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Marker di Neuroinfiammazione nella malattia di Alzheimer: studio su tessuto cerebrale umano e su ratti transgenici McGill-R-Thy1-APP

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Cagliari

DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE MORFOLOGICHE

Ciclo XXIII

Settore/i scientifico disciplinari di afferenza

BIO16

Marker di Neuroinfiammazione nella malattia di

Alzheimer: studio su tessuto cerebrale umano e su ratti

transgenici McGill-R-Thy1-APP

Presentata da: Dott.ssa Tiziana Melis

Coordinatore Dottorato: Prof.ssa Veleria Sogos

Tutor: Prof.ssa Marina Del Fiacco

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INDICE

1. INTRODUZIONE ... 7

1.1. La Malattia di Alzheimer

... 7

1.1.1. Epidemiologia

... 7

1.1.2. Cenni Storici

... 8

1.1.3. Caratteristiche morfologiche della patologia ... 9

1.1.4. Fattori di rischio ... 14

1.2.5. Evoluzione della patologia ... 16

1.1.6. Evoluzione clinica

... 17

1.2. Alzheimer e Neuroinfiammazione

... 18

1.2.1. Aspetti generali

... 18

1.2.3. Oligomeri di Aβ e neuroinfiammazione ... 22

1.2.4. La proteina Cluster of Differentiation 40 (CD40) ... 23

1.2.5. La Metalloproteasi di matrice 9 (MMP-9) ... 25

1.2.6. Complesso maggiore di istocompatibilità di classe II (MHCII)

... 26

1.2.7. Stress Ossidativo

... 27

2. RAZIONALE DEL PROGETTO E SCOPO DELLA RICERCA

... 34

3. MATERIALI E METODI ... 37

3.1. CAMPIONI ... 37

3.1.1. Campioni umano ... 37

3.1.2. Campioni di ratto

... 37

3.2. METODI

... 38

3.2.1. Western Blot

... 38

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6

3.2.2. Zimografia

... 39

3.2.3. ELISA

... 39

3.2.4. Iniezioni bilaterali di Aβ nell‟ippocampo ... 40

3.2.5. Preparazione degli oligomeri di Aβ ... 40

3.2.6. Raccolta del liquido cerebrospinale (CSF) ... 40

3.2.7. Zimografia in situ e Immunoistochimica ... 41

3.2.8. Analisi statistica dei dati

... 42

4. RISULTATI

... 43

4.1. CERVELLO UMANO ... 43

4.1.1. MMP-9 ... 43

4.1.2. CD40 ... 48

4.1.3. Complesso maggiore di istocompatibilità di classe ii (MHCII) ... 50

4.1.4. Forma inducibile dell‟enzima no-sintetasi (iNos) ... 53

4.1.5. Interferone gamma (IFNγ) ... 56

4.2. CAMPIONI DI

... 60

4.2.1. MMP-9 nel liquido cerebrospinale ... 60

4.2.2. Espressione di MMP-9 nel CSF di nei ratti transgenici McGill-R-Thy1-APP. ... 61

4.2.3. Immunoistochimica e Zimografia in situ per MMP-9 ... 61

5. DISCUSSIONE

... 63

BIBLIOGRAFIA

... 71

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7

1. INTRODUZIONE

1.1. La Malattia di Alzheimer

1.1.1. Epidemiologia

La malattia (o morbo o demenza) di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa caratterizzata da una progressiva distruzione delle cellule neuronali e conseguente declino cognitivo, che rende incapaci di una vita normale le persone che ne sono affette. Si calcola che solo in Italia ne soffrano circa 800.000 persone e nel mondo 26.6 milioni, ma tali stime sembrano destinate ad una crescita esponenziale. Studi epidemiologici hanno dimostrato una stretta correlazione tra l‟incidenza della patologia e l‟età (Brayne and Calloway,1988). Studi condotti sulla popolazione europea rivelano che ogni anno vengono diagnosticati 2,5 casi ogni 1.000 persone nella fascia di età compresa tra i 65 e 69 anni; la casistica sale a 9 casi diagnosticati su 1.000 tra persone di età tra i 75 ed i 79 anni e a 40,2 casi su 1.000 persone tra gli 85 e gli 89 anni (Bermejo-Pareja et al., 2008). Definita anche "demenza di Alzheimer" (AD), viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la più comune, rappresentando l'80-85% di tutti i casi di demenza (Bermejo-Pareja et al., 2008). La patologia colpisce le aree del Sistema Nervoso Centrale (SNC) coinvolte nell‟elaborazione del pensiero, della memoria e del linguaggio, con una graduale alterazione di tutte le più alte funzioni mentali. L‟evolversi della malattia porta ad alterazioni della personalità, comportamenti bizzarri e perdita del controllo delle funzioni corporee.

Nonostante i costanti progressi della scienza, attualmente solo un‟analisi post-mortem dei tessuti cerebrali consente di ottenere una corretta e sicura diagnosi mediante riscontri anatomo-patologici che possano confermare una precedente valutazione clinica. L‟eziologia della malattia non è nota, sebbene diversi fattori di rischio siano stati identificati. Nella forma più comune del morbo, nota come Alzheimer ad insorgenza tardiva (tardive, late-onset Alzheimer), la mutazione del gene dell‟apolipoproteina E (Apo E) sul cromosoma 19 rappresenta un fattore di rischio ormai riconosciuto dalla comunità scientifica (Poirer et al., 1993; Strittmatter et al.,1993). In quelle forme patologiche definite come precoci o giovanili (early-onset Alzheimer), che affliggono circa il 5% della popolazione dei malati di Alzheimer, la familiarità genetica gioca un ruolo importante (Betram and Tanzi, 2004). Oltre alla predisposizione

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genetica, anche altri fattori, quali l‟alimentazione, lo stile di vita, l‟educazione, il genere, possono avere un ruolo nell‟insorgenza della malattia. Nonostante tutto, per quanto diverse teorie siano state proposte per spiegare i processi cellulari e molecolari che determinano il sopraggiungere della malattia, i meccanismi che rendono particolarmente vulnerabili i neuroni coinvolti nei processi di memoria e apprendimento rimangono completamente sconosciuti e ancora oggetto di studio.

1.1.2. Cenni Storici

Nel 1906, il medico tedesco Alois Alzheimer (Fig.1), che lavorava in un ospedale di Francoforte, descrisse e presentò per la prima volta le caratteristiche cliniche e neuropatologiche della malattia. Alzheimer documentò il caso di una donna di 51 anni, Auguste D., che presentava gravi disturbi cognitivi relativi alla memoria e al linguaggio, e di interazione sociale. A seguito della morte di Auguste, sopraggiunta nell‟aprile del 1906, il Dr Alzheimer eseguì una serie di indagini e valutazioni che portarono all‟identificazione delle caratteristiche anatomiche e neuropatologiche tipiche della malattia (Alzheimer A, 1907). A livello macroscopico, la malattia era caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad atrofia corticale, con evidente allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni. A livello microscopico e cellulare, erano riscontrabili impoverimento neuronale, accumuli di materiale extracellulare in forma di placche, e ammassi neurofibrillari intraneuronali (Alzheimer A, 1907).

Negli anni successivi vennero segnalati nella letteratura scientifica undici altri casi simili. Nel 1910 la patologia venne inserita per la prima volta dallo psichiatra tedesco Emil Kraepelin nel suo classico

Manuale di Psichiatria, con la definizione di "Malattia di Alzheimer" o "Demenza Presenile". Nel 1970,

Tomlinson, Beato e Roth (Tomlinson et al.,1968; Tomlinson et al.,1970) individuarono una significativa correlazione tra il declino cognitivo e le lesioni presenti nel tessuto nervoso dei pazienti affetti dal morbo. Prima della scoperta di Alzheimer, gli scienziati e la comunità non-scientifica consideravano la demenza come una "naturale" evoluzione dell‟età, che veniva accettata come una normale fase del processo d‟invecchiamento. Ora invece, la comunità medica riconosce formalmente il morbo di Alzheimer come una condizione patologica e non una tappa transitoria del ciclo vitale. Inizialmente, il termine “malattia di Alzheimer” fu utilizzato solo per le rare forme "early-onset", con esordio clinico prima dei 65 anni; dopo il 1976 tale termine è stato ufficialmente esteso a tutte le forme di Alzheimer (Katzman, 1976; 1986 ). A metà degli anni 60, grazie alla microscopia elettronica, Robert Terry e Michael Kidd investigarono la natura degli aggregati presenti a livello cerebrale. Lavorando in modo indipendente, dimostrarono che gli

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ammassi neurofibrillari (NFT) erano costituiti da proteina tau iperfosforilata, associata ai microtubuli, con filamenti intrecciati a formare una struttura elicoidale (Terry, 1963; Kidd, 1964). In seguito, Glenner e Wong (1984) individuarono nella proteina amiloide il principale costituente delle placche senili (Glenner and Wong, 1984).

Nel corso del secolo scorso, l‟interesse crescente e l‟esponenziale crescita della popolazione colpita dal morbo di Alzheimer hanno determinato un forte sviluppo della ricerca in questo campo. Negli ultimi dieci anni, l‟individuazione di potenziali fattori di rischio ambientali, genetici e di altro genere hanno consentito una maggiore comprensione dei meccanismi che determinano la formazione delle placche e degli ammassi neurofibrillari. Lo studio genetico della patologia ha portato all‟individuazione di specifici geni coinvolti nelle forme ad esordio precoce e tardivo della patologia (Poirer et al., 1993; Strittmatter et al.,1993; Betram and Tanzi, 2004) Purtroppo i fattori di rischio genetici da soli non possono fornire una spiegazione completa. Sono passati più di cento anni dalla sua scoperta e attualmente la malattia di Alzheimer è ancora ad eziologia sconosciuta e incurabile. I farmaci in uso trattano solo i sintomi e consentono solo un rallentamento nella progressione del declino cognitivo. La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, l'assenza di una valida terapia, e le pesanti conseguenze in termini di risorse necessarie (emotive, organizzative ed economiche), che ricadono sui familiari dei malati, la rendono una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.

Fig.1 Alois Alzheimer

1.1.3. Caratteristiche morfologiche della patologia

Diverse sono le alterazioni morfologiche macroscopiche e microscopiche caratteristiche della malattia di Alzheimer. Come già accennato in precedenza, all‟esame macroscopico, il tratto distintivo è la notevole atrofia, simmetrica e diffusa, con ampliamento sia dei solchi che dei ventricoli e con appiattimento delle

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circonvoluzioni cerebrali (Alzheimer A, 1907) (Fig. 2a). Si osserva una diffusa perdita di massa neuronale a livello della corteccia cerebrale, del cervelletto, dei gangli della base, del tronco encefalico e del midollo spinale. In particolare tale depauperamento interessa alcune specifiche regioni dell‟encefalo come il nucleo basale di Meynert (substantia innominata), i nuclei del setto e la banda (o benderella) diagonale di Broca. La diminuita concentrazione di acetilcolina che si osserva nei pazienti affetti da morbo di Alzheimer (Davis and Maloney, 1976) sarebbe dovuta alla perdita neuronale in tali nuclei, responsabili di proiezioni colinergiche a tutta la corteccia (Whitehouse et al 1982). A livello microscopico, particolarmente significativo appare il depauperamento sinaptico, che risulta sostanziale nel determinare pesanti conseguenze funzionali poiché, compromettendo la neurotrasmissione, riduce considerevolmente le possibilità di interazione tra i neuroni.

Le due alterazioni morfologiche microscopiche ritenute più rilevanti della malattia di Alzheimer sono le placche senili o placche amiloidi (Fig. 2b), costituite da accumuli del peptide beta-amiloide (Aβ), e i grovigli o ammassi neurofibrillari (neurofibrillary tangles, NFT) (Fig. 2c), costituiti da accumuli di proteina tau. Queste due modificazioni vengono considerate patognomoniche, ovvero la loro presenza risulta indispensabile per porre diagnosi di demenza di Alzheimer. Sia le placche senili che gli ammassi neurofibrillari appaiono distribuiti nel cervello secondo una specifica topografia. Le placche senili sono costituite da materiale proteinaceo depositato in sede extracellulare, mentre i grovigli neurofibrillari sono costituiti da accumuli citoplasmatici di componenti del citoscheletro con caratteristiche modificazioni strutturali. Tratto distintivo della malattia di Alzheimer è la presenza delle placche nella corteccia entorinale e nell‟ippocampo, e sembra che queste si formino prima dei grovigli neurofibrillari.

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Fig.2 A e B: Confronto tra individuo sano e malato di Alzheimer. Visibili atrofia corticale diffusa e allargamento compensatorio dei ventricoli. C : Placche senili. D: Grovigli neuro fibrillari.

Placche senili

Le placche di sostanza amiloide hanno forma irregolare, approssimativamente sferica, e dimensioni molto variabili da dieci a parecchie centinaia di micrometri. Sono depositi extracellulari del peptide beta-amiloide (Aβ), caratterizzate da un nucleo denso circondato da neuriti dalla morfologia alterata. Come detto in precedenza, la natura stessa delle placche è stata per lungo tempo sconosciuta. Glenner e Wong (1984) furono in grado di sciogliere i depositi e isolare le forme alfa e beta del peptide amiloide, costituite rispettivamente da 40 e da 42 amminoacidi(Glenner and Wong, 1984). Il peptide beta-amiloide (Aβ) deriva dalla più grande proteina precursore dell‟amiloide (APP), il cui gene è localizzato sul cromosoma 21. Inizialmente si credeva che Aβ potesse essere il risultato di una scissione anomala di APP (Selkoe et al., 1994; Selkoe et al., 2000). Tuttavia, Hass e il suo gruppo (1992) dimostrarono che Aβ era normalmente prodotta durante il metabolismo di APP. APP è una proteina integrale di membrana espressa in cellule neuronali, ma anche in cellule non neuronali, in individui sani o affetti dalla malattia di Alzheimer. E‟ costituita da un dominio amino-terminale extracellulare, da una singola porzione

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trans-12

membrana e da una corta coda carbossi-terminale intracellulare (Selkoe, 2001). La sua principale funzione non è ancora conosciuta, sebbene evidenze scientifiche suggeriscano un possibile ruolo nei processi di plasticità sinaptica, modulazione della crescita assonale e regolazione dei livelli intracellulari di calcio (Barger et al., 1993; Beher et al., 1996; Priller et al., 2006).

L'APP è processata attraverso due vie proteolitiche principali, una definita via amiloidogenica a causa della conseguente produzione del peptide Aβ, mentre la seconda è definita non amiloidogenica (Fig. 3). Dal momento che i prodotti di queste due vie si escludono a vicenda, le secretasi coinvolte in questi processi competono per il substrato APP. Nella via non-amiloidogenica, la proteina matura APP viene scissa proteoliticamente da una α-secretasi. Il taglio enzimatico, sulla porzione extracellulare, determina il rilascio di un frammento NH2- terminale chiamato sAPPαe la conservazione della porzione

COOH-terminale ancora ancorata alla membrana. Quest‟ultima potrà essere ulteriormente processata con l‟intervento di una γ-secretasi, con il rilascio di un piccolo segmento proteico chiamato P3. In alternativa, il peptide APP può essere processato attraverso la via amiloidogenica. In questa seconda via il rilascio del peptide amiloide è mediato dall‟azione sequenziale di due secretasi β e γ (Cai et al., 2001; Tabaton et al., 2010). Il primo enzima, β-secretasi, effettua il primo taglio sulla porzione extracellulare in corrispondenza dell‟aminoacido in posizione 671, rilasciando il peptide sAPPβ. Successivamente, la

γ-secretasi agisce sul dominio trans-membrana per effettuare il secondo taglio e il rilascio del peptide Aβ. A seconda del punto di taglio, il peptide Aβ può avere una lunghezza di 40 o di 42 aminoacidi (Selkoe, 1996; Vassar et al, 1999; Hardy, 2001). Almeno sette differenti mutazioni del gene APP causano forme familiari di AD a esordio precoce (Hardy, 2001). Esse sono tutte mutazioni che danno origine alla sostituzione di un singolo aminoacido, localizzate a livello dei siti di taglio delle α-, β- e γ-secretasi. Queste mutazioni alterano la proteolisi normale di APP producendo nel cervello di pazienti AD un incremento del deposito extracellulare di Aβ (Aβ40 e Aβ42, o solo di Aβ42) (Selkoe, 1996).

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Fig.3 Rappresentazione schematica della processazione di APP: via amiloidogenica vs via non-amiloidogenica.

In seguito a rilascio neuronale, i monomeri di Aβ, in particolare il più tossico Aβ1-42, iniziano a depositarsi nello spazio extracellulare costituendo strutture sovra-ordinate: dimeri, trimeri, oligomeri, protofibrille, fibrille e infine placche amiloidi (Iwatsubo et al., 1994). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le placche non sono strutture statiche, ma sono sottoposte a continui processi di rimodellamento. La classificazione morfologica ci consente di discriminare tra placche diffuse, classiche e compatte

(Armstrong , 1998).

Le placche diffuse caratterizzano le prime fasi della patologia e sono descritte come depositi amorfi e immaturi. Sono costituite principalmente da un nucleo di Aβ1-42 circondato perimetralmente da cellule gliali coinvolte nei processi di degradazione della placca stessa e nella formazione di neuriti distrofici. La placche classiche sono costituite quasi esclusivamente da un nucleo condensato di Aβ fibrillare con una corona di neuriti distrofici, anche in questo caso circondato da cellule gliali. Infine, le placche compatte, rare, sono morfologicamente simili alle placche classiche ma in esse sono assenti le cellule gliali a corona (Armstrong, 1998).

Le placche amiloidi sono particolarmente numerose nella sostanza grigia della neocorteccia e dell‟ippocampo, ma si osservano anche nei gangli della base, nel talamo e nel cervelletto. La densità

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delle placche senili, però, non è proporzionale alla gravità della demenza, e la loro presenza è riscontrabile anche nel cervello di individui anziani non dementi.

Grovigli neurofibrillari

I grovigli o ammassi neurofibrillari o NFT (neurofibrillary tangles) sono comunemente associati al morbo di Alzheimer, ma sono descritti anche in una serie di malattie neurodegenarative generalmente riportate sotto il nome di "taupatie". La deposizione di aggregati di proteine tau può rappresentare un evento precoce della patologia, con localizzazione primaria nei neuroni della corteccia transentorinale, seguita dall'ippocampo e dall‟amigdala, e infine dalla corteccia neopalliale.

I grovigli neurofibrillari sono composti principalmente dalla forma iperfosforilata di tau, proteina associata ai microtubuli. Tau appartiene alla famiglia delle proteine dette MAP (microtubule-associated proteins). E‟ coinvolta nella stabilizzazione e nell‟accrescimento dei microtubuli all‟interno dei neuroni, in cui è presente soprattutto nei processi assonali, ed è implicata nel trasporto assonale dei componenti subcellulari. La fosforilazione anormale di tau, da parte di una chinasi, porta a strutture molecolari costituite da filamenti proteici appaiati con disposizione elicoidale. Questo processo causa il disassemblaggio dei microtubuli; viene così ostacolato il trasporto assonale e, in definitiva, la funzionalità sinaptica e neuronale (Iqbal et al., 2005). Attualmente, studi in vivo hanno dimostrato che svariate chinasi sono in grado di fosforilare tau in vari siti, ma non è stato ancora completamente chiarito quante siano le chinasi responsabili dell‟avvio del processo di iperfosforilazione. Le NFT hanno origine come strutture intracellulari localizzate all'interno del soma neuronale e dei dendriti (Peskind, 1996) (Fig. 2c), e diffondono successivamente nello spazio extracellulare.

1.1.4. Fattori di rischio

E‟ ormai comunemente accettato che il palesarsi della patologia d‟Alzheimer non sia riconducibile ad una singola causa, ma che più fattori cooperino ed interagiscano.

Nel 1993, per la prima volta, fu riportata la correlazione tra la forma sporadica di Alzheimer e l‟incidenza di un particolare tipo di gene. Questo gene si trova nel cromosoma 19, ed è responsabile della produzione di una proteina chiamata apolipoproteinaE (ApoE) (Poirer et al., 1993; Strittmatter et al.,1993). Esistono tre tipi principali di tale proteina, uno dei quali, l'ApoE4, sebbene poco comune, rende

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più probabile il verificarsi della malattia. Le ApoE sono proteine deputate al trasporto dei trigliceridi e del colesterolo attraverso il circolo sanguigno e alla loro distribuzione ai vari organi e tessuti. Tuttavia, la presenza dell‟allele ApoE4 non determina la malattia, ma ne aumenta la probabilità. Per esempio, in una persona di cinquant'anni portatrice di questo allele la probabilità di ammalarsi raddoppia. D‟altra parte, soltanto nel 50 % dei malati di Alzheimer si trova la proteina ApoE4, e non tutti coloro che hanno tale proteina presentano la malattia. In effetti, non esistono strumenti atti a predire a un determinato individuo che un giorno o l'altro svilupperà la malattia.

La malattia di Alzheimer non è normalmente ereditaria. In un numero estremamente limitato di famiglie (alcune decine in tutto il mondo), la malattia di Alzheimer si presenta col carattere di malattia genetica dominante, chiamata Alzheimer familiare o FAD. La neuropatologia è simile a quella della forma sporadica, ma si presenta con esordio precoce, tra i 35 e i 60 anni, e una rapida ed infausta progressione. Nella FAD sono state identificate diverse mutazioni, che determinano una maggiore espressione del peptide amiloide, nei geni che codificano le tre proteine APP, presenilina-1 (PS-1) e presenilina-2 (PS-2). Le mutazioni del gene APP (sul cromosoma 21) sono posizionate strategicamente in prossimità dei siti di scissione enzimatica. Immediatamente prima del sito di taglio della β-secretasi, in posizione N-terminale, una doppia mutazione facilita la reazione proteolitica della via amiloidogenica, con conseguente incremento della produzione di Aβ1-40 e Aβ1-42 (Citron et al., 1992). Nella porzione C-terminale, sito di taglio delle γ-secretasi, un‟altra mutazione determina un incremento della via amiloidogenica con rilascio di Aβ1-42 (Suzuki et al., 1994). La mutazione del gene PS-1, localizzato sul cromosoma 19, porta anch‟essa alla produzione di elevati livelli di Aβ1-42 con un meccanismo ancora sconosciuto, ma che presumibilmente coinvolge le γ-secretasi (Duff et al.,1991;Gomez-Isla et al., 1996;Citron et al.,1997; Borghi et al., 2010). Anche la mutazione del gene PS-2, localizzato sul gene 1,è stata ipotizzata una sua funzione γ-secretasica e si sppone un suo sinergismo con PS-1(Avila et al., 2010).

Oltre ai fattori genetici, sono stati identificati un buon numero di fattori di rischio coinvolti nelle forme sporadiche della patologia. Tra questi, l‟età gioca indiscutibilmente un ruolo chiave. Studi epidemiologici rivelano che il sesso femminile è maggiormente predisposto a tale malattia rispetto agli uomini. Inoltre, può esserci un forte legame fra trauma cranico grave e rischio di Alzheimer, soprattutto quando il trauma si presenta ripetutamente o comporta perdita di coscienza (Lye and Shores, 2000).

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1.2.5. Evoluzione della patologia

La patologia, come suggerito da Braak e Braak (1995), evolve secondo una sequenza temporale e spaziale attraverso le strutture della corteccia temporale mediale, nuclei sottocorticali e aree neocorticali del cervello. Si riconoscono sei fasi. Nello stadio transentorinale (fasi I e II), i segni della patologia sono confinati essenzialmente alla corteccia entorinale e transentorinale, con modesto coinvolgimento delle sezioni CA1 e CA2 dell'ippocampo. Lo stadio limbico (fasi III e IV) è caratterizzato dalla presenza delle lesioni neurofibrillari nella corteccia entorinale, da grovigli moderati nell'ippocampo e dalla loro progressiva diffusione all‟amigdala, al talamo e all'ipotalamo. Infine, lo stadio neocorticale (stadio V e VI) è caratterizzato dal progressivo interessamento della neocorteccia (Fig.4). La caratterizzazione clinica ha suggerito che lo stadio transentorinale rappresenta il periodo preclinico e asintomatico della malattia, mentre lo stadio limbico rappresenta la fase incipiente del morbo caratterizzato dalla comparsa dei primi sintomi clinici. Lo stadio neocorticale è caratterizzato dalla malattia pienamente conclamata (Braak and Braak, 1991).

Il passaggio da uno stadio all'altro è graduale e sequenziale. Recenti lavori suggeriscono che la presenza di grovigli neurofibrillari all'interno dei neuroni non indica necessariamente la cessazione immediata della funzione delle cellule, ma che tali neuroni possono rimanere in vita per molti anni dopo la loro comparsa (Hatanpaa et al., 1996; Morsch, 1999).

Fig.4 Evoluzione patologica caratterizzata da una progressiva diffusione di depositi amiloidi e ammassi neurofibrillari, che dalla corteccia entorinale si distribuiscono poi alla zona limbica e neocorticale.

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1.1.6. Evoluzione clinica

La diagnosi della patologia e l‟identificazione dei suoi diversi stadi evolutivi è possibile solo attraverso l‟utilizzo diversi criteri di valutazione: test atti a valutare la condizione cognitiva del paziente, approfondite osservazioni cliniche, interviste dirette al malato e un‟accurata anamnesi familiare. Tuttavia nessun test pre-mortem è in grado di effettuare una diagnosi clinica certa della malattia di Alzheimer. Quindi, ad ogni diagnosi clinica deve seguire un‟analisi post-mortem. Questo significa che durante il decorso della malattia si può fare solo una diagnosi di Alzheimer „possibile‟ o „probabile‟. Infatti solo l‟autopsia può dare conferma della presenza delle tipiche lesioni, tratti distintivi della patologia.

Come in altre malattie neurodegenerative, la diagnosi precoce è molto importante sia perché offre la possibilità di trattare alcuni sintomi della malattia, sia perché permette al paziente di pianificare il suo futuro quando ancora è in grado di prendere decisioni. Purtroppo, molto spesso i sintomi si manifestano quando il sitema nervoso ha già subito danni irreversibili. Il decorso della malattia è lento e in media i pazienti possono vivere fino a 8-10 anni dopo diagnosi infausta. Di solito, si possono riconoscere tre diverse fasi della patologia: lieve, moderata e severa. La demenza di Alzheimer si manifesta con lievi problemi di memoria, ma la rapidità con cui i sintomi si acutizzano varia da persona a persona. Nel corso della malattia i deficit cognitivi si acuiscono e possono portare il paziente a gravi perdite di memoria, a perdersi in luoghi familiari, all‟incapacità di seguire delle indicazioni precise, ad avere disorientamenti sul tempo, sulle persone e sui luoghi, a trascurare la propria sicurezza personale, l‟igiene e la nutrizione. I sintomi clinici iniziali non sembrano essere direttamente causati dai depositi amiloidi o dalla formazione di grovigli neurofibrillari intracellulari, ma piuttosto dalla perdita dei neuroni e, in particolare, dal depauperamento sinaptico (Hyman et al, 1984; Dekosky and Scheff, 1990; Terry et al, 1991). Col progredire della malattia, la demenza evolve da un lieve deficit mnemonico ad una diffusa insufficienza cognitiva con compromissione della lingua, correlata con una progressiva perdita di neuroni del giro temporale superiore (Gomez-Isla et al, 2008). Lo svilupparsi di grovigli neurofibrillari e il depositarsi di ammassi amiloidi sono eventi separati sia temporalmente che spazialmente durante la progressione della patologia. I disturbi cognitivi possono, tuttavia, essere presenti anche anni prima che venga formulata una diagnosi di demenza di Alzheimer, in una fase chiamata preclinica.

Attualmente, il termine più utilizzato per descrivere la fase preclinica della demenza è Mild cognitive impairment (MCI). I soggetti con MCI presentano una perdita di memoria maggiore rispetto a quella che ci si attenderebbe per l'età, ma non hanno una compromissione cognitiva e funzionale tale da poter essere diagnosticati come dementi. I criteri diagnostici più accettati per il MCI sono quelli proposti da

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Petersen (1999): a) disturbo soggettivo di memoria preferibilmente confermato da una persona diversa dal soggetto; b) presenza di un deficit di memoria documentato da una prestazione a un test di memoria episodica; c) assenza di altri deficit cognitivi; d) normali abilità nelle attività del vivere quotidiano; e) assenza di demenza. Da una rassegna degli studi più importanti sul tasso di conversione da MCI a demenza (Caltagirone-Spalletta 2004) si deduce che nei soggetti con MCI questo tasso varia tra il 6 e il 25% ed è molto più alto di quello osservato in soggetti anziani normali, dove oscilla tra lo 0,3% in soggetti tra i 65 e i 69 anni e il 5,3% in soggetti compresi tra gli 85 e gli 89 anni.

1.2. Alzheimer e Neuroinfiammazione

1.2.1. Aspetti generali

Una volta si riteneva che il cervello fosse un “organo immunologicamente privilegiato” e che non venisse interessato da risposte immuni o da quelle infiammatorie. La presenza della “barriera ematoencefalica” svolge una funzione protettiva, contenendo e limitando l‟accesso ad agenti nocivi. Questa visione del cervello come di un organo privilegiato si è drasticamente ridimensionata nell‟ultimo decennio in seguito a studi sulle interazioni tra cervello e sistema immunitario. Infezioni, traumi, ictus, tossine e altri stimoli sono in grado di produrre una attivazione immediata e di breve durata del sistema immunitario innato. Già nel 1910, Fisher suppose che la deposizione di una sostanza estranea nella corteccia umana fosse in grado di indurre una reazione infiammatoria locale seguita da cambiamenti rigenerativi dei neuroni circostanti (Fisher, 1910) L‟infiammazione, risposta immunitaria innata, è una reazione protettiva che favorisce l‟eliminazione degli elementi nocivi (quali xenobiotici, sostanze nocive e del tessuto danneggiato) e l‟avvio di specifici processi di guarigione. Numerose evidenze dimostrano un‟associazione tra malattie neurodegenerative e processi di neuroinfiammazione cronica (Bok, 2005; Kuehn, 2005). Inoltre, vari studi indicano che processi infiammatori possano avere inizio tempo prima che si abbia una perdita significativa della popolazione neuronale (McGeer et al., 1994).

Molteplici riscontri supportano l‟ipotesi che anche nella malattia di Alzheimer possa essere presente una componente neuroinfiammatoria. McGeer, Eikelenboom e Rogers furono i primi ricercatori a identificare chiaramente una componente infiammatoria nella AD (Eikelenboom et al., 1991; Eikelenboom et al.,

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1994; McGeer et al., 1994; Rogers et la., 1996). Osservazioni istopatologiche del tessuto neuronale rivelano la presenza di cellule di astroglia e microglia attivate in prossimità dei siti di deposizione amiloide, principalmente attorno a placche senili del tipo compatto. Esami autoptici effettuati su pazienti affetti dal morbo rivelano elevati livelli di citochine pro-infiammatorie, chemochine, radicali liberi dell‟ossigeno, mediatori dell‟infiammazione (Perry et al., 2002). Varie evidenze hanno dimostrato che nella malattia di Alzheimer il processo infiammatorio si verifica nelle regioni cerebrali colpite dalla patologia, in cui i depositi di Aβ e i grovigli neurofibrillari rappresentano stimoli evidenti per l'infiammazione (McGeer and Rogers,1992; Wisniewski HM et al,1990). Numerosi dati epidemiologici sembrano confermare il ruolo chiave della neuroinfiammazione nella patologia di Alzheimer. Infatti, pazienti sottoposti a trattamento cronico con ibuprofene mostravano un basso rischio di sviluppare la malattia, rivelando l‟effetto preventivo del farmaci antiinfiammatori (McGeer and McGeer, 2006). Tale risultato sembrava indicare il ruolo dannoso dell‟infiammazione nella fase pre-clinica del morbo e che l‟inibizione dei processi flogistici poteva in qualche modo ritardare l‟incidenza della malattia. Molti autori tendono a considerare l'infiammazione e lo stress ossidativo come una componente secondaria nell‟evoluzione patologica. Tuttavia, Smith e collaboratori (Perry et al., 2002; Castagneta et al., 2003) proposero che lo stress ossidativo può in effetti essere un fattore iniziale di malattia. La flogosi nel cervello è caratterizzata da attivazione delle cellule gliali e dalla espressione dei principali mediatori infiammatori, come citochine e radicali liberi. In questo contesto le cellule di microglia svolgono un ruolo importante nella prima fase dell‟infiammazione con un doppio meccanismo. Infatti, esse mediano il processo di guarigione attraverso la distruzione di antigeni e la fagocitosi dei tessuti danneggiati; d‟altra parte, l‟iperattivazione di queste cellule determina un eccessivo rilascio di fattori citotossici, con conseguenti effetti disastrosi non solo per i tessuti danneggiati, ma anche per quelli sani e principalmente sulla popolazione neuronale.

1.2.2. Cellule Gliali

Le cellule della glia o nevroglia costituiscono insieme ai neuroni la popolazione cellulare del sistema nervoso. Svolgono funzioni nutritive e di sostegno per i neuroni, assicurano l'isolamento dei tessuti nervosi e la protezione da corpi estranei in caso di lesioni. E‟ stato ormai appurato il ruolo chiave di queste cellule nei processi flogistici con particolare coinvolgimento delle cellule di microglia.

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Astrociti

Gli astrociti sono cellule costituenti della nevroglia del SNC, di forma stellata per la presenza di molti processi che rendono possibile il contatto con i neuroni circostanti. Gli astrociti svolgono un ruolo significativo durante le malattie infettive ed autoimmuni del SNC. Svolgono numerose funzioni: supporto biochimico delle cellule endoteliali che formano la barriera emato-encefalica, apporto di sostanze nutritive al tessuto nervoso, mantenimento dell'equilibrio ionico extracellulare, oltre ad avere un ruolo determinante nei processo di riparazione e cicatrizzazione a seguito lesioni traumatiche. In particolari condizioni fungono da cellule presentanti l‟antigene (APC), acquisendo anche capacità fagocitaria. Possono esprimere un‟ampia gamma di molecole neurotrofiche, come il fattore di crescita nervoso (NGF) e il fattore di crescita di derivazione gliale (GDNF). In risposta all‟attivazione mediata dall‟interferone possono anche esporre sulla membrana il complesso maggiore di istocompatibilità sia di tipo I che di tipo II. E‟ ormai comprovato il coinvolgimento degli astrociti nella patologia di Alzheimer. Come la microglia, anche gli astrociti si accumulano perimetralmente intorno ai siti di deposizione di Aβ, in piccolo numero intorno alle placche di tipo diffuso mentre una più alta densità si raggiunge intorno alle placche neuritiche. Studi condotti su colture cellulari di astrociti dimostrano in primo luogo la capacità di questi ultimi di fagocitare Aβ e confermano che Aβ agisce su queste cellule attivandole e facilitando il rilascio di citochine pro-infiammatorie (interleuchina 6), mediatori caratteristici delle fasi acute del processo infiammatorio, ossido nitrico, interferone–γ e il fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α) (Neuroinflammation Working Group, 2000). Il rilascio di questi fattori contribuisce alla disfunzione neuronale e al conseguente deficit cognitivo.

Microglia

Le cellule della microglia hanno origine mieloide e durante l‟embriogenesi migrano dal midollo osseo per colonizzare il SNC. In un adulto rappresentano circa il 20% della popolazione cellulare cerebrale. Le cellule della microglia e i macrofagi hanno origine comune e caratteristiche funzionali simili. Come i macrofagi nel resto del corpo, le cellule microgliali usano primariamente i meccanismi di fagocitosi e

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citotossicità per distruggere i materiali estranei all'organismo. Microglia e macrofagi partecipano al mantenimento dell'omeostasi attraverso meccanismi pro-infiammatori tramite la secrezione di citochine e altre molecole-segnale. Il ruolo delle cellule microgliali come cellule effettrici del sistema immunitario è stato ampiamente confermato. Il loro coinvolgimento gioca un ruolo chiave nei meccanismi di difesa, ma può anche favorire la progressione della patologia. I precursori microgliali sono caratterizzati da forme ameboidi, ma al termine del processo di differenziazione, già concluso al momento della nascita, le cellule mature presentano un piccolo soma dal quale si dipartono dei processi ramificati. Normalmente, in condizioni di omeostasi, la microglia si trova in una condizione di riposo o di quiescenza, caratterizzata da una bassa espressione di recettori di superficie, da una minima attività secretoria e da ridotta capacità migratoria. Le cellule quiescenti presenti nel cervello maturo agiscono come sentinelle, sorvegliando e scandagliando il tessuto neuronale e attuando meccanismi di protezione da eventuali danni (Giulian, 1986). L‟attivazione di questa popolazione in risposta a virus o batteri invasori o a lesioni del SNC determina una serie di cambiamenti morfologici (Fig. 4). Come descritto da Del Rio Hortega e Penfield (1936), le cellule di microglia della sostanza grigia diventano ipertrofiche con dilatazione del soma e retrazione dei processi ramificati. Nella sostanza bianca, le cellule diventano gonfie, sono caratterizzate dall‟accumulo di prodotti mielinici, perdono i loro processi e vengono chiamate “granular fat cells”. Nello stato di attivazione la microglia acquisisce capacità ameboide e migra verso il sito dell‟insulto. Come i monociti e i macrofagi, le cellule mi microglia esprimono costitutivamente un certo numero di molecole di superficie, tra i quali antigeni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe II e il recettore per la fattore di stimolazione coloniale CSF-1, responsabili sia dell‟attivazione che dell‟avvio della risposta infiammatoria. Le cellule di microglia sono in grado di riconoscere corpi estranei, fagocitarli, e fungere da APC, cioè da cellule presentanti gli antigeni ai linfociti T, attivandoli di conseguenza. Recettori per il frammento Fc delle immunoglobuline G e per le proteine del complemento sono coinvolti nella fagocitosi di particelle opsonizzate e sono espressi esclusivamente dalle cellule con compiti fagocitari. Molecole segnale come i fattori di stimolazione delle colonie M-CSF e GM-CSF, sembrano sostenere il reclutamento della microglia reattiva, promuovendone la migrazione al sito dell‟insulto e la proliferazione (Giulian and Ingeman, 1988).

Nella malattia di Alzheimer, la deposizione di Aβ determina uno stato di infiammazione cronica che promuove l‟attivazione e il reclutamento delle cellule di microglia. L‟evento chiave che indica la presenza di un processo infiammatorio è l‟accumulo di microglia reattiva nelle zone di degenerazione(Ishii and Haga,1984; Leber-Norad and Rogers, 1986; McGeer et al,1989). Risultati di immunoistochimica

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confermano la presenza di cellule reattive attorno alle placche senili e nei tessuti circostanti (McGeer et al, 1988). Una varietà di studi in vitro ha dimostrato che Aβ è in grado di agire direttamente sulla microglia stimolandola, inducendo un aumento dell‟espressione degli antigeni di superficie e il rilascio di un certo numero di molecole infiammatorie come citochine e chemochine, suggerendo che la microglia sia una potenziale fonte di elementi pro-infiammatori liberati in prossimità dei siti danneggiati (McGeer; 1995). La comprensione del ruolo svolto dalla microglia nella malattia di Alzheimer è a tutt‟oggi oggetto di dibattito. Infatti, nelle prime fasi, l‟attivazione della microglia determina fenomeni di fagocitosi atti alla eliminazione dello stimolo dannoso, rappresentato dalla iper-produzione di Aβ. Tuttavia, l‟eccessiva concentrazione di Aβ, dovuta ad un alterazione del metabolismo di APP, determina la conseguente incapacità delle cellule di microglia di far fronte alla sovrabbondante produzione del peptide con la sola fagocitosi. L‟iperattivazione delle cellule determina il conseguente rilascio di fattori pro-infiammatori non selettivi, che, nell‟intento di neutralizzare l‟antigene, agiscono indistintamente anche sui neuroni sani, con effetti neurotossici e di neurodegenerazione diffusa.

Fig.5 Rappresentazione schematica dei cambiamenti morfo-funzionali delle cellule di microglia a seguito

del processo di attivazione.

1.2.3. Oligomeri di Aβ e neuroinfiammazione

Elevati livelli di peptide Aβ, caratterizzanti la patologia, accompagnano l‟attivazione delle cellule di microglia e la successiva microgliosi. L‟attivazione della microglia rappresenta un evento precoce nella

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patologia, come è stato osservato in alcuni modelli animali transgenici in cui l‟attivazione della microglia avviene già nelle fasi precedenti alla deposizione amiloide e già dai primi due mesi di età è possibile riscontrare microglia reattiva intorno alle placche amiloidi (Heneka et al., 2010). Nel tentativo di individuare i meccanismi che portano all‟attivazione delle cellule microgliali, lo studio delle interazioni tra proteina amiloide e le suddette cellule rappresenta attualmente uno dei più attivi campi d‟indagine. In accordo con la teoria della neuroinfiammazione, gran parte di questi studi sono focalizzati sulla misurazione dei livelli di varie neurotossine e molecole pro-infiammatorie rilasciate dalla microglia in risposta alla stimolazione di Aβ e sono volti alla identificazione di possibili recettori amiloidi sulle cellule di microglia (Rogers et al., 2001; 2002). Aβ viene prodotta in modo continuo dal cervello non solo nei soggetti malati, ma anche in individui sani (

Sjogren M

et al., 2001). In individui sani, il peptide amiloide viene catabolizzato e quindi rimosso prima che le fibrille amiloidi possano accumularsi nello spazio extracellulare. Nella malattia di Alzheimer i processi di produzione e catabolismo sembrano essere alterati, causando un accumulo anomalo di Aβ. Infatti, sembra che l‟anomalia possa essere determinata da una eccessiva produzione di peptide amiloide e da una conseguente incapacità delle cellule di nevroglia di smaltire la produzione in eccesso (Graham et al., 1996). Recenti studi hanno dimostrato che il tessuto cerebrale risulta particolarmente sensibile agli oligomeri di Aβ, in particolare nella forma di trimeri e tetrameri (Klein et al, 2004). Oligomeri e fibrille possono interagire con la microglia attraverso specifici recettori di membrana. Legandosi alla membrana neuronale, essi inducono la formazione di canali ionici, chiamati canali Aβ, provocando efflusso di potassio, attivazione dell‟inflammasone e la secrezione di interleuchina 1β ( Halle et al., 2008; Lorenzo et al., 1994). Nel corso di questi ultimi decenni è diventato chiaro che le cellule di microglia sono dotate di una vasta gamma di recettori di membrana in grado di mediare il riconoscimento specifico di Aβ, chiamati Pattern-Recognition Receptors (PRR), tra cui i recettori i Toll 2 e 4 e il recettore FPRL1 (FPR-like 1) della famiglia dei recettori FPR (Formylpeptide Receptor) per il tripeptide formilato di origine batterica fMLP. Il legame tra Aβ e il PRR è in grado di innescare l'attivazione della microglia.

1.2.4. La proteina Cluster of Differentiation 40 (CD40)

Il CD40 (Cluster of Differentiation 40) e‟ una glicoproteina transmembrana di 48 KDa, che appartiene alla superfamiglia dei recettori del TNFα. E‟ espresso sulla superficie di una varietà di cellule: APC, macrofagi, cellule epiteliali, progenitori emopoietici e linfociti B. Il ligando per CD40, CD154 (o CD40L),

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una proteina integrale di membrana del peso molecolare di 38 KDa, è espresso su linfociti T attivati, linfociti B attivati e piastrine attivate. Inoltre, durante la risposta infiammatoria altri tipi di cellule come monociti, cellule dell‟endotelio vascolare e del muscolo liscio sembrano esprimere CD154. CD40 ha un ruolo chiave nel governare l‟immunita‟ umorale e cellulo-mediata. Sui linfociti B, il legame CD40/CD154 in presenza di citochine può indurre una profonda espansione clonale e differenziazione in plasmacellule. Sulle APC, l‟attivazione di CD40 può indurre maggiore abilita‟ nella presentazione dell‟antigene, produzione di citochine e aumentata sopravvivenza. Su entrambi i tipi cellulari induce l‟espressione di molecole co-stimolatorie, che inducono i linfociti T a espandersi e differenziarsi.

La presenza del recettore CD40 è stata dimostrata su una varietà di cellule del SNC, tra cui cellule endoteliali, cellule muscolari lisce, astroglia e microglia; inoltre, sembra che su molte di queste cellule, l‟espressione di CD40 sia incrementata a seguito di stimoli pro-infiammatori (Town et al.,2001). Crescenti evidenze sostengono il ruolo dell‟interazione ligando-recettore CD40 nella patogenesi della AD (Town et al.,2001). Esperimenti condotti in vitro su colture di microglia dimostrano che il peptide Aβ solubile stimola le cellule microgliali e induce un aumentata espressione del recettore CD40 sulla loro superficie (Tan et al., 1999). Inoltre,la stimolazione di co-colture microglia e nueroni con Aβ e il trattamento con il ligando CD154 determina l‟ aumento del rilascio del TNF-α e l‟induzione del danno neuronale (Tan et al., 1999). In modelli transgenici di topo con una ridotta espressione del ligando CD154 si osserva una riduzione dell‟attivazione microgliale mediata da Aβ e questo suggerisce un ruolo chiave dell'interazione CD40-CD40L nei meccanismi di attivazione della microglia (Tan et al., 1999). E' stato dimostrato che nella malattia di Alzheimer questa diade ligando-recettore agisce in modo sinergico con il peptide β-amiloide per promuovere l'attivazione della microglia (Tan et al., 2002). Tutti questi elementi sembrano indicare il coinvolgimento del recettore CD40 nel processo infiammatorio, con un ruolo chiave nell'attivazione microgliale. Altre prove a sostegno del ruolo chiave di questa diade arrivano da esperimenti condotti su tessuti umani di pazienti affetti da AD. Infatti, il pattern di espressione di queste proteine è alterato nel cervello di pazienti AD così come in diversi modelli animali di Alzheimer (Calingasan et al.,2002; Togo et al., 2000). E‟ stato inoltre riportato che in topi transgenici che esprimono una forma non funzionale del ligando per CD40, si verifica una riduzione del deficit cognitivo e dei fenomeni di gliosi (Tan et al., 2002); il trattamento con l‟anticorpo specifico anti-CD154, che impedisce al ligando di legarsi al recettore e attivarlo, in animali mutati sia per il gene APP che per quello della PS-1 determina un miglioramento cognitivo (Todd Roach et al., 2004).

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1.2.5. La Metalloproteasi di matrice 9 (MMP-9)

Le metalloproteasi di matrice (MMP) sono una famiglia di endopeptidasi zinco-dipendenti altamente regolate. Sono state identificate 24 diverse metalloproteasi, classificate in 6 gruppi sulla base della loro sequenza amminoacidica e dei substrati con i quali interagiscono (Steteler-Stevenson et al. 1993; Nagase & Woessner 1999). Sono secrete come proenzimi (pro-MMP), in cui l‟atomo di zinco presente nel sito catalitico non è disponibile alla formazione di legami per la presenza di una cisteina (Visse and Nagase, 2003), e necessitano di un‟attivazione extracellulare per iniziare l‟attività proteolitica. L‟attivazione, che deriva dall‟esposizione del sito catalitico, può avvenire per l‟azione proteolitica da parte della plasmina o altre MMP (Visse and Nagase, 2003). Una volta attivate, le MMP possono essere inibite da un‟altra famiglia di proteine, gli inibitori tissutali delle MMP (TIMP), anch‟essi largamente distribuiti nei tessuti (Salamonsen et al., 2000). L‟espressione delle MMP è regolata a livello trascrizionale da mediatori infiammatori, tra cui citochine e diversi fattori di crescita: appare quindi evidente uno stretto legame tra infiammazione e MMP (Clutterbuck et al., 2010).

Le MMP sono capaci di degradare la maggior parte, se non tutte, le componenti della matrice extra-cellulare (MEC), nel cui rimodellamento giocano un ruolo importante, sia nei processi fisiologici (come nella normale crescita), che in processi patologici (come nella distruzione di tessuto o nella crescita abnorme di esso) (Rodgers et al., 1994).

Le MMP, modulate dai TIMP, portano alla degradazione della matrice, svolgendo un importante funzione strutturale. L‟equilibrio dinamico che sottostà all‟attività di MMP e TIMP è di cruciale importanza nei processi fisiologici. Ogni alterazione di questo equilibrio può avere conseguenze a livello locale e sistemico (Clutterbuck et al., 2010).

Grazie alla loro attività proteolitica, le MMP sono in grado di svolgere diverse attività biologiche conseguenti alla liberazione dalla MEC di molecole o frammenti di esse (McCawley et al., 2001). Di notevole importanza è il loro ruolo nella proliferazione cellulare. Parecchi fattori di crescita presentano un‟affinità per le componenti della matrice: la proteolisi di tali componenti porta alla solubilizzazione dei fattori di crescita stessi (McCawley et al., 2001). Talvolta le MMP agiscono direttamente sui fattori di crescita, attivandoli: MMP-2 e -9 convertono il TGF-β nella sua forma attiva e MMP-2, -3 e -9 trasformano il precursore dell‟interleuchina 1-β (IL1-β) nella sua forma attiva (McCawley et al., 2001). Le MMP entrano in gioco anche nella migrazione cellulare. La migrazione è un meccanismo complesso che richiede la regolazione simultanea sia delle interazioni cellula-cellula, sia di quelle cellula-matrice. L‟attività proteolitica delle MMP favorisce la rimozione dei siti di adesione delle cellule alla matrice o alla

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membrana basale, o altera i dispositivi giunzionali, portando alla migrazione cellulare. (McCawley et al., 2001). Come nella proliferazione, anche in questo caso l‟azione delle MMP è diversificata. Le MMP sono capaci di generare stimoli chemotattici, come nel caso del rilascio dipendente da MMP-9 di VEGF (vascular endothelial growth factor), coinvolto nello sviluppo delle ossa lunghe, o al contrario di sopprimerli, come ad esempio MMP2 che scinde e inattiva MCP-3 (monocyte chemoattractant protein), diminuendo la chemiotassi e la risposta infiammatoria (McCawley et al., 2001). Un ulteriore ruolo attribuito alle MMP è la comunicazione intercellulare: esse consentono il rilascio di fattori che agiscono per via paracrina, influenzando il comportamento delle diverse tipologie cellulari. La mediazione delle MMP nella comunicazione intercellulare è stata dimostrata sia durante la risposta infiammatoria, sia nell‟interazione fra cellule procariote ((McCawley et al., 2001).

Prove crescenti indicano che metalloproteasi della matrice (MMP) possano svolgere un ruolo importante e complesso nelle malattie neurodegenerative, inclusa la patologia di Alzheimer (Miners et al., 2008). Inoltre, evidenze sperimentali suggeriscono che Aβ giochi un ruolo nell‟induzione dell‟espressione delle MMP gliali e neuronali, la cui attività risulta essere strettamente correlata al metabolismo di Aβ (Deb and Gottschall, 1996; Talamagas et al., 2007).

Nella malattia di Alzheimer, elevati livelli di MMP-9 sono stati identificati nel plasma rispetto ai controlli di pari età (Lorenzl et al., 2003) e nell'ippocampo dell‟uomo (Backstrom et al., 1996). L‟espressione della MMP9 è elevata nel tessuto cerebrale e mostra una localizzazione specifica intorno alle placche amiloidi e ai grovigli neurofibrillari (Asahina et al., 2001; Backstrom et al., 1996) e la MMP-9 può degradare APP (Backstrom et al., 1996) e fibrille β-amiloidi, suggerendo un ruolo nella clearance di Aβ (Yan et al., 2006). Recentemente è stato dimostrato che l‟espressione della MMP-9 nell‟ippocampo favorisce la disfunzione cognitiva indotta da Aβ (Mizoguchi et al., 2009)

1.2.6. Complesso maggiore di istocompatibilità di classe II (MHCII)

Il Complesso Maggiore di Istocompatibilità (MHC) è il prodotto di un gruppo di geni polimorfici localizzati sul cromosoma 6, appartenenti alla superfamiglia dei geni per le Ig e soggetti a ricombinazione genica. Le proteine MHC sono espresse sulla membrana delle cellule eucariotiche e sono coinvolte nei meccanismi di riconoscimento e differenziazione tra self e non-self. Nell'uomo l‟MHC è rilevabile anche nei leucociti e per questo motivo prende il nome di HLA (human leukocites antigen). Si distinguono due categorie di MCH, dette di classe I e di classe II. L‟espressione di queste molecole sulla superficie

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cellulare varia a seconda dello stato di attivazione della cellula stessa e della presenza o meno di alcune interleuchine e/o interferoni. Nonostante la struttura simile e la comune capacità di presentare l‟antigene ai linfocitiT, esistono tra queste due classi nette differenze. L‟MHC di classe I è costituito dagli HLAA, -B e -C, localizzati su tutte le cellule nucleate e sulle piastrine dell‟organismo e direttamente coinvolte nei fenomeni di rigetto in caso di trapianti. MHC-II, costituito da HLA-D, -DR, -DP e -DQ, è ampiamente distribuito sulle cellule immunocompetenti: cellule B, macrofagi e su tutte le APC. Mentre MHC I presenta antigeni endogeni, MHC II espone e presenta ai linfociti-TH antigeni esogeni. Il riconoscimento dell‟antigene esposto dal MHC II da parte dei linfociti-TH, grazie alla presenza su queste cellule di recettori antigenici (TCR), costituisce un evento critico nella fase iniziale del processo infiammatorio. Negli ultimi decenni è stato investigato il possibile coinvolgimento dell‟MHCII nei processi infiammatori che caratterizzano le patologie neurodegenerative, inclusa la malattia di Alzheimer. Attualmente i risultati riportati in letteratura sul possibile coinvolgimento di MHC II nei processi di neuroinfiammazione sono discordanti. E‟ stato dimostrato che anche le cellule di microglia esprimono MCH II (McGeer et al., 1987). Inoltre, studi condotti su tessuto cerebrale umano di soggetti colpiti dalla malattia di Alzheimer evidenziano la presenza di microglia attivata in prossimità delle placche amiloidi e che tali cellule gliali esprimono sulla loro superficie MCH II (McGeer et al., 1988). Tuttavia, contrariamente a quanto affermato da McGeer (1988), diversi gruppi di ricerca hanno riportato la presenza di MHC II anche su cellule di microglia non attivate (Gehrmann et al., 1993; Hayes et al., 1987). Appare quindi ancora da chiarire il ruolo di MHC II nella malattia di Alzheimer e nei meccanismi di neuroinfiammazione.

1.2.7. Stress Ossidativo

Con l‟espressione “stress ossidativo” si identifica la modificazione del normale equilibrio intracellulare tra specie chimiche ossidanti, generalmente di natura radicalica e centrate sull'ossigeno (Reactive Oxygen Species, ROS), prodotte fisiologicamente durante i processi metabolici, e il sistema di difesa antiossidante che svolge la funzione di neutralizzarle e/o di eliminarle dalla cellula stessa. Costituisce uno dei fattori di rischio emergenti per la salute. Ad esso, infatti, risultano associati non solo l'invecchiamento precoce, ma una serie di stati morbosi, spesso di natura degenerativa e ad andamento cronico. In particolare, il SNC rappresenta, per varie ragioni (elevato consumo di ossigeno, alti livelli di ferro, concentrazione significativa di acidi grassi polinsaturi, etc.) uno dei principali target dei ROS e, quindi, dello stress ossidativo, che viene oggi considerato uno dei principali cofattori di malattie

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degenerative (malattia di Parkinson, malattia di Alzheimer, sclerosi laterale amiotrofica, etc.). Il danno cellulare inizia a livello della membrana con un‟alterazione degli scambi tra interno ed esterno della cellula; all‟interno viene alterata la formazione di ATP che è la fonte di energia della cellula, e si può arrivare fino all‟alterazione del DNA.

L‟ossido nitrico (NO) è un importante molecola regolatoria coinvolta nei meccanismi di difesa e ha un ruolo importante nei sistemi cardiovascolare, immune e nervoso. In condizioni patologiche, è mediatore del danno cellulare ossidativo e dei fenomeni neurodegenerativi. La sua produzione, a partire dal L-Arginina, è catalizzata da una famiglia di enzimi eucariotici, chiamati sintetasi dell‟ossido nitrico (NOs). Sono riconoscibili tre diverse isoforme di questo enzima: neuronale (nNOs), endoteliale (eNOs) e inducibile (iNOs). Il NO gioca un ruolo anche nei meccanismi dell‟infiammazione. Poiché la forma iNOs è presente anche nei fagociti (monociti, macrofagi e neutrofili), il NO (che ne viene sintetizzato) assume un ruolo importante in tutti i processi che caratterizzano la risposta immunitaria. La produzione del NO viene stimolata dall‟IFN-γ, che agisce singolarmente o in sinergismo con il TNF- (Gorczyniski and Stanely, 1999)Clinical Immunology.). La fonte più abbondante di radicali liberi è la microglia attivata (Klegeris and McGeer, 2000). Il complesso della NADPH, presente nelle cellule di microglia, quando è assemblato e completamente attivato, genera un alta dose di radicali che, liberati nel tessuto circostante, causano un danno. Vi è inoltre la generazione di NO da parte delle cellule di glia (Neuroinflammation Working Group, 2000).

Nel SNC, lo stress ossidativo esercita un importante ruolo nei processi di deterioramento cognitivo osservati nel AD. L‟enzima iNOS genera NO e NO-derivati, specie reattive dell'azoto come il perossinitrito. L'accumulo di molecole altamente reattive induce perossidazione lipidica, nitrosilazione della tirosina, danno ossidativo al DNA, e impoverimento neuronale, che sono caratteristiche comuni del cervello AD (Butterfield et al., 2001). È interessante notare che questi eventi sembrano essere modulati da TNF-. Inoltre, è stato dimostrato che Aβ interagisce in modo sinergico con le citochine nell‟indurre danno neuronale mediato dalle ROS e vie NO-dipendenti (Markesbery, 1997; Meda et al., 1995) Numerosi modelli animali sono stati utilizzati per valutare il ruolo dell‟infiammazione nella AD. Un modello sperimentale di AD è stato sviluppato mediante l‟iniezione intracerebroventricolare di Aβ in topi (Van Dam and De Deyn, 2006). Utilizzando questo modello, è stato valutato il ruolo di TNF-α e iNOs nel deterioramento precoce dell‟apprendimento e della memoria indotto da Aβ. I dati ottenuti indicano che uno dei primi eventi indotti da Aβ1-40 è la produzione di TNF-α, che rappresenta un segnale importante

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per l'espressione di iNOs. Studi in vitro indicano che i radicali liberi favoriscono il processo di aggregazione del peptide amiloide (Ancelin et al., 2007). D‟altra parte, sembra che lo stesso peptide, interagendo con le cellule dell‟endotelio vascolare, causi la perossidazione dei lipidi e la formazione di radicali liberi (Ancelin et al., 2007)

1.2.8. Interferone-gamma (IFN-γ)

Gli interferoni (IFN) sono una classe di proteine prodotte dalle cellule del sistema immunitario e rilasciate in risposta all'attacco di agenti esterni come virus, batteri, parassiti e cellule tumorali. Sono delle glicoproteine appartenenti alla vasta classe delle citochine. Esistono due tipi e tre classi principali di IFN: IFN-alfa (α),beta (β) e omega (ω), che sono IFN di Tipo I, e IFN-gamma (γ) o di Tipo II. IFN-α, secreto principalmente dai leucociti, e IFN-β, prodotto da varie cellule tra cui i fibroblasti, intervengono nella risposta immunitaria innata verso patogeni di origine virale. L‟IFN-γ è una potente molecola normalmente espressa da linfociti natural killer, linfociti T, cellule gliali e neuroni; sembra avere scarsa rilevanza nel mediare le risposte ai virus, mentre è il principale attivatore dei macrofagi, sia nel corso delle reazioni immunitarie innate, che in quelle cellulo-mediate. Mostra un gran numero di funzioni immunomodulanti all'interno del sistema nervoso centrale, comprese l'attivazione dei macrofagi/microglia (Aloisi, 2001) e la stimolazione delle cellule microgliali a rilasciare radicali liberi dell'ossigeno (Blasko et al., 2001) e

potenzia l'espressione di chemochine e molecole di adesione cellulare richieste per la migrazione delle

cellule T al cervello (

Tran et al., 2000 ). Tuttavia, al di là del suo ruolo primario nel processo infiammatorio, risultati recenti dimostrano che l'espressione di IFN-γ è aumentata nel cervello di individui anziani (Frank et al., 2005; Saurwein et al., 2000; Maes et al., 1999). Inoltre, IFN-γ aumenta la permeabilità vascolare ai linfociti T e natural killer e promuove l'espressione di TNF-α e IL-1β nella microglia (Marx F et al., 1999), il che suggerisce un ruolo chiave di questa citochina nella l'elaborazione di risposte immunitarie e infiammatorie nel SNC coinvolte nei meccanismi di neurodegenerazione. Studi condotti su tessuto umano evidenziano alterazioni nell‟espressione di IFN-γ correlata ai processi neurodegenerativi associati alla malattia di Alzheimer (Blasko et al., 2000). E‟ stata dimostrata una correlazione tra IFN-γ e l‟induzione di entrambi i peptidi β amiloidi, Aβ1-40 e Aβ1-42 (Blasko et al., 2000). Studi in vitro documentano che l‟IFN-γ causa un aumento della produzione e del rilascio di TNF-α da parte delle cellule di microglia stimolate con il peptide Aβ, indicando un effetto sinergico tra IFN-γ e peptide β-amiloide (Meda et al., 1995). A supporto di un ruolo dell‟IFN-γ nella malattia di Alzheimer, in

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modelli murini transgenici di AD è stato dimostrato che, nella fase precedente alla deposizione di placche amiloidi (3 mesi di età ), si verifica un progressivo aumento di questa citochina in funzione dell‟età (Abbas et al., 2002). Inoltre, ancora in un modello murino di AD, è stato confermato il sinergismo tra IFN-γ e TNF-α, la cui coespressione determina un aumentata produzione di Aβ e una ridotta clearance del peptide (Yamamoto et al., 2007).

1.2.9 Strategie terapeutiche

Molte e differenziate forme di intervento vengono messe in atto nella gestione dei pazienti affetti da malattia di Alzheimer nel tentativo di contrastare la progressione del morbo e di alleviare la sintomatologia. La terapia farmacologica è affiancata da forme di trattamento non-farmacologico. Queste ultime consistono prevalentemente in misure comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo, anche con l‟impiego di strumenti atti a rievocare i ricordi e stimolare la memoria del paziente (come, ad es., il “film della vita”, un filmato riassuntivo di 30-60 minuti con immagini tratte dagli album di famiglia e filmini girati negli anni precedenti, accompagnato da musiche che hanno scandito i periodi importanti della vita del paziente). Tuttavia, grande importanza rivestono le strategie terapeutiche farmacologiche, grazie alle quali si spera di poter riuscire a modulare farmacologicamente i meccanismi patologici che stanno alla base della malattia e quindi a poterla gestire clinicamente.

Molte delle attuali terapie cliniche sono principalmente dirette a correggere disfunzioni di specifici sistemi neurotrasmettitoriali. Poiché nella malattia di Alzheimer si verifica una riduzione dei livelli di acetilcolina nella corteccia cerebrale (Davies P, Maloney AJ, 1976; Whitehouse PJ, 1982), la terapia attualmente più utilizzata si basa sull‟impiego di farmaci che tendono a ripristinare i livelli fisiologici di acetilcolina, inibendo le colinesterasi responsabili del catabolismo della molecola e determinando un aumento dei livelli del neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. Tuttavia, nei soggetti affetti dalla malattia di Alzheimer la degenerazione dei neuroni corticali sembra essere correlata anche ad aumentati livelli di glutammato (Francis, 2003). Questo determina l‟instaurarsi di un effetto eccitotossico con un continuo flusso di calcio intracellulare, responsabile della morte delle cellule. Tali considerazioni hanno portato, più recentemente, all‟utilizzo di farmaci che agiscono direttamente sul sistema glutamatergico, come antagonisti dei recettori NMDA, limitando l‟effetto del glutammato sulle cellule. Inoltre, un ulteriore approccio terapeutico alla patologia è rappresentato dal controllo della componente infiammatoria con l‟impiego di farmaci anti-infiammatori non steroidei. Questo approccio terapeutico è stato individuato a seguito di osservazioni condotte su pazienti affetti da artrite e sotto trattamento cronico con ibuprofene, tra i quali l‟incidenza

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della patologia risultava più bassa rispetto al resto della popolazione (McGeer and McGeer, 2006). E‟ stata messa in evidenza anche l'azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che sembra prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio (McGeer and McGeer, 2006). Attualmente, purtroppo, nessuno degli strumenti farmacologici usati sulla base di queste evidenze si è rivelato efficace nel prevenire e/o arrestare il devastante processo neurodegenerativo che caratterizza la patologia.

Poiché restano ancora assai frammentarie le conoscenze sui meccanismi che rendono particolarmente vulnerabili le aree cerebrali e i neuroni colpiti dalla patologia (in particolare quelli coinvolti nelle funzioni e nei processi mnemonici) e che attualmente nessuno degli approcci farmacologici in uso si è rivelato in grado di rallentare o impedire il drammatico decorso della patologia, si rende a tutt‟oggi indispensabile l‟identificazione di nuovi target su cui mirare nuove strategie terapeutiche e lo sviluppo di ulteriori strumenti, in particolare modelli animali della malattia, attraverso i quali raggiungere una migliore comprensione della patogenesi e l‟individuazione di nuovi trattamenti sperimentali. La condizione ideale sarebbe la riproduzione della patologia nella scimmie, data la vicinanza con la specie umana, che però richiede costi molto elevati [interessante, a questo proposito, è la notizia che nei primati è possibile reperire le caratteristiche anatomo-patologiche della malattia di Alzheimer (Rosen et al., 2008)]. Sono stati invece sviluppati diversi modelli animali transgenici murini di AD (vedi Tabella 1). Tuttavia, nessuno di questi riproduce tutte le alterazioni osservate nella patologia, ma solo alcune delle sue caratteristiche, fornendo quindi una rappresentazione incompleta della stessa. La maggior parte dei modelli animali transgenici di AD sono prodotti con inserimento di uno o più geni mutati associati alla forma familiare di AD, che inducono la sovraespressione di peptide A. Attualmente le tre mutazioni geniche descritte nelle forme familiari sono: APP, PS1 e PS2 (Hutton and Hardy 1997; Cruts and Van Broeckhoven 1998; Rocchi et al. 2003; Bertoli-Avella et al. 2004; Pastore e Goate 2004). Come si può osservare dalla Tabella 1, i vari modelli animali riproducono lesioni anatomo-patologiche simili a quelle riscontrate nell‟AD, con sovraespressione di APP e accumulo di A in depositi simili alle placche senili. I tempi di comparsa di queste ultime variano a seconda del modello considerato. In alcuni modelli si evidenziano depositi amiloidi e formazione di placche a livello dell‟ippocampo e della corteccia già dai primi tre mesi (Rockenstein et al., 2001), in altri modelli queste lesioni si manifestano intorno ai 6-9 mesi (Andra et al., 1996; Oddo et al., 2003).

Mentre sono stati creati diversi modelli transgenici nel topo, i modelli transgenici di ratto sinora prodotti sono stati pochi e non si sono rivelati in grado di riprodurre la piena patologia. Recentemente nel

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laboratorio di Dr A. Claudio Cuello (McGill University, Montreal, Canada) è stata generata un nuova linea di ratti transgenici, denominata McGill-R-Thy1-APP. Questi ratti esprimono la proteina umana precursore del peptide -amiloide (AβPP) caratterizzata dalla presenza delle mutazioni Swedish e Indiana, determinanti per la formazione di A (Leon et al., 2010). Questa nuova linea di ratti transgenici mostra una prolungata fase di accumulo di Aβ intraneuronale, visibile già ad una settimana dopo la nascita, che è diffusa in diverse aree corticali incluso l'ippocampo (CA1, CA2, CA3 e giro dentato). Negli animali omozigoti, all‟età di 6 mesi sono visibili densi depositi di Aβ extracellulare positivi alla tioflavina S, associati ad attivazione gliale e neuriti distrofici. Le funzioni cognitive e memoniche nei ratti transgenici McGill-R-Thy1-APP, valutate con il test Morris Water Maze, sono alterate già dai tre mesi d‟età, quando non sono ancora presenti le placche amiloidi. La compromissione cognitiva spaziale diventa grave negli animali più vecchi (13 mesi), in cui le ridotte performance cognitivo-comportamentali correlano con i livelli corticali di Aβ (Leon et al., 2010).

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