Dipartimento di Economia e Management
Corso di Laurea Magistrale in
Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari
Tesi di Laurea
“L’informativa sui rischi bancari”
Relatore: Candidato:
Prof.ssa Paola Ferretti Silvia Santomauro
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Indice
Introduzione_____________________________________________________________________5
Capitolo 1 – La disclosure nell’ambito del sistema bancario __________ 7
1.1 La disclosure: significato, finalità e rilevanza . . . 7
1.2 I vantaggi e gli svantaggi della trasparenza informativa. . . 10
1.3 L’informativa che le banche devono rendere al pubblico sul capitale e sui rischi . . . 12
1.4 La disclosure obbligatoria . . . .23
1.4.1 La disclosure sui rischi nel bilancio ordinario di esercizio . . . 23
1.4.2 La disclosure sui rischi nell’ambito del Terzo Pilastro di Basilea . . . .28
1.5 La disclosure volontaria . . . 30
1.6 La comunicazione di informazioni di carattere non finanziario: la direttiva 2014/95/UE ed il decreto legislativo n. 254/2016 . . . 34
Capitolo 2 – La regolamentazione della disclosure sui rischi bancari: il
Pillar 3_________________________________________________39
2.1 La disciplina di mercato e la trasparenza informativa . . . .392.2 L’evoluzione del Terzo Pilastro di Basilea: da Basilea 2 a Basilea 3 . . . .41
2.3 In che cosa consiste oggi l’informativa che le banche devono rendere al pubblico . . . 46
2.3.1 Disposizioni tecniche in materia di trasparenza e di informativa . . . 48
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Capitolo 3 – L’informativa sui rischi bancari: il caso UniCredit_______74
3.1 Individuazione degli item osservati . . . .75
3.2 Il grado di informativa al pubblico della Banca UniCredit . . . .79
3.2.1 La disclosure nel bilancio ordinario di esercizio e nella relazione del Terzo Pilastro . . . .79
3.3 Analogie e differenze nei due livelli di informativa . . . 89
Conclusioni ____________________________________________________________________94
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Introduzione
La trasparenza informativa rappresenta un principio basilare del sistema regolamentare bancario.
I documenti di informativa che le banche predispongono possono essere diversi; in effetti si
distingue la disclosure obbligatoria dall’informativa volontaria. L’elaborato affronta, in un primo
momento, il ruolo e le finalità che un grado migliore e maggiore di informativa al pubblico
persegue richiamando i benefici ma anche gli svantaggi della stessa ed in seguito si sofferma sull’analisi dei due principali ed attuali obblighi di informativa: il bilancio ordinario di esercizio e la
relazione del Pillar 3. Alla luce della manifestazione della grande crisi finanziaria globale le autorità
di vigilanza hanno incrementato notevolmente gli obblighi di informativa cui gli intermediari bancari sono sottoposti nell’ambito dei due documenti richiamati e nel corso dell’analisi vengono
ripercorse le varie misure regolamentari introdotte, finalizzate al perseguimento della disciplina di
mercato, ovvero di quel meccanismo tramite il quale gli operatori di mercato sono in grado di controllare ed indirizzare l’assunzione di rischi da parte delle banche.
Seguirà una descrizione dell’adeguatezza patrimoniale di cui gli intermediari bancari devono
disporre per poter fronteggiare i rischi ai quali si espongono, in modo tale da rendere maggiormente
comprensibili le disposizioni normative in materia di mandatory disclosure sui seguenti argomenti:
capitale regolamentare ed esposizione rischiosa, trattati sia a livello di bilancio di esercizio che a
livello di relazione di Terzo Pilastro di Basilea. In effetti, ad oggi i due documenti richiamati
rappresentano i più rilevanti in materia di informativa al pubblico: il primo è da sempre oggetto di
stesura e pubblicazione da parte delle banche, al contrario, il secondo è diventato un obbligo di
redazione e divulgazione solamente in tempi recenti.
Per quanto concerne l’informativa di tipo non finanziario seguirà, invece, un richiamo – breve ma
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2014/95/UE ed il decreto legislativo n. 254/2016 inerenti alla comunicazione di informazioni di
carattere non finanziario.
Il secondo capitolo lascerà spazio all’analisi degli interventi normativi relativi al report Pillar 3 che
si sono susseguiti nel tempo a partire dal framework di vigilanza Basilea 2 che ne ha previsto per la prima volta l’obbligatorietà della stesura e divulgazione. L’obiettivo perseguito è quello di far
percepire al lettore l’evoluzione normativa in modo tale da far comprendere l’aumento di centralità
che tale report ha assunto nel tempo fino ad arrivare alla definizione di come oggi la relazione in
esame deve essere presentata. Inoltre, le ultime pagine di questo capitolo saranno dedicate agli
interventi più recenti effettuati dal Comitato di Basilea e dalla Banca Centrale Europea, dettati dalle
riforme regolamentari post-crisi, che preannunciano quello che sarà Basilea 4 e dai quali è possibile evincere l’attenzione che le autorità di vigilanza dedicheranno all’informativa sulle attività
deteriorate, le quali pesano enormemente sui bilanci degli intermediari bancari e che devono essere
oggetto di adeguata informativa agli operatori di mercato.
La trattazione si concluderà con l’analisi del grado di disclosure dell’intermediario bancario di
maggior rilevanza italiano – UniCredit Group. Nel corso dell’ultimo capitolo verranno infatti
individuati i temi principali da ricercare all’interno dei due documenti di informativa – annual
report e report Pillar 3 – ed in seguito verrà descritto come tali item vengono trattati dall’intermediario in esame.
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Capitolo 1
La disclosure nell’ambito del sistema bancario
1.1 La disclosure: significato, finalità e rilevanza
La disclosure in ambito economico-finanziario rappresenta l’atto di fornire informazioni al mercato
da parte di banche ed imprese, poiché entrambe, ma in particolare le prime, diffondono quantità
significative di informazioni che vengono rese disponibili pubblicamente al fine di consentire l’utilizzo delle stesse da parte degli stakeholders, cioè da parte di quei soggetti interessati al
comportamento degli intermediari finanziari perché da questo dipende il soddisfacimento dei propri
interessi. Gli azionisti ed in generale tutti gli investitori, che partecipano al reperimento di risorse
effettuato dalle banche, hanno bisogno di essere informati sulle condizioni economiche,
patrimoniali e finanziarie degli intermediari in modo tale da poter impostare efficacemente le
proprie decisioni. Ecco che per le banche è importante, sennonché necessario, comunicare il proprio
futuro ed in particolare diffondere informazioni sui rischi a cui si espongono nello svolgimento
della loro attività, in modo tale che venga perseguita una maggiore efficienza e stabilità del sistema
finanziario ma soprattutto in modo tale da riuscire a beneficiare loro stesse della divulgazione di
informazioni. In effetti, se tali informazioni sono affidabili e possono essere utilizzate in modo
appropriato dal mercato, si realizza la disciplina di mercato che può consentire alle istituzioni
finanziarie di ridurre il costo del capitale a cui reperiscono finanziamenti, in quanto gli investitori
sono maggiormente in grado di giudicare i rischi e la solvibilità delle banche stesse1.
Pertanto, l’obbligatorietà della disclosure è ormai assunta come elemento basilare dei processi di
comunicazione nei mercati finanziari. L’imposizione di obblighi relativi alla pubblicazione di
informazioni aziendali è dovuta principalmente al beneficio che ne deriva per l’intera collettività,
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poiché la produzione interna di informazioni inerenti alla gestione ha un costo minore rispetto ad
una produzione delle stesse effettuata da soggetti esterni. Tale elemento è dovuto al fatto che le
imprese – ed in particolare le banche – elaborano già internamente vari tipi di informazioni e la loro
diffusione al pubblico comporta minori costi di quelli che ne comporterebbe una produzione esterna
delle medesime. Nonostante i costi della produzione interna siano inferiori rispetto alla produzione
di informazioni a livello di mercato, il settore bancario deve comunque sostenere: i costi legati alla produzione e distribuzione delle informazioni;
i costi competitivi originati dall’eventualità che le divulgazioni di informazioni riservate al pubblico, permettano ai concorrenti di assumere posizioni vantaggiose;
i costi politici, che incrementano la “litigiosità” e le richieste di diversi stakeholders;
i costi operativi indiretti che scaturiscono da eventuali interpretazioni non corrette da parte del mercato delle informazioni fornite dalle banche a seguito dell’adempimento agli
obblighi informativi a loro carico.
I numerosi obblighi informativi che il settore bancario è tenuto ad onorare perseguono anche l’obiettivo di rendere le informazioni divulgate credibili, in quanto ogni norma in materia è
accompagna dalla previsione di sanzioni volte a limitare eventuali trasgressioni ai vincoli previsti.
Tali sanzioni hanno la finalità di contrastare le divulgazioni di informazioni non veritiere in modo tale da permettere agli utenti delle stesse di essere tutelati dall’adozione di comportamenti di moral
hazard delle banche o imprese necessitanti finanziamenti2.
Oltre agli evidenti vantaggi scaturenti dall’imposizione di obblighi informativi, emergono però
alcuni svantaggi dall’imposizione stessa. Alcuni studi, che si sono susseguiti nel tempo, hanno
cercato di dimostrare che pubblicare maggiori quantità di informazioni non è sempre la soluzione
più adeguata, soprattutto se si tratta di informazioni “noisy” – rumorose e poco importanti – che
complicano la comprensione degli aspetti più rilevanti per gli operatori di mercato. Ulteriormente,
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ANDREA QUAGLI, “Comunicare il futuro. L’informativa economico-finanziaria di tipo previsionale delle società
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ci sono notizie la cui diffusione potrebbe suscitare effetti non desiderati come, ad esempio, il panico
degli operatori di mercato. Questo può accadere quando le informazioni vengono pubblicate ad
intervalli di tempo molto ravvicinati tali da incrementare la volatilità dei titoli. La frequenza di
diffusione avrebbe, in questo caso, l’effetto di elevare la rischiosità dell’emittente dei titoli – la
banca – e di conseguenza anche il suo costo del capitale. In sintesi, è possibile affermare che, la
disclosure è vantaggiosa per il mercato in presenza di operatori in grado di elaborare le informazioni giuste per comprendere i rischi che le banche stanno assumendo.
Abbiamo definito la disclosure come la divulgazione di informazioni al pubblico da parte delle
banche, pertanto, tale comunicazione economico-finanziaria, è lo strumento tramite il quale il settore bancario dialoga con i soggetti operanti nell’ambiente esterno e deve essere ispirata al
principio della trasparenza3. La trasparenza, intesa come sinonimo di fruibilità delle informazioni
utili da parte di tutti i portatori di interessi nella banca, è alla base di un’efficacie disciplina di
mercato che rappresenta, a sua volta, il meccanismo mediante il quale i partecipanti al mercato (azionisti, depositanti e debitori) controllano e disciplinano l’assunzione eccessiva di rischi da parte
degli intermediari bancari. In effetti, se la solvibilità o l’esposizione rischiosa delle banche risulta
essere inadeguata o poco chiara, gli operatori reagiscono esigendo premi di rischio più elevati sui fondi forniti e/o riducendo l’importo dei finanziamenti concessi alle stesse. Affinché la disciplina di
mercato funzioni efficacemente è sicuramente importante che gli operatori dispongano di
informazioni sufficienti per valutare i rischi che le banche si assumono, ma è anche fondamentale
che tali soggetti abbiano sia le capacità di elaborare queste notizie, sia i poteri per riuscire a
disciplinare gli intermediari ed anche gli incentivi per poter interferire nelle loro decisioni di
assunzione di rischi4.
3 MARCO MAFFEI, “La disclosure sui rischi con particolare riferimento alle banche”, G. Giampichelli Editore,
Torino, 2017.
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Il contenuto della disclosure che le banche diffondono varia in base agli specifici fabbisogni
informativi ma, nel corso di questa analisi, ci soffermeremo sulla divulgazione di dati inerenti alla solvibilità ed all’esposizione rischiosa che gli intermediari presentano.
La disclosure che le banche diffondono, sia obbligatoriamente che volontariamente, è sicuramente
incrementata nel corso degli ultimi anni, in seguito al susseguirsi di eventi che hanno minato la fiducia degli operatori nel sistema bancario ed in generale nel sistema finanziario. L’avvento della
crisi del 2008 ha messo in luce che la diffusione di informazioni da parte degli intermediari
finanziari era stata fino a quel momento inadeguata perché le banche non rendevano pubbliche
informazioni sufficienti sulle attività che detenevano ma soprattutto sui rischi a cui si esponevano;
questo comportava che gli insiders bancari – come i gestori – fossero a conoscenza di informazioni maggiori che gli permettevano di giudicare la solvibilità e l’esposizione rischiosa della banca stessa
a differenza degli operatori del mercato.
Pertanto, una migliore qualità e quantità delle informazioni divulgate è vantaggiosa sia nei periodi
prociclicamente negativi – come una crisi – durante i quali la mancanza o inadeguatezza di notizie
comporta un aumento notevole dei costi di finanziamenti, intensificando l’evento crisi stesso; sia
nei momenti di congiuntura economica positiva, permettendo agli investitori nel debito di evitare
che le banche assumano rischi eccessivi. In tale contesto, le banche di tutto il mondo hanno
incrementato e migliorato le informazioni rese pubbliche sia quelle riguardanti il capitale sia quelle
relative ai rischi peculiari delle banche stesse.
1.2 I vantaggi e gli svantaggi della trasparenza informativa
Uno dei principali obiettivi che le autorità di vigilanza perseguono è quello di assicurare la
trasparenza informativa a livello di sistema bancario. Il raggiungimento di tale fine è diventato negli
ultimi anni maggiormente rilevante ma anche maggiormente complesso, in effetti, gran parte degli
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attività bancaria tradizionale allo svolgimento di un’operatività internazionale su vasta scala oltre
che ad una significativa partecipazione al mercato mobiliare ed assicurativo5. In questo contesto di complessità operativa molti studiosi hanno sostenuto l’importanza della pubblicazione da parte
degli intermediari di informazioni aggiornate ed affidabili, inerenti la loro situazione reddituale –
patrimoniale e la loro esposizione rischiosa complessiva, volte a consentire sia agli operatori di
mercato che alle autorità di vigilanza di riuscire a valutare correttamente le istituzioni bancarie
stesse. Inoltre, nella misura in cui il management delle istituzioni è a conoscenza del fatto che l’attività bancaria e l’esposizione rischiosa sono rese pubbliche e trasparenti, è sicuramente
incentivato a migliorare le procedure di valutazione e gestione interne dei rischi stessi. Per questi
motivi, ad oggi, le autorità di vigilanza ritengono che i vantaggi scaturenti da una maggiore e
migliore disclosure di informazioni siano significativi, sia dal punto di vista della vigilanza, sia dal
punto di vista della stabilità del sistema finanziario. Nonostante ciò, si sono susseguite nel tempo
varie opinioni in letteratura in materia di informativa al pubblico. Gli autori che hanno mostrato una
posizione sfavorevole alla divulgazione di informazioni hanno osservato che la disclosure di
informazioni negative relative a determinati istituti bancari, potrebbe provocare il collasso dei prezzi delle azioni anche degli intermediari solidi; ciò implicherebbe anche il fenomeno della “corsa
allo sportello” attuata dai depositanti in reazione al recepimento di tali notizie. Pertanto, la sfiducia
del mercato verso una banca potrebbe propagarsi ad altre banche, determinando l’indebolimento del
sistema finanziario e l’instabilità sistemica. Nel corso di questa trattazione sosterremo l’opinione
che un miglioramento dell’informativa bancaria destinata al pubblico riesca a rafforzare la sicurezza
e la solidità del sistema bancario. A tal proposito, negli ultimi anni, i legislatori, le autorità di
vigilanza bancaria e gli organismi contabili si sono adoperati attivamente per riuscire a promuovere un’informativa al pubblico regolare, comparabile, di elevata qualità ad un costo ragionevole.
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1.3 L’informativa che le banche devono rendere al pubblico sul capitale e
sui rischi
La trasparenza bancaria si realizza attraverso la pubblicazione da parte degli intermediari bancari di
informazioni significative, tempestive, affidabili, comparabili e rilevanti che permettano agli
utilizzatori delle informazioni stesse di formulare un giudizio fondato sulla situazione patrimoniale – reddituale, sull’operatività, sul profilo di rischio e sulle procedure di gestione del rischio di una
banca. A tal proposito il Comitato di Basilea, nel processo di rivisitazione della materia, ha
specificato che le notizie trasmesse dalle banche al pubblico debbano necessariamente presentare
delle specifiche caratteristiche affinché i fruitori di tali informazioni siano in grado di valutare
accuratamente i singoli intermediari bancari. In primo luogo è doveroso far riferimento alla
significatività delle informazioni trasmesse per gli operatori di mercato, in effetti, un’informazione
è considerata significativa se è in grado di facilitare tali soggetti nella valutazione dei presumibili
rischi e rendimenti connessi al tipo di esposizione che hanno nei confronti di una determinata
istituzione bancaria. Inoltre, le banche devono comunicare al mercato le informazioni con frequenza
e tempestività sufficienti tali fornire un’immagine attuale dell’intermediario e del profilo di rischio
che le caratterizza. Per quanto concerne poi l’affidabilità delle informazioni trasmesse al pubblico
precisiamo che essa è intesa come il fatto che le notizie fornite devono rispecchiare la sostanza dei
fatti e devono anche essere verificabili, prudenti, complete ed esenti da errori o distorsioni sostanziali, poiché un’omissione può rendere le informazioni fornite false o forvianti. Pertanto è
anche necessario che i dati trasmessi presentino il tratto della rilevanza; un’informazione è
considerata rilevante se la sua omissione o errata indicazione può modificare o influenzare il
giudizio o la decisione di un utilizzatore della stessa. Infine, le informazioni fornite devono
presentare il requisito della comparabilità, pertanto devono essere confrontabili nel tempo sia a
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Sia gli operatori di mercato che le autorità di vigilanza usufruiscono delle informazioni fornite dalle
singole istituzioni bancarie per poter formulare giudizi, nel primo caso, sulle esposizioni che hanno
nei loro confronti e, nel secondo caso, giudizi complessivi sulla situazione dei singoli intermediari.
La trasparenza informativa sull’adeguatezza patrimoniale
Le informazioni sulla situazione patrimoniale delle istituzioni bancarie sono utili ad entrambi i
fruitori descritti al fine di valutare la capacità delle aziende di onorare puntualmente le obbligazioni
finanziarie, il grado di liquidità, la solvibilità e la solidità patrimoniale attuale e prospettica di cui
dispongono. In questo ambito il riferimento è alle informazioni inerenti il patrimonio di vigilanza e
delle sue componenti di cui gli intermediari bancari devono necessariamente disporre in una
determinata quantità stabilita dalle norme di vigilanza prudenziale.
Il concetto base su cui si fonda il framework di vigilanza bancaria prudenziale – attualmente Basilea
3 – è l’adeguatezza patrimoniale che esprime la capacità degli intermediari bancari di fronteggiare
la loro esposizione rischiosa, pertanto si basa sul legame tra il rischio cui una banca è esposta ed il patrimonio di cui una banca dispone. L’intermediario bancario deve sostanzialmente dotarsi di
meccanismi volti a valutare attentamente i rischi che corre nello svolgimento delle proprie attività per poi predisporre adeguati strumenti per il fronteggiamento dell’esposizione rischiosa individuata.
In effetti, devono quantificare ogni tipologia di rischio, definire il livello di rischio complessivo ed
individuare la massima perdita a cui possono incorrere durante svolgimento della loro attività.
Inoltre, le singole banche devono mettersi nelle condizioni di fronteggiare tale massima perdita
come previsto dalle Autorità di Vigilanza. In effetti, la regolamentazione vigente prevede che il
settore bancario disponga di un requisito patrimoniale minimo al fine di riuscire a fronteggiare l’esposizione rischiosa complessiva che caratterizza i singoli intermediari.
A tal proposito è il Comitato di Basilea – l’organismo di vigilanza internazionale – che definisce gli
orientamenti in materia di vigilanza condivisi in modo concertato con le banche centrali dei
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necessario che vengano recepite dai singoli ordinamenti nazionali. Nonostante i primi documenti rappresentativi di Basilea 3 siano ascrivibili al dicembre del 2010, a causa dell’inedito momento di
crisi vissuto dall’economia mondiale a partire dal 2008, il framework è stato portato a termine
solamente nel 2013 ed è entrato in vigore, a livello europeo, nel 2014 in virtù di due provvedimenti
pubblicati il 26 giugno 2013 e rappresentati rispettivamente da:
- la Direttiva 2013/36/UE denominata anche Capital Requirements Directive IV (CRD IV)
- il Regolamento (UE) n. 575/2013 denominato anche Capital Requirements Regulation
(CRR).
L’insieme di questi due documenti viene comunemente definito “pacchetto europeo” : il Capital
Requirements Regulation ha immediata efficacia nei paesi membri, perciò non necessita di alcun recepimento legislativo a livello nazionale, al contrario la Direttiva IV deve essere recepita
specificatamente dai singoli ordinamenti nazionali. A livello italiano, la Banca d’Italia ha avviato l’elaborazione dei provvedimenti volti a dare accoglienza nell’ordinamento nazionale della Capital
Requirements Directive IV nell’agosto 2013, affinché la stesura della circolare di recepimento fosse definitiva per l’entrata in vigore degli stessi al 1° gennaio 2014. Tale processo è terminato con la
predisposizione della Circolare 285 del 2013 finalizzata alla trasposizione a livello nazionale del framework Basilea 3 rappresentato, a livello europeo, dal “pacchetto comunitario”. Il Comitato di
Basilea ha mantenuto l’articolazione su tre pilastri del framework di vigilanza prudenziale tipica
dell’impianto regolamentare precedente – Basilea 2 – ma ha rafforzato in maniera sostanziale
ognuno di queste tre diverse leve, che permettono congiuntamente il perseguimento dell’adeguatezza patrimoniale da parte di tutto il settore bancario. In particolare, in materia di
requisiti patrimoniali – Pillar 1 – Basilea 3 ha modificato sostanzialmente la normativa precedente, poiché l’attenzione è stata incentrata sulla rivisitazione della quantità ma, in particolar modo, della
qualità del capitale da utilizzare per il fronteggiamento delle perdite stimate. In materia di
disposizioni sui fondi propri, la Seconda Parte della Circolare 285/2013, stabilisce che il patrimonio
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o Tier 1 – anche detto capitale di classe 1 – è il patrimonio di base che persegue la
finalità “on going concern” ed è pertanto destinato al fronteggiamento delle possibili
perdite che le banche possono registrare durante la loro attività.
o Tier 2 – anche detto capitale di classe 2 – è il patrimonio supplementare che persegue una finalità “on gone concern” ed è pertanto destinato al fronteggiamento
della fase di liquidazione o di situazioni di crisi analoghe.
Il rafforzamento della qualità del capitale attuato dal Comitato di Basilea viene attuato eliminando
dal patrimonio di vigilanza il calcolo del Tier 3, quel patrimonio precedentemente rivolto alla
copertura dei rischi di mercato, che risultava essere eccessivamente blando e debole. Ad oggi i
rischi di mercato devono essere coperti attraverso il capitale regolamentare utilizzato per la
copertura di tutti gli altri rischi.
Inoltre, vengono definiti in modo dettagliato gli elementi che compongono il capitale di classe 1 e
di classe 2. Il Tier 1 è dato dalla somma tra il Core Tier 1 e l’Additional Tier 1. In primo luogo, il
Core Tier 1 è il Common Equity – il capitale puro – poiché definito sostanzialmente dal capitale e
dalle riserve da utili. In particolare, è dato dalla somma algebrica dei seguenti elementi:
o azioni ordinarie emesse dalla banca che soddisfano i criteri di classificazione come azioni
ordinarie a fini regolamentari;
o sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel Common Equity
Tier 1;
o riserve di utili;
o riserve da valutazione e altre riserve palesi;
o aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del Common Equity Tier 1
Il secondo elemento che compone il capitale di classe 1 è il capitale aggiuntivo di classe 1 –
Additional Tier 1 – dato dalla sommatoria tra i seguenti elementi:
o strumenti emessi dalla banca che soddisfano i criteri di computabilità del Tier 1 aggiuntivo
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o sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel Tier 1 aggiuntivo;
o aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del Tier 1 aggiuntivo.
Per quanto concerne la composizione del patrimonio supplementare, il Comitato di Basilea ha
definito che il Tier 2 è dato dalla somma algebrica tra:
o strumenti emessi dalla banca che soddisfano i criteri di computabilità nel patrimonio
supplementare (e non ricompresi nel patrimonio di base);
o sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel patrimonio
supplementare; o accantonamenti;
o aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del patrimonio supplementare.
Ulteriore introduzione normativa fondamentale prevista da Basilea 3 è rappresentata dal fatto che,
sia nel caso di Additional Tier 1, sia nel caso di Tier 2, è prevista la conversione in Common Equity
o la svalutazione al verificarsi di un trigger event. Quest’ultimo identifica un evento attivatore,
finalizzato ad allertare la banca e rappresentato, ad esempio, dalla riduzione del Core Tier 1 al di
sotto di una determinata soglia pari al 5,125% – secondo la normativa – ma che può essere anche maggiore se così deciso dall’intermediario. In questo contesto, dal trigger event scaturiscono una
serie di azioni di salvaguardia all’interno dell’intermediario interessato, perché questo verte in una
situazione di evidente difficoltà, pertanto si procede alla riduzione – temporanea o permanente – dell’importo del capitale a titolo di Additional Tier 1 o, altrimenti, gli strumenti vengono convertiti
in Common Equity Tier 1. Ancora una volta è possibile evincere il ruolo centrale che viene assunto dal capitale puro all’interno dei singoli intermediari, poiché l’Additional Tier 1, nonostante sia un
capitale solido, viene pur sempre subordinato al Common Equity, il quale è l’unico l’elemento in
grado di costituire una base solida di capitalizzazione delle banche. Un ulteriore aspetto rilevante nell’ambito del capitale proprio che le banche devono detenere è rappresentato dalle riserve di
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Sono state, entrambe, introdotte dall’impianto di vigilanza prudenziale Basilea 3 al fine di
contrastare il fenomeno della prociclicità.
Il capital conservation buffer è la riserva di capitale che, ad oggi, influisce maggiormente sulla
gestione delle banche perché è stata resa obbligatoria a partire dal 2016 e verrà incrementata, in
modo graduale, fino al 2019, quando avrà raggiunto pienamente il livello stabilito dall’Accordo di
Basilea 3 pari a 2,5%6. Al contrario, il countercyclical capital buffer risulta essere, per il momento,
ininfluente per la gestione degli intermediari bancari, in quanto non è ancora mai stato reso
obbligatorio da parte delle autorità di vigilanza nazionali. L’eventuale introduzione della riserva di capitale anticiclica è finalizzata a proteggere il sistema bancario dall’eccessiva crescita del credito,
in effetti, l’imposizione della riserva in questione rientra nelle discrezionalità delle autorità di
vigilanza nazionali e viene eventualmente stabilita se si verifica, in un particolare momento ed in un particolare Paese, una crescita aggregata del credito o di altre classi dell’attivo che hanno un
impatto significativo sulla rischiosità degli intermediari bancari alle quali si possa associare il rischio sistemico. L’esercizio della discrezionalità concessa alle singole autorità di vigilanza
nazionali viene tuttavia sottoposta al controllo dell’organo per il governo del rischio sistemico a
livello europeo – Comitato Europeo per il Rischio Sistemico (CERS) – al fine di evitare l’assunzione da parte delle autorità di vigilanza di comportamenti non conformi all’obiettivo
intrinseco nella misura regolamentare rappresentata dalla riserva anticiclica. Il timore del Comitato di Basilea risiede nell’eventualità che le singole autorità di vigilanza nazionali non evidenzino
tempestivamente la rilevanza di un surriscaldamento dell’economia nel loro paese di riferimento, al
fine di evitare le conseguenze negative in termini di reputazione sull’economia nazionale. Per
questo motivo le singole decisioni assunte dalle autorità di vigilanza sulla non imposizione del
6 A tal proposito è necessario richiamare, seppur brevemente, il concetto di grandfathering ossia il processo di
gradualità dell’entrata in vigore delle norme in materia di vigilanza prudenziale previste dal “pacchetto europeo”. Esso rappresenta la possibilità concessa agli intermediari di adattare la composizione qualitativa del patrimonio alle nuove regole di vigilanza, in un determinato lasso temporale.
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countercyclical capital buffer sono sottoposte ad una supervisione a livello europeo finalizzata a verificare che la situazione di non applicabilità della misura sia effettivamente adeguata.
In sintesi: Basilea 3 persegue l’obiettivo di incrementare la qualità del capitale regolamentare delle banche prevedendo un patrimonio di vigilanza, finalizzato alla copertura dell’esposizione rischiosa
complessiva, definito dalla sommatoria il Tier 1 pari a 6% – di cui il 4,5% rappresentato da
Common Equity – ed il buffer di conservazione del capitale pari, a regime, a 2,5%; per un requisito patrimoniale totale minimo dell’8,5% delle attività ponderate per il rischio.
Tavola 1 – Requisiti di capitale in Basilea 3
Fonte: MASERA, MAZZONI, “Basilea III. Il nuovo sistema di regole bancarie dopo la grande crisi”, Franco Angeli, Milano, 2012.
La trasparenza informativa sull’esposizione rischiosa: il ruolo del risk management
Gli operatori di mercato e le autorità di vigilanza necessitano di informazioni quantitative e
qualitative sulle esposizioni al rischio e sulle strategie e procedure adottate dalle banche per la
gestione ed il controllo dei rischi, in quanto queste costituiscono un elemento essenziale ai fini del
giudizio sulla futura capacità patrimoniale degli intermediari bancari.
Tutte le attività svolte dagli intermediari bancari espongono gli stessi a dei rischi, questi ultimi
devono essere adeguatamente gestiti. Il mestiere dei banchieri è da sempre caratterizzato dalla
gestione del rischio di credito, in effetti, esso è il rischio più antico e principale che gli istituti
devono fronteggiare in virtù della loro natura di business. Nonostante le banche gestiscano – fin
dagli arbori della loro attività – rischi più o meno complessi, è solo a partire dalla Seconda Guerra
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misurazione e gestione dei rischi nell’operatività bancaria. In effetti, prima dello sviluppo dei
mercati finanziari – iniziato a partire dalla fine degli anni ’50 – non esisteva una figura specializzata nella gestione dell’esposizione rischiosa, vi erano vari operatori finanziari responsabili della
gestione dei portafogli e dei titoli che svolgevano anche suddetta mansione7. In particolare, questi
soggetti utilizzavano unità di misura diverse8 per la quantificazione delle differenti tipologie di rischio, ma tali grandezze non riuscivano a delineare l’intera esposizione rischiosa a cui si
esponevano le singole banche. La grande rivoluzione, sotto questo profilo, è avvenuta sul finire degli anni ’80, quando Dennis Weatherstone – amministratore delegato della J.P. Morgan – chiese
ai propri analisti esperti di finanza e statistica di elaborare una misura in grado di riassumere il livello di rischio delle posizioni finanziarie detenute dalla banca stessa. L’intermediario doveva
perciò produrre, ogni giorno, un unico valore che riuscisse a sintetizzare tutte le forme di rischio ed
anche la massima perdita potenziale alla quale la banca era esposta con un livello di confidenza
molto elevato. In tal modo è nato il concetto di Value at Risk (VaR), una misura di rischio efficace,
semplice e flessibile perché permette sia di stimare le singole tipologie di rischio bancarie, sia di aggregarle, riuscendo così a definire l’esposizione rischiosa complessiva. La forza del VaR risiede
nel fatto che è in grado di esprimere, in modo universale, una misura di rischio indipendentemente
dalla posizione di rischio. Proprio per questo, quando nel 1994 la J.P. Morgan rese pubblico l’utilizzo dello strumento in questione, tutte le istituzioni bancarie lo adottarono. Iniziò così il
periodo di rapida crescita dei modelli e delle tecniche di misurazione dei rischi svolte dal risk
management che hanno rivoluzionato la misurazione ed il successivo governo dei rischi stessi, poiché da questo momento in poi e per i successivi dieci anni si è assistito a numerose pubblicazioni
sulle tematiche in materia. Le società di consulenza sviluppavano e proponevano alle banche clienti
sistemi informativi dedicati alla misurazione di tutte le tipologie di rischio e le istituzioni li
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RICCARDO TEDESCHI, “Storia quasi breve del risk management nelle banche”, Il Sole 24ore – Econopoly, 4 ottobre 2016.
8 Tra le quali RICCARDO TEDESCHI in “Storia quasi breve del risk management nelle banche” (2016) ricorda: i
sistemi di rating interni per il mercato del credito, la duration per il mercato obbligazionario ed il beta per il mercato azionario.
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adottavano senza soffermarsi ad analizzare i parametri di tali modelli, spesso dipendenti da variabili
non osservabili direttamente dal mercato. Allo stesso tempo le autorità di vigilanza suggerivano al
settore bancario di mantenere le figure dei risk managers indipendenti gerarchicamente rispetto a
coloro che, in banca, assumevano rischi acquistando titoli o erogando crediti. Già a partire dalla fine degli anni ’90, l’Accordo di Basilea è stato aggiornato introducendo la possibilità per le banche di
scegliere la modalità utilizzata per quantificare l’esposizione rischiosa relativa al rischio di credito
ed al rischio di mercato, attraverso il metodo standard o attraverso il metodo evoluto. Questi ultimi
erano rispettivamente rappresentati dai sistemi di misurazione del rating interni – l’Internal Rating
Based Approach (IRB) – e dal Value at Risk. In seguito, tale possibilità è stata riconfermata da Basilea 2, il framework di vigilanza finalizzato a rendere i requisiti patrimoniali minimi più vicini e
sensibili alle esposizioni rischiose degli intermediari, In effetti, i risk manager della fine degli anni ’90 avevano l’intento di portare, all’interno dei singoli intermediari, grandi profitti attraverso
l’utilizzo di modelli di quantificazione dell’esposizione rischiosa sempre più evoluti. Al contempo
però tali modelli venivano progettati in maniera da sottovalutare i rischi stessi, perché ad un minor
rischio corrisponde una minore quota di capitale regolamentare da detenere e, di conseguenza, una
maggiore quota di fondi disponibili da investire in attività maggiormente redditizie.
La manifestazione della crisi ha messo in evidenza i limiti e le criticità nell’operatività della
funzione di risk management, pertanto Basilea 3 ha sancito anche una serie di misure finalizzate a migliorare la quantificazione dell’esposizione rischiosa complessiva degli intermediari, cercando di
rimediare alle carenze emerse nel corso della crisi finanziaria riguardo alle regole per la
determinazione delle attività di rischio ponderate.
In primo luogo, il ruolo e le responsabilità del risk management si sono evoluti, stanno vivendo la
loro fase di maturità, avendo imparato dagli errori precedenti. La funzione rivolta alla quantificazione e gestione dei rischi è pertanto indispensabile all’interno di ogni intermediario ed
oggi è indipendente gerarchicamente rispetto a coloro che, in banca, assumono i rischi acquistando
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quantificazione del rischio evolute, nonostante le autorità di vigilanza avessero consigliato al settore bancario di separare l’attività dei risk manager rispetto alle attività di crediti e finanza, i primi non
godevano di una posizione di indipendenza decisionale tale da poter limitare l’operatività della
banca stessa. Oggi l’indipendenza e la responsabilità della funzione di risk management rispetto agli
altri organi funzionali bancari – tra i quali troviamo, ad esempio, il Consiglio di Amministrazione –
è un principio indissolubile9. Il ruolo del soggetto responsabile del processo di gestione dei rischi –
Chief Risk Officer (CRO) – è stato modificato in modo significativo, in effetti, “deve essere dotato di rango organizzativo e indipendenza tali da poter valutare ex-ante gli effetti sulla rischiosità delle scelte aziendali, poter interagire regolarmente con il board ed avere un rapporto di parità dialettica sia con gli altri senior manager – in particolare, con il direttore finanziario (CFO) e con i responsabili commerciali” (Intervento del Vice Direttore Generale di Banca d’Italia Anna Maria Tarantola, Milano, 10 novembre 2011).
In materia di risk management, nella Circolare 285/2013 di recepimento della Direttiva IV della Commissione Europea, sono state espresse una serie di indicazioni finalizzate a garantire all’interno
di ogni singolo intermediario la predisposizione di adeguati modelli di identificazione, misurazione
e gestione dei rischi. In particolare, è stato stabilito che la funzione di controllo dei rischi deve
essere organizzata in modo da perseguire in maniera efficiente ed efficacie tale obiettivo. Essa può
essere variamente articolata, ad esempio in relazione ai singoli profili di rischio, purché la banca mantenga una visione d’insieme dei diversi rischi e della loro reciproca interazione. Le banche che
adottano sistemi interni per la misurazione dei rischi – se coerente con la natura, la dimensione e la complessità dell’attività svolta – devono individuare all’interno della funzione di controllo dei rischi
unità preposte alla convalida di detti sistemi indipendenti dalle unità responsabili dello sviluppo
degli stessi.
In secondo luogo, è stata mantenuta la possibilità per gli intermediari di scegliere tra l’utilizzo di
metodi standard o di metodi interni per la valutazione delle singole tipologie di rischi, tuttavia è
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stato imposto un innalzamento dei requisiti patrimoniali a fronte delle esposizioni collegate al
portafoglio di negoziazione o a cartolarizzazioni complesse, in quanto queste si sono dimostrate
essere fonte di importanti perdite per numerose banche attive a livello internazionale. Al fine di
migliorare il trattamento di queste posizioni le innovazioni introdotte dal Comitato di Basilea sono
state principalmente le seguenti10:
i prodotti derivanti da cartolarizzazioni allocati nel portafoglio di trading book dovranno
essere assoggettati ai requisiti standard previsti per il banking book, requisiti che sono stati
aumentati, in particolare, per le re-securitizazion (ricartolarizzazioni);
le banche che utilizzano modelli interni dovranno calcolare uno Stressed Value at Risk
(SVaR) basato su una serie continua di dati di almeno dodici mesi che includano periodi di
condizioni di stress del mercato. Il requisito patrimoniale che le banche utilizzanti modelli
interni devono rispettare viene calcolato come la sommatoria tra: il VaR stressato dovrà ed i
requisiti di capitale calcolati in via ordinaria;
le banche che fanno ricorso al modello interno validato per il calcolo del rischio specifico
dovranno computare un requisito addizionale per il rischio specifico delle posizioni del
portafoglio di negoziazione – l’Incremental Risk Charge (IRC) – che ha l’intento di
cogliere la specificità del rischio di mercato che si lega alle condizioni, allo standing, dell’emittente11
;
l’identificazione dei fattori di rischio per il calcolo del VaR dovrà seguire criteri più
stringenti.
Dopo aver delineato i tratti principali del capitale regolamentare che le banche devono detenere a
fronte della loro rischiosità emerge la necessità di informare i mercati circa i requisiti patrimoniali
ed i rischi cui gli intermediari si espongono. Nei paragrafi seguenti, andremo ad osservare come,
10 TUTINO F., BIRINDELLI G., FERRETTI P., “Basilea 3. Gli impatti sulle banche”, EGEA, Milano, 2011. 11 Il rischio specifico è una sottospecie del rischio di posizione, in quanto quest’ultimo deriva da possibili oscillazioni
dei prezzi dei valori mobiliari dovuti all’andamento dei mercati – si parla quindi di rischio generico – o alla situazione della società emittente – si parla in questo caso di rischio specifico.
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l’introduzione delle misure legislative che si sono susseguite gradualmente negli ultimi anni, ha
influito sulla gestione ed operatività bancaria, analizzando gli specifici obblighi di disclosure
oggetto di ciascuna regola.
1.4 La disclosure obbligatoria
La disclosure, come detto, è intesa come sinonimo di informativa e può riguardare vari ambiti dell’attività bancaria, pertanto è possibile individuarne diverse angolazioni: in primo luogo
individuiamo la disclosure obbligatoria rappresentata dall’informativa relativa al bilancio ordinario di esercizio; dall’informativa di corredo ai prospetti di bilancio; dall’informativa al pubblico in virtù
delle regole del Terzo Pilastro di Basilea; dall’informativa rivolta alle autorità di vigilanza ed, in
secondo luogo, individuiamo la disclosure volontaria. In linea generale, tutte le società devono
comunicare al mercato finanziario un minimo comune informativo che consenta agli stakeholders di
delineare un loro giudizio sugli andamenti societari. Tale fine viene perseguito dagli intermediari
bancari attraverso la predisposizione di due principali documenti di disclosure rappresentati dal bilancio d’esercizio e dal report di Pillar 3, pertanto proseguiamo con l’analisi dei citati elementi.
1.4.1 La disclosure sui rischi nel bilancio ordinario di esercizio
Il bilancio d’esercizio redatto dalle banche fornisce, in prima battuta, una rappresentazione dei
risultati della gestione ma l’informativa relativa a tale documento è indirizzata anche a superare i
limiti dello strumento in questione, perché le finalità che questo persegue sono più ampie rispetto
alla mera individuazione del reddito di esercizio e del capitale, infatti deve riuscire anche a
rappresentare la dimensione del rischio cui una determinata banca si espone. Questa finalità è
dovuta al fatto che il bilancio bancario ha ormai assunto anche una connotazione sociale, in quanto
rappresenta uno strumento di informazione destinato ad orientare le scelte degli operatori finanziari.
Pertanto, la determinazione dei risultati contabili non è più sufficiente per indagare la dinamica
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che possono modificarne il processo di creazione di valore. A tal proposito, a partire dal 2005,
mediante il Decreto Legislativo n. 38/2005, che ha attuato in Italia la Direttiva n. 2001/65/CE è stata prevista l’adozione degli IFRS – International Financial Reporting Standards – i principi
contabili internazionali emanati dall’International Accounting Standards Board (IASB), per la
redazione dei bilanci consolidati delle società quotate europee, finalizzati a favorire la comparabilità dei bilanci, a migliorare la qualità e la trasparenza dell’informazione finanziaria e, pertanto, ad
incrementare l’efficienza del mercato unico dei capitali e la riduzione del costo del capitale per le
imprese. In virtù delle regole sulla redazione del bilancio degli enti creditizi, di derivazione
comunitaria e internazionale, è stato possibile ampliare il contenuto informativo del bilancio stesso. L’introduzione di tali principi ha costituito una notevole innovazione normativa, poiché ha imposto
agli intermediari bancari l’adozione di un insieme di regole contabili che individuano come
principali destinatari del bilancio gli investitori in capitale di rischio, attuali e potenziali, al fine di
consentirgli di quantificare adeguatamente i rischi ed i profitti derivanti dai loro investimenti. Una
maggiore e migliore trasparenza delle informazioni finanziarie dovrebbe ridurre le asimmetrie
informative tra le banche e gli investitori, pertanto dovrebbe contribuire ad una riduzione del costo
del capitale per le imprese. I principi internazionali per la redazione dei bilanci bancari individuano
dettagliatamente le configurazioni degli schemi di bilancio, il contenuto e le modalità di formazione
delle singole voci patrimoniali ed economiche, stabilendo anche i criteri di valutazione dei singoli aggregati. In questo modo il bilancio di esercizio riesce a fornire un’informativa su due livelli:
il primo livello di informativa è orientato al pubblico – depositanti, investitori, prenditori di fondi – interessato a conoscere la situazione finanziaria e patrimoniale, nonché le
performance reddituali, della banca;
il secondo livello di informativa è finalizzato alla realizzazione di un’analisi più approfondita e particolareggiata, arricchita di informazioni di taglio professionale necessarie
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In materia di disclosure i principi internazionali, unitamente alla Circolare n.262 del 22 dicembre
del 2005 di Banda d’Italia – Il Bilancio bancario: schemi e regole di compilazione – sanciscono che
i rischi oggetto di informativa nel bilancio ordinario di esercizio degli intermediari bancari sono
principalmente – ma non unicamente – il rischio di credito, il rischio di liquidità, il rischio di
mercato ed i rischi operativi.
Le informazioni – sia di natura qualitativa che quantitativa – che gli intermediari bancari devono fornire nell’ambito di ciascuna tipologia di rischio sono espresse chiaramente da Banca d’Italia
nella Circolare n.262 e le richiamiamo nella seguente tabella.
Tavola 2 – Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione – Circolare n.262 5°
aggiornamento del 22/12/2017
RISCHIO DI CREDITO
Informazioni di natura qualitativa
- Aspetti generali
- Politiche di gestione del rischio di credito - Esposizioni creditizie deteriorate
- Attività finanziarie oggetto di rinegoziazioni commerciali e esposizioni oggetto di concessioni
Informazioni di natura quantitativa
- Qualità del credito
- Distribuzione e concentrazione delle esposizioni creditizie - Operazioni di cartolarizzazione
- Operazioni di cessione
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RISCHIO DI MERCATO
A. Rischio tasso di interesse e rischio di prezzo – Portafoglio di negoziazione di vigilanza
Informazioni di natura qualitativa
- Aspetti generali
- Processi di gestione e metodi di misurazione del rischio tasso di interesse e del rischio di prezzo
Informazioni di natura quantitativa
- Portafoglio di negoziazione di vigilanza: distribuzione per durata residua (data di riprezzamento) delle attività e delle passività finanziarie per cassa e dei derivati finanziari - Portafoglio di negoziazione di vigilanza: distribuzione delle esposizioni in titoli di
capitale e indici azionari per i principali Paesi del mercato di quotazione
- Portafoglio di negoziazione di vigilanza - modelli interni e altre metodologie per l’analisi di sensitività
B. Rischio tasso di interesse e rischio di prezzo – Portafoglio bancario Informazioni di natura qualitativa
- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio tasso di interesse e del rischio di prezzo
Informazioni di natura quantitativa
- Portafoglio bancario: distribuzione per durata residua (per data di riprezzamento) delle attività e delle passività finanziarie
- Portafoglio bancario – modelli interni e altre metodologie per l’analisi di sensitività
C. Rischio tasso di interesse
Informazioni di natura qualitativa
- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio di cambio - Attività di copertura del rischio di cambio
Informazioni di natura quantitativa
- Distribuzione per valuta di denominazione delle attività, delle passività e dei derivati - Modelli interni ed altre metodologie per l’analisi di sensitività
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RISCHIO DI LIQUIDITÀ
Informazioni di natura qualitativa
- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio di liquidità
Informazioni di natura quantitativa
- Distribuzione temporale per durata residua contrattuale delle attività e delle passività
finanziarie
RISCHIO OPERATIVO
Informazioni di natura qualitativa
- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio operativo
Informazioni di natura quantitativa
- Informazioni da fornire distinguendo tra le principali fonti di manifestazione del rischio
Fonte: Banca d’Italia, “Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione”, Circolare n.262 – 5°
aggiornamento del 22/12/2017.
In aggiunta alle informazioni inerenti i rischi e le tecniche di mitigazione degli stessi, i principi contabili internazionali prevedono anche l’esposizione di informazioni quantitative e qualitative
inerenti i requisiti di capitale che gli intermediari bancari detengono.12
In conclusione, i principi contabili internazionali prevedono che l’informativa sui rischi relativa al
bilancio bancario sia strutturata su una dinamica gestionale al fine di consentire un’esposizione
volta ad evidenziare i processi interni di creazione del valore e gestione dei rispettivi rischi
12
Questo obbligo è stato introdotto successivamente rispetto all’emanazione dello IFRS 7 attraverso una modifica allo IAS 1 effettuata nel 2005 da parte dello IASB.
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connaturati nell’operatività bancaria. La logica sulla quale deve essere fornita l’informativa sui
rischi in oggetto è finalizzata a cogliere i cambiamenti sia in termini di tipologie di rischio
fronteggiate dagli intermediari sia – in particolar modo – in termini di mutamenti nelle modalità di
gestione e tecniche di misurazione dei rischi stessi.13
1.4.2 La disclosure sui rischi nell’ambito del Terzo Pilastro di Basilea
Il Terzo Pilastro di Basilea, come già brevemente richiamato, rappresenta la “market discipline” e si esplica nell’informativa che le banche devono rendere al loro mercato per informarlo riguardo laloro solvibilità, stabilità, rischiosità e capacità di fronteggiare le perdite. Il concetto di disciplina di mercato consiste nell’idea che stakeholders correttamente informati siano in grado di esercitare
delle pressioni sul management degli intermediari bancari, in modo tale che esso agisca negli
interessi degli operatori di mercato14.
L’obbligatorietà della relazione Pillar 3 è stata prevista per la prima volta dal framework di
vigilanza prudenziale Basilea 2, pertanto è stata recepita in Italia con la Circolare 263/2006 di Banca d’Italia che trattava l’argomento nel Titolo IV – “Informativa al pubblico”.
La manifestazione della grande crisi, che ha interessato l’economia mondiale, ha mostrato
l’inadeguatezza delle regole di vigilanza bancaria anche dal punto di vista della trasparenza. In
effetti, nel periodo precedente alla crisi, l’opacità delle banche – derivante da una percezione del
mercato generalmente molto positiva riguardo agli intermediari – ha contribuito all’evolversi della
situazione congiunturale negativa, in quanto la mancanza di trasparenza ha indotto i partecipanti al
mercato a fornire fondi sia alle banche sane – meno rischiose – che a quelle meno sane – più
rischiose. In seguito al peggioramento della situazione economica e finanziaria, gli operatori di
mercato non sono più riusciti a distinguere tra gli istituti ad alto rischio e gli istituti a basso rischio.
13
MARCO MAFFEI, “La disclosure sui rischi con particolare riferimento alle banche”, G. Giampichelli Editore, Torino, 2017.
14
CONCETTA CARNEVALE, MARIA MAZZUCA, “Disclosure volontaria e valore di mercato: un’analisi empirica
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L’acuirsi della recessione ha reso il mercato stesso riluttante ad operare con gli intermediari, per tale
motivo i costi di finanziamento sono aumentati per tutti gli intermediari anche per quelli meno
rischiosi e pertanto più sani15. Ecco che le autorità di regolamentazione si sono concentrate sul
miglioramento della disclosure nell’ambito del Terzo Pilastro al fine di aumentare la trasparenza e
di promuovere la disciplina di mercato. In questo contesto si sono susseguiti una serie di interventi normativi che hanno portato all’elaborazione del framework Basilea 3, finalizzati ad un notevole
rafforzamento degli obblighi di informativa a carico delle banche. Nel corso del secondo capitolo di
questa trattazione analizzeremo dettagliatamente l’evoluzione in materia di regolamentazione della
disclosure nell’ambito del Pillar 3, pertanto è in quel contesto che ci soffermeremo su ciascuna misura regolamentare introdotta. In generale, possiamo anticipare che il Terzo Pilastro di Basilea
individua un insieme di requisiti di trasparenza informativa che le banche devono disporre per
consentire agli operatori di mercato di essere correttamente informati sui risultati economici, sulla struttura finanziaria, sull’esposizione ai vari fattori di rischi, sulle strategie adottate per la gestione
dei rischi, nonché sull’adeguatezza patrimoniale che la banca presenta per fronteggiare gli stessi. I
rischi oggetto dell’informativa del Pillar 3 sono: il rischio di credito; il rischio di controparte; il
rischio di mercato; il rischio operativo ed il rischio tasso di interesse. Pertanto, la relazione del
Terzo Pilastro è sostanzialmente rappresentata dalla disposizione di una serie di quadri sinottici –
tavole informative – ciascuno dei quali inerente ad una determinata area informativa, ove sono illustrate le informazioni di tipo quantitativo richieste. Inoltre, all’interno della relazione in esame vi
sono descritte anche le informazioni di tipo qualitativo richieste dall’impianto di vigilanza e queste
devono essere fornire in forma libera al fine di salvaguardare l’organicità e l’accessibilità delle
informazioni. Infine, è stato stabilito che le stesse informazioni devono essere pubblicate dagli
15
30
intermediari annualmente – entro i termini previsti per la pubblicazione del bilancio – sul loro sito internet nella sezione “Investor relation”.16
1.5 La disclosure volontaria
A latere della mandatory disclosure prodotta in ottemperanza degli obblighi imposti dalla legge,
tutte le società – quindi anche le banche – possono decidere di comunicare alcune informazioni
aggiuntive rispetto a quello obbligatorie. In questo caso, si fa riferimento alla voluntary disclosure che consiste nell’esposizione di una serie di informazioni volontariamente fornite dagli intermediari
bancari, i quali le producono scegliendo autonomamente i contenuti e la forma di presentazione
delle stesse. La motivazione principale che induce tutti gli intermediari a rendere pubbliche ulteriori
quantità e qualità di informazioni al loro mercato di riferimento è data dal notevole e crescente
impatto che il settore bancario svolge nel sistema economico e finanziario. La crisi ha sicuramente
minato la fiducia che gli operatori riponevano nei sistemi creditizi ed è per questo che si è sviluppata una maggiore diffusione delle informazioni inerenti alla responsabilità sociale d’impresa,
poiché queste hanno l’intento di far assumere nuovamente credibilità al sistema stesso. In effetti,
prima della manifestazione della crisi nel 2008, non era mai emerso il concetto di banca socialmente
responsabile ma, a partire da quel particolare momento economico, sono aumentati i reports diffusi
dagli intermediari aventi come contenuto informazioni relative a questo argomento. Pertanto, attraverso l’informazione volontaria, le banche cercano di ridurre ulteriormente le asimmetrie
informative che scaturiscono tra società ed investitori, al fine di riuscire a diminuire il costo dei
finanziamenti ottenuti. Esempi di reports volontari sono – a titolo esemplificativo – i bilanci sociali e l’integrated reporting. Per quanto concerne il Social Report, esso rappresenta il principale
strumento attraverso il quale le imprese comunicano il proprio impegno in tema di responsabilità
16
FRANCESCO MASERA, GIANCARLO MAZZONI, “Basilea III. Il nuovo sistema di regole bancarie dopo la
31
sociale17. In relazione alla redazione del bilancio sociale sono state emanate alcune linee guida, sia
da parte del Global Reporting Iniziative (GRI), che da parte di associazioni bancarie – tra cui l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) – finalizzate al sostenimento della disclosure in materia di
responsabilità sociale d’impresa del settore bancario. In particolare, nel documento risalente al 2008
– “Sustainability Reporting Guidelines & Event Organizers Sector Supplement” – il Global
Reporting Iniziative ha stabilito che il Social Report dovrebbe essere in grado di fornire tre tipi di informazioni: Strategy and Profile; Management Approach e Performance Indicators.
Le principali differenze che si riscontrano tra la disclosure presentata attraverso il bilancio ordinario
di esercizio, sia attraverso il report di Pillar 3, rispetto alle informazioni che emergono dal Social
Report sono riscontrabili sia nei contenuti che nella forma. Il bilancio di esercizio fornisce informazioni sull’andamento economico-finanziario dell’azienda e l’informativa del Terzo Pilastro
si concentra sulla gestione dei rischi e sull’adeguatezza patrimoniale. Al contrario, il bilancio
sociale contiene informazioni sulle politiche di responsabilità sociale del management e sui livelli di
performance economica, sociale ed ambientale. Inoltre, ulteriore diversità tra i documenti citati è sicuramente riscontrabile nell’esposizione delle informazioni che, per il Social Report, risultano
essere esenti dal rispetto di vincoli, pertanto vengono illustrate informazioni – prettamente
qualitative – attraverso la forma che i singoli istituti prediligono. Tale possibilità concessa agli
intermediari bancari assume particolare rilevanza, in quanto troppo spesso la disclosure obbligatoria è caratterizzata dall’utilizzo di un linguaggio tecnico, che rende di ardua comprensione per
l’interlocutore il contenuto delle informazioni diffuse. Sono stati compiuti una serie di studi
finalizzati ad individuare gli effetti – positivi e/o negativi – di una maggiore pubblicazione di
informazioni di natura volontaria, dai quali è emerso che esistono ancora molte limitazioni in
termini di utilità della disclosure relativa al bilancio sociale per gli operatori del mercato18. In
17 CONCETTA CARNEVALE, MARIA MAZZUCA, “Disclosure volontaria e valore di mercato: un’analisi empirica
sull’impatto del bilancio sociale nel settore bancario europeo”, Società Editrice il Mulino, Bologna, aprile 2012.
18
Tra questi studi ricordiamo quello effettuato da CONCETTA CARNEVALE e MARIA MAZZUCA – Società Editrice il Mulino, Bologna, aprile 2012 – su un campione di 131 banche europee quotate finalizzato ad individuare gli
32
effetti, risultano essere carenti le indicazioni sulle modalità e pervasività che le informazioni
dovrebbero presentare perciò, le comunicazioni effettuate dai diversi intermediari bancari sono
difficilmente comparabili tra loro e perciò poco utili per gli investitori. Ulteriore criticità derivante
dalla predisposizione di tali reports è rappresentata dal fatto che spesso presentano duplicazioni,
lacune o contrasti con le informazioni presentate in altri documenti e questo potrebbe confondere gli
users.
Ad oggi sembra assumere sempre più importanza un’altra tipologia di report volontario, che le tutte
le aziende possono decidere di diffondere, rappresentato dall’integrated reporting. Quest’ultimo
oltre ad essere un documento periodico concernente la creazione del valore nel tempo è anche un vero e proprio processo finalizzato all’illustrazione globale dell’organizzazione aziendale. In effetti,
dalla definizione fornita dall’International Integrated Reporting Council (IIRC) emerge che: “è un
documento di comunicazione conciso sulle modalità tramite cui la strategia, la governance, la performance e le prospettive di un’organizzazione, contestualizzati nell’ambiente di riferimento,
portino alla creazione di valore nel breve, medio e lungo termine”19
. Pertanto, il documento
informativo è la risultante del processo attraverso il quale le risorse sono a vario titolo impiegate per
creare valore e risulta essere effettivamente efficace perché riesce a trasformare i dati finanziari
della gestione in un resoconto sulla generazione di valore dell’attività bancaria, in modo più immediato e comprensibile dai lettori. Gli obiettivi perseguiti dall’Integrated Reporting sono
elencati nel modo seguente dall’International Integrated Reporting Framework:
- migliorare la qualità delle informazioni trasmesse ai fornitori di capitale finanziario, al fine
di consentire un'allocazione di capitale più efficiente e produttiva;
- promuovere un approccio più coeso ed efficiente al reporting aziendale, facendo sì che
attinga a diversi elementi di reportistica e che trasmetta una vasta gamma di fattori che
effetti diretti, gli effetti indiretti e le differenze tra i vari paesi in termini di rilevanza della pubblicazione del bilancio sociale.
19
Il riferimento è al framework Integrated Reporting internazionale definito dal International Integrated Reporting
33
influiscono significativamente sulla capacità di un'organizzazione di produrre valore nel
tempo;
- rafforzare l’accountability e la responsabilità di gestione delle diverse forme di capitale
(finanziario, produttivo, intellettuale, umano, sociale, relazionale e naturale) e indirizzare la comprensione dell’interdipendenza tra esse;
- sostenere il “integrated thinking”, il processo decisionale e le azioni mirate alla creazione di
valore nel breve, medio e lungo termine.
Al fine di perseguire questa serie di obiettivi, le linee guida in termini di contenuti stabilite dal dalla
Parte II al punto 4 – Elementi del contenuto – del framework sopra citato sono riassumibili nella
tabella seguente.
Tavola 3 – International Integrated Reporting Framework – Elementi del contenuto
A. Presentazione dell’organizzazione e dell’ambiente esterno B. Governance
C. Modello di business
D. Rischi e opportunità
E. Strategia e allocazione delle risorse F. Performance
G. Prospettive
H. Base di preparazione e presentazione I. Indicazioni generali sul reporting
Fonte: International Integrated Reporting Framework
Con particolare riferimento al settore bancario assume indubbia rilevanza il punto D – Rischi ed
opportunità – nel quale vengono sanciti i contenuti essenziali che tale report deve necessariamente
contenere. In particolare, tale sezione deve includere informazioni circa20:
20
Elenco riassuntivo ripreso da MARCO MAFFEI, “La disclosure sui rischi con particolare riferimento alle banche”, G. Giampichelli Editore, Torino 2017.