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Follow-up del diabete gestazionale: persistenza delle alterazioni della regolazione glicemica.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove

Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

TESI DI LAUREA

“Follow-Up del Diabete Gestazionale: Persistenza delle

Alterazioni della Regolazione Glicemica„

RELATORE

Chiar.mo Prof. Stefano Del Prato

CORRELATORE

Dott.ssa Cristina Bianchi

CANDIDATA

Anna Niarchos

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Για την οικογένεια μου

In ricordo di mio padre, che mi ha insegnato la determinazione di lottare ogni giorno per i miei sogni e la dedizione di rischiare sempre per i miei ideali e che mi ha trasmesso la passione di amare il bello e il giusto ricordandomi di non dover scendere mai a compromessi

A mia madre, che mi ha insegnato il coraggio di cadere e di rialzarmi con dignità e che silenziosamente da sempre si assicura che ogni mio fallimento sia il principio di un grande successo

A mio fratello, che pazientemente mi insegna ogni giorno a credere nelle mie potenzialità e nella forza della sincerità e della purezza attraverso cui amo contemplare il mondo

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Indice

RIASSUNTO...6

1.RAZIONALE E OBIETTIVI DELLA TESI ... 6

2.PAZIENTI E METODI ... 7

3.RISULTATI ... 7

4.CONCLUSIONI... 8

INTRODUZIONE: “DIABETE MELLITO E GRAVIDANZA”...9

1.INQUADRAMENTO ... 9

2.CLASSIFICAZIONE PATOGENETICA DEL DIABETE MELLITO ... 10

3.CLASSIFICAZIONE OSTETRICA DEL DIABETE MELLITO ... 12

4.BIBLIOGRAFIA ... 13

CAPITOLO 1: “DIABETE MELLITO GESTAZIONALE” ... 14

1.FISIOPATOLOGIA DEL METABOLISMO IN GRAVIDANZA ... 14

1.1. Metabolismo glucidico ed eziopatogenesi del GDM ... 14

Insulino-resistenza ... 15

Secrezione insulinica ... 16

Influenza delle citochine infiammatorie ... 16

Influenza ormonale ... 17 Eziopatogenesi del GDM ... 19 1.2. Metabolismo lipidico ... 20 1.3. Metabolismo proteico ... 21 2.DEFINIZIONE ... 22 3.EPIDEMIOLOGIA ... 23 4.FATTORI DI RISCHIO ... 24

4.1 Fattori di rischio non modificabili ... 25

Età materna ... 25

Familiarità di I grado per il diabete ... 25

Altre condizioni di insulino-resistenza ... 25

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Gravidanze multiple ... 26

4.2 Fattori di rischio modificabili ... 26

Obesità materna ... 26

Elevato incremento ponderale in gravidanza ... 26

Fattori socio-economici ... 26

Attività fisica ... 27

Fumo ... 27

5.COMPLICANZE MATERNO-FETALI DEL DIABETE GESTAZIONALE ... 27

5.1. Complicanze fetali ... 28

Alterazioni della crescita fetale ... 28

Alterazioni metaboliche a breve termine ... 29

Alterazioni cardiache e polmonari ... 30

Alterazioni metaboliche a lungo termine ... 31

5.2. Complicanze materne ... 33

6.CRITERI DIAGNOSTICI E SCREENING ... 34

6.1. Screening universale o selettivo? ... 36

6.2. Diagnosi ... 38

7.TERAPIA ... 40

7.1 Obiettivi glicemici ... 40

7.2 Automonitoraggio glicemico domiciliare ... 41

7.3 Terapia nutrizionale ... 42

7.4 Esercizio fisico ... 43

7.5 Terapia insulinica ... 44

8.BIBLIOGRAFIA ... 46

CAPITOLO 2: “DIABETE MELLITO GESTAZIONALE E RISCHIO DI DIABETE MELLITO DI TIPO 2” .... 48

1.FATTORI DI RISCHIO PER L’INSORGENZA DEL DM2 DOPO UNA GRAVIDANZA COMPLICATA DA GDM ... 49

1.1 Fattori di rischio genetici ... 49

1.2 Fattori di rischio ambientali ... 50

Obesità ... 50

Dieta ... 51

Attività fisica ... 51

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5

1.3 Fattori che influenzano l’incidenza del DM2 nel post-partum ... 52

2.EZIOPATOGENESI DEL DM2: ELEMENTO DI CONTINUITÀ TRA IL GDM E IL DM2... 54

2.1. Alterazione del metabolismo muscolare e dei grassi... 54

2.2. Alterazione della secrezione insulinica ... 55

2.3. Aumento della produzione epatica di glucosio e lipidi ... 56

3.FOLLOW-UP E SCREENING DEL DM2 ... 57

4.CRITERI DIAGNOSTICI DEL DM2 ... 58

5.PREVENZIONE DEL DM2 DOPO IL PARTO ... 60

6.BIBLIOGRAFIA ... 62

CAPITOLO 3: “SEZIONE SPERIMENTALE” ... 64

1.INTRODUZIONE E OBIETTIVI DELLO STUDIO ... 64

2.PAZIENTI E METODI ... 65 3.RISULTATI ... 68 4.DISCUSSIONE ... 73 5.CONCLUSIONI ... 76 6.BIBLIOGRAFIA ... 77 RINGRAZIAMENTI ... 79

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Riassunto

Il diabete gestazionale (GDM) è un fattore di rischio per lo sviluppo di diabete mellito di tipo 2 (DM2); quest’ultimo può insorgere in maniera indipendente o può collocarsi in un quadro più complesso come quello della sindrome metabolica.

Le donne con una storia di pregresso GDM presentano un rischio di sviluppare DM2 dopo il parto maggiore di circa sette volte rispetto alle donne che hanno avuto una gravidanza fisiologica; questo accade perché le gestanti affette da GDM sono caratterizzate da una più rapida degenerazione della capacità secretiva delle cellule beta pancreatiche e della sensibilità insulinica a livello periferico. A questa componente genetica, si somma anche l’influenza di fattori esterni quali in particolar modo l’obesità pre-gravidica, l’incremento ponderale in gravidanza, l’età materna e la familiarità di I grado per il DM2. Inoltre, donne con GDM sono a rischio di sviluppare il DM2 in età più precoce rispetto alla popolazione generale.

Alla luce di quanto appena esposto, si raccomanda a tutte le donne che hanno avuto una gravidanza complicata da GDM di sottoporsi ad un primo follow-up già a partire dalla 6a-12a settimana dopo il parto.

1. Razionale e obiettivi della tesi

In letteratura internazionale, al momento sono disponibili dati limitati sui fattori di rischio associati alla persistenza delle alterazioni della regolazione glicemica nell'immediato post-partum in donne con storia di GDM, pur essendo presenti numerosi dati sui fattori di rischio associati allo sviluppo di DM2 a lungo termine in tali donne; inoltre, questi dati sono attualmente completamente assenti per la popolazione italiana.

Scopo dello studio trattato in questa tesi è stato, pertanto, quello di valutare i principali fattori associati alla persistenza di alterazioni della regolazione glucidica (IGR) al primo follow-up dopo il parto.

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2. Pazienti e metodi

Sono stati raccolti retrospettivamente i dati clinici ed antropometrici di 523 donne con pregresso GDM (età 37±4.5 anni; indice di massa corporea (BMI) pre-gravidico 24.8±5.1 Kg/m2) afferite al Servizio di Diabetologia dell'Ospedale di Pisa da gennaio 2011 ad ottobre 2017 per eseguire un OGTT (da 75g con misurazione della glicemia a digiuno e due ore dopo il carico orale di glucosio) di screening per il DM2 6_12

settimane dopo il parto.

In accordo con i criteri diagnostici internazionali, sono state classificate come IGR l'alterata glicemia a digiuno (IFG), l'alterata tolleranza ai carboidrati (IGR), la combinazione di queste due alterazioni dell’omeostasi glicemica (IFG+IGT) e il diabete (DM).

3.Risultati

La prevalenza di IGR è pari al 10.5% (5.5% IFG, 2% IGT, 1.5% IFG+IGT e 1.5% DM) e risulta più bassa nelle donne normopeso prima della gravidanza; donne con BMI compreso tra 18.5-24.9 kg/m2 hanno registrato, infatti, una prevalenza di persistenza

di IGR pari al 7.5% e donne con BMI<18.5 kg/m2 hanno una prevalenza di IGR del

17.6%; al contrario, un BMI compreso tra 25-29.9 kg/m2 corrisponde ad una

prevalenza di IGR dell’11% mentre un BMI≥30 kg/m2 al 18.1% (p<0.05).

Non si evidenzia una differenza nella prevalenza di persistenza di IGR nell’immediato post-partum in relazione al BMI al momento dello screening, all'incremento ponderale in gravidanza e al tipo di allattamento in corso.

L’IGR risulta più frequente nelle donne con familiarità per DM2 (14.9% vs. 6.2%; p=0.001) e nelle donne trattate con insulina durante la gravidanza rispetto a quelle trattate con dieta e attività fisica (14% vs. 7.7%; p=0.02).

Le donne con IGR presentano circonferenza vita maggiore rispetto alle NGT (99±12 vs. 94.6±12 cm; p<0.05) e livelli di pressione arteriosa sistolica più alti (121±16 vs. 116±13 mmHg; p=0.01); sono, inoltre, caratterizzate da livelli di HbA1c (5.6±0.04 vs. 5.3±0.3%; p<0.01)) e di trigliceridi (230±75 vs. 163±96; p=0.01) più elevati nel III trimestre di gravidanza.

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Dopo correzione per età, la familiarità di I grado per diabete (OR 2.67; 95%IC: 1.39-5.14; p<0.005), l'obesità pre-gravidica (OR 2.73; 95%IC: 1.29-5.78; p<0.01), l'obesità attuale (OR 2.21; 95%IC: 1.04-4.71;p<0.05), la circonferenza vita (OR 1.03; 95%IC: 1.00-1.05;p<0.05), il tipo di trattamento eseguito per il GDM in gravidanza (OR 1.93; 95%IC: 1.07-3.48;p<0.05) e i valori di HbA1c al III trimestre (OR 13.32; 95%IC: 2.03-87.45;p<0.01) risultano associati alla presenza di IGR al primo controllo dopo il parto. Non risultano, invece, associati a rischio di IGR l'etnia, l'incremento ponderale in gravidanza e la tipologia di allattamento (al seno vs. artificiale).

All'analisi logistica multivariata rimane indipendentemente associata a IGR solo la familiarità di I grado per il diabete (OR 2.67; 95% IC:1.39-5.14).

In un sottogruppo di 70 donne con dosaggio di HbA1c nel III trimestre di gravidanza, tale parametro risulta indipendentemente associato a IGR, anche dopo correzione per altri confondenti (OR 7.66; 95% IC: 1.01-58.00).

4. Conclusioni

In conclusione, dallo studio effettuato si evince che nelle donne con pregresso GDM la persistenza di IGR nell’immediato post-partum è fortemente associata alla familiarità per DM2.

Queste donne dovrebbero, pertanto, essere oggetto di specifici programmi di monitoraggio e prevenzione del DM2.

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Introduzione

“DIABETE MELLITO E GRAVIDANZA”

In passato il diabete, come la maggior parte delle patologie dismetaboliche e disendocrine, comportava frequentemente sterilità o infertilità nonché un aumento della mortalità precoce dei soggetti colpiti; oggi, invece, molte giovani donne affette da tali malattie non solo raggiungono l’età riproduttiva, ma presentano anche un buon grado di fertilità a patto che queste condizioni patologiche siano ben controllate.[1] In ambito ostetrico il diabete è una delle malattie endocrino-metaboliche di maggiore rilevanza per la sua frequenza, per le conseguenze alle quali può condurre e soprattutto perché una terapia oculata e tempestiva può ridurne, se non annullarne, gli effetti negativi sulla madre e sul feto.[1]

1. Inquadramento

Il diabete mellito (DM) comprende un gruppo di disturbi metabolici che condividono il fenotipo dell’iperglicemia.[2, 3]

Riconosciamo diversi tipi di DM che, dal punto di vista eziologico, sono il risultato di complesse interazioni tra fattori genetici ed ambientali: si parla di una tendenza ereditaria multifattoriale per la predisposizione al diabete di cui si stanno precisando sempre meglio i meccanismi, sebbene molti aspetti rimangano ancora da chiarire; si pensa anche ad un patologico condizionamento del metabolismo durante la vita fetale. Dal punto di vista patogenetico, invece, alla base dell’iperglicemia comune in tali disturbi metabolici ritroviamo tre fattori: la ridotta secrezione dell’insulina, la riduzione dell’utilizzo del glucosio e l’incremento della produzione del glucosio; questi tre fattori si combinano in proporzione diversa in ciascuna forma di DM.[2]

Il DM è una patologia sistemica e multi-distrettuale: l’iperglicemia cronica si esplica nel tempo danneggiando molti apparati; ciò porta all’insorgenza delle cosiddette “complicanze croniche” del DM che sono le responsabili della maggior parte della morbilità e della mortalità associata a questa malattia. Le complicanze croniche del

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diabete vengono classificate in complicanze vascolari, tra cui le microvascolari (retinopatia ed edema maculare, neuropatia sensoriale e motoria e autonomica, nefropatia) e le macrovascolari (coronaropatia, arteriopatia periferica, vasculopatia cerebrale) e in complicanze non vascolari (gastrointestinali con gastroparesi e diarrea, uropatia e disfunzione sessuale, complicanze dermatologiche, infezioni, cataratta, glaucoma, malattia periodontale, perdita di udito).[4]

La prevalenza mondiale del DM è aumentata drammaticamente negli ultimi due decenni, da una stima di 30 milioni di casi nel 1985 a 285 milioni nel 2010. Sulla base dell’attuale tendenza, l’International Diabetes Federation ritiene che 438 milioni di individui saranno diabetici nell’anno 2030. Sebbene la prevalenza del DM sia di tipo 1 sia di tipo 2 stia aumentando in tutto il mondo, la prevalenza del DM tipo 2 sta crescendo più rapidamente, probabilmente, a causa dell’incremento dell’obesità, della diffusione di diete sbilanciate, dei ridotti livelli di attività fisica, associati all’industrializzazione e all’invecchiamento della popolazione. Esiste, inoltre, una notevole variabilità dell’incidenza a seconda dell’area geografica sia per il DM tipo 1 che per il tipo 2.[2] La prevalenza del DM è pari, invece, nei due sessi; per il diabete di tipo 2 la modesta preponderanza che si può osservare nelle giovani donne è in buona parte dovuta al diabete gestazionale, che viene identificato per mezzo dei moderni programmi di screening.[1]

2. Classificazione patogenetica del diabete mellito

Oggi (American Diabetes Association, 2004) il DM viene classificato sulla base del meccanismo patogenetico che provoca il disturbo della regolazione glicemica e non più sulla base dei criteri clinici come in passato; le categorie riconosciute sono le seguenti[2, 3]:

Diabete tipo 1 (distruzione delle cellule beta pancreatiche, di solito con esito in totale deficienza di insulina)

Immunomediato

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Diabete tipo 2 (con forme che vanno da una predominante resistenza insulinica con deficienza insulinica relativa a forme con predominante deficienza dell’increzione insulinica associata a resistenza insulinica)

Altri tipi di diabete

A. Difetti genetici della funzione delle cellule beta, caratterizzati da:

• mutazioni patologiche di singoli geni che codificano per fattori di trascrizione espressi nelle cellule beta delle insule pancreatiche (MODY 1,3,4,5,6) o del gene della glucochinasi (MODY 2), trasmesse con meccanismo autosomico dominante (Maturity onset diabetes of the young);

• mutazioni che interferiscono col DNA mitocondriale

• mutazioni che interferiscono con i meccanismi della conversione della proinsulina.

B. Difetti genetici che interferiscono con l’azione dell’insulina.

C. Malattie del pancreas esocrino (pancreatiti, tumori, esiti di pancreatectomia).

D. Endocrinopatie extrapancreatiche (acromegalia, sindrome di Cushing, feocromocitoma, etc).

E. Azioni di farmaci o tossici esogeni (glucocorticoidi, ormoni tiroidei, beta-adrenergici, diuretici tiazidici, etc).

F. Infezioni, quali rosolia congenita, Cytomegalovirus, Coxsackie virus, etc. G. Sindrome da autoanticorpi anti-recettori per l’insulina.

H. Talune sindromi genetiche, a volte associate a DM quali sindrome di Down, sindrome di Klinefelter, etc.

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3. Classificazione ostetrica del diabete mellito

Per quanto riguarda la determinazione della gravità del DM, invece, e soprattutto la prognosi ostetrica è molto utile conservare la tradizionale classificazione di White [1, 5]:

Classe A: corrisponde al diabete chimico di altre nomenclature e comprende tutti i casi di “alterata tolleranza al glucosio” e i casi asintomatici del DM tipo 1 e tipo 2. Vi è una costante riduzione della tolleranza ai carboidrati dimostrabile con una delle prove da carico; vi può essere euglicemia a digiuno (A1) o iperglicemia a digiuno (A2), ma mancano i

sintomi clinici subiettivi e obiettivi. Classe B: comprende i pazienti in cui:

• la durata della malattia manifesta è inferiore a 10 anni;

• l’inizio clinico della malattia si è verificato a partire dai 20 anni di età;

• non vi è segno di angiopatia;

È necessario che le tre caratteristiche siano tutte presenti.  Classe C: comprende pazienti in cui:

• l’inizio della malattia è situato tra i 10 e i 19 anni di età (C1), oppure:

• la durata della malattia clinicamente manifesta è compresa fra i 10 e i 20 anni (C2)

• non vi è segno di angiopatia.  Classe D: comprende i pazienti in cui:

• l’inizio della malattia clinica è situato prima dei 10 anni di età (D1),

oppure

• la durata della malattia manifesta è superiore a 20 anni (D2), oppure

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Per le classi C e D la diagnosi può essere posta quando è presente una sola delle caratteristiche indicate; se è presente più di una caratteristica, la classificazione non cambia.

Classe E: comprende tutti i casi in cui vi è evidenza radiologica di calcificazione dei vasi pelvici.

Classe F: comprende tutti i casi in cui vi è evidenza clinica di nefropatia. Classe G: comprende tutte le donne diabetiche che hanno avuto insuccessi

gravidici multipli (2 o più), indipendentemente dalla loro appartenenza alle altre classi.

Classe H: comprende tutti i casi in cui vi è evidenza clinica di cardiopatia aterosclerotica.

Classe R: comprende tutti i casi in cui vi è retinopatia maligna.

4. Bibliografia

1. Pescetto, G., et al., Ginecologia e ostetricia. 5a ed. 2018, Roma: SEU.

2. Powers, A.C., Diabete mellito: gestione e terapia, in Harrison. Principi di medicina interna, D.L. Kasper, A.S. Fauci, and D.L. Longo, Editors. 2016, CEA: Milano. p. 3141-3158.

3. 2. Classification and Diagnosis of Diabetes: Standards of Medical Care in Diabetes-2018. Diabetes Care, Diabetes-2018. 41(Suppl 1): p. S13-s27.

4. Powers, A.C., Diabete mellito: complicanze, in Harrison. Principi di medicina interna, D.L. Kasper, A.S. Fauci, and D.L. Longo, Editors. 2016, CEA: Milano. p. 3158-3167. 5. AMD, Standard italiani per la cura del diabete mellito.2018. 2018: SID.

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Capitolo 1

“DIABETE MELLITO GESTAZIONALE”

1. Fisiopatologia del metabolismo in gravidanza

L’adattamento metabolico fisiologico dell’organismo femminile alla gravidanza è finalizzato a mantenere un rifornimento ininterrotto di sostanze nutritive al feto, nonostante la madre si alimenti in modo intermittente; per di più, il rifornimento al feto viene conservato entro limiti abbastanza ampi, anche quando l’alimentazione materna è saltuaria o inadeguata. Caratteristica dello stato metabolico gestazionale fisiologico è la tendenza all’iperglicemia postprandiale in presenza di iperinsulinemia, fatto che ha indotto a definire la gravidanza come condizione diabetogena. Quando la predetta tendenza si accentua, insorge il diabete gestazionale.[1]

1.1. Metabolismo glucidico ed eziopatogenesi del GDM

Il glucosio rappresenta la fonte primaria di energia per i tessuti feto-placentari.[1] Durante la gravidanza fisiologica la glicemia materna a digiuno è inferiore del 10-15% circa rispetto alla condizione extragravidica. La tendenza alla riduzione della glicemia è particolarmente accentuata verso la fine del primo trimestre. La riduzione della glicemia a digiuno è spiegata dall’aumentato volume di distribuzione del glucosio nell’organismo della gestante e da un maggiore utilizzo del glucosio (da parte materna nelle prime fasi della gravidanza, per un incremento della funzione di secrezione insulinica delle cellule β del pancreas che vanno incontro ad evidente iperplasia e per un contemporaneo aumento iniziale della sensibilità insulinica, e da parte dell’unità feto-placentare nelle ultime fasi della gravidanza). Quando il digiuno viene prolungato oltre le 9-10 ore, rispetto alla condizione extragravidica si osserva un’ulteriore riduzione della glicemia, associata ad un aumento dei corpi chetonici (acetone, acido beta-idrossibutirrico ed acido acetoacetico) e degli acidi grassi liberi (cosiddetta condizione di catabolismo accelerato o di inedia accelerata). Coerentemente con questo, nella gravidanza normale non è raro riscontrare modesti gradi di chetonuria soprattutto nelle urine emesse al mattino a digiuno. Entro questi limiti la chetonuria

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non si accompagna ad acidosi metabolica e non è indice di rischio (cosiddetta chetonuria gestazionale fisiologica).[1]

Nella gestazione fisiologica la capacità del fegato di produrre glucosio in condizioni di digiuno aumenta progressivamente nel corso della gravidanza fino a raggiungere, nelle ultime settimane, livelli superiori del 15-30% rispetto alla condizione extragravidica, consentendo un trasferimento di glucosio al feto pari a 5-6 mg/kg/minuto anche durante il digiuno della gestante.[1]

Mentre i livelli di glicemia a digiuno tendono a diminuire con il progredire della gravidanza, le escursioni glicemiche postprandiali tendono a farsi più marcate per garantire un maggior apporto di glucosio al feto. Tale condizione si verifica a causa dell’alterato utilizzo insulino-mediato del glucosio, della mancata soppressione postprandiale della produzione epatica di glucosio e dell’inadeguato incremento della prima fase di secrezione insulinica. L’esacerbazione di questi meccanismi porta allo sviluppo del diabete mellito gestazionale (GDM). In queste donne la produzione endogena di glucosio aumenta durante la gravidanza in modo simile ai controlli sani, ma nelle ultime fasi della gravidanza si verifica una minore soppressione della stessa, per una verosimile insulino-resistenza epatica. Dunque, l’iperglicemia postprandiale (e dopo OGTT) rappresenta la più comune e precoce alterazione dell’omeostasi glucidica nelle donne affette da GDM.[1]

Insulino-resistenza

La sensibilità insulinica nelle fasi iniziali della gravidanza appare normale o addirittura aumentata, ma con il progredire del tempo s’instaura una condizione d’insulino-resistenza, in parte dovuta all’aumentata produzione materna e placentare di ormoni quali il lattogeno placentare (hPL), la prolattina ed il cortisolo; questa condizione di insulino-resistenza rappresenta un evento fisiologico atto a garantire il corretto apporto di glucosio al feto. Tale condizione di resistenza all’insulina, inoltre, appare più marcata a livello del muscolo scheletrico piuttosto che nel tessuto adiposo e determina una minore utilizzazione insulino-mediata del glucosio da parte dell’organismo materno con conseguente maggiore utilizzazione di lipidi a fini energetici, garantendo così un adeguato apporto di carboidrati al feto.[1]

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Con la metodica del clamp euglicemico in condizioni normali è dimostrabile un aumento della resistenza all’insulina dell’ordine del 50-60% a 34-36 settimane di età gestazionale, ma un variabile grado di aumento esiste già alla fine del I trimestre.[1, 2] Nella determinazione dell’insulino-resistenza sembra che sia coinvolta anche una riduzione dell’espressione di IRS-1 (Insulin Receptor Substrate 1), dimostrata a livello sperimentale negli animali ma anche nel muscolo scheletrico delle donne in gravidanza, sia normo-tolleranti che affette da GDM, durante le ultime settimane di gestazione. La fosforilazione tirosinica di IRS-1 indotta dall’insulina risulta ridotta, rispetto allo stato pre-gravidico, del 28% nella gravidanza fisiologica e del 41% in quella con GDM. Da segnalare, infine, che nelle fasi finali della gravidanza e in maggior misura in quella complicata da GDM, si assiste ad una riduzione delle concentrazioni cellulari del trasportatore insulino-dipendente del glucosio GLUT4.[1]

Secrezione insulinica

La progressiva riduzione dell’azione insulinica nel corso della gravidanza va di pari passo con l’incremento della risposta β-cellulare. La secrezione insulinica in gravidanza aumenta già durante il primo trimestre, per raggiunge i massi livelli nel terzo trimestre e tende a normalizzarsi successivamente al parto. Al fine di contrastare la crescente insulino-resistenza in gravidanza si assiste a modificazioni strutturali e funzionali a carico delle isole di Langerhans; in particolare durante la gravidanza fisiologica si osserva un'iperplasia delle cellule beta delle insule pancreatiche, probabilmente mediata dall’azione degli estrogeni e del progesterone. Contemporaneamente si nota un progressivo aumento delle concentrazioni plasmatiche di insulina a partire da 12-14 settimane di età gestazionale sia a digiuno, che dopo i pasti o un carico di glucosio. Nelle ultime settimane di gravidanza l’insulinemia a digiuno e la concentrazione media di insulina nell’arco delle 24 ore possono raddoppiare rispetto alle condizioni extragravidiche, mentre la risposta secretoria di insulina dopo stimolo iperglicemico può addirittura triplicare.[1]

Influenza delle citochine infiammatorie

Vi sono evidenze sul possibile ruolo di citochine infiammatorie prodotte dal tessuto adiposo nel determinare i cambiamenti del metabolismo glucidico in corso di

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gravidanza e lo sviluppo di patologie associate all’obesità e all’insulino-resistenza. Non è stato tuttavia ancora chiarito se l’infiammazione induca insulino-resistenza o se quest’ultima causi l’infiammazione. Studi sperimentali di tolleranza glucidica hanno mostrato un’associazione tra il grado di insulino-resistenza e i livelli plasmatici dei marker infiammatori. Secondo questi studi, le citochine infiammatorie secrete dal tessuto adiposo, cioè le adipochine (TNF-α, IL-6, leptina, resistina e adiponectina) interferiscono con il segnale insulinico causando insulino-resistenza al livello di fegato, muscolo scheletrico e tessuto adiposo. I loro livelli sierici sono aumentati nei soggetti obesi e negli individui insulino-resistenti. Durante la gravidanza fisiologica, oltre a una riduzione della sensibilità insulinica, si assiste all’attivazione di uno stato immunitario che comporta un aumento delle proteine della fase acuta dell’infiammazione e delle citochine pro-infiammatorie. L’eccessiva risposta infiammatoria, associata in primo luogo con l’obesità, può risultare in un deficit dell’azione insulinica, con conseguente insufficiente risposta compensatoria pancreatica e favorire così l’insorgenza del GDM. I livelli di Proteina C Reattiva (PCR), un marker infiammatorio sintetizzato a livello epatico in risposta alla stimolazione delle citochine, aumentano durante la gravidanza normale, ma rimane ancora da definire se gli elevati livelli di PCR siano da considerarsi in stretta associazione con l’insorgenza tardiva dell’insulino-resistenza. Il TNF-α aumenta nella gravidanza fisiologica e in quella complicata dal GDM, in funzione del grado di obesità, sebbene i suoi livelli siano più elevati nelle donne affette da GDM. Alcuni studi hanno mostrato che le concentrazioni plasmatiche di TNF-α sono predittive del deficit dell’azione insulinica durante la gravidanza, molto più degli ormoni gestazionali, come il lattogeno placentare e gli steroidi. L’adiponectina è una proteina esclusivamente sintetizzata e secreta dal tessuto adiposo. In contrasto alle altre adipochine, i livelli di quest’ultima sono inversamente correlati all’insulino-resistenza. L’adiponectina presenta dunque un ruolo protettivo nei confronti del DM di tipo 2. Vi è evidenza in letteratura dell’associazione tra bassi livelli di adiponectina e GDM.[1, 3]

Influenza ormonale

L’effetto diabetogeno dovuto alla gravidanza è legato soprattutto all’aumento degli ormoni con effetto antagonista nei riguardi dell’insulina (steroidi glicoattivi, prolattina

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e più di tutti il lattogeno placentare o hPL). All’azione di queste sostanze si tende ad attribuire un ruolo preminente nella genesi della ridotta sensibilità periferica all’insulina, che si realizza tramite un’interferenza post-recettoriale verso l’azione insulinica a livello delle cellule bersaglio.[1]

Estrogeni e progesterone esercitano una probabile azione diretta di stimolo sulle cellule beta delle insule pancreatiche e così in parte contrastano l’effetto degli ormoni antagonisti dell’insulina sopra citati. Sebbene non vi sia unanimità di vedute, estrogeni e progesterone verosimilmente hanno, invece, azioni periferiche antagoniste dell’insulina di importanza secondaria in confronto agli altri ormoni sopra citati.[1] Nelle gravidanze normali i livelli plasmatici di glucagone aumentano in particolar modo durante il terzo trimestre di gravidanza e questo fa pensare che il glucagone contribuisca a favorire l’insulino-resistenza necessaria al sostentamento nutrizionale del feto; le concentrazioni plasmatiche di glucagone sono maggiori nelle donne affette da GDM rispetto ai controlli sani, ma non è ancora noto se tale ormone abbia un ruolo patogenetico nello sviluppo della patologia o se il suo aumento riflette semplicemente un deficit reattivo insulinico.[1]

Il GDM si verifica quando una donna in un certo momento della gravidanza non riesce a produrre una sufficiente quantità di insulina per mantenere l’euglicemia. L’obesità è un importante fattore di predisposizione per il GDM: la concentrazione di leptina, ormone secreto dal tessuto adiposo, aumenta consistentemente durante la gravidanza, raggiungendo un picco nel secondo trimestre e restando elevata fino al momento del parto. Date le elevate concentrazioni di leptina, alcuni autori hanno suggerito che la gravidanza possa rappresentare una condizione di leptino-resistenza. I livelli di leptina correlano con i livelli di insulinemia e con la massa adiposa materna; essa può essere considerata un marcatore di insulino-resistenza ed obesità. Le donne con GDM rappresentano un aumento della concentrazione della leptina sia durante che dopo la gravidanza. Elevate concentrazioni di leptina sono state messe in evidenza nella vena ombelicale, il che porta a pensare che una delle maggiori sedi di produzione di leptina fetale sia rappresentata dalla placenta. I livelli di leptina correlano, inoltre, con il peso alla nascita e gli altri indici antropometrici fetali.[1]

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Eziopatogenesi del GDM

Esattamente come avviene per altre condizioni di iperglicemia, il GDM vede alla base una disfunzione delle cellule beta del pancreas che non producono una quantità sufficiente di insulina in concomitanza all’aumentata richiesta di quest’ultima durante la seconda fase della gravidanza.[4]

Si rammenta che le pazienti affette da GDM sono un gruppo eterogeneo sia per la patogenesi dell’iperglicemia, sia per la gravità e la durata del disturbo, sia per altre caratteristiche (funzione gastrointestinale, distribuzione del grasso corporeo).[1]

Lo studio dei meccanismi eziologici alla base dell’insorgenza del GDM ha rivelato la presenza di almeno tre grandi cause di disfunzione beta cellulare. Nel primo caso, alcune donne presentano marker immunologici (come anticorpi anti-cellule beta o anti-decarbossilasi 65) che rivelano poi una diagnosi di diabete di tipo 1; questa situazione è riscontrata in una casistica inferiore al 10% tra tutte le donne affette da GDM, incidenza che ricalca quella del diabete di tipo 1 nella popolazione generale. In secondo luogo, alcune donne presentano una forma monogenica di diabete caratterizzata da un’insorgenza durante l’età adulta (MODY); si hanno pochi dati al riguardo, ma sembra che tale condizione sia rara e che rappresenti solo l’1-5% delle donne affette da GDM. Infine, la stragrande maggioranza delle donne affette da GDM presenta una disfunzione beta cellulare dovuta all’obesità e ad una forma cronica di insulino-resistenza; sono queste pazienti che per lo più arriveranno a sviluppare successivamente un DM2.[4]

Come prevedibile, nelle donne affette da GDM i livelli glicemici a digiuno tendono ad essere superiori che nelle gravide sane, anche nei casi in cui rimangono entro i limiti della norma. Inoltre, nell’ambito delle pazienti con GDM questa tendenza è più accentuata nelle obese rispetto alle gravide di peso normale.[1]

Sia pure con alcune eccezioni, i livelli insulinemici a digiuno in donne con GDM di peso normale sono simili o inferiori ai livelli insulinemici di gravide di controllo sane, mentre in donne obese con GDM solitamente sono superiori.[1]

Dopo un pasto misto standardizzato i livelli insulinemici in donne obese con GDM sono più alti che in gestanti sane di controllo, mentre in donne di peso normale affette da

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GDM i livelli insulinemici sono simili ai controlli. Però, tanto nelle obese con GDM quanto nelle gravide di peso normale con GDM il picco insulinemico viene raggiunto in media 60 minuti dopo il pasto di prova, mentre nei soggetti sani di controllo, il picco viene raggiunto già 30 minuti dopo il pasto.[1]

Alla fine del puerperio in donne che avevano avuto un GDM si può identificare un gruppo di soggetti in cui il metabolismo dei carboidrati si normalizza, ma nei quali studi più approfonditi della dinamica dell’increzione insulinica mostrano segni di aumentata resistenza all’insulina; precisamente, queste sarebbero le donne con maggiore probabilità di sviluppare un DM di tipo 2 anche a distanza di molti anni.[1]

Per quanto riguarda il glucagone, come già riferito, il GDM non sembra modificare in modo vistoso la dinamica della sua secrezione rispetto alle condizioni pregravidiche ed a quanto si verifica nella gravidanza fisiologica. Ciò nonostante, in alcune donne nella cui anamnesi figura un episodio di GDM, si può osservare a distanza di tempo dalla gravidanza una ridotta soppressione della increzione di glucagone da parte di uno stimolo iperglicemico. È verosimile che questi soggetti rientrino nel gruppo con aumentato rischio di sviluppare negli anni seguenti un DM di tipo 2.[1]

1.2. Metabolismo lipidico

Durante la gravidanza i cambiamenti metabolici che si verificano a livello del fegato e del tessuto adiposo si ripercuotono anche a livello del metabolismo di trigliceridi, acidi grassi liberi, colesterolo e fosfolipidi. Dopo un’iniziale riduzione, nelle prime otto settimane di gravidanza, i livelli di lipidi tendono ad aumentare.[1]

Il colesterolo è utilizzato dalla placenta per la sintesi di steroidi, mentre gli acidi grassi vengono utilizzati per la sintesi di membrane.[1]

Per azione degli estrogeni, a partire dalla 12a settimana gestazionale, si osserva un

aumento del colesterolo HDL, i cui livelli rimangono elevati per tutta la durata della gravidanza. A partire dal secondo trimestre si assiste, inoltre, ad un incremento del valore del colesterolo totale e LDL. Comportamento simile hanno le VLDL ed i trigliceridi. Questi ultimi, poi, incrementano la loro concentrazione sia nelle VLDL che nelle LDL e nelle HDL. Questo cambiamento è dovuto ad una maggiore sintesi epatica e alla riduzione della clearance dei trigliceridi. L’incremento della sintesi di trigliceridi è

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legato all’effetto degli estrogeni, mentre la ridotta clearance è dovuta ad un’alterata attività della lipasi epatica e della lipoproteina-lipasi. È evidente che la presenza di insulino-resistenza tipica della condizione gravidica giochi un ruolo importante nell’aumento dei livelli dei trigliceridi. L’entità dell’aumento della trigliceridemia è stato messo in correlazione con il peso del neonato, sia nelle donne con GDM che nei controlli sani.[1]

I cambiamenti a carico delle lipoproteine possono determinare un danno endoteliale durante la gravidanza e promuovere l’aterogenesi.[1]

Il profilo lipidico delle donne affette da GDM si caratterizza, invece, per la presenza di elevati livelli di trigliceridi associati a bassi livelli di HDL. Le donne che sviluppano GDM presentano concentrazioni plasmatiche di acidi grassi liberi (FFA) maggiori rispetto ai controlli sani. In queste donne, l’aumento dei livelli di FFA determina un peggioramento dello stato di insulino-resistenza e contribuisce allo sviluppo di macrosomia, poiché vi è evidenza che gli FFA attraversino liberamente la placenta.[1] Durante la gravidanza, il passaggio dallo stato anabolico a quello catabolico, promuove l’utilizzazione dei lipidi come substrato energetico per i tessuti materni, in modo da poter lasciare glucosio ed aminoacidi come fonte energetica per il feto. Caratteristica della gravidanza è la rapida chetogenesi da digiuno che è riscontrabile nelle gestanti e che può creare problemi al feto. I corpi chetonici, infatti, così come gli acidi grassi attraversano liberamente la placenta e, sebbene possano essere substrati per i processi di ossidazione epatica e cerebrale, possono avere effetti dannosi sullo sviluppo psiconeurologico del nascituro.[1]

1.3. Metabolismo proteico

L’accumulo proteico è essenziale per la crescita fetale. Sebbene nel primo trimestre di gestazione la sintesi proteica non si modifichi rispetto alle donne fuori dalla gravidanza, nel secondo trimestre appare incrementata di circa il 15% con un ulteriore aumento del 25% una volta raggiunto l’ultimo trimestre. Esistono, però, importanti differenze interindividuali per ciascun periodo della gravidanza, in forte associazione con la crescita fetale: in generale, nel primo periodo di gravidanza si va incontro

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all’ossidazione degli aminoacidi, mentre nel terzo trimestre gli aminoacidi vengono accumulati per la sintesi proteica.[1]

In gravidanza, la concentrazione di aminoacidi tende a diminuire sia a digiuno che nella fase postprandiale e tale riduzione si rende particolarmente evidente nel terzo trimestre.[1]

L’ipoaminoacidemia a digiuno è secondaria all’aumentata neoglucogenesi epatica.[1] I meccanismi che possono contribuire all’ipoaminoacidemia a digiuno postprandiale comprendono un accelerato up-take materno di aminoacidi in risposta all’iperinsulinemia postprandiale, una variazione del volume di distribuzione degli aminoacidi come risultato della ritenzione di liquidi in gravidanza e un aumentato utilizzo di aminoacidi da parte del feto durante le fasi tardive della gestazione.[1]

2. Definizione

Per molti anni il diabete gestazionale (GDM, gestational diabetes mellitus) è stato definito come “una intolleranza al glucosio di entità variabile che inizia o viene diagnosticata per la prima volta in gravidanza” e che, nella maggior parte dei casi, si risolve dopo il parto. Tale definizione veniva usata in passato anche per quelle forme di diabete pre-gestazionale che venivano identificate per la prima volta in gravidanza. Il notevole incremento della prevalenza di diabete tipo 2, anche in età fertile, ha reso frequente il riscontro di donne affette da diabete, solitamente di tipo 2, non diagnosticato che intraprendono la gravidanza. Queste donne hanno un aumentato rischio di complicanze materne e fetali, comprese le malformazioni congenite. Questa condizione, oggi definita “diabete manifesto in gravidanza” (overt diabetes in pregnancy), richiede un follow-up della gravidanza simile a quello raccomandato nel diabete pre-gestazionale. Negli ultimi anni le principali linee guida raccomandano di porre una specifica attenzione allo screening del diabete manifesto in gravidanza, che deve essere effettuato il più precocemente possibile.[2]

Il GDM, invece, solitamente insorge nella seconda parte della gravidanza, e per questo l’epoca ottimale per lo screening è la 24-28ma settimana di gestazione. Alcune condizioni particolarmente a rischio, come l’obesità, il GDM pregresso e l’alterata

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glicemia a digiuno (IFG) prima della gravidanza o all’inizio della stessa possono determinare l’insorgenza precoce del GDM. Anche se non sono disponibili evidenze scientifiche forti, in Italia è raccomandato lo screening anticipato alla 16-18ma settimana di gestazione, da ripetere, se negativo, alla 24-28 settimana.[2]

Nel 2015, l’American Association of Clinical Endocrinologists (AACE), l’American College of Endocrinology (ACE) e l’Androgen Excess and Polycystic Ovary Syndrome Society (AE-PCOS) hanno dichiarato congiuntamente che donne con sindrome dell’ovaio policistico in gravidanza sono a rischio di diabete gestazionale per molti motivi, inclusa una più alta prevalenza di IGT. In queste pazienti il counseling circa l’importanza dello screening del diabete, dell’ipertensione e della perdita di peso, laddove necessario, andrebbe fatto già prima del concepimento.[2]

Il GDM, anche nelle sue forme lievi, se non diagnosticato e, quindi, non trattato comporta rischi rilevanti sia per la madre (ipertensione e più frequente ricorso al parto cesareo), sia per il feto e il neonato (aumentata incidenza di macrosomia, iperbilirubinemia, ipocalcemia, policitemia, ipoglicemia).[2]

È ormai noto in letteratura che il trattamento del GDM riduce l’incidenza degli outcome avversi della gravidanza, anche nelle forme con lievi alterazioni della glicemia. La diagnosi del GDM è pertanto rilevante per l’esito della gravidanza e rappresenta inoltre un’importante occasione di prevenzione del diabete nella madre. Purtroppo, ancora oggi non c’è uniformità e chiarezza sulle modalità diagnostiche e diversi problemi sono ancora aperti per quanto concerne lo screening (universale vs selettivo) e la diagnosi di GDM in epoca precoce.[2]

3. Epidemiologia

Il GDM è una delle complicanze più comuni della gravidanza[5, 6], con un’incidenza pari al 7-8% tra le donne gravide[6], con diverse variazioni legate alle popolazioni esaminate e ai criteri diagnostici utilizzati[7]. È una patologia in aumento in tutto il mondo, in particolar modo nei Paesi in via di sviluppo come l’India e la Cina e nei Paesi africani[6], a causa anche dell’incremento dell’obesità, delle gravidanze in donne con età più avanzata e di quelle multiple.[5]

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Più precisamente, a livello globale l’incidenza del GDM varia fra le diverse popolazioni dall’1% al 14%. Il GDM colpisce dal 5 al 6% delle gravidanze in USA, meno del 5% delle donne in gravidanza della Corea del Sud, del Regno Unito e del Sud Africa; l’incidenza in Italia e in Australia è inferiore al 10%, mentre è circa del 20% nelle Bermuda e nel Nepal. La prevalenza del GDM nei Paesi asiatici è maggiore rispetto agli altri Paesi.[6] Esistono, infatti, etnie più predisposte allo sviluppo di GDM: l’incidenza di tale patologia è maggiore nelle donne ispaniche, asiatiche, americane di origine africana, native americane e nelle donne originarie dalle isole del Pacifico rispetto a quelle di razza caucasica. Le differenze legate all’etnia, a parità di fattori di rischio modificabili come l’indice di massa corporea, persistono anche nel rischio di sviluppare successivamente il DM di tipo 2: le donne di colore hanno un maggior rischio di sviluppare DM di tipo 2, dopo aver avuto il GDM. [5]

4. Fattori di rischio

Il NICE (National Institute Health And Clinical Excellence) ha individuato una serie di fattori di rischio per il GDM su cui si basa la strategia di screening. Essi sono:

 BMI>30 kg/m2

 Pregresso parto macrosomico (peso del neonato≥4.5 kg)  Storia di GDM

 Familiarità di I grado per il diabete

 Etnia d’origine con maggiore prevalenza di GDM: Asia orientale (soprattutto India, Pakistan e Bangladesh), Caraibi e Medio-Oriente.

Questa lista però è incompleta: esistono, infatti, altri fattori di rischio per il GDM, che sono stati individuati col tempo e che possono essere classificati in fattori di rischio non modificabili e in modificabili.[8, 9]

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4.1 Fattori di rischio non modificabili Età materna

L’età è un fattore di rischio del GDM ormai noto da tempo. La prevalenza del GDM aumenta con l’età. Essa presenta valori minimi nelle donne sotto i 20 anni, poi aumenta gradualmente fino ad arrivare a valori pari al 7.27%, 8.34% e 10.3% rispettivamente nelle donne caucasiche, afroamericane ed ispaniche nella fascia di età tra 40-45 anni.[8]

Familiarità di I grado per il diabete

La familiarità di I grado per il diabete è sempre stato considerato un fattore di rischio per il GDM.[8] Sembra che quando è la madre della gestante ad esserne affetta il rischio sia maggiore: il rischio futuro di GDM nella prole di sesso femminile, infatti, se la madre ha durante la gravidanza un DM2 risulta del 35% contro il solo 7% se è il padre ad avere il DM2; il rischio di origine paterna esprime approssimativamente l’influenza genetica, mentre quello di origine materna esprime la somma dell’influenza genetica e di quella mediata dal dismetabolismo durante la vita endouterina.[1, 2, 8] Il rischio aumenta ulteriormente quando ne sono affetti entrambi i genitori della gestante: in questo caso si parla di un effetto additivo.[8]

Altre condizioni di insulino-resistenza

Recentemente, tra i fattori di rischio sono state indagate anche diverse condizioni patologiche che inducono un quadro di insulino-resistenza materna. Tra queste, necessitano particolare attenzione la PCOS e la sindrome metabolica: esse, infatti, aumentano il rischio di sviluppo di GDM.[8, 9]

Multiparità

La correlazione esistente tra la parità e il GDM è fortemente influenzata da due fattori confondenti che sono l’età e il sovrappeso o obesità. Le donne multipare, infatti, tendenzialmente sono più avanti con l’età e hanno un BMI maggiore. Non si può concludere, pertanto, che la multiparità è un fattore di rischio indipendente per il GDM.[8]

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Gravidanze multiple

Sembra che le gravidanze multiple, in particolar modo quelle con gemelli dizigoti, aumentino il rischio di sviluppo di GDM, probabilmente a causa di dell’aumentata massa placentare. Non esistono, tuttavia, dati certi in letteratura.[8]

4.2 Fattori di rischio modificabili Obesità materna

L’obesità risulta essere un fattore di rischio per il GDM agendo con un meccanismo analogo a quello che si registra nel caso del DM2. Un BMI elevato, infatti, induce un quadro di insulino-resistenza.[3, 9]

Una systematic review di una metanalisi tra studi osservazionali pubblicati tra il 1977 e il 2007 ha stimato il rischio di GDM in relazione al BMI della gestante. All’aumento del BMI di 1 kg/m2, il rischio di GDM aumenta dello 0.92%. In uno studio recente condotto

in America su 23904 pazienti tra il 2004 e il 2006 è emerso che la causa di quasi la metà dei casi di GDM registrati potrebbe essere l’obesità. A favore di questa tesi, vi è l’evidenza che l’incidenza del GDM diminuisce nelle donne sottoposte a chirurgia bariatrica.[8]

Elevato incremento ponderale in gravidanza

L’aumento del peso in gravidanza è spesso considerato un fattore di rischio per il GDM, nonostante non esistano molti studi che abbiano analizzato la correlazione indipendente di tale fattore di rischio col GDM.[8]

Fattori socio-economici

Riguardo questo fattore di rischio gli studi effettuati non sono tutti concordi; alcuni autori sostengono l’esistenza di una relazione inversamente proporzionale tra il GDM e il livello socioeconomico della gestante, in particolar modo l’istruzione. Sono state effettuate ricerche negli Stati Uniti, in Italia, in Iran e in Cina ma non si è arrivati ad una conclusione unanime. Altri studi non hanno trovato nessun tipo di correlazione statisticamente significativa.[8]

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Attività fisica

Diversi studi di tipo osservazionale hanno messo in luce la presenza di una correlazione inversa tra il livello di attività fisica durante l’anno precedente alla gravidanza o durante la gravidanza e l’incidenza del GDM. L’attività fisica svolta durante l’anno precedente alla gravidanza riduce il rischio di GDM del 50% e l’entità della riduzione dipende dall’intensità e dalla durata dell’esercizio fisico. Esattamente come accade per il DM2, l’attività fisica favorisce un aumento dell’insulino-sensibilità.[8]

Fumo

Anche in questo caso le ipotesi sono molto discordanti: esistono studi che sostengono una correlazione tra il fumo e l’aumento del rischio di GDM e studi che confutano l’ipotesi che il fumo rappresenti un fattore di rischio per il GDM.[8]

5. Complicanze materno-fetali del diabete gestazionale

Storicamente, la probabilità che una madre diabetica concludesse la gravidanza in buono stato di salute con un neonato sano è sempre stata molto bassa, mentre la probabilità che entrambi, madre e figlio, andassero incontro a morte entro il primo anno dal parto, era piuttosto alta. L’introduzione dell’insulina nel 1921 ha totalmente modificato questo scenario devastante e la nascita dell’unità intensiva neonatale ha migliorato la sopravvivenza dei nuovi nati da madre diabetica ed ha aumentato la loro aspettativa di vita, ponendola al pari dei bambini nati da madri non diabetiche. Nel caso specifico del GDM, così come in caso di un diabete pre-gravidico, l’iperglicemia marcata e non controllata rappresenta il principale fattore di rischio per lo sviluppo di complicanze perinatali a carico sia del neonato che della madre. Ad ogni modo, esistono anche condizioni aggiuntive che aumentano il rischio ostetrico perinatale, prima fra tutte l’assenza di diagnosi o una diagnosi tardiva del diabete e l’assenza di progettazione prima del concepimento nel caso specifico di un diabete pre-gravidico.[7]

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5.1. Complicanze fetali

Diverso è l’effetto che il diabete esercita sullo sviluppo fetale nel caso in cui preesista alla gravidanza (diabete pregravidico) o insorga durante il suo corso (GDM): nel primo caso può interferire con l’organogenesi, mentre nel secondo solo con la normale crescita fetale.[1] Il GDM, infatti, insorge nella seconda parte della gravidanza quando l’organogenesi è ormai completata[10]. Pertanto, nel nato da madre con GDM, il rischio di aborti e di malformazioni congenite è pressoché sovrapponibile a quello dei nati da madre non diabetica.[1]

Le donne affette da GDM presentano maggior rischio rispetto alla popolazione generale di andare incontro ad un parto pretermine, a causa dell’aumentata incidenza di polyhdramnios.[1] I feti di madre diabetica sono sottoposti ad un’alterazione auxologica che si esplica nella maggior parte dei casi con la macrosomia[7, 10]: questa eccessiva crescita fetale presenta conseguenze come un aumento dei traumi alla nascita (soprattutto la distocia della spalla), aumento della morbilità materna causata da un più frequente ricorso al parto cesareo, alterazioni metaboliche come l’ipoglicemia fetale alla nascita, l’ipocalcemia e l’iperbilirubinemia, maggiore incidenza di eritema e infine alterazioni respiratorie come la sindrome del distress respiratorio. Il GDM, inoltre, è un fattore di rischio per lo sviluppo di obesità e diabete nella prole.[1, 10]

Alterazioni della crescita fetale

La complicanza perinatale più frequente nella gravidanza complicata da GDM è certamente rappresentata dall’eccessiva crescita fetale, soprattutto a carico dei tessuti insulino-sensibili. Si parla abitualmente di macrosomia per indicare neonati di peso superiore ai 4000g alla nascita, ma in realtà sono macrosomici tutti i nati con peso di nascita superiore al 90o percentile per l’età gestazionale (LGA) con riferimento ad

apposite curve di crescita specifiche per ogni popolazione.[1, 11] La macrosomia interessa circa il 30% dei nati da madre diabetica, con maggiore frequenza nelle donne obese [1] e il GDM è considerato un fattore predittivo indipendente di LGA [12].

I figli macrosomici di madre diabetica sono caratterizzati da eccessiva adiposità (presentano fino al doppio di grasso corporeo rispetto ai nati di donna non diabetica),

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da visceromegalia e da una variabile dismorfia con crescita sproporzionata e maggiore del tronco (spalle ed addome) rispetto alla testa e pertanto è ad alto rischio di complicanze ostetriche, quali la temibile distocia di spalla con la conseguente paralisi del plesso brachiale[11, 13], che mentre, nella popolazione generale ha un’incidenza pari allo 0,2-2,8%, presenta un’incidenza del 10% tra i nati da madre diabetica anche a parità di peso alla nascita.[1] Ne deriva pertanto un alto rischio da traumi da parto e di asfissia perinatale per parto protratto e distocico che giustifica il frequente ricorso, nella gravidanza diabetica, al taglio cesareo.[1, 11, 13] Per tale motivo il parto con taglio cesareo viene considerato di elezione quando la stima ecografica del peso fetale è superiore ai 4000-4500g.[1]

È appurato che l’eccesso di crescita risenta sensibilmente del compenso metabolico, anche se una stretta ottimizzazione glicemica materna, ottenuta con un approccio metabolico intensificato, non sempre permette di normalizzare questo parametro. L’eccessiva diponibilità di glucosio (ma anche di aminoacidi e di prodotti del metabolismo lipidico) nel compartimento materno si ripercuote nel compartimento fetale. Nella seconda metà della gravidanza il pancreas fetale si è formato ed è in grado di produrre quantità supplementari di insulina per far fronte all’eccessiva quantità di glucosio presente nel sangue materno. L’eccesso di glucosio entrerà nelle cellule del tessuto fetale e sarà convertito in grassi, determinando una crescita troppo rapida del feto.[1, 2]

All’estremo opposto dei megalosomi vi sono i feti con restrizione tardiva dell’accrescimento (iposomia). L’iposomia è definita come peso alla nascita minore del 10o percentile per l’età gestazionale (SGA). Questa condizione è solitamente associata

a fenomeni di vasculopatia materna e quindi di insufficienza placentare, complicata o meno da gestosi o nefropatia diabetica.[1, 2]

Alterazioni metaboliche a breve termine

La complicanza metabolica più frequente della gravidanza diabetica, soprattutto se in fase di scarso controllo glicometabolico, è l’ipoglicemia neonatale. L’ipoglicemia (< 35 mg/dl nei nati a termine; < 25 mg/dl nei nati pretermine) nelle prime ore di vita ha frequenza del 25-40%. Il principale fattore determinante è sempre l’iperglicemia materna, soprattutto durante il travaglio. Al momento della nascita, venendo a

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mancare l’apporto materno di glucosio, l'iperinsulinemia fetale, dovuta allo sviluppo di iperplasia compensatoria delle β-cellule pancreatiche, provoca l'ipoglicemia. Inoltre, una ridotta capacità neoglucogenetica e glicogenolitica, tipica delle prime ore di vita, predispone il neonato all’iperglicemia. Un’ipocalcemia (< 7 mg/dl) più o meno evidente può comparire in quasi la metà dei nati da madre diabetica; seconda una verosimile ipotesi tale disturbo è collegabile con fenomeni di riequilibrio ionico fra il compartimento intracellulare e quello extracellulare dopo un prolungato episodio di acidosi metabolica. Frequentemente l’ipocalcemia si associa ad ipomagnesiemia e ad iperfosfatemia.[1, 2]

Circa un terzo dei nati da madre diabetica presenta policitemia (valore ematocrito superiore a 65%), verosimilmente dovuta ad aumento della secrezione di eritropoietina collegabile a ripetuti episodi di ipossia endouterina. Sovente in rapporto alla policitemia, ma talvolta anche indipendentemente da essa, i nati da madre diabetica presentano iperbilirubinemia con frequenza complessiva dell’ordine del 20-25%.[1, 2]

Alterazioni cardiache e polmonari

Una cardiomiopatia ipertrofica è presente in circa il 10% dei nati da madre diabetica, probabilmente correlata con la condizione di iperinsulinemia fetale. Nella maggior parte dei casi l’evoluzione è benigna e la malattia si risolve spontaneamente entro i primi sei mesi di vita. Invece, qualche volta può verificarsi una parziale ostruzione dell’efflusso del sangue dal ventricolo sinistro, che prima della nascita può essere causa di morte fetale improvvisa, dopo la nascita può provocare grave insufficienza cardiaca di tipo congestizio.[1]

Anche la sindrome respiratoria idiopatica del neonato è complicanza che si osserva con maggior frequenza nei nati da madre diabetica.[14] In passato, col controllo metabolico tradizionale della gestante, l’aumento di frequenza era dell’ordine di 4-5 volte rispetto alla popolazione non selezionata di pari età gestazionale. Invece, col controllo metabolico rigoroso attuale anche questo rischio si è ridotto ad un’entità poco superiore a quella della popolazione non selezionata. Si ritiene che la prolungata iperinsulinemia fetale interferisca negativamente con lo sviluppo di enzimi

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indispensabili per la produzione dei fosfolipidi del tensioattivo polmonare fetale, in particolare del fosfatidilglicerolo.[1, 14]

Altri fattori che contribuiscono indirettamente all’aumentata frequenza della sindrome respiratoria idiopatica del neonato sono la maggior percentuale di parti pretermine, spontanei o indotti, e di tagli cesarei nella gestante diabetica.[1]Alcuni studi hanno dimostrato, inoltre, che l’ambiente iperglicemico in cui cresce un feto di madre diabetica può predisporre allo sviluppo di pneumopatie nell’infanzia e nell’adolescenza, come il wheezing e l’asma.[14]

Alterazioni metaboliche a lungo termine

Esistono numerose evidenze scientifiche che suggeriscono che l’esposizione fetale ad un ambiente iperglicemico conferisce rischi a lungo termine al neonato.[7, 15] Questi rischi si manifestano già nell’infanzia con una maggiore incidenza di sovrappeso e obesità [7, 16], di insulino-resistenza, di ipertensione arteriosa, di danno renale e di DM di tipo 2. In questi bambini esiste, inoltre, un rischio aumentato di otto volte di sviluppare prediabete, diabete o di sindrome metabolica. Il ruolo esatto di geni isolati e/o di meccanismi presenti durante la vita fetale nella genesi e nella trasmissione di condizioni DM-correlate dalla madre al feto non è stato ancora spiegato [7], tuttavia, vi sono autori che sostengono che, nonostante l’importanza fondamentale della componente genetica, l’aumento dell’incidenza di DM2 e di sindrome metabolica non può essere spiegata esclusivamente dalle alterazioni genetiche [15]. Sembra, infatti, che l’ambiente fortemente iperglicemico intrauterino possa portare ad alterazioni epigenetiche che influenzano l’espressione genica del nascituro durante la sua infanzia, l’adolescenza e anche l’età adulta.[15]

Quando si effettuano confronti tra bambini obesi nati normopeso e bambini nati macrosomici o da madri che hanno sviluppato il GDM si evince che quest’ultimi durante l’infanzia presentano maggiore concentrazione di insulina, maggiore insulino-resistenza, maggior stress ossidativo e minore quantità plasmatica di adiponectina rispetto alla prima categoria di bambini, seppur a parità di peso durante la loro infanzia. L’obesità materna costituisce il miglior fattore predittivo dell’obesità del bambino[17]. In questi bambini, la prima manifestazione della sindrome metabolica è l’insorgenza di ipertensione arteriosa e di ipertrigliceridemia. Anche i bambini nati

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iposomici da madri con GDM hanno un rischio aumentato di DM di tipo 2, a causa dei fattori epigenetici. Inoltre, bambini nati da madri obese ma senza GDM possono subire una compromissione della crescita già durante la loro vita intrauterina che si protrarrà poi durante l’infanzia e l’adolescenza.[7]

Alcuni studi hanno confrontato come il diabete pregravidico (DM1 o DM2) e il GDM incidano sullo sviluppo della prole: è stato concluso che il maggior rischio di sviluppo di sindrome metabolica e di obesità si associa ai nati da madri affette da GDM più che da quelle affette da un diabete pregravidico.[7]

Un altro fattore di rischio importante per lo sviluppo di obesità e di sindrome metabolica nella prole è l’aumento di peso della madre durante la gravidanza. Anche una crescita accelerata del nascituro dopo il parto può compromettere l’equilibrio metabolico del piccolo.[7]

L’allattamento al seno è un fattore di prevenzione contro lo sviluppo dell’obesità nei bambini e per questo è altamente raccomandato.[4] Secondo alcuni autori, tuttavia, sembra che sia necessario un allattamento al seno prolungato affinché questo esplichi la sua funzione protettiva; serve ribadire, però, che sono necessari ulteriori studi sulla composizione del latte materno per poter comprendere il reale ruolo dell’allattamento.[18]

Per quanto riguarda il rischio futuro di GDM nella prole di sesso femminile, se la madre aveva durante la gravidanza un DM2, il rischio risulterebbe del 35%, contro il solo 7% se era il padre ad avere il DM2; il rischio di origine paterna esprime approssimativamente l’influenza genetica, mentre quello di origine materna esprime la somma dell’influenza genetica e di quella mediata dal dismetabolismo durante la vita endouterina.[1, 2]

Il GDM espone la prole anche ad alterazioni di tipo funzionale o comportamentali, dal momento che gran parte dello sviluppo del cervello e di quello delle ghiandole endocrine avviene durante la vita endouterina. Vi è qualche osservazione secondo la quale gli indici di sviluppo mentale in età infantile sono inversamente correlati con le concentrazioni plasmatiche materne di acido beta-idrossibutirrico e di acidi grassi liberi nel corso del 3o trimestre di gestazione. Sebbene manchino tuttora adeguate verifiche,

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ciò nonostante è prudente adoperarsi per ridurre gli episodi di catabolismo accelerato almeno nel corso degli ultimi mesi di gravidanza.[1]

5.2. Complicanze materne

Qualsiasi donna sviluppi durante la gravidanza il GDM diventa fortemente a rischio per lo sviluppo in futuro sia di DM2 che di sindrome metabolica: queste condizioni aumentano di gran lungo la probabilità che tali donne possano sviluppare malattie cardiovascolari precoci (come l’ipertensione e la patologia coronarica[19]) che inducono un aumento della mortalità.[7]

Le donne con GDM presentano un rischio di sviluppare DM di tipo 2 nel post-partum 7 volte superiore rispetto alla popolazione normale; circa il 50 % di queste donne sviluppa DM di tipo 2 nei primi 5-10 anni dopo il parto.[5, 7] L’incidenza maggiore si registra nei primi 5 anni e poi si raggiunge un plateau dopo 10 anni.[5]

Il GDM e il DM di tipo 2 presentano stessa patogenesi: entrambi, infatti, sono caratterizzati da una carenza dapprima relativa di insulina associata ad una insulino-resistenza a livello dei tessuti periferici. Diversi autori sono stati indotti ad indagare ed affermare che queste due forme di diabete condividono polimorfismi genetici comuni.[6, 19]

È stato dimostrato che le donne con GDM ben diagnosticato e correttamente trattato hanno un minor rischio di sviluppare disordini ipertensivi in gravidanza, di ricorrere al parto cesareo e di aumentare di peso durante i nove mesi di gestazione (è stato dimostrato come quest’ultima condizione sia uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di DM di tipo 2). Nonostante tutto, alcuni autori sostengono che una diagnosi precoce e un trattamento idoneo del GDM non siano ancora in grado di diminuire i rischi materni a lungo termine legati a tale patologia.[5]

Il GDM rappresenta un marker precoce della sindrome metabolica e tale correlazione sembra più evidente nella razza caucasica. Sembra che la connessione tra le due patologie sia data dall’infiammazione: sono stati documentati a livello plasmatico livelli più alti di PCR (proteina di flogosi), di acido urico e di osteoprotegerina, appartenente alla famiglia del TNF-α (previsori di malattie cardiovascolari) dopo la gravidanza nelle donne che hanno poi sviluppato la sindrome metabolica rispetto ai controlli sani.[19]

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Bisogna, inoltre, ricordare che secondi alcuni autori il GDM costituisce un fattore di rischio per l’insorgenza di patologie cardiovascolari indipendentemente dall’eventuale diagnosi di DM di tipo 2: la causa è rintracciabile nell’alterazione endoteliale e nel dismetabolismo lipidico che caratterizzano una gravidanza complicata da una condizione di iperglicemia.[20]

Recentemente è stata indagata l’influenza che una patologia come il GDM può avere anche sulla sfera psichiatrica delle donne che ne sono affette. È noto in letteratura che è possibile un’associazione tra il DM2 e la depressione ma sono ancora scarsi i dati che mettono in correlazione il GDM con un’eventuale depressione peri-partum e post-partum. Non esistono ancora campioni numericamente rilevanti ma sembrerebbe che il GDM può indurre ad un aumentato rischio di depressione in queste donne: tali pazienti, pertanto, troverebbero giovamento grazie ad un follow-up più stretto e soprattutto attento anche alla loro sfera psichiatrica.[21]

6. Criteri diagnostici e screening

La valutazione diabetologica di una donna in gravidanza deve prevedere due aspetti: lo screening del diabete manifesto (overt diabetes in pregnancy) e quello per il diabete gestazionale (GDM).[2]

1) DIABETE MANIFESTO. Lo screening e l’eventuale diagnosi di diabete manifesto devono essere effettuati alla prima visita in gravidanza con la misurazione della glicemia plasmatica a digiuno. Per la diagnosi si utilizzano gli stessi criteri impiegati al di fuori della gravidanza (glicemia a digiuno ≥126mg/dl). Le gestanti con di diabete manifesto devono essere prontamente avviate ad un monitoraggio glicemico intensivo, come raccomandato per il diabete pregestazionale.[2]

2) GDM. Vi è da decenni un intenso dibattito sulla strategia da adottare per lo screening del GDM. Le principali società scientifiche internazionali suggeriscono uno screening universale a 24-28 settimane gestazionali.[22] In Italia, dal 2011, il Ministero della Sanità ha fornito indicazioni chiare sulle modalità e i tempi di screening del GDM, decretando l’abbandono dello screening universale

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(eseguito cioè su tutte le donne in gravidanza) e sollecitando l'implementazione di quello basato sui fattori di rischio.[2]

Secondo le Linee guida Italiane, condivise da Ginecologi e Diabetologi, lo screening per il GDM si basa sulla valutazione dei fattori di rischio specifici: le donne con almeno un fattore di rischio per il GDM devono eseguire un OGTT con 75 g di glucosio alla 24-28ma settimana di gestazione. Per donne ad elevato rischio è necessario uno screening precoce con OGTT con 75 g di glucosio alla 16-18ma settimana, da ripetere, se negativo, alla 24-28ma settimana.[2]

FATTORI DI RISCHIO PER IL GDM (OGTT 75g a 24-28 settimane) [2]: • familiarità positiva per diabete in familiari di primo grado;

• pregresso diabete gestazionale (anche se con screening normale alla 16-18 settimana);

• macrosomia fetale in gravidanze precedenti; • sovrappeso o obesità (BMI ≥25Kg/m2);

• età ≥35 anni;

• etnie ad elevato rischio (Asia meridionale, Medio Oriente, Caraibi). ALTO RISCHIO PER IL GDM (OGTT 75g a 16-18 settimane) [2]:

• obesità (BMI ≥30Kg/m2);

• pregresso diabete gestazionale;

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MODALITA’ DI ESECUZIONE DEL TEST CON CARICO ORALE DI GLUCOSIO [2]:

1. il test con carico orale di glucosio deve essere eseguito al mattino, a digiuno (dopo un digiuno notturno di 8-14 ore[10]);

2. il carico glucidico va somministrato ad una concentrazione del 25% (75 g di glucosio sciolti in 300 cc di acqua);

3. durante il test la donna deve rimanere seduta e astenersi dall’assunzione di alimenti e dal fumo;

4. nei giorni precedenti il test l’alimentazione deve essere libera (non vanno modificate le abitudini alimentari[10]) e comprendere almeno 150 g di carboidrati/die;

5. il dosaggio della glicemia deve essere effettuato su plasma, utilizzando metodi enzimatici, mentre è sconsigliato l’uso di glucometri;

6. il test da carico di glucosio non deve essere effettuato in presenza di malattie

intercorrenti (influenza, stati febbrili, etc.).

6.1. Screening universale o selettivo?

La maggior parte delle analisi finora condotte non è stata in grado di fornire evidenze di un rapporto costo-beneficio favorevole di uno screening universale, al contrario di quanto documentato invece per lo screening in popolazioni a rischio. È tuttavia da considerare che la maggior parte di questi studi si è concentrata sulle complicanze a breve termine, relative agli esiti ostetrici e perinatali della gravidanza, senza valutare le conseguenze a distanza, ovvero l’insorgenza successiva di DM di tipo 2 nella madre[4]. Pubblicazioni più recenti, estendendo la valutazione anche a questi esiti sul lungo periodo, hanno invece modificato questo giudizio, classificando l’intervento di screening non selettivo come “highly cost-effective”.[2]

La consensus dell’International Association Of Diabetes And Pregnancy Study Groups (IADPSG) (IADPSG 2010) raccomanda lo screening universale in un’unica fase (OGTT 75 g alla 24-28ma settimana in tutte le donne in gravidanza) [4, 10].

Pur permanendo una discussione aperta sulle metodiche da utilizzare, il concetto di uno screening esteso all’intera popolazione delle donne in gravidanza è stato successivamente accettato da ADA e AACE negli Stati Uniti e in questo senso si è

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espressa anche la Endocrine Society nel 2014 con la “Diabetes And Pregnancy-Clinical Practice Guideline”; alle raccomandazioni IADPSG si sono poi adeguate le principali organizzazioni scientifiche internazionali: IDF, OMS e, infine, la International Federation Of Gynecology And Obstetrics (FIGO), in un documento pubblicato alla fine del 2015 che rappresenta una guida pratica ed incisiva, intorno a cui vi è impegno per raggiungere un consenso internazionale. Rimane una voce discordante rappresentata dal National Institute For Health And Care Excellence (NICE), che nell’aggiornamento 2015 delle sue linee guida su diabete e gravidanza conferma, in un contesto generale di non accettazione delle raccomandazioni IADPSG, la scelta di uno screening selettivo, basato sui fattori di rischio. Anche in Italia, come precedentemente detto, viene effettuato uno screening selettivo basato sui fattori di rischio.[2]

I primi dati sull’efficacia di questa metodica di screening per il GDM nella nostra popolazione dimostrano una buona predittività per tutti i fattori di rischio considerati dalle linee guida ministeriali sulla gravidanza fisiologica, tranne che per l’età materna. Lo studio ha confermato che il ricorso allo screening basato sui fattori di rischio permette un notevole risparmio di risorse (riduzione di circa il 40% del numero di OGTT eseguiti rispetto allo screening universale). Tuttavia, la strategia di screening per GDM basata sui fattori di rischio, è gravata da un tasso elevato (oltre il 20%) di donne che potrebbero sfuggire alla diagnosi perché senza fattori di rischio, come riportato da altri autori. Sono tuttavia necessari studi più ampi nella nostra popolazione, per valutare la reale efficacia e sensibilità di questa nuova modalità di screening.[2]

Una voce discordante rispetto a quanto sopra riportato e tratto dagli “Standard italiani per la cura del diabete mellito 2018” è rappresentata da una metanalisi e studio di coorte pubblicato negli Sati Uniti nell’aprile del 2017 da Ferrar et al. Lo studio conclude che eseguire uno screening selettivo ha il limite di non effettuare diagnosi in donne con GDM: i fattori di rischio rappresentano un modello con bassa predittività; è necessario quindi ampliare gli studi per poter individuare ulteriori biomarkers che realizzino un modello efficace per individuare la popolazione a rischio. Lo screening selettivo permette sicuramente la riduzione dei costi, costi che però, secondo tale studio, risulteranno maggiori nel momento in cui sarà necessario trattare donne con diabete di tipo 2 in cui non si è potuto effettuare diagnosi precoce e quindi eventuale

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