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Flavonoidi nel grano saraceno: valutazione dell’effetto dell’epoca di semina e dell’irrigazione attraverso l’applicazione di una nuova metodica analitica in cromatografia elettroforetica zonale (CZE).

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Veterinarie

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Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie delle Produzioni Animali

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Flavonoidi nel grano saraceno:

valutazione dell’effetto dell’epoca di semina e dell’irrigazione attraverso l’applicazione di una

nuova metodica analitica in cromatografia elettroforetica zonale (CZE).

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Candidato

Relatore

Melissa Oriolo

Prof. Marco Mariotti

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Correlatore

Dott. Giuseppe Saccomanni

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Anno Accademico 2013-2014

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A i miei genitori

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INDICE

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1 INTRODUZIONE………..pag. 4 1.1 Origini e diffusione della specie……….pag. 5 1.2 Inquadramento sistematico………pag. 6 1.3 Morfologia e biologia………..pag. 7 1.4 Esigenze ambientali………pag. 9 1.5 Tecnica agronomica………pag. 11 1.6 Utilizzazioni……….pag. 13 1.7 La composizione chimica del grano saraceno………..pag. 21 1.8 L’attività antiossidante del grano saraceno……….pag. 24 1.9 Flavonoidi e il loro contenuto nel grano saraceno………..pag. 28 1.10 Determinazione dei flavonoidi………pag. 35

2 SCOPO DELLA TESI………pag. 46 3 MATERIALI E METODI……….pag. 47 3.1 Studio condotto in pieno campo………..pag. 47 3.2 Determinazione quali-quantitativa di flavonoidi………..pag. 48

3.2.1 Sviluppo del metodo………..pag. 48

3.2.2 Parte sperimentale……….pag. 54 4 RISULTATI………..pag. 58 4.1 Concentrazione rutina……….pag. 58 4.2 Contenuto rutina………..pag. 68 5 CONCLUSIONI………..pag. 81 BIBLIOGRAFIA………pag. 84 RINGRAZIAMENTI……….pag. 98

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1.INTRODUZIONE

Il grano saraceno è una pianta dicotiledone, appartenente alla famiglia delle Poligonacee, del genere

Fagopyrum che presenta analogie strette con i cereali per modalità di coltivazione, tipo di prodotto e

destinazione alimentare (Borghi et al., 1993).

Il grano saraceno ha rappresentato per molti secoli un’importate coltura in diverse parti del mondo, soprattuto nelle regioni centro-settentrionali dell’Europa orientale, in Canada e negli Stati Uniti (Borghi et al., 1993).

In Italia il grano saraceno viene coltivato nelle valli alpine del nord ma è andato incontro ad una drastica riduzione di superficie nel periodo seguente all’ultimo conflitto mondiale. Le principali cause del fenomeno risiedono nel mutamento delle abitudini alimentari delle popolazioni, nella scarsa risposta della coltura alla pratiche agronomiche e nella mancanza delle varietà selezionate (Badalassi et al., 1998).

Recentemente l’interazione tra alimento o componente alimentare e salute sta assumendo un’importanza rilevante, per questo c’è stato un interesse crescente verso il grano saraceno e sopratutto verso le sue proprietà nutrizionali legate all’elevato contenuto in differenti composti funzionali (Antonini et. el., 2012); infatti i suoi semi non contegono glutine, sono ricchi di vitamine B1 e B2, di proteine ad alto valore biologico e soprattutto di flavonoidi.

Il grano saraceno viene utilizzato in svariati modi, nell’alimentazione umana viene usata prevalentemente sottoforma di farina, con la quale vengono realizzati prodotti di nicchia (Bonali, 1975).

Questa pianta, fino al 1950, veniva coltivata su notevoli superfici poiché era fonte di rutoside (vecchia denominazione della rutina), flavone glucosidico usato in medicina per il trattamento di disturbi vascolari dovuti ad una anormale fragilità delle vene (Bonali, 1975).

Per quanto riguarda l’impiego del grano saraceno nelle produzioni animali, le notizie bibliografiche sono scarse, ma grazie alle sue proprietà nutrizionale può considerarsi una valida alternativa per l’alimentazione degli animali da reddito. Il grano saraceno trova impiego nell’ambito delle produzioni animali anche come miglioramento ambientale a scopo faunistico venatorio e per la produzione di miele (Bociarelli, 2001).

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1.1 Origini e diffusione della specie

Il grano saraceno è una coltura importante soprattuto in alcune regioni del mondo grazie al suo modo di coltivazione e alla sua utilizzazione. E 'stato utilizzato sia come alimento e medicina tradizionale (Kim et. al. 2004). E' originario dell'Asia centrale, e cresce spontaneamente in Manciuria e Sibera (Tahir et al., 1988). È distribuito dal sud dell'Himalaya fino in Bhutan, Nepal, India del Nord, e Pakistan settentrionale. Dalla Cina, il grano saraceno si diffuse anche in Corea e Giappone (Kreft, 2001). Il grano sarceno si è diffuso in Europa probabilmente attraverso la Siberia e la Russia; in Europa centrale la sua coltivazione risale all’inizio del XV secolo. Da qui è stato portato dagli immigranti in Canada e negli USA (Bonafaccia et al., 1999). In India, il grano saraceno è ampiamente coltivato in Jammu e Kashmir a ovest, e Arunachal Pradesh ad est. La sua diffusa coltivazione è stata osservata in alta montagna nel Jammu & Kashmir, Leh, Himachal Pradesh, Garwhal, Kumaon, Darjeeling, Sikkim, Assam, Arunachal Pradesh, Nagaland, Manipur, Nilgiris e sulle colline Palani (Joshi, 1999).

Esistono anche alcune coltivazioni di grano saraceno in Africa meridionale, dove questa specie, ha una doppia origine: europea ed asiatica.

Nel XVIII e XIX secolo la coltivazione di questa specie ha subito un grave declino, così come quella di altre colture, tra cui il miglio (Panicum milleaceum), la segale (Secale cereale), la fava (Vicia faba). Queste piante di elevate qualità sono state rimpiazzate principalmente da varietà altamente produttive di frumento e mais.

Negli ultimi 20 anni si è avuto un ritorno di interesse per alcune vecchie colture di qualità, quali miglio, farro e appunto grano saraceno (Bonafaccia et al., 1999); ad oggi i principali produttori di grano saraceno sono la Cina, la Russia, l’Ucraina e il Kazakhistan (Li et al., 2001). Ma viene anche coltivato in Slovenia, Polonia, Hungary e in Brasile (Kreft et al., 1999).

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1.2 Inquadramento sistematico

Il grano saraceno appartiene al genere Polygonum o Fagopyrum, nelle tribù Eupoligonaceae, nella famiglia Polygonaceae, nell’ordine Poligonales e classe Dicotiledonae.

Il genere Fagopyrum prevede 5 specie e 1 sottospecie: F. sagittatum Gilib. (F. esculentum Moench.) con la sottospecie F. emarginatum Meins., F. tataricum Gaertn., F. cymosum Meins., F. ciliatum Jacq- Felix e F.

suffrutticosum F. Schmidt. (Bonali, 1975).

Due sono le specie comunemente coltivate: il grano saraceno comune (F.esculentum) e il grano saraceno tartarico (F.tartaricum) (Krkoskova e et al., 2005).

Oggi, il grano saraceno comune (Fig. 1) è chiamato “ogal" in India, “mite phapar” in Nepal, “soba” (spaghetti tradizionali) in Giappone, “jawa" in Pakistan, “tian qiao mai” in mandarino, “jare" in Bhutan, “grecicha kul’furnaja" in Russia e “tatarka Gryka” o “poganka” in Polonia. In francese, si chiama “sarrasin”, “noir ble", “renouee” o “bouquette", in Italia “fagopiro”, “grano saraceno”, “sarasin” o “faggina” e in Germania “Buchweizen” o “Heidekorn” (Hammer, 1986; Campbell, 1997).

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Fig. 1 Fagopyrum esculentu Moench.

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1.3 Morfologia e biologia

Il grano saraceno (Fagopyrum esculentum Moench) è una pianta annuale, a ciclo vegetativo che varia da 60-70 giorni fino a 100 giorni (Sarno, 1981). Il grano saraceno è una pianta snella, alta 60-120 cm con radice fittonante poco sviluppata, gli steli sono sottili e velatiti di rosso, le foglie sono ampiamente triangolari, peduncolate alla base e sessili alla sommità; l’infiorescenza, raccolta a racemo corimbiforme, consta di fiori melittofili con perigonio persistente, bianco-rosei, ermafroditi; l’ovario monosperma sormontato da 2-3 stili più o meno saldati verso la base con stimmi dilatati a capocchia. Gli stami sono 8 di cui 5 estremi e 3 interni. Su piante diverse si trovano due tipi di fiori diversi (eterostilia dimorfa): un tipo di fiore presenta stami e stili lunghi che sovrastino le antere mentre l’altro fiore ha caratteristiche opposte (Fig. 2) (Calzecchi, 1965).

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Fig. 2 Fiore longistilo e brevistilo del g r a n o s a r a c e n o ( d a K n u t s , Blutenbiologie).

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I frutti hanno una dimensione di circa 0,2-0,4 centimetri di lunghezza con bordi carenati, il cui colore varia da un colore grigio argenteo al marrone o nero, il cui embrione è situato nella sua sommità (Fig. 3) (Steadman et al., 2001).

Il grano saraceno ha semi triangolari (Fig. 4) con guscio morbido nero o verde chiaro (Krkoskova et al., 2005).

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Fig. 4 Semi di diverse specie di grano saraceno (Bonali, 1975).

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La fecondazione si verifica normalmente quando il polline dei fiori brevistili perviene sugli stimmi dei fiori longistili o viceversa. Non c’è fecondazione quando il fiore viene impollinato dal proprio polline (Calzecchi, 1965).

Le varietà di grano saraceno possiedono prevalentemente un corredo cromosomico diploide (2n), tuttavia esistono alcune varietà con corredo cromosomico tetraploide (4n) che presentano una maggiore resistenza all’allettamento, semi più grandi, migliore attitudine alla molitura ed un’elevata resa in farina (Bonali, 1975).

Ci sono alcune differenze morfologiche tra il grano saraceno comune e il grano saraceno tartarico come ad esempio le dimensioni dei fiori, nel colore dei sepali e dei semi; Il grano saraceno tartarico ha fiori più piccoli, il colore dei sepali è bianco-verdastri con antere e stigmi allo stesso livello e i semi sono più piccoli con pericarpo grigio.

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1.4 Esigenze ambientali

Il grano saraceno predilige un clima fresco e umido e cresce bene ad alte quote (Oplinger et al., 1989). Venti secchi e molto caldi (≥ 25°C) durante la fase di fioritura provocano la perdita di un elevato numero di fiori e quindi una riduzione della resa in semi (Oplinger et al., 1989; Cawoy et al., 2009; OMAFRA, 2009). Inoltre temperature troppo elevate aumentano l’assorbimento di acqua e inibiscono la crescita del tubulo pollinico, che non cresce a sufficienza per un’eventuale fecondazione (Marshall, 1980).

Viene coltivato nelle regioni temperate, fino ad una latitudine di 70° N e 800 m di quota (Halbrecq et al., 2005), mentre F. tataricum Gaertn., essendo una specie più resistente alle basse temperature, può essere coltivato anche ad altitudini maggiori (oltre 1500 m) (Bonali, 1975).

Le basse temperature, in particolare le gelate primaverili e autunnali, provocano danni irreversibili alla coltura (Oplinger et al., 1989). I cardinali termici di germinazione del grano saraceno vanno da 7 a 40°C e la temperatura ottimale di crescita è compresa tra 18 e 23°C, in fase di fioritura è opportuno non scendere sotto i 15°C, temperature più basse infatti la inibiscono (Oplinger et al., 1989; Cawoy et al., 2009). Necessita circa di 1300 GDD (Growing Degree Days) per completare il ciclo produttivo (Björkman, 2009). In virtù delle sue esigenze ambientali, il grano saraceno nel nostro paese viene coltivato soprattutto nella Valtellina e in Alto Adige; in passato veniva coltivato su tutto l’arco alpino nell’Appennino settentrionale e centrale.

Una piccola produzione di grano saraceno viene realizzata anche nelle montagne della Garfagnana (provincia di Lucca) (Tallarico et al., 2008).

In queste zone anche durante il periodo estivo le piogge risultano abbastanza frequenti.

Il grano saraceno necessita di 70 mm di pioggia, dalla germinazione alla fioritura, e altri 20 mm dalla fioritura alla maturazione; la mancanza di acqua, oltre a provocare l’appassimento delle foglie, inibisce la fecondazione e causa l’aborto dello zigote (Marshall, 1980).

Ipotizzando di trasferire la coltivazione del grano saraceno in pianura è possibile che l’irrigazione sia un fattore indispensabile per l’accrescimento delle piante (Fig. 5). Tuttavia la bibliografia a questo proposito è molto scarsa.

Alcune cultivar non sono sensibili al fotoperiodo, altre tra cui la varietà autunnale giapponese e la varietà europea “La Harpe” si comportano come brevidiurne facoltative (Cawoy et al., 2009).

Gaberščik et al. nel 2002 hanno studiato l’effetto delle variazioni delle radiazioni ultraviolette (UV-B) sul grano saraceno, al fine di valutare la vulnerabilità della coltura al variare di questo parametro, arrivando alla seguente conclusione: i semi ottenuti dalle piante trattate con bassi livelli di radiazione UV-B, oltre ad avere un buon tasso di germinazione (95%), danno origine a piante con basso tasso di traspirazione e con

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elevata capacità fotosintetica, oltre che con elevate rese in sostanza secca e in granella. Grandi quantità di radiazioni, nonostante garantiscano un elevato tasso di germinazione, influenzano negativamente tutti gli altri parametri (Gaberščik et al., 2002).

Per quanto riguarda le esigenze edafiche, il grano saraceno, si adatta ad una vasta gamma di terreni (Oplinger et al., 1989; Treadwell et al., 2012). I terreni di medio impasto sono i migliori, purché siano ben drenati, non sopporta terreni pesanti, asfittici e calcarei, rende bene anche in terreni poco fertili. In terreni troppo fertili l’elevata quantità di azoto ne provoca l’allettamento (Oplinger et al., 1989) e favorisce l’insorgenza di malattie fungine (OMAFRA, 2009). Al contrario, elevate quantità di fosforo aumentano notevolmente le produzioni (Marshall, 1980). Ha un’elevata resistenza all’acidità del terreno, cresce bene a pH compreso tra 5 e 7 (OMAFRA, 2009).

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Fig. 5 Campo di sperimentazione di grano saraceno.

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1.5 Tecnica agronomica

Il grano saraceno ha un ciclo molto breve (Fig. 6), di solo 70-90 giorni, e per questo può essere inserito in avvicendamento come coltura principale o intercalare. Esso potrebbe quindi essere seminato, in dipendenza delle condizioni climatiche, in aprile-maggio (coltura principale) o in giugno-luglio, dopo la raccolta di un cereale (coltura intercalare) (Bonciarelli, 2001).

Fig. 6 Schematica presentazione dello sviluppo della pianta di grano saraceno (Baumgertel et al., 2010).

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La preparazione del terreno per il grano saraceno non si discosta da quella adottata per i cereali autunno vernini (Bonali, 1975; Oplinger et al., 1989). Se segue un cereale autunno vernino da foraggio il terreno può essere preparato con la lavorazione minima (Treadwell et al., 2012).

La semina può essere fatta a spaglio, utilizzando 50-60 kg/ha di seme e coprendo poi il seme con una leggera erpicatura (erpice a denti elastici o a maglie), oppure con la normale seminatrice da frumento, utilizzando 30-35 kg/ha di seme, lasciando una distanza tra le file di 15-20 cm. La densità di semina non è universalmente definita ma varia fra i diversi Autori in un range di 50-400 p/m2(Borghi et al., 1993; Bonciarelli, 2001). La profondità di semina varia dai 3-5 cm (Badalassi, 1988).

Per le concimazioni, il grano saraceno sembra poco esigente, soprattutto per le basse produzioni che lo contraddistinguono. Le necessità per una produzione di 10-20 q/ha di granella sono contenute in circa 30-40 kg/ha di azoto, 40-50 kg/ha di P2O5 e 50-60 kg/ha di K2O (Bonali, 1975; Bonciarelli, 2001). Il diserbo chimico non è sempre necessario perché è stato dimostrato un effetto allelopatico da parte del grano saraceno

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verso alcune delle comuni infestanti del frumento tenero (Kumar et al., 2011). Inoltre il grano saraceno può essere un’ infestante per le altre colture (Oplinger et al., 1989).

Il momento ideale per la raccolta della granella di grano saraceno non è ben definito poiché la maturazione dei semi è scalare; quindi è possibile trovare sulla stessa pianta sia fiori, che acheni verdi, che acheni maturi. La presenza di semi verdi nel raccolto è dannosa perché può compromettere la conservabilità del prodotto. Inoltre i semi maturi possono cadere soprattutto a causa del vento. Secondo alcuni Autori il momento migliore per la raccolta della granella, effettuata in un’unica fase, si verifica quando il 75-90% degli acheni hanno assunto la tipica colorazione marrone scuro-nero, gli steli sono quasi secchi e le piante hanno perso la maggior parte delle foglie (Sarno, 1981; Borghi et al., 1993; Beuerlein, 2001; Bonciarelli, 2001).

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1.6 Utilizzazioni

La pianta di Fagopyrum esculentum in Asia è utilizzata nelle case per ottenere dei piccoli rimedi casalinghi. Le foglie sono cotte in vaso di ferro e vengono somministrati ai pazienti anemici e anche per curare della stitichezza nelle persone anziane (Pant et al., 2009).

Il Fagopyrum esculentum è la varietà di grano saraceno più ampiamente consumato per il suo sapore dolce e sementi facilmente descafabili (Paulickova, 2008). Nel subcontinente indiano è spesso coltivato come un raccolto di verdure a foglia poiché le foglie e i giovani germogli vengono bolliti e mangiati come gli spinaci (Campbell, 1997).

Dai gusci del grano saraceno si ricava un colorante utilizzato per i tessuti (The wealth of India, 1956). La farina viene usata in Giappone come additivo per alcuni prodotti alimentari, ad esempio gelato (Kreft et al., 2006). In Russia e Polonia semole e farine sono usate per fare la minestra. In Europa e Nord America la farina di grano saraceno è generalmente mescolata con farina di grano per preparare frittelle, biscotti, pasta (Campbell et al., 1997). Il tè preparato con i semi di grano saraceno mostra un elevato contenuto di flavonoidi (Park et al., 2000).

In Italia, la farina di grano saraceno trova impiego miscelato con con mais e frumento, per la preparazione della polenta taragna, pizzoccheri e dolciumi vari. Iniziano attualmente a diffondersi altri prodotti come il grano saraceno decorticato da usare come orzo perlato per le minestre e i fiocchi ottenuti dallo schiacciamento degli acheni. La granella essiccata, consegnata al mulino, viene inizialmente sottoposta ad una pulitura in più passaggi, successivamente la granella viene avviata alla macina a pietra per ottenere la farina. La resa è alta, pari al 76%: da 100 kg di grano saraceno pulito si ottengono 76 kg di farina e 12 kg di crusca e sfarinati (Badalassi, 1998).

Dalla bibliografia risulta che il grano saraceno viene coltivato principalmente per il consumo umano, sebbene alcuni recenti studi abbiano dimostrato che questo pseudocereale può essere utilizzato anche nelle razioni alimentari degli animali da reddito.

Il grano saraceno può essere somministrato sia sotto forma di insilato sia sotto forma di foraggio fresco alle vacche da latte e alle pecore da lana.

Le caratteristiche qualitative del foraggio fresco e l’efficienza delle fermentazioni ruminali sono stati studiati da Amelchanka et al. (2010), che hanno analizzato, in vitro, gli effetti del foraggio fresco sulla ruminazione; da questo studio è emerso che il grano saraceno fresco manteneva il pH ruminale e la fermentazione microbica.

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In un recente studio Leiber et al. (2012) hanno analizzato la composizione chimica e la fermentazione ruminale, in vitro, delle diverse parti fresche della pianta di grano saraceno. All’interno della pianta la proteina grezza era maggiormente concentrata nelle foglie (24% della SS) seguite dalle infiorescenze (17%) e dagli steli (6%). Inoltre le foglie erano ricche di carboidrati non fibrosi (34,5 %) e le infiorescenze erano ricche di flavonoidi (8,8 %). Le diete testate comprendevano un gruppo di campioni composti da una base di fieno di loietto con l’aggiunta di diverse concentrazioni di rutina (0, 0.5, 5.0, 50 mg/g di fieno). Il secondo gruppo di campioni era composto da una metà di fieno di loietto e l’altra metà dalle diverse parti della pianta di grano saraceno (intera pianta, foglie, fiori e steli). Gli stessi Autori hanno rilevato che le produzioni di gas di fermentazione erano maggiori nelle diete a base di solo fieno di loietto e che aumentando le concentrazioni di rutina aumentavano anche le produzioni di gas fermentativi. Nelle diete contenenti le diverse parti della pianta di grano saraceno, la produzione di gas variava a seconda delle parti considerate e i valori più bassi sono stati ottenuti nella dieta con 100 mg di foglie di grano saraceno. Per quanto riguarda la produzione di acidi grassi volatili le diete che contenevano grano saraceno portavano ad una produzione ridotta rispetto a quelle di solo fieno. In questo modo è stato dimostrato che le fermentazioni ruminali non sono influenzate dalla presenza di rutina. È stato quindi ipotizzato che il grano saraceno contiene una sostanza che inibisce le fermentazioni ruminali, probabilmente più concentrata nelle foglie che nelle altre parti della pianta. Gli Autori hanno concluso che il grano saraceno ha un rendimento ruminale leggermente ridotto e un minore valore nutrizionale rispetto ad altri foraggi (Leiber et al., 2012).

La somministrazione di foraggio fresco di grano saraceno è stata studiata anche sugli ovini (Mulholland et al., 1995). Alcuni giovani montoni (Border Leicester X Merino) sono stati lasciati liberi di pascolare su appezzamenti di terreno, su cui erano presenti stoppie di grano saraceno. Gli animali sono stati tenuti al pascolo per 55 giorni. Il 39% degli animali è stato colpito da fagopirismo con conseguente calo di peso corporeo e riduzione della resa in lana. Il calo della resa era dovuto al processo infiammatorio sulla cute e alle vescicole provocate dalla malattia. Il fagopirismo ha avuto un’incidenza molto elevata probabilmente perché i montoni avevano il mantello chiaro ed erano allevati al pascolo. Quindi, hanno concluso gli Autori, il grano saraceno fresco non può essere somministrato ad libitum su animali con pelle chiara allevati costantemente all’aperto (Mulholland et al., 1995).

La prova sull’efficienza delle fermentazioni ruminali (in vitro) di Amalchanka et al., (2010) ha dimostrato che l’insilato di grano saraceno non portava a modificazioni nel pH ruminale e nelle fermentazioni microbiche. Inoltre è stato registrato un lieve calo della componente protozoaria della flora

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ruminale, ma senza effetti negativi sull’efficienza fermentativa. L’insilato ha provocato inoltre, rispetto al foraggio fresco, un abbassamento della quantità di metano prodotta dalle fermentazioni ruminali.

La sperimentazione in vivo è stata condotta su vacche da latte in tarda lattazione, di razza Frisona. Non si sono verificate riduzioni significative sulla produzione di latte, né modificazioni sulle componenti del latte stesso, ad eccezione della quantità di urea e cioè il latte delle vacche alimentate con insilato di grano saraceno conteneva una quantità inferiore di urea rispetto alla dieta di controllo.

Considerate le favorevoli proprietà nutritive del grano saraceno, gli stessi Autori hanno concluso che tale alimento può essere somministrato alle vacche da latte (Amelchanka et al., 2010). Anche Kalber et al. (2012) hanno utilizzato insilato di grano saraceno in rotoballe fasciate, senza l’aggiunta di additivi, ottenuto dopo 55 giorni dalla semina. Il processo di insilamento è durato circa 4 mesi. Le principali caratteristiche fermentative dell’insilato erano le seguenti: il pH della massa raggiungeva 4,7, la concentrazione di acido lattico era del 3,4% della sostanza secca e la concentrazione di acido acetico era dello 0,8%. Gli stessi Autori hanno concluso che il grano saraceno ha una buona attitudine all’insilamento.

L’insilato di grano saraceno è stato inserito nella razione di vacche da latte (Frisone e Brown Swiss) in tarda lattazione e messo a confronto con una dieta di controllo. Quest’ultima conteneva insilato di sola loiessa e un mangime concentrato, per bilanciare la dieta dal punto di vista proteico ed energetico. La seconda dieta conteneva insilato di grano saraceno con l’aggiunta di insilato di loiessa in un rapporto di 0,75- 0,25 rispettivamente e il concentrato di controllo. Con la somministrazione di insilato di grano saraceno c’è stata una lieve riduzione nell’assunzione di mangime, ma non ci sono state differenze significative sulla produzione e sulla qualità del latte. Infatti il rapporto grassi/proteine del latte era di 1,35 somministrando insilato di grano saraceno e 1,26 somministrando insilato di controllo. Kalber et al. (2012) hanno inoltre dimostrato che, con l’assunzione di insilato di grano saraceno, le quantità di urea nel latte diminuivano, rispetto alla dieta di controllo. Anche se il valore nutrizionale del grano saraceno era leggermente inferiore alla dieta di controllo, gli stessi Autori, hanno concluso che l’insilato di grano saraceno può essere inserito nelle razioni di vacche da latte in tarda lattazione.

Per quanto riguarda la granella del grano saraceno, essa può essere somministrata intera o come sottoprodotto della lavorazione. Sull’impiego della granella nelle produzioni animali sono state fatte diverse sperimentazioni, sia sui poligastrici sia sui monogastrici.

Per quanto riguarda i poligastrici, le ricerche si sono basate sull’incidenza della somministrazione di granella o di farina di grano saraceno, sull’efficienza della fermentazione ruminale e sulle produzioni di latte (Mulholland et al, 1995; Amelchanka et al., 2010; Leiber et al., 2012). Leiber et al. (2012) hanno valutato la

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composizione e la fermentescibilità della granella di grano saraceno in vitro. La granella conteneva il 62% di carboidrati non fibrosi, di cui il più rappresentato era l’amido, che hanno provocato una elevata produzione di gas di fermentazione ruminale. La granella ha causato anche un aumento della flora ruminale, in particolare della componente protozoaria.

Amelchanka et al. (2010) hanno analizzato, in vitro, gli stessi parametri relativi alle fermentazioni ruminali, andando a sostituire la farina di frumento con farina di grano saraceno. La sperimentazione in vitro è stata realizzata adottando un rapporto grano saraceno: frumento pari a 0:1, 1:1 e 1:0 ed impiegando in tutti i casi 600 g/kg di fieno. All’aumentare della quantità di farina di grano saraceno si è verificata una lieve diminuzione della concentrazione di ammoniaca ruminale. Inoltre non ci sono stati effetti significativi sul pH ruminale e sulla composizione della flora ruminale.

Gli stessi Autori hanno condotto una sperimentazione in vivo, andando a somministrare farina di grano saraceno a vacche da latte in tarda lattazione, per verificare gli effetti sulla produzione di latte. Alle vacche veniva somministrata una dieta con 94 g/kg di SS al giorno di farina di grano saraceno. La produzione quanti - qualitativa di latte non ha in questo modo subito modificazioni apprezzabili.

In conclusione, alla luce dei risultati ottenuti gli Autori hanno concluso che il grano saraceno può essere proficuamente inserito nelle razioni alimentari dei bovini in tarda lattazione (Amelchanka et al., 2010).

Mulholland et al., (1995) hanno determinato gli effetti della granella di grano saraceno su peso e resa in lana di montoni di razza Merino e di due anni di età. Nella sperimentazione sono state messe a confronto 4 diverse diete, una composta da 554 g di grano saraceno intero, una da 554 g di grano saraceno tritato, una da 528 g di avena e una da 497 g di frumento; ognuna di queste diete era accompagnata da 118 g di SS di fieno. In tutte le razioni somministrate non ci sono state variazioni significative sul peso vivo degli animali e sulla resa in lana. Mulholland et al., (1995) hanno concluso che la granella di grano saraceno può essere inserita nelle razioni dei montoni da lana.

L’impiego di grano saraceno come concentrato nell’alimentazione dei monogastrici è stato valutato in prove sperimentali su maiali, polli e conigli.

Farrel (1978) ha effettuato una ricerca per valutare il valore nutritivo del grano saraceno per i suini. La sperimentazione era composta da due prove separate. Nella prima prova è stato fatto un confronto tra diete a base di grano saraceno o frumento più diversi integratori proteici per un totale di 6 diete. I suini sono stati pesati ogni settimana. Con la somministrazione di grano saraceno non ci sono state differenze apprezzabili negli incrementi ponderali rispetto alle diete con frumento. Tuttavia le prestazioni dei suini sono migliorate

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fornendo diete a base di grano saraceno con aggiunta di farine di carne e di farina di girasole, che hanno fatto registrare significativi incrementi ponderali.

Nella seconda prova la farina di grano saraceno è stata confrontata con un mangime commerciale per suini. Sono state testate diete differenti a base di farina di grano saraceno con aggiunta degli stessi integratori proteici della prima prova e i risultati più vicini alla dieta composta da mangime commerciale sono stati ottenuti con la dieta 9 composta da 780 g/kg di farina di grano saraceno, 100 g/kg di farina di carne e 100 g/ kg si farina di girasole. Farrel (1978) ha concluso che il grano saraceno può essere somministrato ai suini, ma per ottenere buoni risultati è necessaria un'integrazione proteica (Farrel, 1978).

L’utilizzazione del grano saraceno negli avicoli ha fatto registrare risultati contrastanti. La stessa sperimentazione effettuata sui suini è stata condotta, da Farrel (1978), anche sugli avicoli, in particolare su pulcini in accrescimento. Nel primo esperimento sono state confrontate diverse diete a base di grano saraceno (una con solo grano saraceno e le altre integrate con amminoacidi), di solo frumento, di solo mais, di sola avena con una dieta a base di mangime commerciale. Nessuna delle diete ha ottenuto i risultati della dieta con mangime commerciale.

Nel secondo esperimento sono state somministrate diete a base di grano saraceno con diverse integrazioni proteiche e i risultati sono stati confrontati con quelli ottenuti somministrando il mangime commerciale. L’accrescimento più elevato dei pulcini si è verificato utilizzando mangime commerciale. Rispetto a questo, l’alimentazione con grano saraceno da solo ha ridotto considerevolmente gli incrementi ponderali dei pulcini. Tale situazione è migliorata, sebbene in misura limitata, addizionando al grano saraceno aminoacidi essenziali, farine di pesce, farine di carne e sostanze azotate non proteiche (Farrel, 1978).

Gupta et al. (2002) hanno testato l’effetto del grano saraceno sui polli da carne. Le performance di crescita sono state studiate in termini di tasso di crescita, assunzione di cibo e indice di conversione alimentare (ICA), somministrando diete contenenti farina di arachidi, farina di mais, farina di soia e livelli crescenti di grano saraceno (15-30-45% della razione totale) e una dieta di controllo contenete farina di arachidi, farina di mais e farina di soia. Tutte le diete sono state somministrate ad libitum e sono stati monitorati i pesi corporei dei polli. Nelle due diete con concentrazione di 15 e 30%, non ci sono stati cambiamenti significativi rispetto alla dieta di controllo. Nella dieta contenente il 45% di grano saraceno, l’indice di conversione è invece aumentato considerevolmente. Questo aumento, secondo gli Autori era dovuto all’elevata presenza di fibra e all’incapacità degli avicoli nel digerirla. L’assunzione di alimento era comunque aumentata. Quindi Gupta et al. (2002) hanno evidenziato che il grano saraceno può essere inserito

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nelle razioni dei polli, ad una concentrazione massima del 30% senza effetti negativi sulla crescita e sullo sviluppo degli animali.

Farrel (1978) ha sperimentato inoltre la somministrazione di grano saraceno alle galline ovaiole. Alle galline sono state somministrate tre diete, una con solo grano saraceno, una con grano saraceno con l’aggiunta di lisina e metionina e una di controllo che comprendeva un mangime commerciale. La dieta di solo grano saraceno ha portato ad una riduzione del numero di uova e del peso delle uova. La dieta integrata con lisina e metionina ha portato a risultati migliori, sebbene inferiori a quelli ottenuti con la dieta di controllo. Il grano saraceno, secondo Farrel (1978), non sembra un alimento adatto per l’alimentazione delle galline ovaiole.

Benvenuti et al. (2012) hanno invece ottenuto risultati nettamente differenti. L’aggiunta di grano saraceno nella razione delle ovaiole ha determinato effetti positivi sulla produzione di uova. La prova sperimentale prevedeva la somministrazione di due diete a galline ovaiole: la prima di controllo con 595 g/kg di mais e 245 g/kg di farina di soia, la seconda con 395 g/kg di mais, 146 g/kg di farina di soia e 300 g/kg di crusca di grano saraceno.

La dieta contenente grano saraceno ha fornito, rispetto alla dieta di controllo, effetti positivi sulle caratteristiche quanti-qualitative delle uova. Inoltre si è verificato un incremento del peso corporeo delle galline favorito dalla maggiore ingestione dell’alimento; questo stava ad indicare un’elevata appetibilità della dieta con crusca di grano saraceno.

Benvenuti et al. (2012) hanno quindi concluso che la crusca di grano saraceno è un alimento molto appetito dalle galline ovaiole e che può essere proficuamente inserito nella razione alimentare.

Il grano saraceno può essere anche inserito nelle razioni alimentari per conigli. Tor-Agbidye et al. (1990) hanno inserito il grano saraceno nelle diete di conigli svezzati (4 settimane di età). La prova sperimentale consisteva nella somministrazione di sei diverse diete, quattro delle quali contenevano concentrazioni crescenti di grano saraceno.

Non si sono verificate differenze significative, in termini di incremento di peso e di indice di conversione alimentare, con la somministrazione delle diverse diete. La maggiore assunzione di alimento è stata riscontrata nelle diete che contenevano 40 e 60 % di grano saraceno. Gli stessi Autori hanno concluso che il grano saraceno può essere inserito nelle diete dei conigli appena svezzati, fino ad una concentrazione del 60% della razione.

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In conclusione, secondo i diversi Autori, il grano saraceno può essere utilizzato con successo nell’alimentazione animale. Tuttavia particolari cautele sono necessarie quando l’alimento viene consumato al pascolo o quando viene utilizzato per gli avicoli.

Il grano saraceno può essere utilizzato anche per i miglioramenti ambientali per la fauna selvatica in quanto, sia la granella sia il foraggio, sono alimenti graditi ai cervi e agli avicoli selvatici, in particolare fagiani, pernici e uccelli acquatici (Campbell, 1997).

Zoller et al., (2004) hanno indicato quali sono i requisiti principali per andare a costituire una coltura a perdere. Le colture a perdere sono colture destinate a non essere raccolte, vengono infatti lasciate sul terreno a disposizione della fauna selvatica. Queste colture vanno a costituire un ottimo riparo invernale, una difesa nei confronti dei predatori e garantiscono un buon sostentamento alimentare per la fauna selvatica; è, quindi, tenere in considerazione quali sono le abitudini alimentari delle specie selvatiche che ci interessa preservare e quali sono gli habitat più adatti per la loro sopravvivenza. Gli Autori hanno indicato il grano saraceno come possibile coltura adatta e appetita a cervi, tacchini selvatici, uccelli acquatici, fagiani e quaglie.

Hamerstrom et al., (1939) hanno analizzato il comportamento alimentare dei cervi, in particolare del cervo della Virginia (Odocoileus virginianus), in termini di scelta del prodotto e di quantità di prodotto consumato. La sperimentazione è stata condotta in Nord America nello stato del Wisconsin. Sono stati monitorati diversi appezzamenti di terreno coltivati con mais, soia, girasole, miglio e grano saraceno: gli appezzamenti coltivati con grano saraceno, al pari degli altri e ad eccezione del miglio, sono stati totalmente consumati. Il grano saraceno può essere quindi considerato adatto per i miglioramenti ambientali a scopo faunistico venatorio destinati all’incremento della presenza dei ruminanti selvatici.

Detraz et al. (2007) hanno utilizzato, nello stato del Michigan (USA), un miscuglio contenente miglio, soia, mais e grano saraceno, per garantire ai tacchini selvatici (Meleagris gallopavo) una fonte alimentare, un rifugio e un sito per la nidificazione.

Secondo gli Autori questo miscuglio era adatto ad alimentare i tacchini anche nel periodo invernale ed era adatto a favorire, nel periodo primaverile, un’elevata presenza di insetti. Tale aumento ha favorito soprattutto la sopravvivenza dei pulcini di tacchino che, nelle prime settimane di vita, si nutrono quasi esclusivamente di insetti.

Il grano saraceno può essere anche utilizzato per i miglioramenti ambientali destinati al fagiano. La coltura del grano saraceno può, in questo caso, essere utilizzata come coltura a perdere oppure come coltura da granella, lasciando però le stoppie a disposizione degli animali selvatici. Considerata la forte azione attrattiva della coltura verso gli insetti, e che questi ultimi costituiscono la quasi totalità della dieta dei

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pulcini di fagiano nelle prime cinque settimane di vita, il grano saraceno può essere efficacemente inserito tra le colture impiegate nei miglioramenti ambientali a scopo faunistico (Clark, 1999).

Evrard et al. (2000) hanno condotto un'indagine riguardante il tetraone delle praterie (Tympanuchus phasianellus). Il tetraone delle praterie è una specie faunistica appartenente alla famiglia dei Fasianidi presente in Nord America. L’indagine, condotta nel Michigan, prevedeva l’utilizzo di appezzamenti di terreno coltivati con mais, grano saraceno e zizzania (Lolium temulentum). Gli Autori hanno rilevato che in appezzamenti coltivati con grano saraceno, contrariamente agli altri, erano presenti tracce sia di pulcini, sia di adulti di tetraone delle praterie; questo stava ad indicare l’efficienza di questa coltura nei miglioramenti ambientali anche per questa specie.

Il grano saraceno viene inoltre utilizzato come fonte di nettare per la produzione di miele. La coltura di grano saraceno è a crescita indeterminata, quindi appena raggiunto uno stadio di sviluppo idoneo inizia la fase di fioritura che si protrae praticamente lungo tutta la stagione di crescita della pianta. Tale caratteristica è molto vantaggiosa per gli apicoltori in quanto la produzione di fiori e di nettare è continua, diversamente da quanto accade nella maggior parte delle colture mellifere. La produzione di polline da parte del grano saraceno è fortemente influenzata dal clima e dall’umidità (Oplinger et al., 1989; Campbell, 1997).

Alekseyeva et al., (2000) hanno studiato la produzione e la capacità attrattiva del polline del grano saraceno per le api (Figura 12). La produzione di nettare è stata fortemente influenzata dal clima, infatti le basse temperature hanno ridotto notevolmente la produzione di nettare. Gli Autori sostengono che il momento migliore per la semina, in Ucraina, del grano saraceno per ottenere una quantità significativa di nettare è la metà di aprile. La fase fenologica in corrispondenza della quale si è avuto il massimo numero di visite da parte delle api è stata la fioritura piena (luglio). Nonostante questo la produzione di miele è iniziata i primi giorni di giugno (fase di inizio fioritura) e si è conclusa a fine settembre. Si può arrivare, in condizioni climatiche favorevoli, ad una produzione di 30-40 kg/ha per stagione e per alveare (Borgi et al., 1996).

Nagai et al. (2001) hanno analizzato l’attività antiossidante di alcuni tipi di miele tra cui: miele di acacia, miele di astragalo, miele di grano saraceno e un miele misto. Il miele di grano saraceno ha evidenziato la più alta attività antiossidante, rispetto a tutti gli altri mieli testati. Tale proprietà, secondo gli Autori, era legata alla quantità di flavoni, in particolare la quercetina, contenuti nel miele di grano saraceno. Se il miele viene trattato termicamente, per prolungarne la conservazione, si ha una notevole riduzione della suddetta proprietà.

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1.7 La composizione chimica del grano saraceno

Già da diversi anni l’istituto Nazionale della Nutrizione, in collaborazione con l’Università di Lubiana e l’Università di Kobe-Gakuin in Giappone studia le caratteristiche chimiche e tecnologiche del grano saraceno.

La composizione chimica del grano saraceno pur non essendo un cerale è paragonabile (Tab. 1) a quella degli altri cereali, caratterizzata da un alto contenuto in carboidrati ed un buon contenuto proteico (Bonafaccia et al., 2003; Ratan et al., 2011).

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Tab. 1 Analisi del grano saraceno e di altri cereali (Bonafaccia et al., 2003).

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Rispetto agli altri cereali, il valore biologico delle sue proteine è superiore (Tab. 2): questo sopratutto per l’alto contenuto in lisina (Tab. 3) e di altri aminoacidi essenziali. Una caratteristica del grano saraceno è quella di non contenere glutine (Tab. 4).

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Tab. 2 Valore biologico di alcune fonti proteiche (Bonafaccia et al., 2003).

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Grano sarceno Frumento Riso Mais Orzo

Umidità (%) 12.8 14.2 12.3 12.5 12.8 Proteine (% s.s) 11.0 12.5 7.3 9.2 10.6 Ceneri (% s.s) 2.60 1.70 0.90 2.10 2.30 Lipidi (% s.s) 3.4 2.0 0.5 3.8 1.9 Carboidrati (% s.s) 70.0 70.2 79.1 72.1 72.1 Uovo 100 Grano saraceno 93 Carne di maiale 84 Soia 68 Frumento 63

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Tab. 3 Composizione aminoacidica del grano saraceno ed di altri cereali (g/100 g prot.) (Bonafaccia et al., 2003).

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Tab. 4 Percentuale delle frazioni proteiche nel grano saraceno e in altri cereali (Bonafaccia et al., 2003).

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A causa di ciò, è molto difficile produrre pane e pasta con questa farina, di solito vengono utilizzate miscele con farina bianca o vengono applicati particolari metodi di lavorazione. E’ altresì vero che dette

Grano saraceno Frumento Riso Mais Avena Orzo

A.Aspartico 10.3 4.9 10.3 6.3 7.7 5.7 Treonina 3.9 2.9 3.9 3.6 3.3 3.3 Serina 5.0 4.9 5.4 5.0 4.7 4.0 A.Glutammic o 18.7 29.9 20.6 18.9 20.9 23.6 Prolina 3.0 9.9 4.7 8.9 5.2 10.9 Glicina 6.3 13.9 5.0 3.7 4.7 3.9 Alanina 4.7 3.6 6.0 7.5 4.5 4.0 Cisteina 2.7 2.5 1.1 1.6 2.7 2.3 Valina 5.7 4.4 5.5 4.8 5.1 5.0 Metionina 2.2 1.5 2.3 1.9 1.7 1.7 Isoleucina 4.1 3.3 3.8 3.7 3.8 3.6 Leucina 7.0 6.7 8.2 12.5 7.3 6.7 Tirosina 3.0 3.0 3.5 3.8 3.3 3.1 Fenilalanina 4.8 4.5 5.2 4.9 5.0 5.1 Lisina 6.1 2.9 3.8 2.7 3.7 3.5 Istidina 2.6 2.3 2.5 2.7 2.1 2.1 Arginina 9.8 4.6 8.3 4.2 6.3 4.7

Albumine Globuline Gliadine Glutenine Grano saraceno 18.4 44.16 0.7 22.7 Frumento 5 10 45 40 Riso Tr. 8 5 8 Mais 5 12 5 80 Avena 1 13 18 35 Orzo 3 12 35 68

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farine possono entrare a far parte di particolari regimi alimentari, per pazienti con intolleranza al glutine (morbo celiaco).

Questo alimento è inoltre caratterizzato da un buon contenuto in fibra, soprattuto per quanto concerne la frazione solubile. L’amido del grano saraceno contiene relativamente più amilosio (amido lineare) della maggior parte dei cereali. Questo può essere importante dal punto di vista nutrizionale soprattuto per pazienti diabetici, giacché viene trasformato in zuccheri semplici più lentamente degli amidi ramificati.

Il grano saraceno contiene una quantità relativamente alta di sali minerali, specialmente per alcuni importanti elementi in traccia, quali zinco, rame e manganese (Bonafaccia et al., 1999).

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1.8 L’attività antiossidante del grano saraceno

Gli antiossidanti possono essere definiti come tutte quelle sostanze che sono in grado di contrastare le reazioni chimiche di ossidazione che nell’organismo sono provocate dai radicali liberi.

I ROS “reactive oxygen species” (composti reattivi dell’ossigeno-radicali liberi), sono composti instabili e altamente reattivi ad emivita brevissima (10-9 sec), responsabili del danno ossidativo a carico di macromolecole biologiche, come DNA, carboidrati, lipidi e proteine, agendo come ossidanti, ovvero sono in grado di donare l’atomo di ossigeno “instabile” ad altre sostanze. I ROS sono continuamente prodotti nell’organismo come conseguenza dei normali processi metabolici. Esistono varie specie di ROS, che possono essere distinti in:

- Radicali (molecole che contengono almeno un elettrone spaiato); - Non-radicali (composti reattivi capaci di ossidare biomolecole).

Per antiossidante si intende “qualsiasi sostanza che, presente in concentrazione molto bassa rispetto a quella di un substrato ossidabile, è in grado di ritardare o inibire significativamente l’ossidazione di quel substrato” (Halliwell & Gutteridge,1989).

Per contrastare l’azione dei ROS, l’organismo ha a disposizione una serie di meccanismi enzimatici o non-enzimatici di difesa.

I principali sistemi enzimatici coinvolti nella difesa antiossidante sono: - superossido dismutasi, attiva contro il radicale superossido (O2-);

- catalasi, che riduce il perossido di idrogeno (H2O2);

- glutatione perossidasi (in molti casi selenio-dipendente), che riduce gli idroperossidi organici.

La nutrizione svolge un ruolo fondamentale nel mantenere l’efficacia delle difese enzimatiche antiossidanti. Molti oligoelementi essenziali, tra cui selenio, rame, manganese e zinco sono coinvolti nella struttura molecolare o nell’attività catalitica di questi enzimi.

Una seconda linea di difesa è formata dai composti antiossidanti endogeni a basso peso molecolare, che reagiscono con i composti ossidanti riducendone il potenziale nocivo. Tra di essi ricordiamo il glutatione, l’ubichinolo e l’acido urico, tutti normali prodotti del metabolismo corporeo.

Esistono infine gli antiossidanti di origine alimentare: • Acido ascorbico (vit. C);

• Tocoferoli (vit. E); • Carotenoidi; • Flavonoidi.

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⇒ Vit. C: uno dei più potenti antiossidanti naturali. Solubile in acqua, presente a concentrazioni significative nel plasma (60 µmol/L) e in molti tessuti. E’ particolarmente efficace nei confronti del radicale superossido, idrossilico e dell’ 1O2. Previene inoltre la trasformazione dei nitrati in nitriti. La vit. C protegge i

tocoferoli dall’ossidazione, rigenerandone la forma ossidata che si forma durante i processi di difesa contro la perossidazione lipidica;

⇒ Vit. E: termine generico per definire la famiglia dei derivati dell’α−tocoferolo (tocoferoli e tocotrienoli). Sono composti molto liposolubili e agiscono quindi a livello di membrane cellulari e di lipoproteine inibendo la per ossidazione lipidica;

⇒ Carotenoidi: pigmenti naturali rossi, gialli e arancioni contenuti in molti vegetali e nei tessuti di animali che si cibano di tali vegetali. Sono operativi nei confronti del radicale perossido e dell’1O2. Essendo

lipofili, entrano nei meccanismi di protezione delle lipoproteine (in particolare LDL) esposte alla perossidazione lipidica;

⇒ Flavonoidi: antiossidanti polifenolici contenuti nella frutta, in molti vegetali e in bevande come il tè, il vino e la birra. E’ un termine che riassume molti gruppi di sostanze strutturalmente diverse tra cui:

• flavanoli (catechina, epicatechina); • flavonoli (rutina, quercetina); • flavanoni;

• flavoni; • isoflavoni; • antocianine.

Oltre ai flavonoidi, esistono altri composti fenolici di importanza potenziale. Ad es. i tirosoli ed idrossitirosoli conferiscono all’olio di oliva le proprietà antiossidanti, oltre ad essere responsabili del sapore pungente di molti oli extravergini. Anche molte piante aromatiche, come rosmarino, salvia menta ed origano contengono composti di questa famiglia. Altri costituenti della dieta che entrano direttamente o indirettamente nel sistema di difesa antiossidante sono il selenio, il rame e lo zinco.

Il danno ossidativo da ROS non si esplica solo a livello di biomolecole importanti, ma anche a livello di processi regolatori del genoma e del sistema immunitario. Studi su popolazioni, studi clinici e ricerca di base forniscono dati sempre più convincenti in favore del ruolo degli antiossidanti nella prevenzione e nella terapia di alcune condizioni morbose. Un aumento dell’assunzione dietetica di antiossidanti potrebbe essere particolarmente utile in sottogruppi quali le donne in gravidanza, i neonati, i bambini, gli anziani e gli sportivi.

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• Cardiopatia coronarica: dipende principalmente dai processi arteriosclerotici a livello della parete delle arterie. E’ ormai noto che lo stress ossidativo a livello delle lipoproteine LDL rappresenti un fattore importante nella formazione iniziale delle lesioni aterosclerotiche. L’ossidazione delle LDL dipende da processi di perossidazione indotti da radicali liberi. Esistono dati che suggeriscono che un aumento dell’intake di antiossidanti lipofili, come Vit. E e carotenoidi può avere un effetto protettivo nei confronti di tali lesioni (Ahmed et al., 2013);

• Carcinogenesi: la carcinogenesi è un processo complesso costituito di varie fasi (inizio, promozione e progressione). La generazione di ROS può influenzare la carcinogenesi a vari livelli. Il danno ossidativo del DNA può provocare rotture di una singola catena o della doppia catena, come pure aberrazioni cromosomiche. Le modifiche del DNA possono provocare mutazioni puntiformi, delezioni o amplificazioni geniche che possono costituire la prima fase della carcinogenesi. Anche in questo caso, gli antiossidanti naturali sembrano prevenire, in particolare in studi su cellule in cultura, l’effetto mutageno dei ROS (Holasová et al. 2002);

• Cataratta e degenerazioni oculari dovute all’età. La cataratta è un opacizzazione del sistema di lenti dell’occhio dovuto ad alterazioni ossidative delle proteine. Ciò non sorprende se si pensa che l’occhio è esposto alla luce (UV) e all’azione ossidante dell’ossigeno. Elevati livelli di Vit. C e Vit. E possono prevenire lo sviluppo della cataratta;

• Alterazioni neuronali: lo stress ossidativo può intervenire nella degenerazione neuronale alla base di malattie come il morbo di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica e la malattia di Alzheimer.

In conclusione, i dati disponibili mostrano che un aumento dell’intake di antiossidanti da fonti naturali, in articolare frutta e vegetali può essere utile nella prevenzione di varie malattie. I dati sul supplemento di antiossidanti sono invece ancora insufficienti per raccomandare l’uso generalizzato di quantità di tali sostanze superiore a quello naturalmente presente in una dieta “salutare”.

Il grano saraceno è lo pseudocereale più ricco di polifenoli antiossidanti. Tra questi, sono presenti il flavonoide rutina (5-10 mg/100g), gli acidi fenolici idrossibenzoico, protocatecuico, siringico, ferulico, vanillico, cumarico, le catechine e il resveratrolo.

Gli antiossidanti primari nel grano saraceno sono la rutina e la quercetina (Morishita et al. 2007). La crusca e i gusci del grano saraceno hanno 2-7 volte maggiore attività antiossidante rispetto a quella dell’orzo, del triticale ed dell’ avena (Holasová et al 2002). Le attività antiossidanti del grano saraceno sono paragonabili a quelle di alcuni additivi alimentari come il butilidrossianisolo (BHA), il butilidrossitoluolo (BHT) e il butilidrochinone (TBHQ).

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La ricerca scientifica ha messo in evidenza l'altissimo valore antiossidante del grano saraceno, dovuto soprattutto ai suoi numerosi polifenoli, il potere anti-cancro dei suoi inibitori delle proteasi (antitripsine), il ruolo protettivo del selenio, l'azione di rafforzamento dei vasi capillari e l'effetto anticolesterolo e antilipidico.

Il grano saraceno è stato sperimentato contro i danni neuronali da ischemia sull’equilibrio e la memoria spaziale (danni all’ippocampo), e per l’attività antagonista verso il radicale ossido nitroso, promotore delle nitrosoamine cancerogene (Chen et al., 1996).

Per tali proprietà, il grano saraceno, sperimentato in studi clinici nell’ambito della neurologia, cardiologia, ematologia e oncologia, risulta avere un profilo molto interessante dal punto di vista nutraceutico come coadiuvante alimentare nelle profilassi di diverse patologie.

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1.9 I Flavonoidi e il loro contenuto nel grano saraceno

I flavonoidi sono composti aromatici, in genere colorati, che hanno proprietà antiossidanti (Whitehead et al., 1995). Queste molecole sono polifenoli ubiquitari in natura e sono suddivisi (Fig. 7), a seconda della struttura chimica, in calconi, flavoni, flavonoli, flavandioli, antociani e tannini condensati, più gli auroni (diffusi ma non ubiquitari) e gli isoflavoni (nei legumi e in poche altre piante) (Winkel-Shirley, 2001). Sono stati identificati più di 5000 flavonoidi, molti dei quali si trovano in alimenti vegetali quali frutta, verdura e bevande (tè verde, caffè, birra chiara, vino rosso e succhi di frutta) (Iriti et al., 2004). Nelle piante e negli alimenti sono presenti quasi solo in forma β-glucosilata, ma nel sistema circolatorio umano li si ritrova glucuronizzati, sulfurilati o metilati, quindi subiscono un processamento a più fasi durante l’assorbimento (Németh et al., 2003; Iriti et al., 2004).

Recentemente queste molecole hanno riscosso molto interesse per i loro potenziali effetti benefici sulla salute umana: hanno proprietà antivirali, antiallergiche, antinfiammatorie ed antitumorali; sembrano prevenire malattie coronariche, ictus, tumori ed osteoporosi; proteggono le macromolecole cellulari (lipidi, DNA, proteine) dai danni ossidativi (Németh et al., 2003).

L'attività antiossidante dei flavonoidi dipende dalla loro struttura molecolare, in particolare da numero e posizione dei gruppi idrossilici. Anche la presenza del gruppo prenilico ha un ruolo fondamentale, al punto che flavonoidi che ne sono privi agiscono da pro-ossidanti ma l'aggiunta di un prenile è sufficiente a controbattere la loro attività pro-ossidante (ne è un esempio la naringenina degli agrumi).

Le piante sintetizzano i flavonoidi non solo per contrastare lo stress ossidativo, ma anche perché sono composti colorati. In fiori e frutti determinano colori chiari (bianco/giallo/beige) o rosso/blu, secondo la loro struttura chimica. Oltre che nel visibile possono emettere nell’ultravioletto e quindi sono individuati dagli insetti impollinatori. Svolgono anche funzioni nelle segnalazioni fra pianta e microorganismi, nella fertilità maschile, nella difesa da microorganismi ed erbivori, nella protezione dalla radiazioni ultraviolette, nella formazioni dei noduli radicali per la fissazione dell’azoto, nella vitalità del polline (Sparvoli et al., 1994; Winkel-Shirley, 2001; Iriti et al., 2004).

Il contenuto di flavonoidi nei semi del grano saraceno varia a secondo della specie, delle diverse fasi e circostanze di crescita. I composti fenolici contenuti nel grano saraceno sono presenti in forma libera e distribuiti uniformemente tutto il grano (Hung et al.,2008).

Il contenuto dei flavonoidi nel Fagopyrum tataricum è generalmente superiore a quello in Fagopyrum

esculentum. Nei semi Fagopyrum tataricum sono presenti circa 40 mg/g di flavonoidi, mentre nel seme Fagopyrum esculentum ne troviamo circa 10 mg/g (Fabjai et. al, 2003).

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Il contenuto di flavonoidi nei fiori, nelle foglie e negli steli del Fagopyrum tataricum può superare 100 mg/g. Quindi i tessuti del grano saraceno possono essere delle risorse di flavonoidi di alta qualità, anche se il loro contenuto varia a seconda della fase fenologica in cui si trova .

La rutina (principale componente flavonoide nei semi di grano saraceno), così come la quercetina e altri flavonoidi, possono essere separati con semplici metodi chimici dai semi di grano saraceno, dai fiori e dal suoi steli (Zhang, 1989; Trotin et al., 1993). Sei flavonoidi sono stati isolati e identificati nei gusci del grano saraceno: la rutina, l’ orientina, la vitexina, la quercetina, l’ isovitexina e l’ isoorientina (Dietrych-Szostak et al., 1999; Kreft et al., 1999; Tian et al., 2002). E’ stato dimostrato che la quercetina ha maggiore azione antiossidante rispetto alla rutina (Wijngaard et al., 2006).

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Un componente importante del Fagopyrum esculentum è la rutina (quercetina-3-beta-D-rutinoside) (Fig. 8), un glicoside flavonoico (Itagaki et al., 2010); il glicoside è formato dal flavonolo quercetina (aglicone) legato al disaccaride rutinosio.

Fig. 8 Struttura chimica della rutina e quercetina.

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La rutina è un importante sostanza terapeutica che influenza positivamente l'aumento di elasticità dei vasi sanguigni (Mukasa et al. 2009), il trattamento dei disturbi circolatori, l’arteriosclerosi, la riduzione della pressione arteriosa e stimola l'utilizzo di vitamina C (Yildizog Lu-ari et al. 1991); inoltre la rutina ha altre proprietà fisiologiche e biologiche interessanti, come quella antiossidante, quella antinfiammatoria, antipertensiva, vasocostrittrice, quella spasmolitica (Kuntic et al 2011; Landberg et al 2011). La rutina fornisce anche una protezione contro le lesioni gastriche, migliora la vista e l'udito, protegge dai raggi UV, abbassa il colesterolo plasmatico, protegge dallo stress ossidativo (Gong et al. 2010).

Pur non essendo un composto essenziale per l’uomo, alcuni la definiscono anche vitamina P. È un composto solido che cristallizza con una o tre molecole di acqua.

Negli esseri umani è in grado di legarsi al ferro bivalente, evitando che esso si leghi al perossido di idrogeno creando così radicaliliberi altamente reattivi che possono danneggiare le cellule. Svolge quindi funzione di antiossidante e ha un ruolo importante nell’inibire la formazione di alcuni tipi di tumore.

Nelle piante, la rutina è in grado di combinarsi con i cationi permettendo alle cellule di ricevere i nutrienti dal terreno.

La rutina è largamente presente nelle piante, ma è relativamente rara nelle loro parti commestibili. E’ stata individuata la prima volta nella pianta Ruta graveolens, la quale ha dato il nome al questa sostanza farmacologicamente importante (Chen et al. 2001). La rutina non è mai stata trovata nei cereali (Kreft et al., 2006); per questo motivo il Fagopyrum esculentum può essere utilizzato come una buona fonte di rutina alimentare (Yang et al., 2008).

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Ad oggi sono state riconosciute 70 specie di piante contenenti rutina, che comprendono la Ruta

graveolens (Rutaceae), la Sophora japonica (Fabaceae), la Maranta leuconera (Marantaceae), l’ Orchidantha maxillarioides (Ridl.), la Sterlitzia regina (Strelitziaceae), l’ Eucalyptus spp (Myrtaceae), la Canna indica L.(Cannaceae), la Canna edulis (Cannaceae) e la Labisia pumila (Blume), ma la specie più

ricca in contenuto è il Fagopyrum esculentum Moench (Kim et al., 2004; Gupta et al., 2002; Li et al., 2001). Il contenuto di rutina nel grano saraceno dipende dalla specie, dalle condizioni di crescita, dalla fase di sviluppo, dalla parte di pianta e dall'anno di raccolta (Tab. 5) (Park et al., 2004).

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Tab. 5 Contenuto di rutina nelle diverse parti del grano saraceno (Park et al., 2004; Paulickova et al., 2004).

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Diverse cultivar di grano saraceno possono avere diversi contenuti di rutina con una variazione potenziale anche tra le diverse parti della pianta (Tab. 6) (Kreft et al, 2006).

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Tab. 6 Contenuto di rutina nel grano saraceno in tre diverse cultivar (mg/kg) (Kreft et al., 2006).

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Parte della pianta rutina (μg/g DW) Granella priva di guscio 126

Granella intera 178

Granella germinata priva di guscio 366 Radice 436 Germe 1692 Stelo 5634 Infiorescenza 12726 Giovane pianta 17920 Apici 23374 Foglie 40011 Cultivar Rutina Dariana 181.3 Darja 115.9 Siva II 181.9

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A seconda delle condizioni di crescita e varietà, la rutina si accumula nell’infiorescenza (fino a 0,12 mg / g DW), negli steli (0,004 -0 · 01 mg / g di peso secco), nelle foglie (0.08 -0 · 10 mg / g di peso secco) (Hagels, 1999) e 0.12 -0 · 36 mg / g DW nella granella (Kitabayashi et al., 1995; Brunori et al al 2010; Park et al., 2000). Secondo Kalinova et al. (2006), il contenuto di rutina negli acheni varia da un valore di 0,229 a 0,409 mg g-1. La massima quantità di rutina si trova nelle foglie subito prima della fioritura (Michalova et al.

1998); infatti il rutsoide viene estratto soprattuto dalle foglie delle giovani piante; il momento migliore della raccolta è a 35-45 giorni dall’emergenza, poiché in epoche successive se ne osserva una rapida diminuzione (Borghi et al., 1993) .

Secondo Kreft et al., (2006) la rutina è maggiormente concentrata nelle parti verdi della pianta che nella granella. Nell’intera parte aerea la concentrazione di rutina è mediamente del 3,5% della sostanza secca con importanti differenze fra gli organi: così le concentrazioni di rutina sono maggiori nelle infiorescenze (17% della sostanza secca), che nelle foglie (8-10%), che nei fusti (1%). Inoltre la concentrazione di rutina aumenta tra la fase di germinazione e la fase di inizio della fioritura (58 giorni dalla semina) e diminuisce tra la fase di inizio della fioritura e la fase di fioritura piena (78 giorni dalla semina) (Baumgertel et al., 2010). Nella granella la concentrazione di rutina è di 178 mg/kg di sostanza secca nei semi interi e di 184 mg/kg nei semi decorticati. La farina contiene 218 mg/kg di rutina, se ottenuta da semi interi (farina scura), e 112 mg/ kg, se ottenuta da semi decorticati (farina chiara) (Steadman et al., 2001; Holasova et al., 2002; Kreft et al., 2006).

I livelli di quercetina presenti nella granella sono più ridotti di quelli della rutina, raggiungono al massimo 1 mg/kg nei semi decorticati e da 9 a 29 mg/kg nel pericarpo;

Fattori ecologici, come l’irradiazione ultravioletta (UV), possono anche avere una grande influenza sul contenuto di rutina (Kreft et al. 2006);

In una ricerca, Park et al. (2004), hanno confrontato il contenuto di rutina in 50 semi di piante di diversi ceppi di grano saraceno tartarico provenienti da tutto il mondo. Questi 50 ceppi sono stati raccolti dalla Cina (27 ceppi), India (5 ceppi), Nepal (9 ceppi), Bhutan (3 ceppi), Pakistan (1 ceppo), Slovenia (3 ceppi) e Giappone (2 ceppi). Hanno riscontrato che il contenuto di rutina nelle sementi e parti di piante di grano saraceno tartarico era superiore a quello delle sementi di F. esculentum e F. cymosum (Park et al. 2004). Risultati simili sono stati ottenuti da Jiang et al. (2007) e Brunori et al. (2010). Il contenuto di rutina nel grano saraceno tartarico è stata 3,2 volte superiore nel fiore, 3,1 volte nel tronco e 65 volte superiore nel seme rispetto al F. esculentum (Park et al. 2004). Allo stesso modo, il contenuto di rutina in grano saraceno tartarico varia con la regione di coltivazione (Tab. 7)

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Tab. 7 Confronto del contenuto di rutina nel grano saraceno tartarico nelle diverse parti del mondo (Park et al., 2004).

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La rutina contenuta nella foglia, fusto e nelle sementi delle varietà raccolte dalla zona Bhutan erano superiori a quelli dei ceppi raccolti dalla Slovenia e Pakistan (Park et al., 2004).

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rutin contenet (mg/g)

Region Foglie Steli Semi

Bhutan 53200 8646 21397 China 41000 5347 15115 India 42596 5518 11994 Japan 36074 4091 12749 Nepal 39000 6828 13360 Pakistan 23315 2522 14672 Slovenia 30537 2064 19382 Tot 38537 5519 15893

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1.10 Determinazione dei flavonoidi

Per la determinazione dei flavonoidi i metodi analitici più comunemente usati sono: HPLC (High performance liquid chromatography), la Gas cromatografia e la CE (elettroforesi capillare).

La metodica in cromatografia liquida (HPLC, CE) risulta essere una delle più efficaci per la separazione e l'identificazione della rutina e della quercetina, come singoli composti o insieme ai principali flavonoidi (Molnàr-Perl et al, 2005; Rijke et al, 2006).

Infatti la determinazione di questi composti è stata effettuata in diverse matrici, come: nel vino (Kumar et al, 2009; Malovanà et al., 2001), nel miele (Pyrzynska et al., 2009; Michalkiewicz et al., 2008), nei succhi di frutta (Merken et al., 2000; Chen H. et al., 2001), nella frutta fresca (Schieber et al., 2001; Sultana B. et al., 2008), nelle verdure (Wach et al., 2007) e nelle piante (Biesaga et al, 2009; Williams et al., 2006; Adam M. et al., 2009); per la loro determinazione quantitativa ma anche in ricerche finalizzate a studi di correlazione tra contenuto di flavonoidi in diverse specie di piante e nei relativi prodotti trasformati.

La strumentazione HPLC si compone da un sistema formato da una pompa, una colonna cromatografica e un rivelatore. Generalmente le colonne cromatografiche più utilizzate per la determinazione di questi flavonoidi presentano uno stato stazionario a fase inversa con particelle sferiche di diametro 4-5 micron, e a volte anche inferiori ai 2 micron (Spacil et al, 2008).

Tra i diversi tipi di colonne, le monolitiche offrono notevoli vantaggi idrodinamici, aumentando la velocità di flusso dell'eluente, diminuendo il tempo per il lavaggio e per raggiungere l'equilibrio e riducendo il rapporto segnale/rumore. Castellari et al. (2002) hanno separato 17 composti fenolici, nei quali è inclusa la quercetina, con una colonna monolitica C18 in un tempo di 35 minuti (Castellari et al., 2002).

Normalmente, per queste fasi stazionarie, sono stati utilizzati eluenti binari come acetonitrile-acqua o acqua-metanolo con diverse percentuali di componente organica.

Affinchè i flavonoidi con bassi valori di pKa conservino la forma indissociata nella fase acquosa viene aggiunto l’acido formico o l’acido fosforico per avere un pH della soluzione acquosa inferiore alla pKa dell’analita. La modalità di eluizione può essere di tipo isocratico (quando la miscela eluente con proporzionalità costante) o in gradiente di concentrazione, quest’ultima permette di separare miscele complesse di flavonoidi che altrimenti presenterebbero tempi di ritenzione sovrapponibili (Merken et al., 2000; Schieber et al., 2001; Michalkiewicz et al., 2008; Fang et al., 2007; Castellari et al., 2002).

Per la determinazione della quercetina e della rutina sono comunemente usati i rivelatori fotometrici UV DAD (Wach et al., 2007; Yang et al., 2008) nel range di lunghezza d’onda tra i 360-370 nm. A tali condizioni

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