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Rilievi in materia di Trust

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Indice

Introduzione 6

Capitolo I

Il Trust nel diritto inglese: origini e disciplina

1. Premessa 8

2. Il diritto in Inghilterra: cenni storici 9

2.1 Il periodo anglo-sassone e normanno 19

2.2 Dalla nascita ed affermazione della giurisdizione

di Equity ai Judicatures Acts 11

2.3 Dallo “use of lands” al Trust 16

3. Il Trust negli ordinamenti di common law 24

3.1 Il significato di Trust 24

4. Il contenuto del Trust: soggetti ed oggetto 30

4.1 In particolare: situazione giuridica del beneficiario

secondo l’ordinamento inglese 37

5. Analisi e classificazione dei Trusts 42

6. Modelli di Trust 50

Capitolo II

La Convenzione dell'Aja del 1985

1. Premessa 55

2. Il Trust in Italia, prima dell’entrata in vigore della

Convenzione 56

3. La Convenzione 64

3.1 Il campo di applicazione della Convenzione 64

3.2 La Legge applicabile 73

3.3 Il riconoscimento del Trust 78

(4)

Capitolo III

Trust(s) nell'ordinamento civilistico italiano

1. Premessa 89

2. Il Trust interno 89

2.1 La disciplina del Trust interno: alcuni rilievi

sostanziali e processuali 96

3. Applicazioni del Trust 101

3.1 Trust e diritto delle successioni 101

3.1.1 Un’emblematica pronuncia 105

3.1.2 Trust testamentario in Italia: limiti e spazi di operatività 109 3.2 Trust e diritto delle persone e della famiglia 120

3.2.1 Trust e protezione di soggetti deboli: un valore aggiunto 120 3.2.2 Ads e Trust 125

3.2.3 Applicazioni del trust nel diritto di famiglia. In particolare: trust o fondo patrimoniale? 130

3.2.4 La risposta della giurisprudenza 137

Conclusioni 141

Appendice: L. 364/89', ratifica della Convenzione de l'Aja 145

Bibliografia 156

(5)

6

Introduzione

Il presente lavoro di tesi, “Rilievi in materia di Trust”, è diviso in tre capitoli, tre capitoli che sono tre luoghi della vita del Trust.

Il primo Capitolo è ambientato in Inghilterra, la madrepatria del

Trust, ed in questo contesto – che ne segna profondamente ed

inesorabilmente la natura e la struttura – abbiamo cercato di fotografare e raccontarne la nascita, lo sviluppo e la disciplina.

Il sipario del secondo Capitolo si apre sulla scena internazionale: il Trust, off-shore, ha acquisito in breve tempo una diffusione ed una portata tale da essere scelto come oggetto della quindicesima sessione di lavori della Conferenza dell’Aja sul diritto internazionale privato.

I lavori di suddetta sessione porteranno all’emanazione della Convenzione del 1985 “sulla legge applicabile ai Trusts e sul loro riconoscimento”, ratificata in Italia con la L. 16 ottobre 1989 n. 364.

Nel terzo Capitolo, infine, seguiremo l’ingresso e le sorti del

Trust nel nostro ordinamento.

In primis metteremo a fuoco la nostra indagine sulla vivace questione dell’ammissibilità (o meno) del “trust interno” per poi analizzare, attraverso tre significativi esempi di applicazione “domestica” del trust, quanto e come tale istituto sia riuscito ad impiantarsi in un humus sociale e giuridico del tutto diverso da quello di origine.

Quali sono le possibilità ed i limiti di utilizzo, quale l’atteggiamento della dottrina e della giurisprudenza, quale la reazione del legislatore.

(6)

Capitolo I

Il Trust nel diritto inglese:

origini e disciplina

Sommario: 1. Premessa – SEZIONE I: LE ORGINI – 2. Il diritto in Inghilterra: cenni storici – 2.1 Il periodo anglo -sassone e normanno – 2.2 Dalla nascita ed affermazione della giurisdizione di Equity ai

Judicatures Acts – 2.3 Dallo “use of lands ” al Trust – SEZIONE II:

LA DISCIP LINA – 3. Il Trust negli ordinamenti di common la w – 3.1 Il significato di Trust – 4. Il contenuto del Trust: soggetti ed oggetto – 4.1 In particolare: la situazione giuridic a del beneficiario secondo l’ordinamento inglese. – 5. Classificazione ed analisi dei Trusts – 6. Modelli di Trust

(7)

8

1. Premessa

Il nostro cammino sulle orme del Trust comincia a Milano presso la Regia Università, corre l’anno 1933. Qui il grande giurista inglese Geoffrey Chevalier Cheshire, esperto e fine studioso di Real Property e di International Private Law, rivolge al pubblico italiano tre memorabili lezioni sulla storia e sul “concetto” di Trust secondo la Common Law Inglese. La temperie culturale in cui si collocano queste lezioni magistrali è quella degli anni 30’, anni in cui i civilisti italiani completamente immersi nella pandettistica sono impegnati nella costruzione di un nuovo codice e, pur tenendo fisso lo sguardo sul diritto positivo ben ancorati alla tradizione romanistica, non restano assisi sui propri orizzonti intellettuali ma muovono il passo – ancorché non diffusamente – verso una originale e attenta ricerca di mari non navigati, di sponde giuridiche altre ed altrettanto affascinanti.

L’allora giovane studioso Cesare Grassetti assiste alle lezioni di Cheshire e le traduce puntualmente, consegnandole così all’esperienza comparatistica – e non solo! – come preziosa fonte ed autorevole riferimento dottrinale. “L’istituto del Trust è il prodotto di quella parte del diritto inglese che va sotto il nome di equity, ed il mio primo compito sarà quindi di darvi un’idea del significato di

equity”(1); questo l’incipit di Cheshire, questo il nostro incipit: è infatti necessario, per comprendere le origini, il significato e lo sviluppo di tale istituto, soffermarci sull’equity ed in primis e più in generale sull’iter evolutivo del sistema inglese di amministrazione della giustizia.

Non si può parlare di Trust senza parlare di Equity.

(1) G.C. CHESHIRE, Il concetto del “Trust” secondo la Common Law Inglese, ristampa anastatica con una introduzione di D. Corapi, Torino, 1998, 5.

(8)

9 SEZIONE I: LE ORIGINI

2. Il diritto in Inghilterra: cenni storici

2.1 Il periodo anglo-sassone e normanno (2)

Come nell’Italia nel XIII secolo, in Inghilterra prima della conquista normanna (nel periodo c.d. “anglo-sassone”) non vi era un diritto uniforme e comune a tutto il paese ma una congerie di regole consuetudinarie particolari, di disparata estrazione(3), che oltre a disciplinare aspetti limitati del vivere civile variavano da distretto a distretto.

Nel 1066 i Normanni guidati da Guglielmo il Conquistatore invasero l’Inghilterra e, dopo la celebre vittoria di Hastings, vi si insediarono realizzando un accentrato ed organizzato sistema di amministrazione di tipo feudale. Il superamento del particolarismo giuridico, ad opera del “capolavoro amministrativo di Guglielmo il Conquistatore e dei suoi immediati successori”(4

), porterà alla formazione della common law, cioè di un diritto comune a tutto il regno d’Inghilterra: è documentato(5

) come già alla fine del XIII secolo, sotto il regno di Edoardo I, l’espressione “common law” (o

ius commune per usare il gergo canonistico) fosse di uso corrente.

(2) Si ricorre alla tradizionale suddivisione in quattro fasi della storia del diritto inglese, utilizzata da numerosi illustri autori fra cui: F. POLLOCK-F.W. MAITLAND, History Of English Law before the Time of Edward I, Londra, 1968; C.A. CANNATA-A. GAMBARO, Lineamenti di storia della giurisprudenza

europea, Torino, 1989.

(3) Convivevano infatti sull’isola sistemi normativi di diritto romano, canonico, germanico e consuetudinario locale.

(4) Così U. MATTEI, Common Law. Il diritto anglo-americano, in Trattato di

diritto comparato diretto da R. Sacco, Torino, 1992.

(9)

10 Prima della conquista normanna – quindi – la giustizia era amministrata da tribunali locali (Corti della Contea e Hundred Courts, suddivisioni ad essa interne) che applicavano il diritto locale; con l’avvento del feudalesimo tali tribunali non furono smantellati ma soppiantati da nuovi tribunali locali di tipo nobiliare (Courts Baron, Court Leet, Manorial Courts), a cui si aggiunsero tribunali municipali e commerciali con competenza limitata e specifica nonché tribunali ecclesiastici. Nonostante la capillare presenza e la massiccia fioritura di organi giurisdizionali decentrati, il primo organo di amministrazione della giustizia era la persona del Re in seno al suo King’s Council (o Curia Regis), con potere all’occorrenza di modifica sulle decisioni dei tribunali locali.

In questo ricco, variopinto e prolifico contesto giuridico i c.d. “justiciae errantes” furono la longa manus giusdicente del Sovrano e, percorrendo ogni anno ad intervalli regolari tutto il regno distretto per distretto, riuscirono a trovare soluzioni comuni per analoghe controversie giudiziali.

I giudici itineranti ebbero modo di raccogliere, unificare, fissare e accordare le discordanti consuetudini dando inizio a quel processo che portò alla progressiva formazione di un corpus unico di diritto consuetudinario, universalmente applicato, di matrice essenzialmente giurisprudenziale, cuore pulsante di un intero ordinamento giuridico designato – proprio per questo – come Common Law.

A partire da metà del XIII secolo, le competenze diffuse e le funzioni dei giudici erranti furono attribuite alle tre Corti regie di Giustizia con sede stabile a Westmister: la Corte dello Scacchiere (Exchequer), la Corte delle Liti Comuni (Common Pleas) e la Corte del Banco del Re (King’s Bench); le sentenze di queste Corti, daranno un ulteriore decisivo contributo al suddetto processo di stratificazione ed accumulo di precedenti giudiziari.

(10)

11 Il diritto dei giudici (judge-made-law), che avrà come fonte non il diritto romano ma le consuetudini locali(6), è il fulcro della

common law; per dirla con le parole vibranti di Cheshire: “La common law si è sviluppata continuamente da quei giorni, è ancora

piena di vita, (...), è il prodotto del senso comune giuridico applicato ai bisogni mutevoli della società, (...) basata su massime di diritto già formulate nei più antichi precedenti, rappresenta la parte(7) più vigorosa e progressiva del diritto inglese”(8).

2.2 Dalla nascita ed affermazione della giurisdizione di Equity ai Judicatures Acts

Le tre Corti centrali di Westmister (ciascuna nata per coprire un preciso riparto di competenze speciali), come detto, divennero ben presto accreditati organi di giustizia per tutto il regno e per qualunque causa rientrante nella giurisdizione regia. Il procedimento di fronte ad esse annoverava tra i mezzi di prova la testimonianza, in luogo del duello e dell’ordalìa ancora praticati nei tribunali feudali locali; l’efficacia esecutiva delle sentenze delle Corti del Re era assicurata da strumenti la cui azione poteva dispiegarsi ben oltre le mura del feudo, più incisivi e penetranti di quelli di cui disponeva il lord feudale.

(6) Nel 1265 una legge tuttora vigente stabilì che le sole consuetudini applicabili in giudizio fossero quelle antecedenti al 1189 (fine del regno di Enrico II), oggi – quindi – la consuetudine locale non trova più applicazione se non quando possa ritenersi di uso e prassi consolidata “a memoria d’uomo”.

(7) Sebbene il vertice della gerarchia delle fonti nell’ordinamento giuridico inglese sia formalmente occupato dalla legge scritta, codificata (statute law), che viene applicata dai giudici ma in modo tassativo e fortemente restrittivo, nella pratica è la case law (il diritto di fonte giurisprudenziale) ad avere il ruolo di maggior rilievo.

(11)

12 La necessità di una più effettiva garanzia di tutela condusse perciò molti sudditi a chiedere giustizia alle corti regie, capaci di risolvere le liti con maggiore efficienza.

Colui che adiva il giudice della common law, tuttavia, si trovava non di rado di fronte ad un sistema non adeguato a rispondere alle sue esigenze: nessuna azione poteva essere intentata se prima non fosse stato presentato un writ al convenuto ed i writs erano un numero limitato e tassativo. Secondo uno schema improntato sul modello del processo formulare del diritto romano (forms of action), qualora non esistesse già un writ adatto alle circostanze del caso, l’attore rimaneva privo di rimedio: “ubi remedium ibi jus”, ergo “no

writ, no remedy”.

Così per avere giustizia si iniziarono a rivolgere petizioni direttamente al Re perché accordasse, dietro pagamento di una somma, il privilegio di formulare lui stesso un ordine scritto (un nuovo writ, ad hoc, per il caso concreto) che intimasse al convenuto di comparire in giudizio. Con il tempo per la crescente e corposa mole di petizioni che giungevano a Corte, il Re incaricò l’Ufficio della Cancelleria di predisporre – in Sua vece – i writs(9); per questa via, oltre a donare elasticità ed efficienza all’intero sistema di amministrazione della giustizia, la Cancelleria maturò una notevole esperienza nella gestione e composizione dei conflitti.

La fuga dei sudditi verso la giurisdizione regia causò un grave e crescente malcontento fra i feudatari i quali, nel 1258, riuscirono ad ottenere da Enrico III l’emanazione delle Provisions of Oxford con l’intento di arginare questo fenomeno e vietare la creazione di nuovi

writs, fissandone quello che doveva essere un incontrovertibile numerus clausus. Successivamente, con lo Statute of Westmister II,

(9) Attività efficacemente definita da T.F.T. PLUCKNETT come “the common

law side of Chancery”, in A concise History of the Common Law, Boston, 1956,

(12)

13 tale divieto fu mitigato: potevano essere emessi nuovi writs ma solo per dirimere casi che fossero simili a casi precedenti già risolti (c.d.

writs “in consimili casu” o “on the case” ).

L’aspra reazione dei potentati locali ed i due provvedimenti che ne conseguirono non sortirono l’effetto sperato dai loro fautori ma anzi, nella terza fase della storia del diritto inglese, ossia nel periodo compreso tra l’inizio della dinastia dei Tudor (1485) ed i Judicatures

Acts (1873-75)(10), la “giustizia del Re” raggiunse il suo massimo

sviluppo; verso la fine del XIV secolo il Lord Chancellor, segretario e cappellano del Re, fu ufficialmente delegato ad occuparsi delle numerose petizioni dei sudditi.

La giurisdizione di equity (del Cancelliere) da quel momento in poi fu inesorabilmente destinata a perdere le originali sembianze di eccezionale privilegio e a progredire, superando ostilità e resistenze dei common lawyers, fino a diventare peculiare tassello nel codice genetico dell’ordinamento giudiziario e giuridico inglese.

Il Cancelliere, primo magistrato del paese, che deliberava seguendo le norme giuridiche – ma soprattutto quelle etiche e di coscienza – fu un ecclesiastico fino al 1529 dopodiché il ruolo fu assunto da un laico(11), scelto nella rosa dei più grandi giureconsulti del regno. I giureconsulti fecero dell’equity un vero e proprio apparato – ancorché inizialmente asistematico – di diritto giurisprudenziale (case law), basato non più solo sul concetto di giusto ed ingiusto secondo coscienza ma soprattutto su quel patrimonio distillato di principi ricavati e ricavabili dai precedenti

giudiziari.

(10) Terza fase della storia del diritto inglese.

(11) Causa di tale scollatura fu il crescente dissidio tra Enrico VIII e Papa Clemente VII, dovuto al rifiuto di quest’ultimo di annullare il matrimonio del Re con Caterina di Aragona, che culminò nell’Atto di Supremazia del 1534 (atto che diede inizio al processo di formazione di una Chiesa Anglicana “separata”).

(13)

14 Cheshire spiega che la giurisdizione del Cancelliere, dotato di forti poteri inquisitori, aveva la caratteristica (caratteristica che fu la causa principale della sua fortuna) di essere giurisdizione in

personam: il Cancelliere agiva personalmente contro il convenuto

emanando per l’attore un apposito writ sub poena, egli quindi chiamava in giudizio la controparte che doveva costituirsi – pena il pagamento di un’ingente somma di sterline – e sottoporsi, dopo aver prestato giuramento, ad un esame viva voce per difendersi puntualmente dalle accuse.

L’equity agiva in personam(12

): il Cancelliere, che in esito al processo emanava un decreto favorevole all’attore, aveva il potere di trattenere in prigione il convenuto soccombente – qualora disertasse l’ordine imposto dalla sua statuizione decisoria – poiché questi, non adempiendo, commetteva un grave atto di dispregio nei confronti della Corte (contempt of court). La procedura in equity, denominata

“bill procedure” (dal nome dell’atto introduttivo del giudizio,

appunto, una petizione), era estremamente sommaria proprio per rispondere alle esigenze per cui era nata e si era sviluppata: fornire una tutela effettiva, caso per caso.

Ecco perché si può parlare di un “sistema dell’equity” (13), indipendente e separato sia dalla statute law che dalla common law

strictu sensu, solo nel XVII secolo con l’avvento della dinastia degli

Stuart; ancor più corretto sarebbe parlare – non già di sistema – bensì di un lungo processo di sistematizzazione dell’equity che passerà

(12) “Equity acts in personam”, questa massima si trova in Snell’s Equity, a cura di P.V. BAKER-P.ST.J. LANGAN, Londra, 1990.

(13) “It is in the period from the Restoration in 1660 down to the beginning of the eighteenth century that equity finally achieves its new form of a consistent and definite body of rules (..); in short, equity is now, for pratical purposes, a body of law which can only be defined as the law which was administered by the chancellors. (..) The change occurs soon after the Restoration, and we can see it in watching the growth of the principle of precedent in Chancery.” Così T.F.T. PLUCKNETT, cit., 692.

(14)

15 attraverso la Restaurazione fino alle gradi riforme giudiziarie del 1800. La nota regola del “precedente vincolante” (c.d. leading case) – valevole anche per la common law – trovò qui, nel succedersi e dispiegarsi di questi anni, la sua piena affermazione e consacrazione.

“Una glossa(14

) apposta alla common law”, così Cheshire definisce l’equity nella sua prolusione invitando ad immaginare la

common law come un sistema di diritto di fonte giurisprudenziale,

non scritto e completo, di cui l’equity rappresenta l’integrazione ed il complemento laddove questo, così formale e rigido, non riesca a soddisfare le cangianti e sempre nuove istanze del caso concreto, della giustizia – per così dire – naturale(15).

Si racconta, addirittura, che nel 1616 per dirimere una accesa querelle sorta tra il lord Chancellor Ellesmere e il Chief Justice Coke, Giacomo I si espresse sancendo la supremazia, in caso di conflitto, dell’equity rispetto alla common law poiché solo la prima poteva dirsi squisita espressione del potere assoluto ed insuperabile del Re(16).

L’equity è giunta a tre importanti risultati: ha innovato rispetto alla common law, regolando istituti ben noti ed invalsi nella prassi ma non contemplati nel corpus del diritto (ad es., il trust); ha apportato modifiche ampliando l’ambito di operatività della common

law, elaborando ed arricchendo il significato di istituti già esitenti (

ad es., la frode); ha creato e plasmato nuovi rimedi e garanzie, per

(14) “Equity follows tha law” è una delle principali massime dell’equity, il cui verbo “follows” viene tradotto da M. Lupoi con “imita” a ben indicare che l’equity non si è radicata e posta come sistema antagonista rispetto a quello di common law (nell’accezione più ampia di statute e case law), bensì come una sua “appendice” giustificata da ragioni etiche di giustizia e di equità.

(15) G.C. CHESHIRE, cit., 9.

(15)

16 rendere effettiva ed efficace la tutela di ogni situazione giuridica(17) (ad es., adempimento specifico: decree of specific performance, ed ingiunzione: injunction).

Fino al 1873 equity e common law, venivano amministrate da tribunali distinti, Corti di Chancery e Corti di Common Law (o di Westmister, che dir si voglia): con il Judicature Act di quell’anno, il primo di una serie di Acts successivi emanati nel segno di una forte ondata di riforme giudiziarie e procedurali, tali organi furono aboliti e fu disegnata una nuova organizzazione giudiziaria; ogni tribunale doveva applicare indistintamente equity e common law e, nel conflitto tra norme, dare prevalenza alla norma di equity.

2.3 Dallo “use of lands” al Trust

“Il Trust può considerarsi come uno dei prodotti più originali, se non forse il frutto più significativo, di quella peculiare fonte del diritto inglese, ignota ai sistemi continentali, che è l’equity”(18).

Già prima della conquista normanna esisteva la prassi di porre la terra “in use” cioè di attribuire per alcune ragioni la terra ad un soggetto X, a beneficio – per l’uso – del trasferente, con l’obiettivo di perseguire determinati scopi(19); con l’avvento del feudalesimo questo fenomeno assunse portata dilagante.

(17) “Equity will not suffer a wrong to be without a remedy”, in P.V. BAKER-P.ST.J. LANGAN (a cura di), cit..

(18) V. SALVATORE, Il Trust, profili di diritto internazionale e comparato, Padova, 1996, 3 ss.

(19) Provvedere all’amministrazione-gestione o trasferimento di un immobile anche in assenza del primo proprietario, consentire ad alcuni ordini religiosi di godere indirettamente dei frutti di lasciti e donazioni, frodare i creditori, o più semplicemente privare il lord sovraordinato nella scala feudale (che per i feudatari gerarchicamente più elevati era il Re) dei versamenti che gli erano dovuti in caso di devoluzione ereditaria .

(16)

17 Il diritto feudale poneva ed imponeva ai proprietari terrieri (tenants of land) notevoli limiti e gravami (incidents of tenure) in favore del lord: imposte, vincoli alla libertà di disporre delle terre, restrizioni che, oltre ad opprimere il proprietario, toglievano valore a quella che era la fonte principale di ricchezza del tempo(20).

Il sovrano cedeva la terra in concessione a feudatari (tenants in

chief), costituendo con loro un rapporto avente duplice natura: reale

(diritto sulla terra e giurisdizione) e personale (obbligo di fedeltà suggellato nel giuramento di allegiance), fedeltà alla quale erano parimenti tenuti anche eventuali tenants inferiori, cioè coloro a cui il

tenant in chief poteva a sua volta assegnare porzioni di terra (c.d.

sistema di vassallaggio).

Emergono, a determinare sotto il profilo reale il regime giuridico del feudo, i concetti di tenure, di estate e di seisin.

Con la tenure il sovrano attribuiva diritti e al contempo determinava le condizioni e gli obblighi del concessionario: tali vincoli potevano essere di natura militare, economica, personale, religiosa (free tenures) e, qualora la concessione fosse precaria, essi erano del tutto rimessi alla discrezione del lord (unfree tenures).

L’estate(21

) aveva ad oggetto la durata della concessione che poteva essere indeterminata (freehold estate) e trasmissibile agli eredi, o determinata, quindi a termine, assimilabile ad un contratto di locazione con conseguente corresponsione di un canone (detto

(20) Nel sistema feudale unico ed assoluto proprietario di tutti i beni immobili era il Re, per cui il diritto di proprietà su questi poteva configurare in capo a lui solo: i feudatari erano meri “tenutari” della terra per graziosa concessione sovrana. Con il termine Gewere si indicava sia il rapporto fra il concessionario e la terra, sia l’atto di concessione (titolo giustificativo del rapporto).

(21) Una delle peculiarità del diritto anglosassone è tuttora quella di distinguere i diritti reali sui beni immobili, non in base al loro contenuto, ma in base alla durata dell’interesse sul bene (teoria degli estates), per cui, la titolarità del bene può essere attribuita: a tempo indeterminato (fee simple), per la durata della vita del suo titolare (life estate) e/o dei suoi discendenti in linea retta (fee tail).

(17)

18

leasehold). L’estate poteva essere vested o contingent: cioè

riguardante un diritto effettivo e soggettivo su un determinato bene, oppure una mera aspettativa. Tenure ed estate concorrevano a configurare quello che era l’interest in land, la posizione giuridica di colui che deteneva la terra.

La seisin, corrispondente alla Gewere di diritto germanico, indicava il peculiare diritto di godimento discendente dalla concessione feudale, essa non coincideva né con il mero possesso né con il semplice diritto di trarre frutti o vantaggi economici dalla res.

Il tenant non poteva disporre per testamento delle sue terre(22), l’erede delle terra doveva pagare all’overlord come privilegio della successione un importo (feudal dues) pari alla rendita di un anno e, se fosse stato un minore, non lui ma il suo lord tutore avrebbe potuto percepire i frutti del patrimonio e persino combinare le nozze del pupillo dietro pagamento di una cospicua somma di denaro.

A suggerire ai nobili un modo per eludere questi oneri furono i frati francescani: questi, giunti missionari in Inghilterra agli inizi del XIII secolo, non potendo – in ossequio all’assoluta povertà cui erano votati – essere possessori di alcuna ricchezza ma avendo comunque necessità di assicurarsi fonti di sostentamento, erano soliti trasferire le donazioni dei loro benefattori in mano a privati che le amministrassero in loro favore, per loro conto (o meglio, “ad opus” dei frati)(23).

Cheshire offre di questa pratica sia una ricostruzione storica che filologica, non tralasciando di tracciare lo sviluppo etimolgico del

(22) Determinante fu il fatto che, appunto, fino al XVI secolo non fu ammesso il

will of freeholds, cioè la possibilità di disporre per testamento di un immobile in freehold.

(23) Un manoscritto conservato ad Oxford attesta questa prassi: “Ricardus

Muliner contulit aream et domum communitati villae Oxoniae ad opus fratrum”,

come riporta F.W. MAITLAND, L’Equità (trad.it. di Equity. A course of lectures, Cambridge 1969), Milano, 1979, 34.

(18)

19 termine “use”: opus si trasformò nel francese antico in oes, poi ues, da cui l’anglismo use(24

).

Quando i latifondisti compresero l’utilità di tale espediente iniziarono a frequentarlo, per aggirare la gravosa e stringente normativa in materia di proprietà a cui erano costretti dal rigido regime feudale: A (feoffer) trasferiva la proprietà immobiliare (legal

estate) a B (feoffee to use), per l’uso dello stesso A.

Posto che tra A e B ci fosse uno specifico accordo in tal senso ed appurato che, in capo a B, avvenisse un vero e proprio trasferimento di proprietà: in che modo potevano essere tutelate la volontà e le disposizioni di A sull’uso dei beni, dal momento che A per la

common law non era più proprietario e – quindi – non aveva alcun

rimedio giudiziale per costringere B a rispettare le sue indicazioni? La common law non riconosceva né le obbligazioni fiduciarie né la causa fiduciaria e concedeva uno spazio del tutto irrisorio alle obbligazioni ex contractu, dava però pieno valore al trasferimento della proprietà tra settlor e trustee.

Di tutelare la buona fede del feoffer(25) si occupò allora – fin dal XV secolo – il Cancelliere, difensore dei principi di giustizia naturale non ancora assistiti da un writs, attraverso i suoi rimedi in equity: a fronte delle numerose petizioni egli diede protezione giuridica allo

use, senza urtare contro il diritto di proprietà del fiduciario coperto

dalle garanzie della common law. I desideri e le istruzioni che il trasferente impartiva in sede pattizia dovevano acquisire la forza cogente di vere e proprie obbligazioni, vincolanti ed invalicabili per

(24) “Use: (...) 10. In law, (a) the enjoyment of property, as from occupying,

employing or exercising it; (b) (influenced by Old French “ ues”, from Latin

“opus”) profit, benefit or advantage, especially that of lands and tenements held in

trust by another”. Vc. Use, in Webster New Universal Unabridged Dictionary,

1983, 2102.

(25) Il negozio di trasferimento della proprietà dell’immobile si chiamava

(19)

20 il fiduciario: era l’uso a favore e secondo i dettami del disponente che doveva essere assicurato e corredato, contro eventuali violazioni(26), di appropriati presidi processuali di tipo esecutivo (executed).

Da qui ebbe origine il concetto dualistico – tipicamente anglosassone – di proprietà: proprietà legale e proprietà equitativa (legal estate ed equitable estate). La proprietà legale, protetta e disciplinata dalla common law, era quella che il disponente cedeva validamente tramite idoneo atto di trasferimento (conveyance) al fiduciario, che diveniva perciò proprietario – appunto – legale dei beni.

Il feoffer era invece il proprietario “equitativo”, le cui volontà rispetto all’uso dei beni ceduti trovavano protezione giuridica nell’equity del Cancelliere.

Questo sdoppiamento del concetto di proprietà rappresenta un unicum nella storia del diritto e non trova eguali nella tradizione giuridica romanistica, la sua origine è piuttosto da ricercare nel germanico Salmann o Treuhaender, cioè colui a cui i Germani – con atto solenne detto sala – solevano cedere la proprietà affinché venisse utilizzata secondo le direttive del trasferente.

Attraverso atti di trasferimento della proprietà inter vivos ad uno o più proprietari di common law, il dante causa riusciva ad eludere – come sopra detto – i divieti ed i doveri feudali: egli, senza disporre formalmente testamento, forniva ai suoi fiduciari direttive sul modo di gestire le res loro cedute così, al momento della sua morte, i debiti

(26) L’obbligazione del feoffee finì per essere considerata vincolante anche per i suoi eredi, il vincolo stesso discendente dallo use fu ritenuto opponibile ad ogni eventuale terzo acquirente delle res, fatta eccezione per l’acquirente a titolo oneroso ed in buona fede, cioè senza conoscenza attuale o presunta dell’esistenza dello use (il c.d. purchaser for value without notice of the use).

(20)

21 successori – secondo la common law non esigibili finché non fossero venuti meno tutti i proprietari – rimanevano insoluti(27).

Nel 1535, giacché la diffusione di questo fenomeno andava causando seri danni alle casse dei vassalli e soprattutto del sovrano, con lo Statute of Uses Re Enrico VIII abolì – nei suoi intendimenti in modo assoluto e definitivo – gli usi. Con lo Statute cambiava radicalmente la posizione giuridica del feoffee to use poiché, non essendo più possibile ricorrere allo use, qualunque negozio traslativo della proprietà nei suoi confronti, tamquam non esset, era di per sé inidoneo a conferirgli la titolarità del diritto: unico proprietario legale delle res per l’ordinamento era e rimaneva il primo proprietario.

I tenants of lands, tutt’altro che propensi ad onorare il perentorio divieto, dopo quasi un secolo dall’abolizione degli usi trovarono, grazie all’opera ingegnosa degli interpreti del diritto, un efficace – e per noi felice – escamotage.

Nacque lo “use upon use” e, dallo use, il nostro Trust.

I beni – adesso – venivano trasferiti a B “per l’uso di A, per l’uso di C”; in questo modo B era investito della proprietà sostanziale, legale, dei beni e – non più A! – ma C, il beneficiario finale, ne diveniva proprietario equitativo o formale.

Nel 1634 nel risolvere il caso Sambach vs Dalston il Cancelliere reintroducendo il concetto di equitable estate, distinta da quella legale, restituì vigore e riabilitò giuridicamente la prassi dello use con una configurazione nuova (non solo dal punto di vista

(27) Era particolarmente utile trasferire l’estate a più feoffees in qualità di joint

tenants; per il right of survivorship alla morte di uno dei tenants il suo estate non si

trasmetteva per via ereditaria ma andava ad accrescere quello dei tenants superstiti: era sufficiente che questi avessero l’accorgimento di ripristinare ogni volta la pluralità dei feoffees, rimpiazzando con un nuovo soggetto quello venuto meno. Inoltre, avere più “amministratori” riduceva il pericolo di una gestione arbitraria dei beni, poiché essi erano tenuti ad agire collettivamente. Ultimo ma non ultimo vantaggio, i proventi pecuniari sarebbero stati fruibili per il lord solo in caso di decesso collettivo o felony collettiva.

(21)

22 strutturale): nell’atto di trasferimento la formula “all’uso di A,

all’uso di C” fu sostituita inserendo la dicitura “ a e per l’uso di B, in trust per C”.

Diventava indispensabile – a fronte del patto (trust deed) disciplinato dalla legge – riconoscere in capo al terzo beneficiario, titolare di un equitable interest, una posizione soggettiva attiva che gli consentisse di difendersi in via equitativa da un eventuale inadempimento di B.

Il neonato Trust, confondendosi originariamente con lo use, ebbe ad oggetto solo immobili che, ad esempio in occasione della partenza per una crociata, mediante vendita o donazione venivano costituiti in

trust e trasferiti dal proprietario (settlor) ad un soggetto di fiducia

(trustee), con l’obbligo per quest’ultimo di conservare ed amministrare il cespite di beni e di ritrasferirlo alla persona designata (beneficiary o – arcaico – cestui que trust), nel nostro esempio l’erede legittimo del disponente qualora quest’ultimo non avesse fatto ritorno.

Da questo momento in poi il secondo use fu sempre definito “trust”, gli acquirenti in base allo Statute of Uses divenivano – all’atto di trasferimento della trust property – titolari (legittimati da un legal title, quindi owners at law) della proprietà legale dei beni e al contempo fiduciari (trustees, appunto) di C, proprietario (owner at

equity) del c.d. trust (equitable) estate, protetto dall’equity del

Cancelliere.

I giudici di equity non ragionarono in termini di rapporto obbligatorio ma, vista la scarsa rilevanza di tale categoria nel diritto inglese, attinsero a piene mani dalla law of property modellando sul beneficiario una tutela sostanzialmente reipersecutoria.

La nostra indagine si è spinta sino agli albori del Trust non per mero interesse antiquario, ma per comprenderne a fondo la natura e l’essenza: si tratta infatti di un istituto giuridico emblematico, come

(22)

23 dicevamo nella nostra premessa, la cui storia è completamente immersa nella storia del diritto inglese e ad essa intrecciata.

Il Trust, che ha ereditato dallo use la struttura di fondo, con il tempo è andato evolvendosi dimostrando la sua estrema versatilità ed ampia possibilità di utilizzo, ha assunto forme e finalità capaci di assecondare negli anni le mutevoli necessità del contesto socio-economico.

Alla Court of Chancery, nel suo progressivo e tenace sviluppo attraverso vicende e stagioni spesso avverse, si deve “l’invenzione” – per dirla con Maitland – e la diffusione del Trust: la sua giurisdizione secolare, autonoma e parallela ma complementare rispetto a quella delle corti di common law, andò vieppiù assumendo le caratteristiche e lo scopo precipuo di colmare le lacune e temperare il rigore del diritto “positivo” (28

), ora integrando ora innovando.

(23)

24 SEZIONE II: LA DISCIPLINA

3. Il Trust negli ordinamenti di common law

3.1 Il significato di Trust

Prima di inoltrarci nella disamina della struttura giuridica del

Trust, concediamo alloggio a qualche nota di ordine etimologico e

definitorio.

Il vocabolo inglese trust significa fiducia e deriva dall’antico scandinavo traust, trova poi corrispondenza semantica sia nei vocaboli inglesi trow (credere) e true (vero) che nell’olandese

troosten e nel tedesco trost (consolare, conforto).

Il trust, oltre ad essere un istituto segnato da un’indiscutibile poliedricità elettiva, che – in nuce – fin dagli albori è riuscita a determinarne positivamente le sorti, ha un nomen quanto mai appropriato perché dotato di pregnanti sfaccettature polisemiche:

- trust è l’affidamento che contraddistingue il rapporto (to entrust);

- è il vincolo gravante sui beni (trust fund o trust property); - permea il contenuto dell’obbligazione assunta dal trustee, richiamandolo a lealtà e correttezza nell’adempimento dei compiti affidatigli (“to hold in trust for”);

- indica non solo la fonte ma anche il complesso di tutte le posizioni giuridiche che da esso scaturiscono(29).

Secondo l’Oxford Dictionary of Law, 4th Ed., Oxford 1997, il

Trust è “an arrangement in which a settlor transfers property to one or more trustees, who will hold it for the benefit of one or more

(29) Sul tema M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei Trust e degli Affidamenti

(24)

25

persons (the beneficiaries or cestuis que trust, who may include the trustee(s) or the settlor) who are entitled to enforce the trust, if necessary by action in Court. The trust, recognized originally in Chancery, is based on confidence and developed from the use; it has been described as the most important contribution of English equity to jurisprudence. The beneficiary has rights against the trustee and may also have rights over the property in the hands of others”.

Più avanti scopriremo che questa definizione, che adesso è conveniente utilizzare a fini didascalici, non è del tutto esauriente e non può valere per tutti i tipi di trust.

Urgono alcune importanti precisazioni: si è soliti indicare il soggetto che istituisce il trust indifferentemente come settlor o come disponente poiché, come fa notare il Lupoi(30), il settlor è colui che pone in essere non un generico trust ma un settlement, cioè un particolare tipo di trust avente come oggetto patrimoni in origine solo immobiliari, destinati a più beneficiari in successione.

Riguardo all’attributo di “fiduciario” con riferimento al feoffee to

use prima, ed al trustee poi, è necessario puntualizzare e chiarire che

tale qualificazione non deve erroneamente condurre ad assimilare la figura del trust a quella del negozio fiduciario di diritto civile.

La fattispecie costitutiva del trust si compone di due rapporti: uno fra il disponente ed il trustee ed uno tra il trustee ed il beneficiario del trust fund, il primo regolato e tutelato at law e l’altro in equity.

Ripercorrendo per tappe concettuali la definizione dell’Oxford Dictionary of Law: “(…) a settlor transfers property to one or more

trustees”, un disponente trasferisce <con atto mortis causa o inter vivos, revocabile o irrevocabile> la proprietà ad uno o più trustees;

abbiamo dunque un negozio traslativo della proprietà legale dei beni

(25)

26 il cui fulcro è la buona fede-la fiducia-l’affidamento (con-fidence) del disponente, e la conseguente legittimazione per il trustee ad amministrare il trust fund attenendosi a regole predefinite.

Il disponente, a seguito della costituzione in trust dei beni e del loro trasferimento(31), viene a perderne sia la titolarità che il controllo essendo un altro il soggetto al quale è demandato di conseguire le finalità consacrate nell’atto istitutivo.

Del trustee è detto: “(...) who will hold it for the benefit of one or

more persons”, quindi, il suo è un diritto di proprietà legale non del

tutto assoluto ed esclusivo ma “affetto da un vincolo opponibile alla generalità dei consociati”(32

); egli ha il compito di utilizzare i beni del trust estate con discrezionalità non piena ma nell’interesse, e per il vantaggio, di uno o più beneficiari ovvero per il raggiungimento di uno scopo.

La condotta del trustee deve essere valutata da un lato in rapporto della conformità alle disposizioni del costituente, così come concretizzate nel trust deed, dall’altro secondo i parametri di diligenza, prudenza e perizia da lui esigibili sulla base della sua qualificazione professionale. Se è vero che inizialmente il trustee poteva essere scelto perché parente, persona fidata, integerrima, saggia, capace, nel corso degli anni il ruolo del trustee è stato sempre più spesso affidato e ricoperto da professionisti esperti nell’attività di gestione richiesta (Trust Companies, Fiduciarie, ecc.).

(31) Occorre precisare che una cosa è l’atto dispositivo che realizza il trasferimento, altra è l’atto (unilaterale) istituivo del trust (trust deed o trust

instrument), precedente o contestuale ma funzionalmente connesso al primo, che

contiene le direttive che dovranno essere seguite dal trustee per la gestione dei beni. Il termine deed fa riferimento ad una specifica modalità formale di redazione dell’atto: nel diritto inglese il deed è munito di sigillo e sottoscritto in forma privata, davanti a testimoni che sottoscrivono a loro volta.

(32) A meno che non si tratti di un self-declared trust, in cui si assomma nella persona del disponente anche la qualitas di trustee. S. BARTOLI, cit., 87.

(26)

27 In tutti i Paesi è ormai diventata prassi diffusa adoperare accorgimenti giuridici che consentano al disponente di esercitare un controllo successivo al conferimento, anche se indiretto, sull’operato del gestore. Sempre più spesso si ricorre alla nomina di uno o più

protectors (“guardiani”), previsti da parte del disponente all’atto di

costituzione del trust, con la funzione di controllare l’operato del

trustee e di influenzarne le scelte di gestione. Anche se poco

consigliabile, lo stesso disponente può ricoprire il ruolo di protector; la figura del protector, seppur poco frequentata dalle fonti, quando presente è munita di poteri piuttosto incisivi.

Quanto trasferito al trustee diventa oggetto di un patrimonio destinato e segregato, cioè separato dal patrimonio personale dell’acquirente: il trust fund(33

) non può rappresentare una garanzia patrimoniale per le obbligazioni contratte dal disponente, dal beneficiario o dallo stesso trustee, e derivanti da rapporti ed attività che esulino dalla gestione di esso.

Il trust fund non può essere aggredito dai creditori personali dei tre soggetti di cui sopra. I beni in trust risultano quindi efficacemente sottoposti ad un vincolo di destinazione (destinati, cioè, al raggiungimento dello scopo prefissato dal disponente nell'atto istitutivo) e ad un ulteriore vincolo di separazione (poiché giuridicamente separati sia dal patrimonio residuo del disponente sia da quello del trustee). I beni in trust sono, secondo una terminologia anglosassone, earmarking cioè "marchiati" affinché non si confondano con quelli delle altre parti citate(34).

(33) Il fund, dal latino fundus, è un’universalità di cose ed è questa – non i singoli beni che la compongono – ad essere oggetto della disciplina del trust deed.

(34) Si rammenta che il trust, proprio per gli effetti immediati che esso produce, non può esistere senza attuale proprietà ed i beni futuri non possono esserne oggetto.

(27)

28 Lo schema elementare e la definizione su cui abbiamo imperniato fino a qui la nostra trattazione non possono assurgere, come accennato, a modello per tutti i tipi di trust esistenti.

In primo luogo l’Oxford Dictionary of Law ci mette di fronte ad un trust di matrice squisitamente negoziale: dobbiamo tener presente che non tutti i trust sono istituiti a partire da una manifesta volontà del disponente (c.d. trust espressamente istituiti), esistono infatti dei

trust la cui fonte costitutiva non è una dichiarazione di volontà o non

è una dichiarazione espressa.

Inoltre, la configurazione sopra riportata fa riferimento ad un

trust “dinamico”, cioè caratterizzato dalla presenza del negozio

traslativo della proprietà dal disponente al trustee, ma potrebbe anche verificarsi il caso in cui disponente e trustee siano la stessa persona (trust “statico”), cioè il titolare del bene si faccia anche trustee dello stesso(35). Il disponente può addirittura rivestire al contempo il ruolo di trustee e di beneficiary, nel caso in cui egli non sia l’unico beneficiario ma vi siano più beneficiari, assommando su di sé i tre ruoli che abbiamo considerato. Un disponente può senz’altro essere beneficiario ma, quando sia anche trustee, non può essere unico beneficiario: ciò che non deve verificarsi è la perfetta confusione nello stesso soggetto della posizione di trustee e di beneficiario.

L’oggetto del trust, solo inizialmente coincidente con quello dello use, si è notevolmente ampliato: oltre all’estate in land possono essere oggi attribuiti in trust beni e diritti, purché specificatamente individuati, persino diritti di credito (in particolare titoli azionari) o meri equitable interests. La trust property(36), sebbene “separata” e

(35) Non solo: possono verificarsi anche ipotesi in cui il trust sia in parte statico ed in parte dinamico, laddove il disponente si dichiari in prima persona trustee di una certa quota di beni e trasferisca un’altra quota ad un ulteriore trustee.

(36) Property sta ad indicare sia il diritto che il suo oggetto, il termine

(28)

29 non suscettibile di confondersi con il resto del patrimonio, ha trovato e trova ancora difficoltà ad essere riconosciuta – soprattutto negli ordinamenti di common law – come dotata di autonoma personalità giuridica: qualunque responsabilità nella gestione del trust è da imputarsi unicamente alle persone fisiche o giuridiche in esso implicate, non al trust come autonomo ente-soggetto di diritto.

Il giurista di civil law, seppur perplesso, non può far altro che prenderne atto: l’impossibilità di attribuire al trust fund soggettività giuridica è senz’altro uno degli atteggiamenti più singolari e stravaganti degli ordinamenti di common law.

Continuiamo ad immaginare il trust come una semplice struttura trilaterale e veniamo ora ad osservarlo da quella che è l’angolazione che richiede, per essere ben raffigurata, una particolare acribia: quella del beneficiario(37) e della sua situazione giuridica.

“(…) Beneficiaries (…) are entitled to enforce the trust, if

necessary by action in Court. The trust, recognized originally in Chancery, is based on confidence and developed from the use; it has been described as the most important contribution of English equity to jurisprudence. The beneficiary has rights against the trustee and may also have rights over the property in the hands of others”.

Il beneficiario acquista la proprietà equitativa del patrimonio, il suo diritto sui beni del trust estate è opponibile e suscettibile (enforceable) di esecuzione coattiva contro le violazioni del trustee e dei terzi.

Soffermiamoci sul diritto del beneficiario: qual è la natura giuridica di tale diritto? L’equitable estate conferisce uno jus in rem (al pari del dominium) o uno jus in personam (al pari di una

(37) Il beneficiario non deve essere ritenuto parte indefettibile del trust; i

charitable trust – ad esempio – sono privi di beneficiario, o meglio, hanno un

beneficiario indeterminato o determinabile solo al verificarsi di talune condizioni. Beneficiario del trust può essere lo stesso trustee purché vi siano, oltre a lui, altri beneficiari.

(29)

30

obligatio)? Più avanti entreremo nel merito di tale saliente questione,

rimarcandone i profili critici e dando conto delle risposte e delle considerazioni dei filoni dottrinali maggioritari.

4. Il contenuto del Trust: soggetti ed oggetto

In Knight vs Knight del 1840 è scolpita una regola paradigmatica per la corretta costituzione di un trust, la cosiddetta regola delle “tre certezze”: elementi indefettibili nell’atto istitutivo di un express trust sono la certezza dell’intenzione (di dar vita ad un trust), la certezza

dei beni, la certezza dei beneficiari(38).

Con riguardo alla prima delle tre certezze, la certainty of

intention, lo studioso si troverà calato in uno scenario ricco di spunti

di approfondimento e di riflessione.

Il primo requisito fa da corollario ad una massima di equity che ammonisce: “Equity reguards to the intent rather than the form”; da ciò si deduce che un trust può essere creato anche senza pronunciare o inserire (se si tratta di un atto scritto) la parola trust, ma anche che non sarà sufficiente riferirsi espressamente alla parola trust per costituirne validamente uno. In Inghilterra si possono avere trusts contenuti in un atto, costituiti oralmente o per fatti concludenti, non sono previste forme di pubblicità dell’esistenza di un vincolo su beni o diritti: è comprensibile che in un contesto del genere, in assenza di una stretta disciplina che riguardi la forma (e la pubblicità) degli atti, alla prima certezza sia dato notevole rilievo.

Dopo aver istituito il trust – ed averlo trasferito ed affidato al

trustee – il disponente, se non anche beneficiario o gestore (quando

(38) La sentenza recita: “There can be not trust unless there is certainty in

respect of the intention to create a trust, and in respect of the property which is the subject matter of the trust, and (charitable trusts apart) in respect of the beneficiaries. These are the three certainties”.

(30)

31 consentito), esce di scena: non gli spettano perciò quei diritti di controllo o quei rimedi contro l’inadempimento del trustee che – invece – sono allocati presso i beneficiari. La volontà del settlor tuttavia “governs the meaning of trust” (39

), è per questo che gli è data la facoltà sia di riservarsi alcuni poteri (reserved powers), sia di instaurare un rapporto di consultazione permanente con il trustee, nel rispetto dell’affidamento riposto e del ruolo di quest’ultimo(40

). Il rapporto tra disponente e trustee non è così lineare ed imperturbabile come sembra: esiste, in realtà, una recentissima giurisprudenza la quale ha dimostrato che anche questa relazione può incorrere in patologiche e perniciose mutazioni.

Quando il conferimento in trust è tale solo in apparenza, quindi non è effettivo, ha luogo una versione fraudolenta del nostro istituto il quale dovrà essere dichiarato nullo (void). Un trust simulato è denominato sham trust, come recita il passaggio di una storica

sentenza della Court of Appeal del 16.01.67’ (che, a dire il vero, non

si occupava di un trust bensì di un contratto): “Può essere dichiarato

sham, e quindi nullo, l’atto o il documento che le parti abbiano compiuto o sottoscritto con il comune intento di ingenerare nei terzi il convincimento che esse desiderassero creare un particolare diritto o obbligo, intendendo in realtà farne sorgere uno differente”.

Nella versione patologica il disponente può essere mosso a tale pratica simulatoria(41) per la convenienza di non apparire all’esterno

(39) J. H. LANGBEIN, The Contractarian Basis of The Law of Trust, Yale L. Journ. 627, 1995.

(40) Negli Stati Uniti – raramente in Inghilterra – il disponente può mantenere su di sé il potere, fra gli altri, di modificare i beneficiari o di revocare il trust; tale tipologia di trust, revocabile, è denominata living trust. Solo lo Stato di Malta riconosce in capo al disponente un diritto proprio di informazione.

(41) Il concetto di simulazione, si noti, non è perfettamente coincidente con quello nostrano (art. 1414 c.c.): il legislatore italiano non stigmatizza aprioristicamente l’istituto, ne regola bensì gli effetti con particolare riguardo alla tutela dei terzi in buona fede.

(31)

32 come proprietario dei beni, pur essendo in concreto lui stesso l’unico beneficiario finale, oppure per la decisione di conservare per sé un consistente fascio di poteri direttivi sul trust (svolgendo – di fatto – anche la funzione di trustee).

Due sentenze successive, una dell’11.07.2003 della High Court of Justice-Chancery Division ed una del 19.05.2005 Family Division della stessa Court, ci fanno capire che il trust c.d. sham in Inghilterra (e non solo!) non è ancora univocamente inquadrato(42): secondo la prima delle due pronunce, perché possa dirsi integrato, è sufficiente lo stato d’animo soggettivo del disponente senza la connivenza del

trustee, mentre, secondo l’altra, lo sham deve avvantaggiarsi

quantomeno dell’acquiescenza del trustee.

Occupiamoci della seconda certezza: la certainty of subject

matter.

Il trust fund, quand’anche costituito da un solo bene, è da considerarsi un patrimonio a tutti gli effetti: gli incrementi, o le eventuali modificazioni, che lo interessino devono ascriversi ad esso.

Il fondo in trust segue le regole della comunione di diritto germanico (detta, per differenziarla da quella di diritto romano, comunione “senza quote” o “per mano comune”), pertanto – ad esempio – qualora si aggiunga un trustee egli sarà titolare di un diritto sull’intero, identico a quello degli altri trustees.

Il disponente non è tenuto a trasferire tutto e subito il fund al

trustee, gli è consentito effettuare inizialmente un’attribuzione, anche

(42) Nel Jersey addirittura (e diversamente) è stato decretato elemento costitutivo dello sham la comune intenzione e quindi il dolo, la preordinazione in tal senso, delle parti. Nella legge di Jersey un trust è considerato “sham”, cioè nullo, quando il disponente mantiene il controllo effettivo del fondo e ne dispone come cosa propria.

(32)

33 minima o simbolica, per poi incrementarla(43) in un secondo momento; addirittura se il fondo fosse vuoto il trust non sarebbe invalido ma gli adempimenti del trustee, poiché inattuabili, risulterebbero inesigibili.

Ciò che conta è la determinazione della trust property, indipendentemente dal fatto che essa sia consegnata o meno fin dall’inizio ai trustees(44

).

Ricordiamo che oggetto del trust può essere qualsiasi posizione soggettiva, anche una semplice aspettativa giuridicamente protetta.

Quanto sopra asserito ci consente di comprendere, in primis, la ragione per cui la predisposizione del negozio dispositivo (o dei negozi dispositivi) e del negozio istitutivo del trust non debbano essere necessariamente contestuali ed, ancor più, la peculiare funzione del negozio dispositivo: senza di esso non può realizzarsi l’effettiva segregazione patrimoniale, né la conseguente esigibilità delle obbligazioni del trustee.

La forma del negozio dispositivo è mutuata, ove contestuali, da quella del negozio istitutivo se più solenne.

Il trust cessa quando viene meno il fondo, questo può avvenire nel corso dell’esercizio delle attività del trustee (e – quindi – per sua opera) per la fisiologica ridistribuzione fra i beneficiari, oppure per una sopravvenienza che colpisca il fondo.

La terza certezza riguarda i beneficiari, che possono essere individuati dal disponente per nome, o per semplice categoria o in base ad altri criteri; tale identificazione può aver luogo in un momento successivo rispetto a quello in cui viene costituito il trust.

(43) Un trust può essere incrementato da chiunque vi abbia interesse; a seconda della finalità per cui è predisposto (ad es. nel trust di pubblico interesse chiunque può arricchire il fondo).

(44) A GALLARATI, Trust e Società: analisi economico giuridica, Torino, 2008, 9.

(33)

34 Vista la quantità e la varietà dei casi controversi in quanto a certezza dei beneficiari, ci limiteremo a registrare quella che è una regola generale e di massima, usata dai giudici inglesi per districarsi nella soluzione di tortuose vicende giudiziarie a riguardo: un trust

per beneficiari è sempre nullo qualora, al momento della sua

istituzione e calcolata ogni variabile, non vi sia assoluta certezza (in termini di determinatezza o determinabilità) che l’individuazione dei beneficiari possa avvenire entro – e non oltre – 21 anni dalla morte di una o più persone indicate nell’atto istitutivo.

Si tratta di una regola contro “l’investitura remota”(45

).

I soggetti investiti del diritto di pretendere il fondo (vested

beneficiaries), ed individuati, possono scegliere – se maggiorenni e

capaci – di esercitare il diritto al trasferimento dei beni in trust loro spettante, anche a prescindere dal termine fissato dal disponente, oppure di far proseguire il trust secondo le proprie indicazioni, previa accettazione del trustee.

Le obbligazioni del trustee sono obbligazioni legali, intendendo per legali anche quelle obbligazioni che abbiano come fonte normativa pronunce giudiziarie. Il trustee, in qualità di gestore del patrimonio conferito, è tenuto ad amministrare e disporre dei beni in

trust secondo le istruzioni impartite nell’atto istitutivo; egli esercita

dei poteri che possono essere definiti fiduciari e, qualora lo faccia in modo improprio, incorre in una “fraud on a power”(46

).

Gli atti compiuti con fraud saranno nulli, in quanto privi di quella base legale da cui traggono origine e giustificazione.

(45) C.d. “rule against perpetuities” o, meglio, “rule against remoteness of vesting”. M. LUPOI, Istituzioni del diritto dei Trust…cit., 53-54.

(46) Fraud non ha nulla a che vedere con il concetto di frode, qui fraud sta ad indicare un utilizzo del potere ultroneo o diverso da quello “legalmente” previsto.

(34)

35 Il trustee sarà altresì tenuto al duty of care(47), ad agire cioè con prudenza, perizia e diligenza nella gestione dei beni; i fondamentali ed originali criteri di valutazione della condotta del trustee sono l’honesty e la good faith. Altra obbligazione per il trustee è quella di conservare, finché ragionevolmente possibile, l’integrità ed il valore patrimoniale del trust o di incrementarlo; egli assume personalmente nei confronti dei terzi le obbligazioni riguardanti il trust, in ossequio della c.d. “non delegation rule”, a meno che non vi sia una pluralità di trustees nel qual caso, per gli atti compiuti congiuntamente, tutti rispondono in solido.

I beni oggetto del trust devono essere mantenuti segregati dal patrimonio personale del trustee (duty to earmark the trust property

and duty not to commingle), essi pertanto non rientrano nel suo attivo

ereditario, né possono essere reclamati dai suoi creditori personali. Un ruolo preponderante ha il duty of loyalty, che impone al

trustee di astenersi dal compiere atti che perseguano l’interesse

proprio o di altri soggetti (per non cadere in conflitto di interessi); la lealtà, a cui è chiamato il trustee, sottintende e prescrive un’azione imparziale anche con riguardo agli interessi dei beneficiari.

Le scelte gestorie del trustee non possono essere arbitrarie e, soprattutto, dovranno essere trasparenti e ben motivate: egli dovrà opportunamente rendicontare l’attività svolta (duty to be ready with

the trust account, duty to keep records), contemperando il rigore

richiestogli con la libertà di gestione e la discrezionalità che sono da considerare requisiti essenziali del trust in quanto atto squisitamente fiduciario(48).

(47) L’obbligazione generale extracontrattuale di diligenza (duty of care), inserita con il Trustee Act del 2000, è frutto della common law e non dell’equity.

(35)

36 Non di rado nella pratica il disponente manifesta la tendenza ad interferire, poiché considera come ancora suoi i beni conferiti in

trust: il ricorso a letters of wishes (lettere di intenti/desideri) o un ad protector, se non adeguatamente monitorato e dosato, può

trasformare l’ingerenza del disponente in un vero e proprio fenomeno interpositorio.

Il trust ha spesso non uno ma più trustees: le modalità per la loro designazione e sostituzione sono ampiamente discrezionali e devono essere fissate nell’atto istitutivo. Trustees possono essere anche persone giuridiche, anzi, questa è di norma la soluzione preferibile onde evitare gli inconvenienti che potrebbero insorgere al decesso del trustee-persona fisica.

Il ruolo di trustee oggigiorno è – di solito – ricoperto da una persona giuridica che svolge professionalmente tale attività: si tratta delle cosiddette Trust Companies, società che nei Paesi anglosassoni hanno raggiunto una consolidata tradizione ed un’elevata affidabilità nella gestione di patrimoni conferiti in trust; altrettanto di frequente il ruolo di trustee è affidato ad una banca.

Si ha inadempimento del trustee (breach of trust) quando egli violi un’obbligazione che gli deriva dalla legge o dall’atto istitutivo, compiendo attività ultra vires o infra vires. Qualsiasi beneficiario può agire in ristoro (“equitable compensation”) per i pregiudizi arrecati alla trust property dalla “mala gestio” del trustee.

Si parla di ristoro(49) disposto dall’equity – e non di risarcimento del danno – quando l’inadempimento (o il cattivo adempimento) abbia avuto ripercussioni sul trust fund (esempio classico: l’azione per la restituzione del bene sottratto dal trustee dal fondo in trust); si ha invece risarcimento, nella comune accezione, quando il trustee

(49) La determinazione del quantum del ristoro può prescindere dal danno che il fondo o i beneficiari abbiano subito.

(36)

37 cagioni un danno diretto, indipendente ed aggiuntivo, non al fund ma ad uno specifico beneficiario.

4.1 In particolare: situazione giuridica del beneficiario secondo l’ordinamento inglese

Il trustee acquista la proprietà del trust fund “fiduciae causa”(50), con l’obbligo di amministrarla a beneficio del costituente medesimo o di un terzo beneficiario: è proprio il modo in cui il diritto inglese ha scelto di definire e tutelare le aspettative del fiduciante – o del beneficiario – a fare del trust il simbolo della smaccata singolarità, rispetto alle esperienze giuridiche continentali, non già di un istituto bensì di un interno ordinamento.

“I can’t understand your trust, said Gierke(51

) to me”; questa la frase emblematica di Otto von Gierke che Maitland, a seguito di un incontro avuto con il celebre giurista tedesco, riporta nella sua già citata opera su l’Equity.

Non sono due semplici correnti dottrinali a fronteggiarsi in questa sfida interpretativa e di inquadramento sistematico del trust: è solo saggiando per via di comparazione la storia e le peculiarità della

(50) Attenzione: con “fiduciae causa” non si deve intendere la causa del negozio ma la causa dell’attribuzione e, quindi, ciò che giustifica non il trasferimento ma i limiti al potere di disposizione e la responsabilità del fiduciario.

(51) Otto von Gierke (1841-1921) elabora la teoria antindividualistica di un diritto sociale fondata sulla concezione dello Stato come un organismo, anello nella gigantesca catena degli organismi (teoria dell’organicismo o

Genossenshaftstheorie). Lo Stato deve considerare il diritto proveniente dal basso

– dalle formazioni sociali locali – come norma e limite al suo potere sovrano. Il diritto è per Gierke un prodotto della comunità la quale ha una propria vita e una propria coscienza giuridica; una forza interna alla società indipendente dalla forza esterna dello Stato (argomenti che riprendono quelli della scuola storica del diritto). Egli si oppone al positivismo giuridico e chiama diritto naturale il diritto che, espressione della coscienza sociale, precede il diritto positivo poiché strettamente legato alla società. Assertore della “realtà” delle creazioni sociali e della loro soggettività giuridica, dunque, Gierke non può comprendere il trust che è sì una creazione ma – come dicevamo – non dotata per la common law di autonoma personalità giuridica.

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