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“AMIS POUR LA VIE”: IL SODALIZIO ARTISTICO-CULTURALE TRA CANOVA E QUATREMÈRE, ATTRAVERSO L’OPERA CANOVA ET SES OUVRAGES.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Tesi di Laurea Magistrale

in Storia e Forme delle Arti Visive, dello Spettacolo e dei Nuovi Media

“AMIS POUR LA VIE”: IL SODALIZIO

ARTISTICO-CULTURALE TRA CANOVA E

QUATREMÈRE, ATTRAVERSO L’OPERA

CANOVA ET SES OUVRAGES

RELATRICE:

Prof.ssa Chiara Savettieri

CANDIDATA:

Cristina Placanica

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Sommario

1 Introduzione ... 3

2 La vita e le opere di Quatremère de Quincy. ... 7

3 La struttura dell’opera Canova et ses ouvrages. ... 29

4 L’amicizia tra Canova e Quatremère de Quincy attraverso l’opera Canova et ses ouvrages. ... 31

5 Tematiche in Canova et ses ouvrages ... 44

5.1 Il concetto d’imitazione ... 44

5.2 Canova anti-Lessing. ... 61

5.3 Canova come Pigmalione ... 70

5.4 Il colore nelle statue ... 82

5.5 La grazia ... 90

6 Conclusioni ... 99

7 Appendice ... 100

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1 Introduzione

Il progetto di tesi si concentra sulla monografia Canova et ses ouvrages ou

mémoires historiques sur la vie et les travaux de ce célèbre artiste1 (1834) del teorico d’arte francese Quatremère de Quincy, che sarà analizzata per estrapolare i concetti base del suo pensiero artistico che hanno preso forma nelle sculture canoviane. Un’amicizia, quella tra Canova e Quatremère, che si potrebbe definire meglio come una saldissima alleanza culturale, durata senza incrinature per quarant’anni, destinata a segnare indelebilmente la teoria dell’uno e le opere dell’altro. Il loro rapporto, scandito da incontri e da una fittissima corrispondenza, trovò la sua conclusione nella suddetta monografia. In Canova et ses ouvrages Quatremère ha tracciato la biografia dello scultore, considerato come il continuatore dell’arte antica, intervallando il racconto della sua vita e dei suoi viaggi con le descrizioni e le commissioni delle opere. Il rapporto diretto con Canova e le tante discussioni sul suo lavoro gli consentirono di assumere un punto di vista storico e critico molto più ravvicinato, che gli permise di scrivere una monografia in cui l’analisi e l’interpretazione delle sculture nasceva dal dialogo intercorso con il loro creatore.

La tesi si apre con l’analisi della vita e delle opere di Quatremère, fondamentale per conoscere le molteplici sfaccettature del pensiero di un personaggio così impegnato politicamente e in grado di intrecciare le riflessioni sull’arte alle ragioni politiche. Seguirà un capitolo con la struttura della monografia e un altro dove verrà spiegato l’intenso rapporto tra il critico e l’artista.

La parte più consistente del lavoro sarà finalizzata all’analisi e alla lettura critica dei temi dell’imitazione, del movimento,di Pigmalione, del colore e della grazia che si ritrovano sia nell’ideologia di Quatremère che nell’arte di Canova, facendo riferimento alla monografia canoviana, ad altri scritti di Quatremère e alla fortuna critica dello scultore presso altri autori. Le opere dello storico francese che saranno analizzate per trarne i concetti base del suo pensiero sono l’Essai sur l’imitation, Le

Jupiter Olympien, il Dictionnaire historique d’architecture, le Lettere a Miranda, le Considération sur les arts du dessin, l’Essai sur l’idéal e il carteggio

Canova-Quatremère; accanto a questi scritti verranno citate le opere di Wickelmann e di

1 A. Ch. Quatremère de Quincy, Canova et ses ouvrages ou mémoires historiques sur la vie et les

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Lessing sulle quali Quatremère fondò il suo pensiero; infine per una completezza sull’argomento si terrà conto delle orazioni, delle memorie, dei saggi e delle monografie dedicate allo scultore, dei cataloghi delle mostre tenute nel corso degli anni e delle ricerche fatte dagli studiosi contemporanei su Canova.

Il concetto di imitazione è fondamentale nel pensiero di Quatremère, che scrisse nel 1823 l’Essai sur la nature, le but et les moyens de l’imitation dans les

Beaux-Arts2, nel quale espresse il principio base di tale dottrina: «imitare equivale a riprodurre la somiglianza di una cosa in un’altra che ne diventa l’immagine»3

. In tale ottica imitare non significa eseguire una copia di un’immagine o riprodurre le sembianze di una cosa, un essere, un corpo o di una data opera; tuttavia è possibile imitare l’artificio, senza copiare l’opera. Questo principio fu alla base dell’arte di Canova, che non copiò mai direttamente le statue antiche, perché tale pratica era in evidente contrasto con la sua capacità creativa, ma spesso lo scultore si ispirò a motivi antichi che lo avevano fortemente impressionato e che ripropose con profonde modifiche. Un esempio è il Perseo Trionfante che si ispira all’Apollo del Belvedere, o la Venere Italica che richiama la Venere Medici, in entrambi i casi le sculture canoviane presero il posto delle opere antiche requisite dai francesi, ma si distinsero da esse per il loro tocco di originalità.

La seconda tematica, quella del movimento, che sarà affrontata all’interno della tesi, fu molto discussa nel corso degli anni perché il concetto dell’ut pictura poesis, su cui si basavano le teorie precedenti, fu scardinato dalla seconda metà del Settecento. La teoria del filosofo Lessing affermava che alle arti figurative erano preclusi tempo e movimento, il loro ambito doveva limitarsi alla rappresentazione dei corpi nella loro bellezza ideale, mentre la poesia poteva disporre di campi d’espressione assai più vasti. Quatremère, in De l’imitation, ribadì le affermazioni di Lessing sui limiti tra poesia e pittura, affrontando la principale questione della distinzione delle arti: la differenza degli organi e delle facoltà alle quali queste si rivolgono. Le arti della poesia convertono le impressioni morali in sensazioni corporee e si rivolgono agli occhi dello spirito, mentre le arti del disegno traducono le idee morali in forme fisiche e si rivolgono agli occhi del corpo. Pertanto i due campi d’azione dovevano rimanere separati e ognuno doveva fare rifermento alla

2 A. Ch. Quatremère de Quincy, Essai sur la nature, le but et les moyens de l’imitation dans les

beaux-arts, Parigi, Treuttel, 1823.

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propria arte. Canova mostrò di aver riflettuto sulle indicazioni del filosofo tedesco e di Quatremère, ma con le sue opere si oppose a tali principi. Potendo raffigurare un solo istante che sarebbe stato bloccato per l’eternità, alle arti non era consigliato di rappresentare azioni troppo drammatiche ed espressive, ma secondo Lessing bisognava cogliere il «momento pregnante», ovvero quell’istante capace di evocare ciò che lo precedeva e ciò che lo avrebbe seguito, e di stimolare la sensibilità dello spettatore ad immaginare il passato e il futuro dell’azione. Canova, al contrario, colse nelle sue opere dei momenti di passaggio da uno stato a un altro, di azione, lotta, sforzo e spasmo in cui dominava un’espressività caricata, come nell’Ercole e Lica o nel Creugante e Damosseno. Quatremère, nonostante la pensasse diversamente, apprezzò il movimento nell’arte canoviana, poiché lo scultore era riuscito magistralmente a risolvere nelle sue opere i due aspetti opposti della teoria lessinghiana.

La tesi affronterà anche il tema di Pigmalione come mito dell’artista capace di infondere calore e vita nella materia inerte. Da sempre a Canova è stato riconosciuto il merito di donare la vita alle sue figure. Pigmalione è il simbolo dell’artista e della sua creatività esaltata fino a suscitare l’innamoramento per le sue opere e a infondere la vita nella scultura. In Canova et ses ouvrages, Quatremère ritorna spesso sulla capacità pigmalionica di Canova, spiegando la sua abilità a rendere vivo il marmo. Anche i critici del periodo posero l’accento sulla morbidezza del marmo che sembrava essere vera carne. La vivezza pigmalionica non poteva prescindere dal movimento delle statue, pertanto Canova cercò costantemente di far muovere le sue creazioni, unendo la grandezza delle forme con l’apparenza della carne, come si può osservare nel Perseo Trionfante e nella Danzatrice coi cembali.

Il colore steso sulle statue antiche è un tema su cui Quatremère si batté per molti anni e che culminò nella stesura de Le Jupiter Olympien4 nel 1814, un’opera in cui l’antico viene analizzato sotto l’inedito punto di vista della scultura policroma. Un capitolo era dedicato alla statuaria colorita artificialmente, sulla cui esistenza in Grecia egli aveva raccolto tutta una serie di testimonianze, dalla doratura ancora visibile nella capigliatura della Venere Medici, alla circumlitio, o rifinitura a encausto, del paros della Venere di Milo, procedimento raccomandabile perché donava alle statue una tinta avorio, capace di smorzare la crudezza del marmo e

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attenuarne i contrasti chiaroscurali. Quatremère dimostrò che la pratica di dipingere l’esterno degli edifici e le statue era molto diffusa in Grecia e criticò coloro che si rifiutavano di ammetterlo. Le tesi di Quatremère incoraggiarono Canova all’utilizzo di diversi materiali e alla sperimentazione di nuove tecniche di coloritura, disapprovate invece dagli osservanti della fede winckelmaniana come Fernow, che le considerava degli artefici pittoreschi.La patina giallognola che Canova applicava alle sue sculture attraverso il procedimento dell’encausto da una parte ammorbidiva il candore del marmo e dava l’idea dell’epidermide, e dall’altra preservava l’opera dalle intemperie dell’aria e dall’umidità. A tal proposito saranno analizzate l’Ebe e la

Maddalena Penitente.

Infine sarà trattato il tema della grazia, come qualità che influisce sulla sfera del sentimento ma sfugge a qualunque definizione, tanto da essere descritta come “quel non so che”. La grazia era una qualità insita nell’arte di Canova, infatti lo scultore la imprimeva nelle sue creazioni per far sparire ogni traccia di realizzazione, costruzione e pesantezza della materia, dando l’impressione che le sue opere fossero nate piuttosto che fatte. Quatremère, nella monografia sullo scultore, tracciò l’allegoria della grazia attraverso l’opera le Tre Grazie di Canova, spiegando che si trattava di un concetto indefinibile attraverso le parole ma che l’artista aveva deciso di rendere sensibile nelle sue sculture. La grazia venne anche designata da Lessing come «bellezza in movimento» e in quanto tale Canova decise ditrasferire le qualità specifiche della danza, movimento e successione temporale, nell’arte figurativa della scultura realizzando le Tre Danzatrici.

Risulta evidente da queste statue, dal continuo scambio epistolare tra i due amici e dalla monografia, che le sculture di Canova richiamino apertamente le idee del critico e che i suoi consigli siano messi in atto nelle opere dello scultore, ma si nota anche come a volte Canova sostenga il suo punto di vista andando contro i consigli dell’amico a conferma della frase che Quatremère ripeté più volte nel corso della vita: «le opere d’arte hanno dato vita alle teorie piuttosto che le teorie a bellissime opere»5.

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2 La vita e le opere di Quatremère de Quincy.

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Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy nacque a Parigi il 28 ottobre 1755 da una famiglia borghese di commercianti. Nel collegio Louis Le Grand iniziò il suo culto dell’antichità. A dieci anni modellò spontaneamente e scolpì con la punta di un fioretto, sul davanzale di una finestra, dei minuscoli bassorilievi. Nel 1772 entrò, per un tirocinio, nell’atelier dello scultore Guillaume Coustou. Disegno, scultura, architettura, musica: Quatremère si avvicinò a tutte le arti, ma predilesse l’archeologia perché gli permise di dare valore ai capolavori dell’antichità, discernere le scuole, seguire le diverse fasi artistiche e apprezzare le produzioni antiche. Il forte sentimento che provò verso il bello, l’entusiasmo che sentì per le produzioni allo scalpello degli antichi, contrastavano con il gusto allora regnate nelle arti. Si rese conto che non poteva ricevere a Parigi un’educazione antiquaria, per cui nel 1776 compì il primo viaggio in Italia dove ricevette la rivelazione dell’antico, già pregustata sulle pagine dei libri, ad esempio i Geschichte di Winckelmann, la cui edizione francese7 risaliva al 1766. Il pellegrinaggio si snodava lungo le mete della nascente arte neoclassica: Roma, Napoli, Ercolano, Paestum e la Sicilia; ma non si trattò di un breve soggiorno: Quatremère si trattenne in Italia fino al 1780, per poi tornarvi, dopo un intervallo in patria durante il quale si dedicò agli studi pratici dell’architettura, per un altro periodo di due anni, nel 1783-84. A Roma si legò d’amicizia con Pompeo Batoni e con Giovanni Volpato, frequentò Villa Albani e fu ospite assiduo dell’appassionato archeologo il cardinal Borgia, nel suo palazzo di Velletri. Ebbe anche modo di frequentare Mengs e Piranesi. Nel 1779, a Napoli, incontrò il conterraneo David, il quale più tardi disse di quell’incontro «J’ai été opéré de cataracte», perché Quatremère gli aprì gli occhi sulla nuova visione dell’antichità che lo avrebbe portato di lì a poco alla realizzazione del Giuramento degli Orazi,

6 Si veda: A. Pinelli, Storia dell’arte e cultura della tutela. Le «Lettres à Miranda» di Quatremère de

Quincy, in Ricerche di Storia dell’arte, 8, 1978-1979, pp. 43-62; R. Schneider, L’esthétique classique chez Quatremere de Quincy (1805-1823), Parigi, Librairie Hachette et Cie, 1910; J. Rasmussen, Entre

règles et régénération: pour une nouvelle lecture de Quatremère de Quincy, in Penser l’art dans la seconde moitié du XVIIIe siècle: théorie, critique, philosophie, historie, Parigi, Somogy éditions d’art,

2013, pp. 675-697.

7 J. J. Winckelmann, Histoire de l’Art chez les Anciens, trad. di Gottfried Sellius, Parigi, Saillant, 1766. Tale traduzione venne rinnegata da Winckelmann perché non era del tutto conforme al testo originale. In risposta allo sconcerto dell’autore la “Gazette littéraire de l’Europe” pubblicò il 1° marzo 1766 il brano con la descrizione dell’Apollo del Belvedere, dando la giusta idea del testo originale, resa da una traduzione esatta e quasi fedele, che peccava solo per il ritmo dell’andatura del testo, non del tutto identico a quello reso in lingua tedesca.

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opera simbolo del neoclassicismo in pittura. Durante il secondo soggiorno in Italia, incontrò a Roma Antonio Canova, a cui seguì un intenso sodalizio, durante il quale l’artista aveva assimilato le teorie dell’amico e le aveva trasferite sul marmo, iniziando dal gruppo del Teseo sul Minotaturo. Il loro rapporto non fu a senso unico e Quatremère lo aveva ammesso infinite volte; in particolare nel suo saggio sull’imitazione affermava: «Penso che le opere d’arte hanno dato vita alle teorie piuttosto che teorie a bellissime opere»8.

Tornato a Parigi nel 1784 Quatremère cominciò a pubblicare i primi scritti di argomento archeologico e, nel 1788, l’opera che gli conferì la fama di architetto: il primo volume del Dictionaire d’architecture per l’Encyclopédie Méthodique. Il secondo volume uscì in due tomi separatamente nel 1801 e nel 1820 e l’opera fu completata solo nel 1825, con l’uscita del terzo volume. Il successo che ottenne, unito al desiderio di completare l’opera, frutto di una scienza più matura e più estesa, spinse Quatremère nel 1833 a realizzare una nuova edizione sotto il titolo di

Dictionnaire historique d’architecture. Questo libro, così prezioso fin dalla prima

edizione, nacque dopo il viaggio che lo spinse in Gran Bretagna per studiare le opere di quegli architetti che si formarono per mediazione degli antichi di cui Quatremère era appassionato.

Nel 1785, anno successivo al rientro a Parigi dal suo secondo viaggio in Italia, Quatremère partecipò alla trentunesima edizione del prix Caylus, concorso indetto dall’Académie des inscriptions et belles-lettres di Parigi. La partecipazione al concorso prevedeva la consegna di una dissertazione, da svolgersi in lingua francese o latina, su un tema precedentemente assegnato e il premio consisteva in una medaglia d’oro. Durante la seduta accademica del 23 agosto 1785 il premio venne attribuito alla dissertazione presentata da Quatremère de Quincy, ritenuta superiore a quella dell’altro concorrente, Giuseppe Del Rosso. Il testo di Quatremère dal titolo l’Architecture égyptienne considérée dans son origine, ses principes et son goût, et

comparée sous les mêmes rapports à l’architecture grecque venne pubblicato circa

un ventennio dopo, nel 1803, ampliato e aggiornato in base agli studi sull’Egitto effettuati nell’arco di tempo che separò la stesura del manoscritto dal volume a stampa. La dissertazione del 1785 era suddivisa in cinque parti: l’origine dell’architettura in Egitto, la costruzione degli edifici, la loro forma, la loro

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decorazione e l’imitazione presso i Greci. È interessante vedere come Quatremère, nell’ultima parte, avesse risolto il rapporto tra l’architettura egizia e quella greca. Se l’attenzione dell’Académie des inscription et belles-lettres era rivolta in particolare all’Egitto, non fu così per Quatremère, che guardava con maggiore interesse alla Grecia e, soprattutto, cercava di non fare apparire il modello greco come subordinato all’architettura egizia, sebbene quest’ultima lo precedesse da un punto di vista cronologico e l’avesse influenzato attraverso i commerci marittimi. Tuttavia Quatremère affermò che l’architettura greca ebbe un’origine in parte diversa da quella egiziana, derivando quest’ultima dai sotterranei e la prima dalla capanna lignea. Inoltre, i Greci poterono contare sull’eccellenza raggiunta nelle altre arti, primato che venne poi trasferito anche all’architettura, decretandone la superiorità nei confronti di ogni altra civiltà.

Nelle pagine finali dell’opera Quatremère, dopo aver brevemente descritto i tre ordini architettonici greci, proseguì dicendo:

on doit donner l’honneur de cette partie de l’architecture et il fut naturel que l’ornement étant aussi une partie de la sculpture, il reçu sa perfection du Peuple qui, dans tous les arts, a donné des lois à toutes les nations qui l’ont suivi […]. D’après cet exposé, il est évident que les causes premières de l’architecture grecque étant en certains points différentes, cet art dû prendre un caractère généralement original, que cette Nation lui imprimait […] et à tous égards l’architecture Egyptienne ne doit être regardée que comme l’ébauche de la Grecque; les Grecs pour la supériorité qu’il acquirent dans tous les autres arts d’imitation parvinrent à un système raisonné de proportions par lesquelles ils ont les règles de cet art et la justesse de son goût […]. Si donc les Egyptiens furent dans le fait les inventeurs de l’architecture, les Grecs le furent de la belle architecture.9

Nel 1789 Quatremère si batté per l’abolizione dei privilegi feudali e per la monarchia costituzionale. Nella Rivoluzione ebbe un ruolo attivo e di primo piano. Dal luglio 1789 all’ottobre 1790 fu eletto rappresentante alla Commune di Parigi; fu commissario per lo spoglio dei documenti della Bastiglia, per il comitato delle polveri, per l’installazione del municipio di Parigi, per la sistemazione della piazza della Bastiglia demolita, e si interessò anche alla sorte dei teatri. Preposto a

9 M. Leoni, Qautremère de Quincy e il primo tomo (1788-1790) del Dizionario di architettura

dell’Encyclopédie Méthodique, Tesi di dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica,

Politecnico di Torino, 2012, p. 78.

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esaminare un’opera di Chénier, il Carlo IX, tragedia severa nei confronti della monarchia, Quatremère ritenne che potesse essere rappresentata. Il 2 aprile 1790 pronunciò alla Commune il Discours sur la liberté des théâtres, con il quale si schierò non solo contro la censura, ma anche a favore di una totale libertà d’iniziativa e di gestione dei teatri in quanto «istituzioni private». Si delineò così il primo scontro di Quatremère con la nascente ideologia giacobina. Di fronte all’intenzione di istituire un controllo della Commune sull’attività teatrale e di favorire le compagnie di attori francesi, a discapito della concorrenza italiana, Quatremère dichiarò che dovesse essere il pubblico, con la sua affluenza, a decretare il successo di uno spettacolo o di un altro, in regime di libera concorrenza.

Dalla lettura dei testi pubblicati in quegli anni, emerge il profilo di un idéologue in grado di intrecciare riflessioni sull’arte e ragioni politiche, passando agevolmente dal contesto parigino a una più generale concezione dell’arte e dei suoi rapporti con il contesto sociale. Ma, soprattutto, emerge una figura sfaccettata, i cui interessi spaziavano in molti campi, rendendone quindi difficile una lettura confinata all’interno di ambiti disciplinari specifici.

All’inizio del 1791, Quatremère de Quincy pubblicò, a titolo di contributo al dibattito sulla riforma delle accademie10, il primo trattato teorico sulle arti dell’epoca rivoluzionaria: le Considérations sur les arts du dessin en France suivies d’un plan

d’Académie, ou d’école publique et d’un système d’encouragements11

. L’autore si chiedeva in che misura la Francia avesse bisogno di incoraggiare le «arti del disegno» e quale fosse il modo migliore di favorirle12, proponendo una concreta politica culturale.

10 Nel corso del XVIII secolo il malcontento nei confronti dell’egemonia dell’Accademia di pittura e scultura era cresciuto regolarmente nel mondo artistico parigino, fino al punto che, alla vigilia della Rivoluzione, erano in molti a chiedere lo smantellamento di un sistema che aveva promosso così efficacemente l’interesse di pochi privilegiati, e nel 1789 essa fu tra le prime istituzioni ad essere messa sotto accusa. La sua struttura fortemente gerarchica e i privilegi economici di cui godevano i suoi membri erano considerati incompatibili con le riforme egualitarie che stavano per trasformare la società, inoltre, gli artisti cominciavano ad avvertire con un certo fastidio la rigidità del suo metodo di insegnamento. La polemica anti-accademica era guidata da David e da un gruppo di artisti, i quali nel 1790-91 indirizzarono numerose petizioni all’Assemblea, domandando l’abolizione dell’Accademia, senza che queste sortissero alcun effetto. Quando David, nel 1792, venne eletto deputato della Convenzione e, subito dopo, nominato membro del Comitato di istruzione pubblica, il partito antiaccademico ottenne le prime vittorie, fino all’abolizione delle accademie l’8 agosto 1793, due giorni prima dell’apertura ufficiale del museo del Louvre.

11 A. Ch. Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin en France suivies d’un plan

d’Académie, ou d’école publique et d’un système d’encouragements, Parigi, Desenne, 1791.

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La prima parte delle Considérations è interamente dedicata a trattare in maniera sistematica tre questioni fondamentali: le cause e le condizioni indispensabili al successo delle arti, la situazione della Francia e l’interesse che essa avrebbe trovato nell’esercizio di tali arti13

. Facendo chiaro riferimento a Winckelmann, l’autore riteneva che un clima mite e temperato fosse propizio all’invenzione delle arti, come era accaduto nella Grecia classica, dove si trovarono riunite le caratteristiche, fisiche, morali, politiche e religiose, favorevoli alla realizzazione della perfezione artistica. Dall’altro lato però Quatremère era consapevole che la perfetta correlazione tra arte e società, di cui Atene aveva incarnato il modello, fu unica e irripetibile e, di conseguenza, era impossibile una risurrezione delle arti nella Francia contemporanea. Un forte sentimento della realtà presente e la volontà di intervenire attivamente in essa spinse la nazione francese, libera e democratica, a occuparsi direttamente della gestione e conservazione del patrimonio artistico del paese, della politica delle commesse pubbliche, ed ebbe anche l’obbligo morale di guidare e indirizzare le arti per farne «i precettori della virtù e gli organi della verità»14.

La seconda parte delle Considérations, molto più tecnica, è consacrata alla programmazione di un’ampia politica artistica, definita attraverso mezzi e scopi, che nelle intenzioni di Quatremère non solo era possibile ma persino auspicabile. Una delle questioni che affronta è quella dell’insegnamento: l’autore, sulla base dell’«unione delle arti», sosteneva la necessità di creare una sola accademia delle arti del disegno, nella quale l’insegnamento, pur rimanendo conforme alla tradizione, sarebbe stato meno costrittivo e soprattutto avrebbe abbandonato l’uso del modello unico, adottando invece la natura stessa come modello, intesa come riunione di tutte le bellezze sparse negli individui, il solo modo per sfuggire allo «stile accademico», considerato «privo di verità, di carattere e di espressione»15. Alle lezioni teoriche sarebbe stato necessario affiancare una «galleria di statue antiche originali»16, un vero e proprio museo didattico, capace di fornire i modelli inimitabili di ogni bellezza e perfezione. L’iter didattico proposto da Quatremère era estremamente ampio: le lezioni sia pratiche che teoriche e la grande importanza conferita alla conoscenza della storia, avrebbero dovuto preparare gli studenti al Grand Prix, vale a

13 Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin, cit., p. XIV. 14 Ibidem, pp. 50-58.

15 Ibidem, pp. 124-126. 16

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dire all’Accademia di Francia a Roma, dove completare la propria formazione. Una volta tornati in patria, i giovani artisti avrebbero beneficiato di un sistema di «incoraggiamenti» e concorsi pubblici, con i quali lo stato si sarebbe assicurato il ruolo di principale committente e protettore delle belle arti, non solo per il grand

genre, ma anche per i «generi subalterni», tra i quali i soggetti nazionali avrebbero

dovuto avere maggior importanza.

«Incoraggiare gli artisti significa fornire loro dei soggetti che siano al livello dei grandi sforzi dell’invenzione e che abbiano per oggetto la ricerca del bello ideale»17

.

Una volta organizzato l’insegnamento e dettate le regole di una vantaggiosa politica d’incoraggiamenti sorgeva il problema della destinazione delle opere d’arte, a proposito del quale l’autore mostrò sempre grande interesse. Accompagnato da una diffidenza nei confronti del museo, che considerava alla stregua di «magazzino» o deposito, si rifiutava fermamente di fare del Louvre lo sbocco inevitabile delle commissioni pubbliche e proponeva invece di destinare le opere ai luoghi cui erano legati i personaggi o i fatti che erano in esse commemorati18.

Le violente polemiche che agitavano l’ambiente artistico a proposito della riforma dell’Accademia, costrinsero Quatremère a pubblicare due brevi scritti complementari: una Suite e una Seconde suite aux Considérations sur les arts du

dessin19. Mentre la prima non è altro che una replica, estremamente tecnica, alle

posizioni prese dai gruppi rivali, la Seconde suite rappresenta una precisazione e un arricchimento del pensiero dell’autore, nella quale si interroga sulla possibilità di una politica di sviluppo delle arti, capace di coniugare regole e metodo d’insegnamento con la libertà e l’indipendenza di cui il genio non può fare a meno.

Ho concepito la scuola da stabilire come una riunione di tutti gli strumenti d’insegnamento di cui lo sviluppo dei talenti può avere bisogno; ho voluto che, nel mezzo della diversità così notevole di tutte le facoltà, nessun talento possa lamentarsi di non aver avuto sostegno, o d’aver trovato troppi limiti. La scuola pubblica deve assecondare il genio, ma in una maniera generale e simile all’azione del sole: deve cercare di scoprire il talento; [...] bisogna che essa

17 Quatremère de Quincy, Considérations sur les arts du dessin, cit., pp. 145-148. 18

Ibidem, pp. 162-164.

19 A. Ch Quatremère de Quincy, Suite aux Considérations sur les arts du dessin en France, ou

Réflexions critiques sur le projet de statuts et règlements de la majorité de l’Académie de peinture et de sculpture, Parigi, 1791; e Seconde suite aux Considérations sur les arts du dessin, ou Projet de règlement convenable à l’Institut national des sciences, lettres et arts, Parigi, 1791.

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13 presenti a tutti i gusti i diversi allettamenti dell’istruzione; sta al genio scegliere gli strumenti che gli sono più congeniali.20

Quatremère finì per rinunciare al programma d’insegnamento delineato nelle

Considérations, ritenendolo incompatibile con le esigenze di una libera invenzione,

conscio che «le possibilità di successo della nuova politica delle arti, voluta e permessa dalla Rivoluzione, della rigenerazione dell’arte francese, sarebbero rimaste sostanzialmente aleatorie, perché l’arte non è un’istituzione tra le altre, anzi non esiste neanche in quanto istituzione: non ci sono che artisti, guidati da una divinità»21.

La proposta di Quatremère superava il concetto di un’unica scuola delle arti, per delineare i contorni di un vero e proprio «tempio della scienza», luogo di riunione delle arti, delle lettere e delle scienze. Questa grande costruzione teorica integrava le arti in un sistema culturale basato sulla perfetta solidarietà di tutti i suoi elementi, e sboccava nella creazione dell’«Istituto nazionale», il quale avrebbe raggruppato al Louvre il museo, la biblioteca nazionale, le accademie e i laboratori scientifici, in una vera e propria enciclopedia materiale. Al piano terra avrebbero trovato posto le aule di insegnamento, al primo piano le collezioni di opere d’arte dell’Antichità e di calchi di gesso, concepite come strumenti di istruzione, al secondo piano gli alloggi del personale, mentre la Grande Galérie sarebbe stata adibita a «museo nazionale», luogo di esposizione dei dipinti di scuola francese, e la corte avrebbe ospitato le statue degli «uomini illustri» della capitale22.

Il pensiero di Quatremère a proposito della «riunione delle arti», benché non trovò mai modo di realizzarsi concretamente, ebbe un certo seguito. Il 26 maggio 1791, infatti, l’Assemblea nazionale votò, su proposta di Bertrand Barère, un decreto che faceva del Louvre il luogo destinato alla riunione di tutti i monumenti delle scienze e delle arti, riprendendo il progetto dell’«Istituto nazionale» di Quatremère. Le cose poi andarono diversamente: l’identità e il ruolo politico del Louvre presero forma parallelamente agli eventi del 1792-93 e il progetto enciclopedico di Quatremère e di Barère rimase sulla carta, mentre l’attenzione dei responsabili del Louvre si focalizzò nuovamente sulla sola Grande Galérie. L’apertura del Musée Central des Arts il 10

20 Quatremère de Quincy, Seconde suite, cit., p. 48.

21 É. Pommier, L’art de la liberté. Doctrines et débats de la Révolution française, Parigi, Éditions Gallimard, 1991, p. 80.

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agosto del 1793, nell’ambito dei festeggiamenti per il primo anniversario della Repubblica, caricò di un forte significato ideologico la nuova istituzione, alla quale spettava il compito di dimostrare che, nonostante le difficoltà comportate dalla guerra e dai disordini interni, la calma e l’ordine regnavano nella capitale e che in nessun modo l’amore per le arti era stato abbandonato.

Nel 1791 Quatremère venne eletto Commissario per l’istruzione pubblica presso il Direttorio del Dipartimento di Parigi; in questa veste redasse un rapporto per la conversione della Chiesa di Sainte-Geneviève in Panteon destinato alle tombe delle glorie nazionali e fu incaricato di amministrarne i lavori di trasformazione, con Rondelet, suo collaboratore nel Dictionnaire d’architecture, in veste di Ispettore della costruzione e l’architetto Soufflot in qualità di Inspecteur des ornements. Nel settembre dello stesso anno fu eletto deputato del Dipartimento di Parigi ed entrò nel Comitato d’istruzione pubblica dell’Assemblea legislativa. Dalle prime sedute si dimostrò uno dei difensori più energici della monarchia costituzionale. Mentre, sotto la pressione dei partiti e l’agitazione della periferia, molti deputati evitarono di pronunciarsi in modo da non compromettersi, Quatremère sfidò coraggiosamente le minacce giacobine e dichiarò le sue convinzioni con delle violente requisitorie alla Legislativa. È chiaro come veda frantumarsi, nel fuoco degli eventi rivoluzionari e nei loro contraccolpi di guerra, il sogno di una transizione quasi indolore verso un regime costituzionale. Nel maggio e nel luglio del 1792 egli pronunciò davanti all’Assemblea veementi discorsi contro il sistema organizzato delle denunce che dilagava nell’ambiente politico. A questo punto gli avvenimenti precipitarono: il 9 agosto, Quatremère, attaccato dai seguaci di Marat all’uscita dall’aula, riuscì a sfuggire all’assalto della folla scappando da una finestra. Sospettato di manovre controrivoluzionarie, per un po’ si tenne in disparte, ma Marat, il suo più fiero avversario, ne fece decretare l’arresto. Protetto da Danton, che conosceva il suo rifugio segreto, Quatremère riuscì a evitare la cattura, ma nel marzo del 1794 venne scoperto e rinchiuso alle Madelonnettes. Ritornò in libertà con il colpo di stato del 9 termidoro (27 luglio 1794), che mise fine al Terrore, rovesciando Robespierre e liquidando definitivamente l’esperienza giacobina. La giornata cruciale per Quatremère fu il 13 vendemmiaio anno IV (5 ottobre 1795), quando fu alla testa della rivolta armata filorealista contro la Convenzione e si ritrovò contro Napoleone, ancora semplice ufficiale ma che usò quella vittoriosa operazione per arrivare al

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trono imperiale. In tale occasione Quatremère venne di nuovo bloccato e condannato in contumacia, ma questa volta fu accusato di essere fra i maggiori istigatori della rivolta e i suoi beni furono confiscati23. Ebbe modo di fuggire e rifugiarsi nella prigione dove fu rinchiuso in precedenza, le Madelonnettes, sotto la protezione del suo antico carceriere. Da questo nascondiglio scrisse le Lettres à Miranda, che vennero prontamente criticate sul “Rédacteur”, quotidiano che era l’organo ufficiale del governo. Le Lettere costituirono una denuncia, violenta e appassionata, della politica di requisizione delle opere d’arte decisa, nella primavera del 1796, dal governo del Direttorio e messa in opera, sistematicamente, dal generaleBonaparte a capo dell’armata d’Italia. Furono scritte, dietro richiesta di un amico, il generale Francisco de Miranda, tra l’inizio della campagna d’Italia, il 5 aprile 1796, e il mese di luglio, e furono diffuse in maniera semiclandestina. I due interlocutori affrontarono lo stesso argomento ma da punti di vista differenti: a Miranda spettarono gli aspetti politici del problema, mentre a Quatremère quelli artistici. Quest’ultimo spiegava come l’ambiente e il contesto, nel quale si trovavano o per il quale erano nate le opere d’arte, costituivano gli elementi imprescindibili per la conservazione del loro intero ed effettivo significato. Ne derivava, irrimediabilmente, la condanna più severa per l’istituzione museale, definita: «vero cimitero delle arti», «serraglio di monumenti», «ricettacolo di rovine fittizie», «botteghe di demolizione», «deposito d’ignoranza e di barbarie» che formavano «oziose collezioni»24. «Scomporre è distruggere», ripeteva Quatremère con energia inesauribile, per difendere il patrimonio artistico italiano così fortemente legato al proprio contesto. Il museo, contenitore artificiale al cui interno le opere si trasformavano in oggetti di studio, soffocava l’emozione e impediva lo sviluppo della sensibilità che si provavano nell’osservare quei capolavori all’interno del loro ambiente naturale. Ricorrendo alla sua esperienza personale, affermò che «quelle belle figure antiche staccate e separate dalla loro famiglia» perdevano una gran parte degli effetti che

23 Lo stesso Quatremère nella lettera scritta ad Antonio Canova il1° luglio 1802, rimpiange la sua biblioteca, sequestrata e in seguito smembrata durante la Rivoluzione. Forse, dal momento che nella lettera si accenna anche al sequestro del mobilio, in quella circostanza è verosimile che siano andate smarrite o distrutte carte, lettere e altri documenti cartacei conservati in casa di Quatremère, in Il

carteggio Canova-Quatremère de Quincy 1785-1822, a cura di Giuseppe Pavanello, Ponzano,

Vianello Libri, 2005, pp. 19-20.

24 Quatremère de Quincy, Rapport fait au Conseil général, le 15 thermidor an VIII, Parigi, anno VIII, pp. 32-39.

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comunicavano «al genio degli artisti» e avevano bisogno di quell’armonia data dal contesto «per apparire in tutta la loro bellezza»25.

Con la costituzione del Direttorio, nel luglio del 1796, Quatremère poté tornare allo scoperto26 e presentarsi al tribunale criminale, dove chiese e ottenne l’assoluzione. Completamente libero fece pubblicare in un solo volume le Lettres à

Miranda, scrisse una petizione insieme ad altri 50 artisti27 in favore della sua tesi e spedì una copia dell’opuscolo al generale Bonaparte in Italia, con l’illusione di fermare le requisizioni. Continuò anche la lotta più strettamente politica: fu di nuovo eletto deputato, ma al Consiglio dei Cinquecento; ricominciò a cospirare per il ritorno della monarchia e di nuovo fu costretto alla fuga e alla clandestinità dopo il colpo di forza di Bonaparte e Barras del 18 fruttidoro (4 settembre 1797). Questa volta, ad avvertirlo per tempo e ad aiutarlo materialmente nella fuga fu Talleyrand. In Francia, ormai, gli fu impossibile rimanere e si recò in esilio in Germania, dove ebbe modo di consolidare i legami culturali con un metodo filologico e filosofico che già lo aveva profondamente influenzato negli anni della formazione. Fece ritorno in patria solo con l’amnistia promulgata da Bonaparte il 18 brumaio (9 novembre 1799). Si aprì così un periodo, quello napoleonico, che segnò una sostanziale eclissi del ruolo pubblico di Quatremère; oppositore dei principi e degli ideali del governo, ritornò ai suoi vecchi studi d’arte e d’archeologia, che non aveva mai completamente abbandonato nemmeno nelle più forti agitazioni rivoluzionarie. Il suo prestigio di studioso, la sua autorità morale non furono intaccati, anzi vennero consolidandosi con lo svilupparsi di un’intensa attività di pubblicista e con l’uscita del Sur l’Idéal dans les arts du dessin nel 1805 e dello Jupter Olympien on l’art de la sculpture antique considérée sous un nouveau point de vue nel 1814. Tuttavia,

nell’organigramma del sistema di potere artistico dell’età napoleonica Quatremère non riuscì ad occupare un posto ufficiale di spicco, poiché Bonaparte non dimenticò l’aspra polemica delle Lettres à Miranda.

25 Quarta Lettera, in Quatremère de Quincy, Lettere a Miranda, con scritti Edouard Pommier, a cura di Michela Scolaro, Bologna, Minerva Edizioni, 2002, p. 190-196.

26 L’ultima delle Lettres à Miranda, cita quasi letteralmente un’espressione di un articolo del “Rédacteur”, n° 211, datato 25 messidoro anno IV (13 luglio 1796); pertanto Quatremère deve aver letto tale notizia prima della stesura della settima lettera, che termina con una frase rivolta al suo amico interlocutore: «spero di riabbracciarvi fra tre giorni». Tale conclusione preannuncia la sua uscita dal nascondiglio, che si data, di conseguenza, dopo il 13 luglio 1796.

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Dopo la caduta dell’imperatore Quatremère salutò la Restaurazione del 1815 con entusiasmo: la monarchia, con la Camera e la Carta Costituzionale era, dopo tutto, quello per cui si era sempre battuto. Fu nominato censore reale, e lo stesso anno, ufficiale della legione d’onore e cavaliere di St-Michel. La Restaurazione lo ripagò,

nominandolo membro del Consiglio superiore dell’istruzione pubblica,

promuovendolo Intendant des art et monuments publics e dal 1816 segretario a vita dell’Académie des Beaux-Arts. Dall’alto di questa carica, che conferì ufficialità alle sue idee e alla sua azione, Quatremère esercitò per un buon ventennio una solida egemonia sulla cultura artistica francese, quasi una dittatura estetica contro le forze nascenti del romanticismo.

Furono di questi anni alcune sue opere più significative: Essai sur la nature, le but

et les moyens de l’imitation dans les Beaux-Arts (1823), l’ultima parte del Dictionnaire d’architecture (1832) e le monografie su Raffaello (1824), Canova

(1834) e Michelangelo (1835) che gli diedero l’opportunità di sviluppare le sue visioni estetiche e di trattare la storia dell’arte nelle sue più belle epoche. Quatremère cercò di installare in Francia, sotto l’egida dell’Istituto, un’arte e una dottrina di Stato, che si fosse basata su quella di Winckelmann, considerato «il primo che abbia portato il vero spirito d’osservazione in questa disciplina [...] il primo che si sia azzardato [...] ad analizzare i tempi [...] il primo che abbia [...] piantato i picchetti su questa terra sconosciuta [...] il primo che [...] abbia [...] scoperto [...] un metodo [...] Infine, ritornato dall’analisi alla sintesi, è giunto a costruire un corpo di ciò che non era che un ammasso di frantumi»28. Per Quatremère fu fondamentale continuare il suo metodo modificandolo ed integrando con le rivelazioni dei marmi del Partenone.

Il suo pensiero nacque, inizialmente, dallo studio dell’arte greca sulle opere greco-romane, sulle copie degli originali o sulle copie delle copie, che studiò a Roma dal 1776 al 1780 e dal 1783 al 1784, e che aveva trovato in parte nel Museo delle Antichità del Louvre. Successivamente conobbe Fidia e la sua scuola dai bassorilievi del Partenone, dai disegni che fece Carrey, dai gessi di Choiseul Gouffier realizzati dagli stampi di Fauvel e da un frammento originale entrato al Museo dell’Antichità nell’agosto del 1801, che rivelarono una maniera grande e semplice, non ricercata nei dettagli, spesso con contorni lisci e simmetria nella composizione. Quatremère considerò quest’arte ideale per diversi motivi; in primo luogo per il suo scopo: la

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statua greca non era quella di un uomo, ma dell’uomo prima che le degenerazioni successive avessero modificato la sua integrità primitiva29; in secondo luogo per il suo approccio: non rinunciava alla natura astratta e generalizzata, infatti guardando le teste greche, specialmente quelle delle divinità, non era presente nessun dettaglio minuto, il profilo era dritto, le sopracciglia e il naso tagliati ad angolo, gli occhi senza sguardo, i capelli e la barba trattati con masse fitte e composte, le pieghe delle spalle cadevano perpendicolarmente, e tutto era in armonia30. Infine, quest’arte era ideale nei suoi risultati: l’espressione del volto rimaneva seria, perché se la passione avesse incontrato i tratti del volto li avrebbe resi brutti31, poiché il movimento esagerato avrebbe rotto la linea.

La visione di queste opere provocò l’ammirazione di artisti, critici, teorici, e del pubblico ma la reazione più forte fu quella di Émeric-David che scrisse le

Recherches sur l’Art statuaire nelle quali si domandava: «Quali sono state le cause della perfezione della scultura antica, e quali sarebbero i mezzi per raggiungerla?» L’opera divenne subito un manuale per i giovani scultori.

Si la sculpture des Grecs est parfaite, c’est qu’ils ont recherché avant tout la vérité d’imitation et reproduit fidèlement le modèle en se contentant de le choisir. L’Idéal, c’est la nature choisie. Ils prenaient des hommes beaux comme des dieux, mais «l’Apollon n’est qu’un homme». Faisons comme eux: après avoir choisi, «représentons les choses comme elles sont, les actions comme elles ont eu lieu, et les personnes telles qu’on les voit».32

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A. Ch. Quatremère de Quincy, Essai sur l’idéal dans ses applications pratiques aux œuvres de

l’imitation propre des arts du dessin, Paris, Le Clère, 1837, p. 41. «Dans l’antique, au contraire, ce qui

frappe avant tout, c’est que la figure humaine, au lieu de se borner à être l’imagine d’un homme en particulier, y semble, par l’effet d’une étude généralisée, être l’image véritable de l’homme, tel qu’on suppose qu’aura dû être son véritable archétype. Là, en effet, tout est simple, grand, un et harmonieux. On croiroit y voir l’empreinte originelle de l’être, avant l’invasion des irrégularités, des dégradations et déviation successives, qui n’avoient pu encore altérer l’ordre primitif».

30 Ibidem, pp. 101-102. «Si donc on analyse, d’après leurs traits les plus caractéristiques, le style de

dessin, le style d’expression, et le style de composition de la sculpture Grecque, on reconnoît qu’en

tout se manifeste le même système d’imitation conventionnelle, abstraite ou généralisée. Pour n’en citer que quelques exemples de détail, on ne sauroit méconnoître les conséquences directes de ce système, dans la méthode universelle, en sculpture, des profils rectilignes; des nez plus ou moins carrés, des sourcils taillés angulairement, des yeux généralement privés de prunelles, des cheveux taillés par masses, dans les plis habituellement perpendiculaires, dans les étoffes accusant le nu, dans la négligence ordinaire des accessoires, dans le système si largement écrit des formes du corps, dans la sobriété d’expression, dans l’économie de mouvemens, etc. etc.».

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Ibidem, p. 94. «On sait, en effet, combien au contraire, les antiques, sobres de détails en ce genre, comme de pantomime dans les mouvemens, subordonnant la manifestation des passions par les traits du visage, au principe de la beauté, évitèrent toujours l’expression outrée, qui produit la laideur dans les traits, et l’exagération qui détruit la noblesse de caractère dans les mouvemens».

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Quatremère reagì a questo scritto pubblicando un saggio in tre parti negli “Archives littéraires” e sul “Moniteur”, con il titolo Sur l’Idéal dans les arts du

dessin (1805). Si trattava di un’opera di dottrina, dove le idee più astratte, le idee

platoniche, si animavano di passione.

I due personaggi furono sostenitori di dottrine opposte:quella liberale caldeggiata da Émeric-David e quella classico-antica o ultra-idealista, rappresentata da Quatremère. La prima propose come fine il piacere estetico, che derivava dal confronto tra l’immagine e il suo modello da un lato, e il lavoro dell’immaginazione dall’altro; essendo la conoscenza della natura visibile, l’unica accessibile all’uomo, era sulla base degli studi anatomici che da essa derivavano, che si fondava l’opera scultorea. Invece, secondo la dottrina idealista, non era il piacere estetico, ma i progressi intellettuali e morali dello spettatore che costituivano lo scopo dell’arte. Partendo da questa critica, la dottrina idealista definì il suo metodo: la creazione artistica era preceduta da un’analisi che decomponeva il modello, in modo da separare l’accidentale dall’essenziale. Una volta completata l’analisi, interveniva la ricostruzione della vera natura del modello, il bello ideale, che si fondava sui principi generali, e si serviva dell’allegoria e di un sistema di regole. La dottrina idealista ricercava in effetti la produzione di idee piuttosto che di immagini e cercava di evitare i pericoli di una particolare lingua sensuale che sarebbe stata distante dalla sfera morale. Tale dottrina fu spesso criticata per tre motivi: in primo luogo, l’anti-realismo, che portava all’isolamento dell’arte dalla società circostante e che tradiva, nel basarsi ciecamente sui modelli antichi, un empirismo nascosto dietro il suo aspetto razionale. In secondo luogo, perché considerata un pensiero elitario, e, infine, per la sua tendenza a codificare l’arte.33

«I Greci sono pervenuti al grado più eminente che lo spirito umano possa raggiungere», con queste parole, tratte dal Dictionnaire des arts de peinture,

sculpture et gravure34, Winckelmann esprimeva sia un’esaltazione della Grecia, che

una critica della situazione culturale e spirituale dell’Europa a partire dalla scomparsa dei grandi geni del Rinascimento. Se Winckelmann propose i Greci a esempio fu perché questi ultimi cercarono il modello della perfezione nel pensiero: coltivando la dignità intellettuale, trovarono una «sublimità superiore alla natura» e

33 Rasmussen, Entre règles et régénération,pp. 675-677.

34 J. J. Winckelmann, Dictionnaire des arts de peinture, sculpture et gravure, trad. Claude Henri Watelet e Pierre Charles Levesque, Parigi, L.F. Prault stampatore, 1792, p. 223.

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raggiunsero «quella parte in cui l’arte può mostrarsi vincitrice della natura stessa, e tale parte è la bellezza». Essi mostrarono che «l’arte può sorpassare la natura»: l’artista greco portò le «forme a una perfezione che si trova soltanto nel suo pensiero»; e le circostanze che accompagnarono quella fioritura furono: il clima, le istituzioni, le pratiche sociali e culturali, e infine la libertà35. Fu a partire da questo pensiero di Winckelmann che Quatremère pose le basi del suo concetto del bello ideale, concepito come un’astrazione raggiungibile solo da chi conosceva le idee; pertanto chi si basava su un modello esterno non poteva aspirare all’imitazione della bellezza ideale. Quatremère distinse tre tipi di piaceri che venivano dall’atto dell’imitazione: il primo veniva dall’immagine, che era solo «la ripetizione della realtà per la realtà»36, era definito grossolano, e animava lo spirito dei “realisti” come Émeric-David. Il secondo tipo di piacere era un tipo d’imitazione «più tecnico che intellettuale», che peccava per il piccolo margine che lasciava all’immaginazione. Infine, il terzo tipo era, «senza escludere il precedente, [...] il vero scopo dell’imitazione»37

, completamente staccato dal visibile, «è un piacere morale»38. Era attraverso questo tipo di piacere che il bello assoluto dava accesso al bello ideale.39

Per quanto riguardava l’imitazione del punto di vista del suo processo tecnico, la risposta si trovava ne l’Idéal dove Quatremère spiegò la sua teoria delle origini dell’arte. La storia ebbe inizio con gli egiziani; per loro il geroglifico era un segno di un linguaggio religioso scritto. Secondo la lettura di Quatremère i Greci furono presi da una sorta di perversione produttiva del geroglifico che diede vita all’arte:

Bientôt, comme je l’ai dit, le signe hiéroglyphique, livré à l'arbitraire d’un art beaucoup plus indépendant qu’en Égypte, éprouva en Grèce le sort que la faiblesse de l'esprit humain fait tôt ou tard subir aux signes des idées intellectuelles; c’est-à-dire, que le signe prit, dans l’imagination des hommes, la place de la chose signifiée. Ainsi, ce qui n’était que le caractère sensible d’une idée abstraite, devint un être auquel la crédulité donna une existence qui, pour être imaginaire, n’en fut que plus conforme à l’esprit des arts. Le peuple corporifia insensiblement dans son esprit le plus grand nombre des signes de l’écriture égyptienne; on

35 É. Pommier, Più antichi della luna. Studi su J.J. Winckelmann e A.Ch. Quatremère de Quincy, Bologna, Minerva edizioni, 2000, p. 170.

36 Quatremère de Quincy, Essai sur l’imitation, cit., p. 160. 37 Ibidem, p. 161.

38 Ibidem, p. 162. 39

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21 fit des personnages de ce qui n’était que des lettres, et ce fut là le plus grand pas qu’ait fait le génie de l’imitation.40

In arte, l’allegoria che sostituì il geroglifico fu inventata dalla mente acuta dei Greci, dove i segni sostituivano la cosa e si trasformavano in immagini.

L’art grec est «au delà de la nature», idéal, par son origine, son objet, sa méthode, et ses résultats. Son origine, ce sont les hiéroglyphes, où les formes, généralisées à l’extrême, ne sont plus qu’une écriture: avant d’être une image, le bas-relief primitif est une inscription.41

La storia delle origini dell’arte, secondo Quatremère, era il primo dei tre requisiti che legano l’arte alla sua destinazione. Fu nelle Considérations sur les arts du dessin

en France suivies d’un plan d’Académie, ou d’école publique et d’un système d’encouragements (1791) e nelle Considérations morales sur la destination des ouvrages de l’art ou de l’influence de leur emploi sur le génie et le goût de ceux qui les produisent ou qui les jugent, et sur le sentiment de ceux qui en jouissent et en reçoivent les impressions (1815) che introdusse questa teoria che venne confermata

nelle Lettres à Miranda, dove Quatremère difese incondizionatamente il radicamento dell’arte all’interno dei confini della sua destinazione. Pertanto il bello ideale, astratto, dipendeva per la sopravvivenza, dal luogo di nascita o da quello per il quale era stato realizzato e di conseguenza dalle norme della nazione che si occupavano della sua tutela e fruizione. Di conseguenza Quatremère si batté molto contro l’istituzione dei musei perché considerati dei luoghi freddi e sterili nei quali le opere, strappate dal loro contesto, non riuscivano a suscitare alcuna emozione nello spettatore. A proposito di ciò Quatremère disse nelle Considérations sur les arts du

dessin:

Sans doute si ces fruits [les arts] peuvent croitre en pleine terre, je ne veux aucune de ces précautions qui en abatardiroient le germe; je les livre aux mains de la nature. Mais lorsqu’en certains pays, on veut avoir des orangers, il faut bien avoir des orangeries.42

Il complesso delle Considérations sur les arts du dessin e delle Considérations

morales sur la destination des ouvrages de l’art è dedicato alla questione del

40 Rasmussen, Entre règles et régénération, cit., p. 682. 41 Schneider, L’esthétique classique, cit., p. 5.

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rafforzamento del legame delle arti con gli artisti e le persone. Specificamente, Quatremère spiegò che il compito dell’arte era quello di essere la storia della nazione, dei suoi eroi e delle sue vittorie, attraverso i suoi monumenti e la vita sociale e intellettuale ad essa collegata. Nelle Lettres à Miranda invece sviluppò la sua teoria sulla destinazione propria dell’opera d’arte: privata del contesto culturale, religioso, economico, ma anche dell’uso e della posizione geografica e fisica cui era destinata, l’opera d’arte sarebbe arrivata alla morte.

Sembra esserci una contraddizione nel pensiero di Quatremère, prima così fortemente idealista, lontano e distaccato dalla realtà, e poi legato al contesto, fondamentale per la nascita di un’opera d’arte. Questo si può spiegare facendo una distinzione tra due aspetti della bellezza: il bello assoluto e il bello relativo.

Il y a sans doute, et dans la nature, et surtout dans les ouvrages de l’Art, une sorte de beau absolu; c’est celui des proportions, par exemple, ou des meilleurs rapports que les formes ont entre elles; c’est encore celui de cette vérité comparative que la théorie démontre, que 1es méthodes exp1iquent, et que 1’esprit conçoit. [En revanche, le beau relatif] s’accroissait dans l’imagination, de toutes 1es affections sympathiques relatives à ces images. Il avait son principe dans le cœur de l’artiste, et son empire dans la foi du spectateur; et l’un et l’autre se renforçaient de toutes les illusions de la croyance religieuse.43

Sebbene il processo tecnico, che portava al bello ideale, fosse importante, non poteva esistere da solo, perché necessitava del coinvolgimento del pubblico nella destinazione per avere la sua esplicazione.

Il pensiero di Quatremère subì un’ulteriore evoluzione alla vista delle sculture del Partenone portate a Londra da Lord Elgin nel 1806-1816 e installate nel British Museum in una stanza simile alla cella di un tempio, seguendo l’ordine reale dei frontoni. La forte emozione che Quatremère provò nel guardare quelle opere lo spinsero a scrivere le Lettres écrites de Londres à Rome, et adressées à M. Canova

sur les Marbres d’Elgin, ou les sculptures du temple de Minerve à Athènes, (6-16

giugno 1818), nelle quali cercò di definire, con precisione e gusto, la novità che i Marmi del Partenone avevano rivelato al mondo, ovvero il genio Attico del V secolo. Quatremère spinse gli storici e gli artisti a procedere dal noto all’ignoto, dalle copie

43 A. Ch. Quatremère de Quincy, Considérations morales sur la destination des ouvrages de l’art ou

de l’influence de leur emploi sur le génie et le goût de ceux qui les produisent ou qui les jugent, et sur le sentiment de ceux qui en jouissent et en reçoivent les impressions, Parigi, de Crapelet, 1815, p. 66.

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agli originali, e dagli originali greco-romani al puro ellenismo. Il Laocoonte, l’Apollo, il Torso di Apollonio, la Niobe, erano i modelli delle opere del genio greco per gli storici come Winckelmann, Milizia, Émeric-David, per gli amanti come Madame de Stael e Schlegel, o per i Davidiani, ma per Quatremère erano solo copie, operemediocri. Le lettere a Canova non contraddicono Sur l’Idéal dans les arts du

dessin, scritto prima di vedere le antichità greche, è solo diversa la qualità degli

argomenti, presi questa volta sulle vere opere del maestro greco. Se la scultura greco-romana gli raccomandava l’ideale puro, i marmi Elgin dimostravano che l’ideale era il reale «visto da sopra e in grande». Fu sul naturalismo di Fidia che Quatremère insistette in primo luogo: scoprendo che si trattava di un errore di Winckelmann l’averlo inserito tra gli scultori arcaici, i quali credevano che la bellezza si trovasse nell’eliminazione dei dettagli, in uno stile metodico e poco espressivo. Quatremère, dopo aver fatto queste rivelazioni, fu felice di affermare che l’arte di Fidia fu preceduta «da almeno tre secoli di continuo esercizio di tutte le arti»44.

Winckelmann aveva basato la sua teoria sulla necessità di un momento di stasi dell’azione per rappresentare la bellezza ideale, ma la figura di Fidia dell’Ilyssus, «subisce un movimento [...], si alza impetuosamente»; le rigidità sistematiche scompaiono sotto il fascino dell’arte più docile e spontanea: con le pieghe dei drappeggi, con «les vérités de la chair [...], les variétés de la peau, où les veines circulent avec une extrême finesse»45. Canova, al primo contatto con questi marmi, aveva scritto: «le opere di Fidia sono vera carne», e Quatremère penetrato profondamente nella sensazione di realismo, gli fece eco: «Ce n’est réellement plus de la sculpture; la bouche hennit, le marbre est animé, on croit voir remuer»46.

La dottrina di Quatremère,che ultimò e adattò alle mutevoli esigenze della lotta, si trova sparsa in tutta la sua opera, espressa dalla Rivoluzione al suo ritiro. Nel 1823, nell’Essai sur la nature, le but et les moyens de l’imitation dans les

Beaux-Arts, anche conosciuto come De l’imitation, finalmente raccolse e completò il suo

pensiero artistico e letterario, riassumendo la sua dottrina con tutto ciò che l’aveva preceduta. Fu lo sforzo più vigoroso e metodico che fu fatto per stabilire in Francia un’estetica nazionale. Si tratta di un’opera essenzialmente teorica, in cui Quartremère cercò di definire con precisione il sistema nel quale rientravano le belle arti in

44 Schneider, L’esthétique classique, cit., p. 18. 45 Ibidem, p. 19.

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generale e cosa si intendeva per natura e per imitazione. Il saggio è suddiviso in tre parti: la prima ha per oggetto la natura dell’imitazione, il punto di partenza di tutto il suo pensiero; affronta i concetti primari e centrali, che costituiscono il principio base dell’imitazione propria delle belle arti, al fine di risolvere tutte le incertezze d’opinione e stabilire una regola invariabile. Nella seconda parte, chiamata lo scopo

dell’imitazione, Quatremère definisce quale dovrebbe essere il vero obiettivo

dell’imitazione: un fine superiore, che senza essere esclusivo, senza vietare la possibilità di fermarsi a dei punti inferiori, mostra al genio lo scopo che deve raggiungere. L’ultima parte è dedicata allo sviluppo dei mezzi d’imitazione, ma non tratta della pratica, delle tecniche o della didattica di ogni arte, come il titolo potrebbe suggerire, piuttosto spiega che i mezzi da usare sono quelli che derivano dalla natura stessa dell’imitazione e riguardano il suo scopo, quelli che dipendono dall’azione della mente e dell’intelligenza, quelli il cui gusto porta il genio a ogni tipo d’imitazione.

Il discorso di Quatremère parte dalla definizione di imitazione nelle belle arti:

Imiter dans les beaux-arts, c’est produire la ressemblance d’une chose, mais dans une autre chose qui en devient l’image.47

Ogni imitazione crea verosimiglianze, ma non vale il contrario, ovvero che ogni verosimiglianza sia un prodotto dell’imitazione; infatti nei prodotti della natura e nelle opere industriali, l’uomo usa la verosimiglianza, ma questi non suscitano in chi li guarda il piacere che invece si prova nell’ammirare le opere d’arte in cui è presente tale caratteristica. Ciò avviene perché nel primo caso si tratta di forza della natura, nel secondo di un’operazione meccanica, e in entrambi manca l’elemento fondamentale del principio d’imitazione: l’immagine. Un oggetto riprodotto non è l’immagine del suo modello, ma solo la sua ripetizione, è per questo che non suscita alcun piacere, che nasce invece dall’azione del comparare.

Quatremère procede facendo la distinzione tra copia di un’immagine e copia identica:

La répétition par image étant l’opposé de la répétition par identité, toute imitation qui vise à celle-ci, tend à se dénature, par cela seul qu’elle vise à ne plus paroître imitation.48

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Parlando della ripetizione identica, spiega che si tratta solo di un’astrazione, in quanto sia nelle opere della natura che in quelle meccaniche essa non è presente49; piuttosto si parla di somiglianza approssimativa che si trova anche nelle opere prodotte per imitazione, che non riproducono l’oggetto reale, ma solo la sua immagine. L’immagine è quindi l’apparenza dell’oggetto rappresentato, o si può anche dire l’apparenza della somiglianza, che non provoca illusione, che non inganna, ma che mostra chiaramente il suo essere solo un’immagine imperfetta all’osservatore che ha il compito di completarne i tratti. Il piacere che si prova nel guardare un’opera d’arte nasce dal paragone che chi osserva fa tra il modello reale e l’immagine. È pertanto quello scarto che c’è tra reale e rappresentazione, quella somiglianza incompleta che fa apprezzare l’operato dell’artista.

L’osservatore, secondo la cultura neoclassica, davanti ad un’opera d’arte non deve credere che possa trattarsi di realtà, non deve essere ingannato, anzi deve riconoscerne il carattere artificiale. Canova affermava che lo scopo delle sue sculture non era quello di ingannare, anzi era lusingato se si fosse capito che si trattava di opere e non di realtà, in modo che si potesse apprezzare maggiormente il suo lavoro sul marmo; gli bastava avvicinarsi al reale e insinuare l’illusione nello spettatore50. L’illusione di cui parla lo scultore, non corrisponde all’illusionismo ingannatore del

trompe-l’œil barocco, che confondeva la realtà con la creazione artistica, ma si tratta

di un avvicinamento delle sue opere alla vita, pur mostrando chiaramente il loro essere di marmo. Questo pensiero appartenne non solo a Quatremère ma a tutto il mondo neoclassico; altri teorici, come ad esempio Esteban de Arteaga, nel suo scritto

La Bellezza ideale, fecero una trattazione specifica sul tema. L’intera cultura

neoclassica rifiutò l’illusionismo ingannatore, portando l’arte ad un livello superiore, staccandola dall’imitazione della natura e avvicinandola al mondo trascendente delle

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Quatremère de Quincy, Essai sur l’imitation, cit., p. 8.

49 Ibidem, pp. 9-10. «Les ouvrages mêmes de la nature [...] lorsque nous les trouvons doués de cette ressemblance qui en opère la confusion, ne nous paroissent tels, que par le fait de notre inattention. Vus ou de plus près ou avec plus d’examen, ils vont nous présenter de très grandes variétés. Ces variétés sont même tellement nombreuses, que l’expérience, d’accord avec le raisonnement, nous force de reconnoître qu’i1 n’ya pas dans la nature, par exemple, deux feuilles entièrement semblables. On en dira autant de tous les produits mécaniques de l’industrie humaine».

50 «Io non presumo colle mie opere ingannare alcuno: si sa ch’elle sono marmo, che son mute immobili: mi basta che si conosca aver vinto in parte la mia materia coll’arte, ed avere avvicinato al vero. Se fosse l’opera mia veduta vera, che lode avrei dai miei sforzi? Mi giova anzi che si conosca essere marmo, che la difficoltà mi fa condonare i difetti: non aspiro che ad una illusione», in Pensieri

di Antonio Canova su le Belle Arti, raccolti da Melchior Missirini, (Milano, Nicolò Bettoni, 1824), in

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