 1000) (1998) Impatto positivo Carter et al. (2003) Variabile binaria (donne presente nel board: si/no) e numero di donne (%) ROA, Tobin’s Q 638 aziende americane (dalla rivista Fortune 1000) (1998) Impatto positivo Smith et al. (2006) Numero di donne (%) 2.500 aziende danesi (dal 1993 al 2001) Impatto positivo in relazione al tipo di educazione ricevuto dalle donne e dalle misure di performance Randøy et al.

(2006) Numero di donne (%) ROA, valore di mercato 154 aziende danesi, 144 norvegesi, 161 svedesi (2005) Nessun impatto Campbell e Mínguez- Vera (2008) Variabile binaria (donne presenti nel board: si/no) e percentuale di donne, Blau e Shannon Index Tobin’s Q 68 aziende spagnole (1995- 2000) Impatto non significativo; solo in alcuni casi, positivo                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     dei valori di mercato di azioni e obbligazioni di un’impresa e il valore di rimpiazzo (o ricostituzione) degli attivi necessari al funzionamento dell’impresa stessa. È da allora noto come indice q, uno degli indicatori più utilizzati nelle analisi dei mercati finanziari e nelle previsioni economiche. Un valore di q>1 indica da un lato che l’impresa dovrebbe potrebbe aumentare i propri investimenti. Il contrario accade per valori dell’indice inferiori all’unità, ovvero il capitale desiderato è maggiore del capitale effettivo per ci l’impresa dovrebbe ridurre i propri investimenti.

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Adams e Ferreira (2008)

Variabile binaria (donne presenti nel board: si/no) e numero di donne (%) ROA e Tobin’s Q 19390 aziende americane (1996-2003) Impatto negativo Miller e del Carmen Triana (2009)

Blau’s Index ROI, ROS 326 aziende americane (dalla rivista Fortune 500) (2003) Nessun impatto Haslam et al. (2010) Variabile binaria (donne presenti nel board: si/no) e numero di donne (%) ROE, ROA e Tobin’s Q 126 aziende inglesi presenti nell’indice FTSE 100 (2001-2005) Nessun impatto( ROA e ROE); impatto negativo con almeno una donna nel board misurato con la Tobin’s Q Lückerath – Rovers (2011) Numero di

donne (%) ROE, ROS, ROIC 99 aziende tedesche (2005- 2007) Impatto positivo, calcolato sul ROE. Torchia et al. (2011) Numero di donne; 4 gruppi: (1) nessuna, (2) una, (3) due, (4) tre o più donne

Innovazione 317 aziende norvegesi (2005/2006)

Tre o più donne sono relazionate positivamente all’innovazione.

Ali, Kulik,

Metz (2011) Blau’s Index Produttività dei dipendenti 150 aziende australiane (2002-2005)

Andamento a U degli effetti della “gender diversity”: positivi da un livello basso a uno medio, effetti negativi da un livello medio a uno alto. Ahern e Dittmar (2012) Numero di donne (%) Tobin’s Q 248 aziende norvegesi (2001-2009) Impatto negativo Joecks, Pull e Vetter (2012) Numero di donne; 4 gruppi: ROE 151 aziende tedesche Impatto positivo con il ROE

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(1) nessuna, (2) una, (3) due, (4) tre o più donne e Blau’s Index

(2000-2005) quando sono presenti nel board almeno tre donne. Boulouta (2013) Numero di donne (%) ROE 126 aziende americane (1999- 2003) Impatto positivo sulle misure della Corporate Social Performance Wang e Kelan (2013) Numero di donne (%) Non verifica l’effetto sulle performance aziendali ma sulla nomina delle donne, 87 aziende norvegesi (2001-2010) Grazie alla Legge si presenta una maggiore probabilità di nomina delle donne nel ruolo di

amministratore o CEO.

Nel 1997, Shrader et al. non riuscirono ad individuare alcun collegamento positivo tra la presenza femminile nel board e i risultati finanziari di un campione di aziende statunitensi, individuando, altresì, un effetto negativo.

Gli studi presenti qualche anno dopo sono quelli di Carter et al. (2003) il quale scoprì nessi positivi tra la Tobin’s Q e la proporzione di donne presenti nel board delle 100 aziende scelte da Fortune8 e quello di Enhardt nel quale l’autore affermò che le aziende statunitensi in cui erano presenti donne nel board presentavano performance positive in termini di ROE e ROA. Entrambi gli studi, quindi, erano a favore della presenza femminile all’interno dell’organizzazione.

Altre notevoli analisi sono state elaborate negli anni successivi per raggiungere una più efficace comprensione della disuguaglianza di genere che si presentava all’interno della forza lavoro delle aziende. Alcune di queste, seppur in numero inferiore, sono state                                                                                                                

8  Fortune è una rivista di business globale fondata da Henry Luce nel 1930, insieme a Time, Life, e Sports Illustrated. La rivista elabora una classifica annuale delle compagnie sulla base dei loro profitti, la cosiddetta Fortune 500.

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approfondite in paesi diversi da quello americano: tra questi incontriamo quella di Du Rietz e Henrekson (2000) e quella di Smith et al. (2006). I primi presero in considerazione le aziende svedesi mentre i secondi quelle danesi, in entrambi i casi comunque non furono trovati significativi legami tra la presenza femminile all’interno dell’organizzazione e le performance positive dell’azienda.

In Norvegia, gli studi compiuti portarono a due diversi risultati: quello di Böhren e Ström (2005) individuò una relazione negativa molto forte tra il numero delle donne presenti nel board e la Tobin’s Q, mentre quello di Randøy et al. (2006) non trovò, invece, alcun effetto rilevante sul ROA o sul ROE.

La presenza di risultati discordanti tra loro è dovuta al fatto che tutti gli studi sono stati eseguiti in periodi diversi e in nazioni differenti, dove si può trovare un ambiente lavorativo diverso o non ancora preparato a inserire le donne ai livelli decisionali più alti. Inoltre, alcuni di essi non prendono in considerazione variabili inerenti al fenomeno studiato come, ad esempio, la dimensione aziendale o il settore di appartenenza.

Di seguito sono presentate le indagini compiute in anni più recenti, dal 2008 ad oggi, con un maggior grado di dettaglio.

Il primo studio utile per una maggiore comprensione del problema della disuguaglianza è quello pubblicato nel 2008 da Campbell e Mínguez. Il campione attraverso il quale i due autori hanno cercato di capire l’impatto della presenza femminile all’interno dell’organizzazione sul valore aziendale prende in considerazione le compagnie spagnole quotate in Borsa. Esse sono caratterizzate, a differenza di altri paesi europei, da una proprietà familiare molto forte, un azionariato concentrato visto che i tre più grandi azionisti in Spagna possiedono il 51% delle azioni totali, gruppi a piramide dove la holding controlla una o più aziende, un accentuato squilibrio nella composizione degli amministratori esecutivi e non esecutivi e una percentuale molto alta di

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amministratori che rappresentano gli azionisti, “reference shareholders” . Per promuovere la percentuale di donne che lavorano all’interno di un consiglio di amministrazione, il governo spagnolo è intervenuto sul tema9. L’analisi portata avanti da Campbell e Mínguez impiega come valore dell’azienda un’approssimazione della Tobin’s Q e altre variabili dipendenti come il numero totale di amministratori, il livello dei debiti, il ROA e la dimensione dell’azienda.

I risultati che hanno ottenuto evidenziano che la presenza delle donne all’interno del board non è in grado di influenzare il valore aziendale mentre la “gender diversity” all’interno del board contribuisce a migliorare la performance aziendale. È necessario, quindi, per la Spagna, focalizzarsi maggiormente su un corretto bilanciamento tra uomini e donne piuttosto che solo sulla loro presenza all’interno dell’organizzazione. Inoltre lo studio ha dimostrato che, al crescere del numero di membri del consiglio di amministrazione, si presenta una percentuale di donne maggiore. Anche le aziende di piccole e medie dimensioni a carattere familiare presentano una maggiore presenza femminile al suo interno. La dimensione dell’azienda, poi, non dimostra alcun tipo di effetto sulla presenza femminile nel consiglio di amministrazione. Infine, questi studiosi, confermando i risultati di studi precedenti, hanno individuato che la diversità di genere in un’organizzazione permette di ottenere una maggiore efficacia del board10. Lo studio di Adams e Ferreira dello stesso anno si domanda se la presenza degli amministratori e la nomina dei comitati dipende dalla “gender diversity”, se la composizione eterogenea del board può influire sulla sostituzione e il compenso dei                                                                                                                

9  To address this situation, and also to provide more opportunities for Spanish women to achieve elected

office, the Spanish Parliament approved a new, so- called ‘‘Law of Equality’’ in March 2007. The law specifies that 40% of candidates filed on party ballots must be female and it encourages greater employ- ment of women by giving companies with higher ratios of female to male employees preferential treatment when bidding for government contracts, among other measures (Wools, 2007).

10  This suggests that the mixture of men and women is the key to more effective boards. Da “Campbell,

K., & Mínguez-Vera, A. (2008). Gender diversity in the boardroom and firm financial performance. Journal of business ethics, 83(3), 435-451”.  

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CEO e sui risultati aziendali. Essi utilizzano un campione composto da 1.939 aziende americane osservate dal 1996 al 2003.

In riferimento alla prima research question, gli autori ritennero importante per la loro ricerca la partecipazione degli amministratori alle riunioni societarie perché è il modo più appropriato con il quale essi ottengono le informazioni necessarie a compiere i propri doveri e perché è l’unica misura facilmente reperibile dagli studiosi. Allo stesso modo, anche la nomina ai vari comitati risulta una variabile interessante perché i compiti a loro affidati sono molto delicati nella gestione aziendale. All’interno di un’azienda, infatti, possono esistere i comitati deputati alla revisione dei conti, all’amministrazione o quello delle nomine. Un membro del consiglio perciò sarà influenzato nell’esecuzione dei suoi compiti da coloro che ricoprono posizioni chiave, siano essi uomini o donne. Gli autori ritengono che gli amministratori, a causa della diversità, si comportino in maniera differente nello svolgimento dei loro compiti. Dai risultati della ricerca, gli studiosi evincono che le donne amministratrici partecipano a un maggior numero di riunioni rispetto ai colleghi uomini. Inoltre, la Kanter (1977), nella teoria sul “tokenism”, a conferma dei risultati ottenuti da questi studiosi, aveva concluso che le donne devono sopportare una pressione maggiore: infatti, anche se esse raggiungono performance peggiori rispetto ai membri in superiorità numerica, esse ottengono contemporaneamente risultati individuali migliori. Inoltre, gli autori hanno evidenziato che gli amministratori di sesso maschile sono più presenti quando il board è composto in maniera eterogenea da entrambi i sessi. Le motivazioni di questa scoperta risiede, secondo gli autori, nel fatto che, a prescindere dal genere, gli amministratori si comportano differentemente quando i loro colleghi sono molto disciplinati. Nel seguito del lavoro, essi si domandano se la frequenza alle riunioni sia condizionata dal comportamento dei colleghi, dalla presenza delle donne o da entrambi i fattori. Per

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verificare questa tesi, essi confrontano il comportamento degli amministratori uomini alla presenza di donne con il comportamento degli amministratori uomini alla presenza di nuovi amministratori dello stesso sesso. Gli autori scoprono che la partecipazione di nuovi amministratori maschi riduce i problemi, confermando l’ipotesi di effetti collegati al comportamento dei colleghi ma, allo stesso tempo, si verificano anche gli effetti della presenza femminile per cui gli amministratori uomini sono comunque presenti anche quando lavorano con amministratori dell’altro sesso. Un altro effetto della diversità di genere all’interno del board che gli autori vogliono studiare si riferisce alla nomina nei comitati. Essi notano che gli amministratori più assenti sono nominati con più difficoltà nei comitati più importanti e che le donne solitamente occupano posti all’interno del comitato di controllo, delle nomine e di amministrazione piuttosto che in quello sui compensi11. Inoltre, gli autori scoprono che la percentuale di donne all’interno dei comitati è più alta della percentuale di donne presenti nel board, individuando che i consigli di amministrazione prediligono nominare le donne nei vari comitati. Gli autori, poi, hanno esaminato se la presenza delle donne influenza le scelte della governance, investigando sull’impatto che esse hanno sulla sostituzione dei CEOs. I risultati ottenuti hanno dimostrato che la percentuale di donne all’interno del board è una variabile significativa per la sensibilità al turnover dei managers. Infine, Adams e Ferreira hanno verificato che la presenza femminile nell’organizzazione è associata a una remunerazione equilibrata degli amministratori, la quale si riferisce a un board in linea con gli interessi degli shareholders. Per quanto riguarda il compenso ai CEO, essi non trovano alcuna relazione significativa con la diversità di genere perché le donne non

                                                                                                               

11Il consiglio di amministrazione istituisce al proprio interno uno o più comitati con funzioni propositive e consultive secondo quanto indicato nei successivi articoli. Art.4 Codice di Autodisciplina 2014

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siedono solitamente all’interno del comitato demandato a questo compito12. Infine, l’ultima relazione che desiderano investigare riguarda la “gender diversity” e le performance aziendali. I risultati suggeriscono che le donne non rivestono solamente il ruolo di “token” ma possono apportare nuove idee e prospettive nella gestione aziendale. Allo stesso tempo una diversità troppo marcata può essere causa di maggiori conflitti. Se a una prima analisi le performance aziendali sembrano avere una relazione positiva con la “gender diversity” grazie a un esame più approfondito la situazione cambia. Infatti, in relazione ai diritti degli shareholders, gli autori hanno scoperto che la varietà di genere all’interno del board è positiva quando tali diritti sono deboli e conduce, invece, a effetti dannosi quando tali diritti sono molto forti. Il valore di un board può dipendere, infatti, dalla forza di altri meccanismi relativi alla governance: se le aziende hanno una governance molto forte, avere un board debole può condurre ad un controllo eccessivo, mentre se hanno una governance debole, si ritiene che il board assuma un alto valore13.

Nell’anno 2009, lo studio più interessante è quello compiuto da Miller e del Carmen Triana.

Esso ha lo scopo di esaminare come la diversità di genere riesca a influenzare le performance aziendali tramite due variabili differenti rispetto a quelle fino a quel momento utilizzate: esse sono l’innovazione e la reputazione.

                                                                                                               

12  Il consiglio di amministrazione costituisce al proprio interno un comitato per la remunerazione,

composto da amministratori indipendenti. In alternativa, il comitato può essere composto da amministratori non esecutivi, in maggioranza indipendenti; in tal caso, il presidente del comitato è scelto tra gli amministratori indipendenti. Almeno un componente del comitato possiede una adeguata conoscenza ed esperienza in materia finanziaria o di politiche retributive, da valutarsi dal consiglio di amministrazione al momento della nomina.  Art. 6 Codice di Autodisciplina 2014

13  “We find that gender diversity has ben- eficial effects in companies with weak shareholder rights,

where it is plausible that additional board monitoring can enhance firm value, but detrimental effects in companies with strong.”  Adams, R. B., & Ferreira, D. (2009). Women in the boardroom and their impact on governance and performance. Journal of financial economics, 94(2), 291-309.

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L’innovazione è definita come l’insieme di strategie che forniscono all’impresa nuove opportunità, in termini di nuovi prodotti o servizi. Gli autori credono che l’innovazione sia in grado di trasmettere gli effetti della diversità del board sul valore aziendale. La reputazione è intesa come la valutazione delle qualità di un’azienda o come una sua stima in confronto alle altre organizzazioni. Anche la reputazione risulta essere una di quelle variabili che permettono all’azienda di ottenere risultati finanziari superiori rispetto alle altre.

Lo studio si basa sulla teoria del comportamento aziendale (Cyert e March, 1963)14 e su quella dei segnali (Certo, 2003)15.

Per spiegare la relazione tra innovazione e diversità nel board viene utilizzata la prima teoria. Essa spiega che le decisioni all’interno di un gruppo sono prese sulla base delle informazioni che ciascun membro possiede; quando il gruppo presenta una composizione omogenea, il risultato si baserà principalmente sulle esperienze passate e sulle competenze possedute. Di conseguenza, tali tipi di gruppo non favoriscono l’innovazione necessaria. Al contrario, gruppi eterogenei producono un più ampio bacino d’idee e informazioni perché, al loro interno, ci sono conoscenze differenti. Molte ricerche hanno sostenuto tale tesi, mostrando che tali tipologie di gruppo raggiungono decisioni migliori e soluzioni più innovative. Date queste ipotesi, Miller e                                                                                                                

14 In the theory described in A Behavioral Theoiy of the Firm (ABTOF, Cyert and March 1963), within-firm eco- nomic decisions (and their effects) are both related to and mitigated by behaviorally based constructs (and their ef- fects). The relevance of ^4 Behavioral Theoiy of the Firm to the linkage of organizational behavior and economic performance becomes clear when the motivation for the theory is examined, as described by Cyert and March (1963, p. 1):

We believe that, in order to understand contemporary economic decision making, we need to supplement the study of market factors with an examination of the internal operations of the limi—to study the effects of organizational structure and con- ventional practice on the development of goals, the formation of expectations, and the execution of choices. Prietula, M. J., & Watson, H. S. (2000). Extending the Cyert-March Duopoly Model: Organizational and Economic Insights. Organization Science, 11(5), 565-585.  

15Signaling theory is useful for describing behavior when two parties (individuals or organizations) have

access to different information. Typically, one party, the sender, must choose whether and how to communicate (or signal) that information, and the other party, the receiver, must choose how to interpret the signal. Accordingly, signaling theory holds a prominent position in a variety of management literatures, including strategic management, entrepreneurship, and human resource management.  

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Triana si aspettano un collegamento positivo tra la diversità di genere e l’innovazione di un’azienda.

Per spiegare la relazione tra reputazione e diversità nel board viene utilizzata, invece, la “signalling theory” la quale afferma che l’azienda utilizza segnali visibili per ottenere una reputazione e uno status nei confronti dei clienti. Essi utilizzano molto spesso sia le azioni che i simboli per giudicare la reputazione e la qualità dell’azienda. Questi segnali sono ciò che l’azienda offre ai suoi investitori, impiegati e portatori d’interesse. La stessa composizione del consiglio di amministrazione può, quindi, funzionare da segnale per giudicare la robustezza dell’organo di amministrazione e la qualità dell’azienda. Se nel consiglio di amministrazione, ad esempio, partecipa anche il fondatore, questo fatto si tradurrà in un segnale positivo. Gli studiosi, allora, ritengono che anche la presenza delle donne possa fungere da segnale positivo per i clienti dell’azienda. In accordo con Bazerman e Schoorman (1983), Miller e Triana credono che la reputazione dell’azienda possa essere influenzata da coloro che lavorano al suo intero, ovvero coloro che partecipano al board e ai quali l’azienda è legata. Esistono tre diverse motivazioni per cui, tramite le loro azioni, gli amministratori di entrambi i sessi possono condizionare la reputazione aziendale. Innanzitutto, con un consiglio di amministrazione misto, l’azienda riesce a esaudire in maniera più efficace i bisogni dei clienti con esigenze diverse. Infatti, la presenza di soggetti interni all’azienda con caratteristiche diverse, quali il genere, le competenze o l’educazione, permette al board di comprendere meglio il mercato su cui dovrà affacciarsi; in questo modo, la “gender diversity” all’interno del board funge da segnale positivo per tutti i portatori d’interesse verso l’azienda. Attraverso una migliore corrispondenza dell’azienda al mercato, la sua reputazione migliora. In secondo luogo, un consiglio eterogeneo segnala l’aderenza a norme e condizioni di lavoro positive: così la presenza femminile all’interno

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dell’organizzazione funge da modello sia all’interno che all’esterno di essa e segnala l’approvazione da parte dell’azienda della uguaglianza di genere al suo interno. Le organizzazioni che rispettano le norme raggiungono, perciò, una credibilità maggiore e una reputazione migliore. Infine, le donne all’interno del consiglio, possono migliorare la reputazione dell’azienda attraverso azioni riguardanti la filantropia o la loro presenza nella comunità in quanto questi tipi di attività sono legati maggiormente all’immagine e alla reputazione aziendale.

Questi autori credono, quindi, che l’innovazione possa servire da variabile che collega la diversità del board con la performance aziendale: una maggiore diversità all’interno del cda conduce a una varietà d’idee e prospettive in grado di migliorare il rendimento aziendale.

Ulteriormente, essi ritengono che anche la reputazione possa mostrare un collegamento positivo con la performance aziendale.

Il loro studio prende in considerazione le aziende presenti nella lista “Fortune 500” elaborata dalla rivista americana “Fortune”. All’interno di questo elenco sono selezionate le aziende che rappresentano esempi di eccellenza nel loro settore.

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Gli autori utilizzano come variabili indipendenti il Blau’s Index16 e la percentuale di donne all’interno di ciascun consiglio per misurare la “board diversity”; i costi di ricerca e sviluppo (R&D) per misurare l’innovazione e il sondaggio sulla reputazione delle aziende effettuato da “Fortune” del 2004 per misurare la reputazione aziendale del 2003.

Le variabili dipendenti che servono per misurare la performance aziendale sono, invece il ROI e il ROS.

I risultati di questo studio mostrano una correlazione positiva tra la diversità di genere e la dimensione aziendale. Le aziende di dimensioni maggiori sembrano, quindi, più propense ad assumere donne nel loro consiglio di amministrazione. La reputazione aziendale è, invece, relazionata negativamente con la diversità di genere. Per riuscire a dare una spiegazione di questo fatto gli autori credono che le donne all’interno delle aziende non abbiano ancora raggiunto posizioni di potere in grado di esercitare una certa influenza. Tutto ciò si traduce in un segnale negativo e d’inferiorità dell’azienda. L’assunzione di posizioni non visibili all’esterno non rappresenta, infatti, un segnale efficace in grado d’influenzare la reputazione aziendale. Inoltre, l’indagine dimostra che le donne non sembrano essere legate ad azioni atte a migliorare la reputazione aziendale perché, anche se le donne compiono più azioni di natura caritatevole o sociale rispetto agli uomini, queste non sono legate all’azienda. Questo fatto permetterebbe agli studiosi di spiegare il motivo per cui non vi è una relazione positiva tra reputazione e “gender diversity”.

                                                                                                               

16  Il Blau index (Blau, 1977) è un indice di diversità che serve per misurare l’eterogeneità di una

distribuzione statistica, in questo caso di genere. Questo indice è definito come BIit = ∑ . Tale indice può assumere valori che vanno da 0 a 1 e indica la probabilità che due individui scelti a caso da un gruppo appartengono a diverse categorie. Questo metodo è particolarmente utile negli studi sulla diversità di un gruppo dove un soggetto può assumere un valore o l’altro, ma non entrambi, per esempio maschio/femmina.

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Nel mercato globale in cui s’inseriscono le aziende, gli autori hanno dimostrato, infine, che assume maggiore importanza una diversità di razza piuttosto che di genere. La presenza di culture diverse al suo interno permetterebbe all’azienda un ingresso più facile nei mercati dove non è ancora presente e per i quali possiede scarse informazioni. La “racial diversity” in un’organizzazione riveste, perciò, maggiore importanza rispetto a quella relativa al genere.

Gli autori hanno poi indagato se l’innovazione o la reputazione è in grado di condizionare gli effetti della diversità di genere sulle performance aziendali. I risultati raggiunti evidenziano che l’innovazione è relazionata in maniera positiva e significativa con la diversità di genere nel board ma che essa non contribuisce alla relazione positiva tra la diversità di genere e la performance aziendale. Allo stesso modo, anche l’ipotesi che la reputazione influenza la relazione positiva tra la performance aziendale e la diversità di genere non è supportata.

Nell’anno 2010 Haslam, Ryan e Kulich hanno basato il loro studio sull’articolo scritto da Judge nel 2003. L’articolo sostiene che la presenza delle donne ha un effetto negativo sulle performance aziendali. In particolare Judge affermò che “ the triumphant march of women into the country’s boardromms has wreaked havoc on companies’ performance and share price”, ovvero che la presenza delle donne ha “creato scompiglio” all’interno del consiglio di amministrazione. In una loro prima analisi, risalente all’anno 2005, Haslam, Ryan e Kulich notarono che nei mesi precedenti alla nomina delle donne le compagnie presentavano un valore peggiore mentre, nei tre mesi successivi alla loro nomina, la situazione si attenuava e la differenza delle loro performance non era differente dalle aziende che avevano nominato uomini. Gli autori descrissero questa situazione come un “precipizio di vetro” o “glass cliff” piuttosto che

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un “glass ceiling”,17 come precedentemente affermato, nel senso che, anche se le donne riuscivano a rompere il soffitto di vetro, si ritrovavano poi a dover affrontare situazioni ancora più complesse in cui il ruolo di leadership era più rischioso e precario come sull’orlo di un precipizio.

Lo studio successivo di Haslam, Ryan e Kulich è quello del 2010 in cui le indagini precedenti furono prese come base di partenza per poi approfondirle alla luce dei nuovi fatti. Gli studiosi utilizzano un campione di aziende appartenenti alla lista dell’indice FTSE 10018 osservate per un periodo di 5 anni (2001-2005). In questi anni i dibattiti sulla diversità di genere all’interno delle organizzazioni erano molto accesi. A differenza delle analisi precedenti, in questo lavoro, gli autori si concentrano maggiormente sulla presenza delle donne all’interno del board piuttosto che alla loro nomina in posizioni di leadership. Per calcolare la performance aziendale, gli autori utilizzano sia misure di contabilità quali ROA e ROE, ma anche quelle relative ai valori borsistici come, ad esempio, la Tobin’s Q. Entrambe le misure permettono di raggiungere un maggior livello di dettaglio: infatti, le prime sono calcolate su dati appartenenti al passato, a ciò che è già avvenuto, mentre la seconda fornisce informazioni anche sul potenziale successo futuro di un’azienda. Le prime misure, inoltre, sono basate su documenti prodotti internamente all’azienda mentre la seconda no. Essa risulta, invece, essere più influenzata dalla reazione del mercato la quale, a sua volta, riflette il comportamento e le percezioni degli investitori. I ricercatori utilizzano, comunque, anche altre misure per verificare l’impatto della presenza femminile all’interno dell’organizzazione: ad esempio, per misurare la composizione di un consiglio di amministrazione calcolano il rapporto tra il numero delle donne presenti                                                                                                                

17  “Glass ceiling” (letteralmente Soffitto di vetro) è un'espressione che indica situazioni in cui l'avanzamento di una persona in una qualsiasi organizzazione lavorativa o sociale, viene impedito per discriminazioni, prevalentemente di carattere razziale o sessuale.

18 L’indice comprende le 100 aziende più capitalizzate nella Borsa di Londra. E’ usato come base per i prodotti d’investimento, come derivati e fondi.

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all’interno di esso e il totale dei suoi membri e per definire le caratteristiche dell’azienda utilizzano la dimensione, il numero di dipendenti e il settore in cui opera. Innanzitutto, essi notano che, per quanto riguarda la composizione del board, dal 2001 al 2005 si presenta un incremento del numero di donne presenti nei consigli di amministrazione delle aziende, un aumento delle aziende che avevano al loro interno almeno una donna e una crescita della percentuale di membri del consiglio che erano donne.

Figura 2 Modello della relazione tra la presenza delle donne nel consiglio di amministrazione e la performance aziendale in relazioni alle percezioni di crisi.

L’esito a cui sono giunti Haslam, Ryan e Kulich in riferimento alle variabili controllabili studiate conduce alla scoperta che non vi sia alcuna relazione tra la composizione mista del consiglio di amministrazione e la sua dimensione. Allo stesso

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modo anche in relazione al settore finanziario non evidenziano alcun effetto. Essi notano, nonostante ciò, che la composizione eterogenea di un consiglio sia legata maggiormente al settore di appartenenza dell’azienda, quindi se l’azienda era presente in un settore tipicamente femminile, la presenza femminile sarebbe stata sicuramente superiore alle attese. Anche in relazione al numero di dipendenti, gli autori notano che la composizione del board varia. I risultati che hanno ottenuto per verificare gli effetti sulla performance aziendale evidenziano, infine, che non vi è alcuna relazione tra la presenza o la percentuale di donne presenti nel board con il ROA o con il ROE. Inoltre, la relazione tra la presenza delle donne e la Tobin’s Q era negativa. Essi notano, in particolare, che il valore attribuito alle azioni era pari al 166% per le aziende composte da soli uomini mentre scendeva al 121% quando vi era almeno una donna. Infine, essi studiano se sono le performance non soddisfacenti a portare ad assumere le donne o se è la presenza delle donne a condurre a risultati negativi. Le conclusioni a cui giungono gli autori sostengono entrambe le ipotesi, dando la prova che ci sia una relazione bilaterale tra la presenza delle donne nel cda e le performance. Nonostante questo, l’ipotesi per cui la presenza delle donne presagisce performance scarse è più forte. Questo fatto evidenzia che gli azionisti intrepretano in maniera scorretta la presenza delle donne all’interno dell’azienda, vedendolo come un segno di declino o un presagio di rovina. La ricerca di Lückerath – Rovers del 2011 indaga se le compagnie in cui erano presenti donne amministratrici presentavano performance migliori rispetto a quelle in cui erano totalmente assenti. Lo studio prende spunto da due ricerche elaborate in anni precedenti, ovvero quella di Catalyst dell’anno 2007 e quella di McKinsey sempre dello stesso anno.

La nazione in cui lo studio è svolto è l’Olanda: le compagnie di questo paese adottano, solitamente, il modello di governance dualistico, in cui sono presenti due organi sociali

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quello amministrativo e quello di controllo. Nonostante la presenza di più organi nei quali tale fenomeno può essere studiato, l’autore specifica che farà riferimento a un unico organo il quale comprenderà indistintamente i due.

Entrambe le ricerche di Catalyst e di McKinsey affermano una relazione positiva tra la “gender diversity” e le performance superiori delle aziende studiate ma presentano, allo stesso tempo, notevoli debolezze metodologiche. Infatti, in entrambi gli studi, non vengono spiegate se le differenze nelle performance sono statisticamente valide. Nello studio di McKinsey, inoltre, il campione è costruito su basi soggettive.

Come nota anche l’autore, le ricerche in questo campo conducono a risultati, già da allora, significativamente contrastanti. Le ragioni per cui si presentano tali differenze sono dovute, secondo l’autore, a tre fattori. Il primo fattore riguarda le modalità di calcolo della diversità all’interno del team: come misura statistica, la diversità viene misurata in base al numero di donne presenti nel board mentre, come misura dinamica, si considera l’alternanza del numero di donne all’interno del board e le sue conseguenze. Secondo l’autore sarebbe stato più corretto utilizzare la seconda metodologia perché gli effetti dell’entrata delle donne all’interno del board non avrebbe ottenuto alcun risultato nel breve termine. In secondo luogo, sulla base di quanto affermato da Van Ees et al. (2007) un board eterogeno può manifestare performance peggiori se, a seguito dell’inserimento delle donne, si verificano i risultati in un arco di tempo troppo breve. Secondo l’autore, infatti, gli azionisti sono soliti intervenire maggiormente sulle decisioni degli amministratori esecutivi in momenti di crisi, richiedendo la nomina di amministratori indipendenti. Inoltre, se gli azionisti ritengono che ciò sia dovuto alla composizione omogenea del board, essi aumenteranno la pressione di assumere donne al suo interno. Di conseguenza, se s’indagasse sulla relazione tra le performance e la nomina dei direttori indipendenti (in questo caso

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donne), si individuerebbe una relazione negativa piuttosto che positiva perché la loro nomina viene dopo performance negative e il loro contributo necessita di un tempo più lungo per dimostrare gli eventuali risultati positivi. Il terzo e ultimo fattore si riallaccia alla teoria della massa critica per cui solo al raggiungimento di un numero significativo il gruppo sotto- rappresentato sarebbe in grado di influenzare i risultati.

L’autore nel suo ultimo studio cerca di apportare le migliorie necessarie per investigare la relazione tra le donne amministratrici e le performance delle compagnie olandesi con strumenti statistici più corretti. Le ricerche dalle quali parte il suo studio sono, appunto, quelle di Catalyst e McKinsey. Lo studio di Catalyst utilizza come campione 520 compagnie americane dal 2001 al 2003, le quali sono divise in quattro gruppi, ciascuno dei quali composto da 130 aziende. Lo studio compara le performance delle aziende che appartengono al quartile con la percentuale più alta di donne nel board a quello con la percentuale più bassa. Le misure di performance utilizzate sono il ROE, ROS e ROIC19. I risultati migliori sono ottenuti, secondo questo studio, da quelle aziende che hanno più donne nel board. A livello di calcolo matematico, però, la ricerca di Catalyst presenta appunto delle grosse debolezze. Lo studio di McKinsey è composto, invece, da una parte qualitativa e una quantitativa. Nella prima parte, infatti, s’interrogano circa 115.000 dipendenti sulle motivazioni per cui le aziende nelle quale le donne ricoprono posizioni elevate ottengono risultati migliori rispetto alle aziende in cui esse sono assenti. La parte quantitativa considera 89 aziende presenti nell’Amazone Euro Fund (AEF) scelte in base a tre criteri: il numero di amministratrici donne esecutive, la presenza di due o più donne non esecutive e l’attenzione posta nel rapporto di gestione annuale alla diversità di genere all’interno dell’organizzazione. L’intera ricerca perde                                                                                                                

19  La remunerazione del capitale investito, o “return on invested capital” (ROIC) è un indice finanziario

che spiega la capacità dell’azienda di far fruttare il suo capital, perciò rappresenta il principale generatore di valore aziendale. Si calcola dividendo l’ebit per il capitale investito netto (CIN) ed è solitamente espresso in percentuale. Quando il ritorno del capitale è maggiore del costo del capitale, la società sta creando valore mentre quando è inferiore, la società sta erodendo il suo valore.

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credibilità proprio perché né lo studio di McKinsey né l’AEF pongono la giusta attenzione al metodo con cui misurare questi criteri. Lo studio compara, comunque, le aziende sulla base della “gender diversity” con la media dell’intero settore nel quale queste aziende lavorano e utilizza come misura di performance il ROE, l’EBIT e la crescita del valore azionario dell’ultimo anno. Nonostante gli sforzi fatti, le scoperte di questo studio non potranno essere impiegate dai ricercatori successivi perché i dati non sono né verificabili né replicabili.

Lo studio di Lückerath – Rovers utilizza le 116 aziende quotate nella borsa di Amsterdam nell’anno 2008. Egli seleziona solo quelle che hanno la loro sede nel paese ed esclude dal campione i fondi d’investimento. Il campione che ne risulta sono 99 aziende con dati disponibili dal 2005 al 2007 di cui il 69% di esse non ha donne nominate nel board e il restante 31% ne ha una o più. La maggior parte delle 31 aziende ha una sola donna nel consiglio e non sono esecutive. Per questa ragione, lo studio di Lückerath – Rovers non può applicare la teoria della massa critica. L’autore desidera misurare la diversità di genere di un board secondo il metodo di Catalyst o di McKinsey. Nel primo caso, però, la divisione in quartili delle aziende (25 aziende in ciascun quartile) non può essere applicata perché i primi tre gruppi non avrebbero nessuna donna al loro interno. Lo studioso considera, allora, una suddivisione diversa: le aziende che hanno almeno una donna e quelle in cui sono assenti.

Secondo il rapporto di McKinsey, la diversità, in questo studio, dovrebbe essere misurata tramite il confronto tra la performance delle 89 aziende che ottengono il maggior punteggio in termini di varietà di genere e la performance media dell’intero settore nel quale sono presenti. Lo studio compara quindi la performance delle aziende più “gender-diversified” (31 aziende con donne amministratrici) e la performance media dell’intero settore. L’autore utilizza un terzo indice calcolando la quota media di donne

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amministratrici per il periodo 2005-2007. Quest’ultimo indice permette una maggiore comprensione del cambiamento della diversità di genere nel board. Per misurare la performance aziendale, Lückerath – Rovers utilizzata gli stessi parametri degli studi esaminati: ROE, ROS, ROIC, EBIT e il ritorno totale dell’investimento per l’azionista (TSR, “total shareholder return”). Le variabili controllabili che l’autore impiega sono la dimensione del board e dell’azienda e una variabile binaria che gli serve per descrivere se l’azienda opera in un settore finanziario o meno.

In primo luogo, questo studio mostra che, quando nei consigli di amministrazione sono presenti donne, la dimensione dell’azienda è ampia. Infatti, come in molte altre ricerche, nelle aziende più grandi si è verificata una maggiore presenza femminile. Inoltre, i risultati confermano lo studio di Catalyst per cui le aziende che presentano un board diversificato ottengono performance migliori rispetto a quelle senza. La differenza è evidente soprattutto per quanto riguarda il ROE (23,3% per le aziende con donne contro il 11,1% per quelle senza). Lo stesso risultato è raggiunto con gli indici ROS e il ROIC. Anche i risultati ottenuti attraverso l’approccio di McKinsey sono confermati: sia la presenza di donne nel board come variabile binaria che la dimensione aziendale mostrano una relazione positiva con la “gender diversity”. Attraverso un altro metodo di calcolo, quello di regressione, vengono confermati i risultati raggiunti: l’autore individua, infatti, una relazione positiva tra il ROE e la dimensione dell’azienda e una negativa con il settore finanziario. La presenza delle donne nel board impatta positivamente sul ROE ma, secondo l’autore, risulta comunque prematuro utilizzare questa relazione positiva come dimostrazione per promuovere la nomina delle donne all’interno del board.

Lo studio di Torchia et al., pubblicato nel 2011, si differenzia dagli altri poiché prende in considerazione il numero delle donne all’interno di un consiglio di amministrazione

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