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L'informativa sui rischi bancari

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

Tesi di Laurea

“L’informativa sui rischi bancari”

Relatore: Candidato:

Prof.ssa Paola Ferretti Silvia Santomauro

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3

Indice

Introduzione_____________________________________________________________________5

Capitolo 1 – La disclosure nell’ambito del sistema bancario __________ 7

1.1 La disclosure: significato, finalità e rilevanza . . . 7

1.2 I vantaggi e gli svantaggi della trasparenza informativa. . . 10

1.3 L’informativa che le banche devono rendere al pubblico sul capitale e sui rischi . . . 12

1.4 La disclosure obbligatoria . . . .23

1.4.1 La disclosure sui rischi nel bilancio ordinario di esercizio . . . 23

1.4.2 La disclosure sui rischi nell’ambito del Terzo Pilastro di Basilea . . . .28

1.5 La disclosure volontaria . . . 30

1.6 La comunicazione di informazioni di carattere non finanziario: la direttiva 2014/95/UE ed il decreto legislativo n. 254/2016 . . . 34

Capitolo 2 – La regolamentazione della disclosure sui rischi bancari: il

Pillar 3_________________________________________________39

2.1 La disciplina di mercato e la trasparenza informativa . . . .39

2.2 L’evoluzione del Terzo Pilastro di Basilea: da Basilea 2 a Basilea 3 . . . .41

2.3 In che cosa consiste oggi l’informativa che le banche devono rendere al pubblico . . . 46

2.3.1 Disposizioni tecniche in materia di trasparenza e di informativa . . . 48

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Capitolo 3 – L’informativa sui rischi bancari: il caso UniCredit_______74

3.1 Individuazione degli item osservati . . . .75

3.2 Il grado di informativa al pubblico della Banca UniCredit . . . .79

3.2.1 La disclosure nel bilancio ordinario di esercizio e nella relazione del Terzo Pilastro . . . .79

3.3 Analogie e differenze nei due livelli di informativa . . . 89

Conclusioni ____________________________________________________________________94

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5

Introduzione

La trasparenza informativa rappresenta un principio basilare del sistema regolamentare bancario.

I documenti di informativa che le banche predispongono possono essere diversi; in effetti si

distingue la disclosure obbligatoria dall’informativa volontaria. L’elaborato affronta, in un primo

momento, il ruolo e le finalità che un grado migliore e maggiore di informativa al pubblico

persegue richiamando i benefici ma anche gli svantaggi della stessa ed in seguito si sofferma sull’analisi dei due principali ed attuali obblighi di informativa: il bilancio ordinario di esercizio e la

relazione del Pillar 3. Alla luce della manifestazione della grande crisi finanziaria globale le autorità

di vigilanza hanno incrementato notevolmente gli obblighi di informativa cui gli intermediari bancari sono sottoposti nell’ambito dei due documenti richiamati e nel corso dell’analisi vengono

ripercorse le varie misure regolamentari introdotte, finalizzate al perseguimento della disciplina di

mercato, ovvero di quel meccanismo tramite il quale gli operatori di mercato sono in grado di controllare ed indirizzare l’assunzione di rischi da parte delle banche.

Seguirà una descrizione dell’adeguatezza patrimoniale di cui gli intermediari bancari devono

disporre per poter fronteggiare i rischi ai quali si espongono, in modo tale da rendere maggiormente

comprensibili le disposizioni normative in materia di mandatory disclosure sui seguenti argomenti:

capitale regolamentare ed esposizione rischiosa, trattati sia a livello di bilancio di esercizio che a

livello di relazione di Terzo Pilastro di Basilea. In effetti, ad oggi i due documenti richiamati

rappresentano i più rilevanti in materia di informativa al pubblico: il primo è da sempre oggetto di

stesura e pubblicazione da parte delle banche, al contrario, il secondo è diventato un obbligo di

redazione e divulgazione solamente in tempi recenti.

Per quanto concerne l’informativa di tipo non finanziario seguirà, invece, un richiamo – breve ma

(6)

6

2014/95/UE ed il decreto legislativo n. 254/2016 inerenti alla comunicazione di informazioni di

carattere non finanziario.

Il secondo capitolo lascerà spazio all’analisi degli interventi normativi relativi al report Pillar 3 che

si sono susseguiti nel tempo a partire dal framework di vigilanza Basilea 2 che ne ha previsto per la prima volta l’obbligatorietà della stesura e divulgazione. L’obiettivo perseguito è quello di far

percepire al lettore l’evoluzione normativa in modo tale da far comprendere l’aumento di centralità

che tale report ha assunto nel tempo fino ad arrivare alla definizione di come oggi la relazione in

esame deve essere presentata. Inoltre, le ultime pagine di questo capitolo saranno dedicate agli

interventi più recenti effettuati dal Comitato di Basilea e dalla Banca Centrale Europea, dettati dalle

riforme regolamentari post-crisi, che preannunciano quello che sarà Basilea 4 e dai quali è possibile evincere l’attenzione che le autorità di vigilanza dedicheranno all’informativa sulle attività

deteriorate, le quali pesano enormemente sui bilanci degli intermediari bancari e che devono essere

oggetto di adeguata informativa agli operatori di mercato.

La trattazione si concluderà con l’analisi del grado di disclosure dell’intermediario bancario di

maggior rilevanza italiano – UniCredit Group. Nel corso dell’ultimo capitolo verranno infatti

individuati i temi principali da ricercare all’interno dei due documenti di informativa – annual

report e report Pillar 3 – ed in seguito verrà descritto come tali item vengono trattati dall’intermediario in esame.

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Capitolo 1

La disclosure nell’ambito del sistema bancario

1.1 La disclosure: significato, finalità e rilevanza

La disclosure in ambito economico-finanziario rappresenta l’atto di fornire informazioni al mercato

da parte di banche ed imprese, poiché entrambe, ma in particolare le prime, diffondono quantità

significative di informazioni che vengono rese disponibili pubblicamente al fine di consentire l’utilizzo delle stesse da parte degli stakeholders, cioè da parte di quei soggetti interessati al

comportamento degli intermediari finanziari perché da questo dipende il soddisfacimento dei propri

interessi. Gli azionisti ed in generale tutti gli investitori, che partecipano al reperimento di risorse

effettuato dalle banche, hanno bisogno di essere informati sulle condizioni economiche,

patrimoniali e finanziarie degli intermediari in modo tale da poter impostare efficacemente le

proprie decisioni. Ecco che per le banche è importante, sennonché necessario, comunicare il proprio

futuro ed in particolare diffondere informazioni sui rischi a cui si espongono nello svolgimento

della loro attività, in modo tale che venga perseguita una maggiore efficienza e stabilità del sistema

finanziario ma soprattutto in modo tale da riuscire a beneficiare loro stesse della divulgazione di

informazioni. In effetti, se tali informazioni sono affidabili e possono essere utilizzate in modo

appropriato dal mercato, si realizza la disciplina di mercato che può consentire alle istituzioni

finanziarie di ridurre il costo del capitale a cui reperiscono finanziamenti, in quanto gli investitori

sono maggiormente in grado di giudicare i rischi e la solvibilità delle banche stesse1.

Pertanto, l’obbligatorietà della disclosure è ormai assunta come elemento basilare dei processi di

comunicazione nei mercati finanziari. L’imposizione di obblighi relativi alla pubblicazione di

informazioni aziendali è dovuta principalmente al beneficio che ne deriva per l’intera collettività,

1

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8

poiché la produzione interna di informazioni inerenti alla gestione ha un costo minore rispetto ad

una produzione delle stesse effettuata da soggetti esterni. Tale elemento è dovuto al fatto che le

imprese – ed in particolare le banche – elaborano già internamente vari tipi di informazioni e la loro

diffusione al pubblico comporta minori costi di quelli che ne comporterebbe una produzione esterna

delle medesime. Nonostante i costi della produzione interna siano inferiori rispetto alla produzione

di informazioni a livello di mercato, il settore bancario deve comunque sostenere:  i costi legati alla produzione e distribuzione delle informazioni;

 i costi competitivi originati dall’eventualità che le divulgazioni di informazioni riservate al pubblico, permettano ai concorrenti di assumere posizioni vantaggiose;

 i costi politici, che incrementano la “litigiosità” e le richieste di diversi stakeholders;

 i costi operativi indiretti che scaturiscono da eventuali interpretazioni non corrette da parte del mercato delle informazioni fornite dalle banche a seguito dell’adempimento agli

obblighi informativi a loro carico.

I numerosi obblighi informativi che il settore bancario è tenuto ad onorare perseguono anche l’obiettivo di rendere le informazioni divulgate credibili, in quanto ogni norma in materia è

accompagna dalla previsione di sanzioni volte a limitare eventuali trasgressioni ai vincoli previsti.

Tali sanzioni hanno la finalità di contrastare le divulgazioni di informazioni non veritiere in modo tale da permettere agli utenti delle stesse di essere tutelati dall’adozione di comportamenti di moral

hazard delle banche o imprese necessitanti finanziamenti2.

Oltre agli evidenti vantaggi scaturenti dall’imposizione di obblighi informativi, emergono però

alcuni svantaggi dall’imposizione stessa. Alcuni studi, che si sono susseguiti nel tempo, hanno

cercato di dimostrare che pubblicare maggiori quantità di informazioni non è sempre la soluzione

più adeguata, soprattutto se si tratta di informazioni “noisy” – rumorose e poco importanti – che

complicano la comprensione degli aspetti più rilevanti per gli operatori di mercato. Ulteriormente,

2

ANDREA QUAGLI, “Comunicare il futuro. L’informativa economico-finanziaria di tipo previsionale delle società

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9

ci sono notizie la cui diffusione potrebbe suscitare effetti non desiderati come, ad esempio, il panico

degli operatori di mercato. Questo può accadere quando le informazioni vengono pubblicate ad

intervalli di tempo molto ravvicinati tali da incrementare la volatilità dei titoli. La frequenza di

diffusione avrebbe, in questo caso, l’effetto di elevare la rischiosità dell’emittente dei titoli – la

banca – e di conseguenza anche il suo costo del capitale. In sintesi, è possibile affermare che, la

disclosure è vantaggiosa per il mercato in presenza di operatori in grado di elaborare le informazioni giuste per comprendere i rischi che le banche stanno assumendo.

Abbiamo definito la disclosure come la divulgazione di informazioni al pubblico da parte delle

banche, pertanto, tale comunicazione economico-finanziaria, è lo strumento tramite il quale il settore bancario dialoga con i soggetti operanti nell’ambiente esterno e deve essere ispirata al

principio della trasparenza3. La trasparenza, intesa come sinonimo di fruibilità delle informazioni

utili da parte di tutti i portatori di interessi nella banca, è alla base di un’efficacie disciplina di

mercato che rappresenta, a sua volta, il meccanismo mediante il quale i partecipanti al mercato (azionisti, depositanti e debitori) controllano e disciplinano l’assunzione eccessiva di rischi da parte

degli intermediari bancari. In effetti, se la solvibilità o l’esposizione rischiosa delle banche risulta

essere inadeguata o poco chiara, gli operatori reagiscono esigendo premi di rischio più elevati sui fondi forniti e/o riducendo l’importo dei finanziamenti concessi alle stesse. Affinché la disciplina di

mercato funzioni efficacemente è sicuramente importante che gli operatori dispongano di

informazioni sufficienti per valutare i rischi che le banche si assumono, ma è anche fondamentale

che tali soggetti abbiano sia le capacità di elaborare queste notizie, sia i poteri per riuscire a

disciplinare gli intermediari ed anche gli incentivi per poter interferire nelle loro decisioni di

assunzione di rischi4.

3 MARCO MAFFEI, “La disclosure sui rischi con particolare riferimento alle banche”, G. Giampichelli Editore,

Torino, 2017.

4

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Il contenuto della disclosure che le banche diffondono varia in base agli specifici fabbisogni

informativi ma, nel corso di questa analisi, ci soffermeremo sulla divulgazione di dati inerenti alla solvibilità ed all’esposizione rischiosa che gli intermediari presentano.

La disclosure che le banche diffondono, sia obbligatoriamente che volontariamente, è sicuramente

incrementata nel corso degli ultimi anni, in seguito al susseguirsi di eventi che hanno minato la fiducia degli operatori nel sistema bancario ed in generale nel sistema finanziario. L’avvento della

crisi del 2008 ha messo in luce che la diffusione di informazioni da parte degli intermediari

finanziari era stata fino a quel momento inadeguata perché le banche non rendevano pubbliche

informazioni sufficienti sulle attività che detenevano ma soprattutto sui rischi a cui si esponevano;

questo comportava che gli insiders bancari – come i gestori – fossero a conoscenza di informazioni maggiori che gli permettevano di giudicare la solvibilità e l’esposizione rischiosa della banca stessa

a differenza degli operatori del mercato.

Pertanto, una migliore qualità e quantità delle informazioni divulgate è vantaggiosa sia nei periodi

prociclicamente negativi – come una crisi – durante i quali la mancanza o inadeguatezza di notizie

comporta un aumento notevole dei costi di finanziamenti, intensificando l’evento crisi stesso; sia

nei momenti di congiuntura economica positiva, permettendo agli investitori nel debito di evitare

che le banche assumano rischi eccessivi. In tale contesto, le banche di tutto il mondo hanno

incrementato e migliorato le informazioni rese pubbliche sia quelle riguardanti il capitale sia quelle

relative ai rischi peculiari delle banche stesse.

1.2 I vantaggi e gli svantaggi della trasparenza informativa

Uno dei principali obiettivi che le autorità di vigilanza perseguono è quello di assicurare la

trasparenza informativa a livello di sistema bancario. Il raggiungimento di tale fine è diventato negli

ultimi anni maggiormente rilevante ma anche maggiormente complesso, in effetti, gran parte degli

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attività bancaria tradizionale allo svolgimento di un’operatività internazionale su vasta scala oltre

che ad una significativa partecipazione al mercato mobiliare ed assicurativo5. In questo contesto di complessità operativa molti studiosi hanno sostenuto l’importanza della pubblicazione da parte

degli intermediari di informazioni aggiornate ed affidabili, inerenti la loro situazione reddituale –

patrimoniale e la loro esposizione rischiosa complessiva, volte a consentire sia agli operatori di

mercato che alle autorità di vigilanza di riuscire a valutare correttamente le istituzioni bancarie

stesse. Inoltre, nella misura in cui il management delle istituzioni è a conoscenza del fatto che l’attività bancaria e l’esposizione rischiosa sono rese pubbliche e trasparenti, è sicuramente

incentivato a migliorare le procedure di valutazione e gestione interne dei rischi stessi. Per questi

motivi, ad oggi, le autorità di vigilanza ritengono che i vantaggi scaturenti da una maggiore e

migliore disclosure di informazioni siano significativi, sia dal punto di vista della vigilanza, sia dal

punto di vista della stabilità del sistema finanziario. Nonostante ciò, si sono susseguite nel tempo

varie opinioni in letteratura in materia di informativa al pubblico. Gli autori che hanno mostrato una

posizione sfavorevole alla divulgazione di informazioni hanno osservato che la disclosure di

informazioni negative relative a determinati istituti bancari, potrebbe provocare il collasso dei prezzi delle azioni anche degli intermediari solidi; ciò implicherebbe anche il fenomeno della “corsa

allo sportello” attuata dai depositanti in reazione al recepimento di tali notizie. Pertanto, la sfiducia

del mercato verso una banca potrebbe propagarsi ad altre banche, determinando l’indebolimento del

sistema finanziario e l’instabilità sistemica. Nel corso di questa trattazione sosterremo l’opinione

che un miglioramento dell’informativa bancaria destinata al pubblico riesca a rafforzare la sicurezza

e la solidità del sistema bancario. A tal proposito, negli ultimi anni, i legislatori, le autorità di

vigilanza bancaria e gli organismi contabili si sono adoperati attivamente per riuscire a promuovere un’informativa al pubblico regolare, comparabile, di elevata qualità ad un costo ragionevole.

5

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1.3 L’informativa che le banche devono rendere al pubblico sul capitale e

sui rischi

La trasparenza bancaria si realizza attraverso la pubblicazione da parte degli intermediari bancari di

informazioni significative, tempestive, affidabili, comparabili e rilevanti che permettano agli

utilizzatori delle informazioni stesse di formulare un giudizio fondato sulla situazione patrimoniale – reddituale, sull’operatività, sul profilo di rischio e sulle procedure di gestione del rischio di una

banca. A tal proposito il Comitato di Basilea, nel processo di rivisitazione della materia, ha

specificato che le notizie trasmesse dalle banche al pubblico debbano necessariamente presentare

delle specifiche caratteristiche affinché i fruitori di tali informazioni siano in grado di valutare

accuratamente i singoli intermediari bancari. In primo luogo è doveroso far riferimento alla

significatività delle informazioni trasmesse per gli operatori di mercato, in effetti, un’informazione

è considerata significativa se è in grado di facilitare tali soggetti nella valutazione dei presumibili

rischi e rendimenti connessi al tipo di esposizione che hanno nei confronti di una determinata

istituzione bancaria. Inoltre, le banche devono comunicare al mercato le informazioni con frequenza

e tempestività sufficienti tali fornire un’immagine attuale dell’intermediario e del profilo di rischio

che le caratterizza. Per quanto concerne poi l’affidabilità delle informazioni trasmesse al pubblico

precisiamo che essa è intesa come il fatto che le notizie fornite devono rispecchiare la sostanza dei

fatti e devono anche essere verificabili, prudenti, complete ed esenti da errori o distorsioni sostanziali, poiché un’omissione può rendere le informazioni fornite false o forvianti. Pertanto è

anche necessario che i dati trasmessi presentino il tratto della rilevanza; un’informazione è

considerata rilevante se la sua omissione o errata indicazione può modificare o influenzare il

giudizio o la decisione di un utilizzatore della stessa. Infine, le informazioni fornite devono

presentare il requisito della comparabilità, pertanto devono essere confrontabili nel tempo sia a

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Sia gli operatori di mercato che le autorità di vigilanza usufruiscono delle informazioni fornite dalle

singole istituzioni bancarie per poter formulare giudizi, nel primo caso, sulle esposizioni che hanno

nei loro confronti e, nel secondo caso, giudizi complessivi sulla situazione dei singoli intermediari.

La trasparenza informativa sull’adeguatezza patrimoniale

Le informazioni sulla situazione patrimoniale delle istituzioni bancarie sono utili ad entrambi i

fruitori descritti al fine di valutare la capacità delle aziende di onorare puntualmente le obbligazioni

finanziarie, il grado di liquidità, la solvibilità e la solidità patrimoniale attuale e prospettica di cui

dispongono. In questo ambito il riferimento è alle informazioni inerenti il patrimonio di vigilanza e

delle sue componenti di cui gli intermediari bancari devono necessariamente disporre in una

determinata quantità stabilita dalle norme di vigilanza prudenziale.

Il concetto base su cui si fonda il framework di vigilanza bancaria prudenziale – attualmente Basilea

3 – è l’adeguatezza patrimoniale che esprime la capacità degli intermediari bancari di fronteggiare

la loro esposizione rischiosa, pertanto si basa sul legame tra il rischio cui una banca è esposta ed il patrimonio di cui una banca dispone. L’intermediario bancario deve sostanzialmente dotarsi di

meccanismi volti a valutare attentamente i rischi che corre nello svolgimento delle proprie attività per poi predisporre adeguati strumenti per il fronteggiamento dell’esposizione rischiosa individuata.

In effetti, devono quantificare ogni tipologia di rischio, definire il livello di rischio complessivo ed

individuare la massima perdita a cui possono incorrere durante svolgimento della loro attività.

Inoltre, le singole banche devono mettersi nelle condizioni di fronteggiare tale massima perdita

come previsto dalle Autorità di Vigilanza. In effetti, la regolamentazione vigente prevede che il

settore bancario disponga di un requisito patrimoniale minimo al fine di riuscire a fronteggiare l’esposizione rischiosa complessiva che caratterizza i singoli intermediari.

A tal proposito è il Comitato di Basilea – l’organismo di vigilanza internazionale – che definisce gli

orientamenti in materia di vigilanza condivisi in modo concertato con le banche centrali dei

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necessario che vengano recepite dai singoli ordinamenti nazionali. Nonostante i primi documenti rappresentativi di Basilea 3 siano ascrivibili al dicembre del 2010, a causa dell’inedito momento di

crisi vissuto dall’economia mondiale a partire dal 2008, il framework è stato portato a termine

solamente nel 2013 ed è entrato in vigore, a livello europeo, nel 2014 in virtù di due provvedimenti

pubblicati il 26 giugno 2013 e rappresentati rispettivamente da:

- la Direttiva 2013/36/UE denominata anche Capital Requirements Directive IV (CRD IV)

- il Regolamento (UE) n. 575/2013 denominato anche Capital Requirements Regulation

(CRR).

L’insieme di questi due documenti viene comunemente definito “pacchetto europeo” : il Capital

Requirements Regulation ha immediata efficacia nei paesi membri, perciò non necessita di alcun recepimento legislativo a livello nazionale, al contrario la Direttiva IV deve essere recepita

specificatamente dai singoli ordinamenti nazionali. A livello italiano, la Banca d’Italia ha avviato l’elaborazione dei provvedimenti volti a dare accoglienza nell’ordinamento nazionale della Capital

Requirements Directive IV nell’agosto 2013, affinché la stesura della circolare di recepimento fosse definitiva per l’entrata in vigore degli stessi al 1° gennaio 2014. Tale processo è terminato con la

predisposizione della Circolare 285 del 2013 finalizzata alla trasposizione a livello nazionale del framework Basilea 3 rappresentato, a livello europeo, dal “pacchetto comunitario”. Il Comitato di

Basilea ha mantenuto l’articolazione su tre pilastri del framework di vigilanza prudenziale tipica

dell’impianto regolamentare precedente – Basilea 2 – ma ha rafforzato in maniera sostanziale

ognuno di queste tre diverse leve, che permettono congiuntamente il perseguimento dell’adeguatezza patrimoniale da parte di tutto il settore bancario. In particolare, in materia di

requisiti patrimoniali – Pillar 1 – Basilea 3 ha modificato sostanzialmente la normativa precedente, poiché l’attenzione è stata incentrata sulla rivisitazione della quantità ma, in particolar modo, della

qualità del capitale da utilizzare per il fronteggiamento delle perdite stimate. In materia di

disposizioni sui fondi propri, la Seconda Parte della Circolare 285/2013, stabilisce che il patrimonio

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o Tier 1 – anche detto capitale di classe 1 – è il patrimonio di base che persegue la

finalità “on going concern” ed è pertanto destinato al fronteggiamento delle possibili

perdite che le banche possono registrare durante la loro attività.

o Tier 2 – anche detto capitale di classe 2 – è il patrimonio supplementare che persegue una finalità “on gone concern” ed è pertanto destinato al fronteggiamento

della fase di liquidazione o di situazioni di crisi analoghe.

Il rafforzamento della qualità del capitale attuato dal Comitato di Basilea viene attuato eliminando

dal patrimonio di vigilanza il calcolo del Tier 3, quel patrimonio precedentemente rivolto alla

copertura dei rischi di mercato, che risultava essere eccessivamente blando e debole. Ad oggi i

rischi di mercato devono essere coperti attraverso il capitale regolamentare utilizzato per la

copertura di tutti gli altri rischi.

Inoltre, vengono definiti in modo dettagliato gli elementi che compongono il capitale di classe 1 e

di classe 2. Il Tier 1 è dato dalla somma tra il Core Tier 1 e l’Additional Tier 1. In primo luogo, il

Core Tier 1 è il Common Equity – il capitale puro – poiché definito sostanzialmente dal capitale e

dalle riserve da utili. In particolare, è dato dalla somma algebrica dei seguenti elementi:

o azioni ordinarie emesse dalla banca che soddisfano i criteri di classificazione come azioni

ordinarie a fini regolamentari;

o sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel Common Equity

Tier 1;

o riserve di utili;

o riserve da valutazione e altre riserve palesi;

o aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del Common Equity Tier 1

Il secondo elemento che compone il capitale di classe 1 è il capitale aggiuntivo di classe 1 –

Additional Tier 1 – dato dalla sommatoria tra i seguenti elementi:

o strumenti emessi dalla banca che soddisfano i criteri di computabilità del Tier 1 aggiuntivo

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o sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel Tier 1 aggiuntivo;

o aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del Tier 1 aggiuntivo.

Per quanto concerne la composizione del patrimonio supplementare, il Comitato di Basilea ha

definito che il Tier 2 è dato dalla somma algebrica tra:

o strumenti emessi dalla banca che soddisfano i criteri di computabilità nel patrimonio

supplementare (e non ricompresi nel patrimonio di base);

o sovrapprezzo azioni derivante dall’emissione di strumenti ricompresi nel patrimonio

supplementare; o accantonamenti;

o aggiustamenti regolamentari applicati nel calcolo del patrimonio supplementare.

Ulteriore introduzione normativa fondamentale prevista da Basilea 3 è rappresentata dal fatto che,

sia nel caso di Additional Tier 1, sia nel caso di Tier 2, è prevista la conversione in Common Equity

o la svalutazione al verificarsi di un trigger event. Quest’ultimo identifica un evento attivatore,

finalizzato ad allertare la banca e rappresentato, ad esempio, dalla riduzione del Core Tier 1 al di

sotto di una determinata soglia pari al 5,125% – secondo la normativa – ma che può essere anche maggiore se così deciso dall’intermediario. In questo contesto, dal trigger event scaturiscono una

serie di azioni di salvaguardia all’interno dell’intermediario interessato, perché questo verte in una

situazione di evidente difficoltà, pertanto si procede alla riduzione – temporanea o permanente – dell’importo del capitale a titolo di Additional Tier 1 o, altrimenti, gli strumenti vengono convertiti

in Common Equity Tier 1. Ancora una volta è possibile evincere il ruolo centrale che viene assunto dal capitale puro all’interno dei singoli intermediari, poiché l’Additional Tier 1, nonostante sia un

capitale solido, viene pur sempre subordinato al Common Equity, il quale è l’unico l’elemento in

grado di costituire una base solida di capitalizzazione delle banche. Un ulteriore aspetto rilevante nell’ambito del capitale proprio che le banche devono detenere è rappresentato dalle riserve di

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Sono state, entrambe, introdotte dall’impianto di vigilanza prudenziale Basilea 3 al fine di

contrastare il fenomeno della prociclicità.

Il capital conservation buffer è la riserva di capitale che, ad oggi, influisce maggiormente sulla

gestione delle banche perché è stata resa obbligatoria a partire dal 2016 e verrà incrementata, in

modo graduale, fino al 2019, quando avrà raggiunto pienamente il livello stabilito dall’Accordo di

Basilea 3 pari a 2,5%6. Al contrario, il countercyclical capital buffer risulta essere, per il momento,

ininfluente per la gestione degli intermediari bancari, in quanto non è ancora mai stato reso

obbligatorio da parte delle autorità di vigilanza nazionali. L’eventuale introduzione della riserva di capitale anticiclica è finalizzata a proteggere il sistema bancario dall’eccessiva crescita del credito,

in effetti, l’imposizione della riserva in questione rientra nelle discrezionalità delle autorità di

vigilanza nazionali e viene eventualmente stabilita se si verifica, in un particolare momento ed in un particolare Paese, una crescita aggregata del credito o di altre classi dell’attivo che hanno un

impatto significativo sulla rischiosità degli intermediari bancari alle quali si possa associare il rischio sistemico. L’esercizio della discrezionalità concessa alle singole autorità di vigilanza

nazionali viene tuttavia sottoposta al controllo dell’organo per il governo del rischio sistemico a

livello europeo – Comitato Europeo per il Rischio Sistemico (CERS) – al fine di evitare l’assunzione da parte delle autorità di vigilanza di comportamenti non conformi all’obiettivo

intrinseco nella misura regolamentare rappresentata dalla riserva anticiclica. Il timore del Comitato di Basilea risiede nell’eventualità che le singole autorità di vigilanza nazionali non evidenzino

tempestivamente la rilevanza di un surriscaldamento dell’economia nel loro paese di riferimento, al

fine di evitare le conseguenze negative in termini di reputazione sull’economia nazionale. Per

questo motivo le singole decisioni assunte dalle autorità di vigilanza sulla non imposizione del

6 A tal proposito è necessario richiamare, seppur brevemente, il concetto di grandfathering ossia il processo di

gradualità dell’entrata in vigore delle norme in materia di vigilanza prudenziale previste dal “pacchetto europeo”. Esso rappresenta la possibilità concessa agli intermediari di adattare la composizione qualitativa del patrimonio alle nuove regole di vigilanza, in un determinato lasso temporale.

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countercyclical capital buffer sono sottoposte ad una supervisione a livello europeo finalizzata a verificare che la situazione di non applicabilità della misura sia effettivamente adeguata.

In sintesi: Basilea 3 persegue l’obiettivo di incrementare la qualità del capitale regolamentare delle banche prevedendo un patrimonio di vigilanza, finalizzato alla copertura dell’esposizione rischiosa

complessiva, definito dalla sommatoria il Tier 1 pari a 6% – di cui il 4,5% rappresentato da

Common Equity – ed il buffer di conservazione del capitale pari, a regime, a 2,5%; per un requisito patrimoniale totale minimo dell’8,5% delle attività ponderate per il rischio.

Tavola 1 – Requisiti di capitale in Basilea 3

Fonte: MASERA, MAZZONI, “Basilea III. Il nuovo sistema di regole bancarie dopo la grande crisi”, Franco Angeli, Milano, 2012.

La trasparenza informativa sull’esposizione rischiosa: il ruolo del risk management

Gli operatori di mercato e le autorità di vigilanza necessitano di informazioni quantitative e

qualitative sulle esposizioni al rischio e sulle strategie e procedure adottate dalle banche per la

gestione ed il controllo dei rischi, in quanto queste costituiscono un elemento essenziale ai fini del

giudizio sulla futura capacità patrimoniale degli intermediari bancari.

Tutte le attività svolte dagli intermediari bancari espongono gli stessi a dei rischi, questi ultimi

devono essere adeguatamente gestiti. Il mestiere dei banchieri è da sempre caratterizzato dalla

gestione del rischio di credito, in effetti, esso è il rischio più antico e principale che gli istituti

devono fronteggiare in virtù della loro natura di business. Nonostante le banche gestiscano – fin

dagli arbori della loro attività – rischi più o meno complessi, è solo a partire dalla Seconda Guerra

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misurazione e gestione dei rischi nell’operatività bancaria. In effetti, prima dello sviluppo dei

mercati finanziari – iniziato a partire dalla fine degli anni ’50 – non esisteva una figura specializzata nella gestione dell’esposizione rischiosa, vi erano vari operatori finanziari responsabili della

gestione dei portafogli e dei titoli che svolgevano anche suddetta mansione7. In particolare, questi

soggetti utilizzavano unità di misura diverse8 per la quantificazione delle differenti tipologie di rischio, ma tali grandezze non riuscivano a delineare l’intera esposizione rischiosa a cui si

esponevano le singole banche. La grande rivoluzione, sotto questo profilo, è avvenuta sul finire degli anni ’80, quando Dennis Weatherstone – amministratore delegato della J.P. Morgan – chiese

ai propri analisti esperti di finanza e statistica di elaborare una misura in grado di riassumere il livello di rischio delle posizioni finanziarie detenute dalla banca stessa. L’intermediario doveva

perciò produrre, ogni giorno, un unico valore che riuscisse a sintetizzare tutte le forme di rischio ed

anche la massima perdita potenziale alla quale la banca era esposta con un livello di confidenza

molto elevato. In tal modo è nato il concetto di Value at Risk (VaR), una misura di rischio efficace,

semplice e flessibile perché permette sia di stimare le singole tipologie di rischio bancarie, sia di aggregarle, riuscendo così a definire l’esposizione rischiosa complessiva. La forza del VaR risiede

nel fatto che è in grado di esprimere, in modo universale, una misura di rischio indipendentemente

dalla posizione di rischio. Proprio per questo, quando nel 1994 la J.P. Morgan rese pubblico l’utilizzo dello strumento in questione, tutte le istituzioni bancarie lo adottarono. Iniziò così il

periodo di rapida crescita dei modelli e delle tecniche di misurazione dei rischi svolte dal risk

management che hanno rivoluzionato la misurazione ed il successivo governo dei rischi stessi, poiché da questo momento in poi e per i successivi dieci anni si è assistito a numerose pubblicazioni

sulle tematiche in materia. Le società di consulenza sviluppavano e proponevano alle banche clienti

sistemi informativi dedicati alla misurazione di tutte le tipologie di rischio e le istituzioni li

7

RICCARDO TEDESCHI, “Storia quasi breve del risk management nelle banche”, Il Sole 24ore – Econopoly, 4 ottobre 2016.

8 Tra le quali RICCARDO TEDESCHI in “Storia quasi breve del risk management nelle banche” (2016) ricorda: i

sistemi di rating interni per il mercato del credito, la duration per il mercato obbligazionario ed il beta per il mercato azionario.

(20)

20

adottavano senza soffermarsi ad analizzare i parametri di tali modelli, spesso dipendenti da variabili

non osservabili direttamente dal mercato. Allo stesso tempo le autorità di vigilanza suggerivano al

settore bancario di mantenere le figure dei risk managers indipendenti gerarchicamente rispetto a

coloro che, in banca, assumevano rischi acquistando titoli o erogando crediti. Già a partire dalla fine degli anni ’90, l’Accordo di Basilea è stato aggiornato introducendo la possibilità per le banche di

scegliere la modalità utilizzata per quantificare l’esposizione rischiosa relativa al rischio di credito

ed al rischio di mercato, attraverso il metodo standard o attraverso il metodo evoluto. Questi ultimi

erano rispettivamente rappresentati dai sistemi di misurazione del rating interni – l’Internal Rating

Based Approach (IRB) – e dal Value at Risk. In seguito, tale possibilità è stata riconfermata da Basilea 2, il framework di vigilanza finalizzato a rendere i requisiti patrimoniali minimi più vicini e

sensibili alle esposizioni rischiose degli intermediari, In effetti, i risk manager della fine degli anni ’90 avevano l’intento di portare, all’interno dei singoli intermediari, grandi profitti attraverso

l’utilizzo di modelli di quantificazione dell’esposizione rischiosa sempre più evoluti. Al contempo

però tali modelli venivano progettati in maniera da sottovalutare i rischi stessi, perché ad un minor

rischio corrisponde una minore quota di capitale regolamentare da detenere e, di conseguenza, una

maggiore quota di fondi disponibili da investire in attività maggiormente redditizie.

La manifestazione della crisi ha messo in evidenza i limiti e le criticità nell’operatività della

funzione di risk management, pertanto Basilea 3 ha sancito anche una serie di misure finalizzate a migliorare la quantificazione dell’esposizione rischiosa complessiva degli intermediari, cercando di

rimediare alle carenze emerse nel corso della crisi finanziaria riguardo alle regole per la

determinazione delle attività di rischio ponderate.

In primo luogo, il ruolo e le responsabilità del risk management si sono evoluti, stanno vivendo la

loro fase di maturità, avendo imparato dagli errori precedenti. La funzione rivolta alla quantificazione e gestione dei rischi è pertanto indispensabile all’interno di ogni intermediario ed

oggi è indipendente gerarchicamente rispetto a coloro che, in banca, assumono i rischi acquistando

(21)

21

quantificazione del rischio evolute, nonostante le autorità di vigilanza avessero consigliato al settore bancario di separare l’attività dei risk manager rispetto alle attività di crediti e finanza, i primi non

godevano di una posizione di indipendenza decisionale tale da poter limitare l’operatività della

banca stessa. Oggi l’indipendenza e la responsabilità della funzione di risk management rispetto agli

altri organi funzionali bancari – tra i quali troviamo, ad esempio, il Consiglio di Amministrazione –

è un principio indissolubile9. Il ruolo del soggetto responsabile del processo di gestione dei rischi –

Chief Risk Officer (CRO) – è stato modificato in modo significativo, in effetti, “deve essere dotato di rango organizzativo e indipendenza tali da poter valutare ex-ante gli effetti sulla rischiosità delle scelte aziendali, poter interagire regolarmente con il board ed avere un rapporto di parità dialettica sia con gli altri senior manager – in particolare, con il direttore finanziario (CFO) e con i responsabili commerciali” (Intervento del Vice Direttore Generale di Banca d’Italia Anna Maria Tarantola, Milano, 10 novembre 2011).

In materia di risk management, nella Circolare 285/2013 di recepimento della Direttiva IV della Commissione Europea, sono state espresse una serie di indicazioni finalizzate a garantire all’interno

di ogni singolo intermediario la predisposizione di adeguati modelli di identificazione, misurazione

e gestione dei rischi. In particolare, è stato stabilito che la funzione di controllo dei rischi deve

essere organizzata in modo da perseguire in maniera efficiente ed efficacie tale obiettivo. Essa può

essere variamente articolata, ad esempio in relazione ai singoli profili di rischio, purché la banca mantenga una visione d’insieme dei diversi rischi e della loro reciproca interazione. Le banche che

adottano sistemi interni per la misurazione dei rischi – se coerente con la natura, la dimensione e la complessità dell’attività svolta – devono individuare all’interno della funzione di controllo dei rischi

unità preposte alla convalida di detti sistemi indipendenti dalle unità responsabili dello sviluppo

degli stessi.

In secondo luogo, è stata mantenuta la possibilità per gli intermediari di scegliere tra l’utilizzo di

metodi standard o di metodi interni per la valutazione delle singole tipologie di rischi, tuttavia è

9

(22)

22

stato imposto un innalzamento dei requisiti patrimoniali a fronte delle esposizioni collegate al

portafoglio di negoziazione o a cartolarizzazioni complesse, in quanto queste si sono dimostrate

essere fonte di importanti perdite per numerose banche attive a livello internazionale. Al fine di

migliorare il trattamento di queste posizioni le innovazioni introdotte dal Comitato di Basilea sono

state principalmente le seguenti10:

 i prodotti derivanti da cartolarizzazioni allocati nel portafoglio di trading book dovranno

essere assoggettati ai requisiti standard previsti per il banking book, requisiti che sono stati

aumentati, in particolare, per le re-securitizazion (ricartolarizzazioni);

 le banche che utilizzano modelli interni dovranno calcolare uno Stressed Value at Risk

(SVaR) basato su una serie continua di dati di almeno dodici mesi che includano periodi di

condizioni di stress del mercato. Il requisito patrimoniale che le banche utilizzanti modelli

interni devono rispettare viene calcolato come la sommatoria tra: il VaR stressato dovrà ed i

requisiti di capitale calcolati in via ordinaria;

 le banche che fanno ricorso al modello interno validato per il calcolo del rischio specifico

dovranno computare un requisito addizionale per il rischio specifico delle posizioni del

portafoglio di negoziazione – l’Incremental Risk Charge (IRC) – che ha l’intento di

cogliere la specificità del rischio di mercato che si lega alle condizioni, allo standing, dell’emittente11

;

 l’identificazione dei fattori di rischio per il calcolo del VaR dovrà seguire criteri più

stringenti.

Dopo aver delineato i tratti principali del capitale regolamentare che le banche devono detenere a

fronte della loro rischiosità emerge la necessità di informare i mercati circa i requisiti patrimoniali

ed i rischi cui gli intermediari si espongono. Nei paragrafi seguenti, andremo ad osservare come,

10 TUTINO F., BIRINDELLI G., FERRETTI P., “Basilea 3. Gli impatti sulle banche”, EGEA, Milano, 2011. 11 Il rischio specifico è una sottospecie del rischio di posizione, in quanto quest’ultimo deriva da possibili oscillazioni

dei prezzi dei valori mobiliari dovuti all’andamento dei mercati – si parla quindi di rischio generico – o alla situazione della società emittente – si parla in questo caso di rischio specifico.

(23)

23

l’introduzione delle misure legislative che si sono susseguite gradualmente negli ultimi anni, ha

influito sulla gestione ed operatività bancaria, analizzando gli specifici obblighi di disclosure

oggetto di ciascuna regola.

1.4 La disclosure obbligatoria

La disclosure, come detto, è intesa come sinonimo di informativa e può riguardare vari ambiti dell’attività bancaria, pertanto è possibile individuarne diverse angolazioni: in primo luogo

individuiamo la disclosure obbligatoria rappresentata dall’informativa relativa al bilancio ordinario di esercizio; dall’informativa di corredo ai prospetti di bilancio; dall’informativa al pubblico in virtù

delle regole del Terzo Pilastro di Basilea; dall’informativa rivolta alle autorità di vigilanza ed, in

secondo luogo, individuiamo la disclosure volontaria. In linea generale, tutte le società devono

comunicare al mercato finanziario un minimo comune informativo che consenta agli stakeholders di

delineare un loro giudizio sugli andamenti societari. Tale fine viene perseguito dagli intermediari

bancari attraverso la predisposizione di due principali documenti di disclosure rappresentati dal bilancio d’esercizio e dal report di Pillar 3, pertanto proseguiamo con l’analisi dei citati elementi.

1.4.1 La disclosure sui rischi nel bilancio ordinario di esercizio

Il bilancio d’esercizio redatto dalle banche fornisce, in prima battuta, una rappresentazione dei

risultati della gestione ma l’informativa relativa a tale documento è indirizzata anche a superare i

limiti dello strumento in questione, perché le finalità che questo persegue sono più ampie rispetto

alla mera individuazione del reddito di esercizio e del capitale, infatti deve riuscire anche a

rappresentare la dimensione del rischio cui una determinata banca si espone. Questa finalità è

dovuta al fatto che il bilancio bancario ha ormai assunto anche una connotazione sociale, in quanto

rappresenta uno strumento di informazione destinato ad orientare le scelte degli operatori finanziari.

Pertanto, la determinazione dei risultati contabili non è più sufficiente per indagare la dinamica

(24)

24

che possono modificarne il processo di creazione di valore. A tal proposito, a partire dal 2005,

mediante il Decreto Legislativo n. 38/2005, che ha attuato in Italia la Direttiva n. 2001/65/CE è stata prevista l’adozione degli IFRS – International Financial Reporting Standards – i principi

contabili internazionali emanati dall’International Accounting Standards Board (IASB), per la

redazione dei bilanci consolidati delle società quotate europee, finalizzati a favorire la comparabilità dei bilanci, a migliorare la qualità e la trasparenza dell’informazione finanziaria e, pertanto, ad

incrementare l’efficienza del mercato unico dei capitali e la riduzione del costo del capitale per le

imprese. In virtù delle regole sulla redazione del bilancio degli enti creditizi, di derivazione

comunitaria e internazionale, è stato possibile ampliare il contenuto informativo del bilancio stesso. L’introduzione di tali principi ha costituito una notevole innovazione normativa, poiché ha imposto

agli intermediari bancari l’adozione di un insieme di regole contabili che individuano come

principali destinatari del bilancio gli investitori in capitale di rischio, attuali e potenziali, al fine di

consentirgli di quantificare adeguatamente i rischi ed i profitti derivanti dai loro investimenti. Una

maggiore e migliore trasparenza delle informazioni finanziarie dovrebbe ridurre le asimmetrie

informative tra le banche e gli investitori, pertanto dovrebbe contribuire ad una riduzione del costo

del capitale per le imprese. I principi internazionali per la redazione dei bilanci bancari individuano

dettagliatamente le configurazioni degli schemi di bilancio, il contenuto e le modalità di formazione

delle singole voci patrimoniali ed economiche, stabilendo anche i criteri di valutazione dei singoli aggregati. In questo modo il bilancio di esercizio riesce a fornire un’informativa su due livelli:

 il primo livello di informativa è orientato al pubblico – depositanti, investitori, prenditori di fondi – interessato a conoscere la situazione finanziaria e patrimoniale, nonché le

performance reddituali, della banca;

 il secondo livello di informativa è finalizzato alla realizzazione di un’analisi più approfondita e particolareggiata, arricchita di informazioni di taglio professionale necessarie

(25)

25

In materia di disclosure i principi internazionali, unitamente alla Circolare n.262 del 22 dicembre

del 2005 di Banda d’Italia – Il Bilancio bancario: schemi e regole di compilazione – sanciscono che

i rischi oggetto di informativa nel bilancio ordinario di esercizio degli intermediari bancari sono

principalmente – ma non unicamente – il rischio di credito, il rischio di liquidità, il rischio di

mercato ed i rischi operativi.

Le informazioni – sia di natura qualitativa che quantitativa – che gli intermediari bancari devono fornire nell’ambito di ciascuna tipologia di rischio sono espresse chiaramente da Banca d’Italia

nella Circolare n.262 e le richiamiamo nella seguente tabella.

Tavola 2 – Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione – Circolare n.262 5°

aggiornamento del 22/12/2017

RISCHIO DI CREDITO

Informazioni di natura qualitativa

- Aspetti generali

- Politiche di gestione del rischio di credito - Esposizioni creditizie deteriorate

- Attività finanziarie oggetto di rinegoziazioni commerciali e esposizioni oggetto di concessioni

Informazioni di natura quantitativa

- Qualità del credito

- Distribuzione e concentrazione delle esposizioni creditizie - Operazioni di cartolarizzazione

- Operazioni di cessione

(26)

26

RISCHIO DI MERCATO

A. Rischio tasso di interesse e rischio di prezzo – Portafoglio di negoziazione di vigilanza

Informazioni di natura qualitativa

- Aspetti generali

- Processi di gestione e metodi di misurazione del rischio tasso di interesse e del rischio di prezzo

Informazioni di natura quantitativa

- Portafoglio di negoziazione di vigilanza: distribuzione per durata residua (data di riprezzamento) delle attività e delle passività finanziarie per cassa e dei derivati finanziari - Portafoglio di negoziazione di vigilanza: distribuzione delle esposizioni in titoli di

capitale e indici azionari per i principali Paesi del mercato di quotazione

- Portafoglio di negoziazione di vigilanza - modelli interni e altre metodologie per l’analisi di sensitività

B. Rischio tasso di interesse e rischio di prezzo – Portafoglio bancario Informazioni di natura qualitativa

- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio tasso di interesse e del rischio di prezzo

Informazioni di natura quantitativa

- Portafoglio bancario: distribuzione per durata residua (per data di riprezzamento) delle attività e delle passività finanziarie

- Portafoglio bancario – modelli interni e altre metodologie per l’analisi di sensitività

C. Rischio tasso di interesse

Informazioni di natura qualitativa

- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio di cambio - Attività di copertura del rischio di cambio

Informazioni di natura quantitativa

- Distribuzione per valuta di denominazione delle attività, delle passività e dei derivati - Modelli interni ed altre metodologie per l’analisi di sensitività

(27)

27

RISCHIO DI LIQUIDITÀ

Informazioni di natura qualitativa

- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio di liquidità

Informazioni di natura quantitativa

- Distribuzione temporale per durata residua contrattuale delle attività e delle passività

finanziarie

RISCHIO OPERATIVO

Informazioni di natura qualitativa

- Aspetti generali, processi di gestione e metodi di misurazione del rischio operativo

Informazioni di natura quantitativa

- Informazioni da fornire distinguendo tra le principali fonti di manifestazione del rischio

Fonte: Banca d’Italia, “Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione”, Circolare n.262 – 5°

aggiornamento del 22/12/2017.

In aggiunta alle informazioni inerenti i rischi e le tecniche di mitigazione degli stessi, i principi contabili internazionali prevedono anche l’esposizione di informazioni quantitative e qualitative

inerenti i requisiti di capitale che gli intermediari bancari detengono.12

In conclusione, i principi contabili internazionali prevedono che l’informativa sui rischi relativa al

bilancio bancario sia strutturata su una dinamica gestionale al fine di consentire un’esposizione

volta ad evidenziare i processi interni di creazione del valore e gestione dei rispettivi rischi

12

Questo obbligo è stato introdotto successivamente rispetto all’emanazione dello IFRS 7 attraverso una modifica allo IAS 1 effettuata nel 2005 da parte dello IASB.

(28)

28

connaturati nell’operatività bancaria. La logica sulla quale deve essere fornita l’informativa sui

rischi in oggetto è finalizzata a cogliere i cambiamenti sia in termini di tipologie di rischio

fronteggiate dagli intermediari sia – in particolar modo – in termini di mutamenti nelle modalità di

gestione e tecniche di misurazione dei rischi stessi.13

1.4.2 La disclosure sui rischi nell’ambito del Terzo Pilastro di Basilea

Il Terzo Pilastro di Basilea, come già brevemente richiamato, rappresenta la “market discipline” e si esplica nell’informativa che le banche devono rendere al loro mercato per informarlo riguardo la

loro solvibilità, stabilità, rischiosità e capacità di fronteggiare le perdite. Il concetto di disciplina di mercato consiste nell’idea che stakeholders correttamente informati siano in grado di esercitare

delle pressioni sul management degli intermediari bancari, in modo tale che esso agisca negli

interessi degli operatori di mercato14.

L’obbligatorietà della relazione Pillar 3 è stata prevista per la prima volta dal framework di

vigilanza prudenziale Basilea 2, pertanto è stata recepita in Italia con la Circolare 263/2006 di Banca d’Italia che trattava l’argomento nel Titolo IV – “Informativa al pubblico”.

La manifestazione della grande crisi, che ha interessato l’economia mondiale, ha mostrato

l’inadeguatezza delle regole di vigilanza bancaria anche dal punto di vista della trasparenza. In

effetti, nel periodo precedente alla crisi, l’opacità delle banche – derivante da una percezione del

mercato generalmente molto positiva riguardo agli intermediari – ha contribuito all’evolversi della

situazione congiunturale negativa, in quanto la mancanza di trasparenza ha indotto i partecipanti al

mercato a fornire fondi sia alle banche sane – meno rischiose – che a quelle meno sane – più

rischiose. In seguito al peggioramento della situazione economica e finanziaria, gli operatori di

mercato non sono più riusciti a distinguere tra gli istituti ad alto rischio e gli istituti a basso rischio.

13

MARCO MAFFEI, “La disclosure sui rischi con particolare riferimento alle banche”, G. Giampichelli Editore, Torino, 2017.

14

CONCETTA CARNEVALE, MARIA MAZZUCA, “Disclosure volontaria e valore di mercato: un’analisi empirica

(29)

29

L’acuirsi della recessione ha reso il mercato stesso riluttante ad operare con gli intermediari, per tale

motivo i costi di finanziamento sono aumentati per tutti gli intermediari anche per quelli meno

rischiosi e pertanto più sani15. Ecco che le autorità di regolamentazione si sono concentrate sul

miglioramento della disclosure nell’ambito del Terzo Pilastro al fine di aumentare la trasparenza e

di promuovere la disciplina di mercato. In questo contesto si sono susseguiti una serie di interventi normativi che hanno portato all’elaborazione del framework Basilea 3, finalizzati ad un notevole

rafforzamento degli obblighi di informativa a carico delle banche. Nel corso del secondo capitolo di

questa trattazione analizzeremo dettagliatamente l’evoluzione in materia di regolamentazione della

disclosure nell’ambito del Pillar 3, pertanto è in quel contesto che ci soffermeremo su ciascuna misura regolamentare introdotta. In generale, possiamo anticipare che il Terzo Pilastro di Basilea

individua un insieme di requisiti di trasparenza informativa che le banche devono disporre per

consentire agli operatori di mercato di essere correttamente informati sui risultati economici, sulla struttura finanziaria, sull’esposizione ai vari fattori di rischi, sulle strategie adottate per la gestione

dei rischi, nonché sull’adeguatezza patrimoniale che la banca presenta per fronteggiare gli stessi. I

rischi oggetto dell’informativa del Pillar 3 sono: il rischio di credito; il rischio di controparte; il

rischio di mercato; il rischio operativo ed il rischio tasso di interesse. Pertanto, la relazione del

Terzo Pilastro è sostanzialmente rappresentata dalla disposizione di una serie di quadri sinottici –

tavole informative – ciascuno dei quali inerente ad una determinata area informativa, ove sono illustrate le informazioni di tipo quantitativo richieste. Inoltre, all’interno della relazione in esame vi

sono descritte anche le informazioni di tipo qualitativo richieste dall’impianto di vigilanza e queste

devono essere fornire in forma libera al fine di salvaguardare l’organicità e l’accessibilità delle

informazioni. Infine, è stato stabilito che le stesse informazioni devono essere pubblicate dagli

15

(30)

30

intermediari annualmente – entro i termini previsti per la pubblicazione del bilancio – sul loro sito internet nella sezione “Investor relation”.16

1.5 La disclosure volontaria

A latere della mandatory disclosure prodotta in ottemperanza degli obblighi imposti dalla legge,

tutte le società – quindi anche le banche – possono decidere di comunicare alcune informazioni

aggiuntive rispetto a quello obbligatorie. In questo caso, si fa riferimento alla voluntary disclosure che consiste nell’esposizione di una serie di informazioni volontariamente fornite dagli intermediari

bancari, i quali le producono scegliendo autonomamente i contenuti e la forma di presentazione

delle stesse. La motivazione principale che induce tutti gli intermediari a rendere pubbliche ulteriori

quantità e qualità di informazioni al loro mercato di riferimento è data dal notevole e crescente

impatto che il settore bancario svolge nel sistema economico e finanziario. La crisi ha sicuramente

minato la fiducia che gli operatori riponevano nei sistemi creditizi ed è per questo che si è sviluppata una maggiore diffusione delle informazioni inerenti alla responsabilità sociale d’impresa,

poiché queste hanno l’intento di far assumere nuovamente credibilità al sistema stesso. In effetti,

prima della manifestazione della crisi nel 2008, non era mai emerso il concetto di banca socialmente

responsabile ma, a partire da quel particolare momento economico, sono aumentati i reports diffusi

dagli intermediari aventi come contenuto informazioni relative a questo argomento. Pertanto, attraverso l’informazione volontaria, le banche cercano di ridurre ulteriormente le asimmetrie

informative che scaturiscono tra società ed investitori, al fine di riuscire a diminuire il costo dei

finanziamenti ottenuti. Esempi di reports volontari sono – a titolo esemplificativo – i bilanci sociali e l’integrated reporting. Per quanto concerne il Social Report, esso rappresenta il principale

strumento attraverso il quale le imprese comunicano il proprio impegno in tema di responsabilità

16

FRANCESCO MASERA, GIANCARLO MAZZONI, “Basilea III. Il nuovo sistema di regole bancarie dopo la

(31)

31

sociale17. In relazione alla redazione del bilancio sociale sono state emanate alcune linee guida, sia

da parte del Global Reporting Iniziative (GRI), che da parte di associazioni bancarie – tra cui l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) – finalizzate al sostenimento della disclosure in materia di

responsabilità sociale d’impresa del settore bancario. In particolare, nel documento risalente al 2008

– “Sustainability Reporting Guidelines & Event Organizers Sector Supplement” – il Global

Reporting Iniziative ha stabilito che il Social Report dovrebbe essere in grado di fornire tre tipi di informazioni: Strategy and Profile; Management Approach e Performance Indicators.

Le principali differenze che si riscontrano tra la disclosure presentata attraverso il bilancio ordinario

di esercizio, sia attraverso il report di Pillar 3, rispetto alle informazioni che emergono dal Social

Report sono riscontrabili sia nei contenuti che nella forma. Il bilancio di esercizio fornisce informazioni sull’andamento economico-finanziario dell’azienda e l’informativa del Terzo Pilastro

si concentra sulla gestione dei rischi e sull’adeguatezza patrimoniale. Al contrario, il bilancio

sociale contiene informazioni sulle politiche di responsabilità sociale del management e sui livelli di

performance economica, sociale ed ambientale. Inoltre, ulteriore diversità tra i documenti citati è sicuramente riscontrabile nell’esposizione delle informazioni che, per il Social Report, risultano

essere esenti dal rispetto di vincoli, pertanto vengono illustrate informazioni – prettamente

qualitative – attraverso la forma che i singoli istituti prediligono. Tale possibilità concessa agli

intermediari bancari assume particolare rilevanza, in quanto troppo spesso la disclosure obbligatoria è caratterizzata dall’utilizzo di un linguaggio tecnico, che rende di ardua comprensione per

l’interlocutore il contenuto delle informazioni diffuse. Sono stati compiuti una serie di studi

finalizzati ad individuare gli effetti – positivi e/o negativi – di una maggiore pubblicazione di

informazioni di natura volontaria, dai quali è emerso che esistono ancora molte limitazioni in

termini di utilità della disclosure relativa al bilancio sociale per gli operatori del mercato18. In

17 CONCETTA CARNEVALE, MARIA MAZZUCA, “Disclosure volontaria e valore di mercato: un’analisi empirica

sull’impatto del bilancio sociale nel settore bancario europeo”, Società Editrice il Mulino, Bologna, aprile 2012.

18

Tra questi studi ricordiamo quello effettuato da CONCETTA CARNEVALE e MARIA MAZZUCA – Società Editrice il Mulino, Bologna, aprile 2012 – su un campione di 131 banche europee quotate finalizzato ad individuare gli

(32)

32

effetti, risultano essere carenti le indicazioni sulle modalità e pervasività che le informazioni

dovrebbero presentare perciò, le comunicazioni effettuate dai diversi intermediari bancari sono

difficilmente comparabili tra loro e perciò poco utili per gli investitori. Ulteriore criticità derivante

dalla predisposizione di tali reports è rappresentata dal fatto che spesso presentano duplicazioni,

lacune o contrasti con le informazioni presentate in altri documenti e questo potrebbe confondere gli

users.

Ad oggi sembra assumere sempre più importanza un’altra tipologia di report volontario, che le tutte

le aziende possono decidere di diffondere, rappresentato dall’integrated reporting. Quest’ultimo

oltre ad essere un documento periodico concernente la creazione del valore nel tempo è anche un vero e proprio processo finalizzato all’illustrazione globale dell’organizzazione aziendale. In effetti,

dalla definizione fornita dall’International Integrated Reporting Council (IIRC) emerge che: “è un

documento di comunicazione conciso sulle modalità tramite cui la strategia, la governance, la performance e le prospettive di un’organizzazione, contestualizzati nell’ambiente di riferimento,

portino alla creazione di valore nel breve, medio e lungo termine”19

. Pertanto, il documento

informativo è la risultante del processo attraverso il quale le risorse sono a vario titolo impiegate per

creare valore e risulta essere effettivamente efficace perché riesce a trasformare i dati finanziari

della gestione in un resoconto sulla generazione di valore dell’attività bancaria, in modo più immediato e comprensibile dai lettori. Gli obiettivi perseguiti dall’Integrated Reporting sono

elencati nel modo seguente dall’International Integrated Reporting Framework:

- migliorare la qualità delle informazioni trasmesse ai fornitori di capitale finanziario, al fine

di consentire un'allocazione di capitale più efficiente e produttiva;

- promuovere un approccio più coeso ed efficiente al reporting aziendale, facendo sì che

attinga a diversi elementi di reportistica e che trasmetta una vasta gamma di fattori che

effetti diretti, gli effetti indiretti e le differenze tra i vari paesi in termini di rilevanza della pubblicazione del bilancio sociale.

19

Il riferimento è al framework Integrated Reporting internazionale definito dal International Integrated Reporting

(33)

33

influiscono significativamente sulla capacità di un'organizzazione di produrre valore nel

tempo;

- rafforzare l’accountability e la responsabilità di gestione delle diverse forme di capitale

(finanziario, produttivo, intellettuale, umano, sociale, relazionale e naturale) e indirizzare la comprensione dell’interdipendenza tra esse;

- sostenere il “integrated thinking”, il processo decisionale e le azioni mirate alla creazione di

valore nel breve, medio e lungo termine.

Al fine di perseguire questa serie di obiettivi, le linee guida in termini di contenuti stabilite dal dalla

Parte II al punto 4 – Elementi del contenuto – del framework sopra citato sono riassumibili nella

tabella seguente.

Tavola 3 – International Integrated Reporting Framework – Elementi del contenuto

A. Presentazione dell’organizzazione e dell’ambiente esterno B. Governance

C. Modello di business

D. Rischi e opportunità

E. Strategia e allocazione delle risorse F. Performance

G. Prospettive

H. Base di preparazione e presentazione I. Indicazioni generali sul reporting

Fonte: International Integrated Reporting Framework

Con particolare riferimento al settore bancario assume indubbia rilevanza il punto D – Rischi ed

opportunità – nel quale vengono sanciti i contenuti essenziali che tale report deve necessariamente

contenere. In particolare, tale sezione deve includere informazioni circa20:

20

Elenco riassuntivo ripreso da MARCO MAFFEI, “La disclosure sui rischi con particolare riferimento alle banche”, G. Giampichelli Editore, Torino 2017.

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