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LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NEL SETTORE DEL CUOIO: STUDIO DI UN CASO AZIENDALE NEL POLO INDUSTRIALE DI SANTA CROCE SULL'ARNO

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(1)

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

LAUREA MAGISTRALE

in Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane

LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NEL

SETTORE

DEL CUOIO: STUDIO DI UN CASO AZIENDALE NEL

POLO INDUSTRIALE DI SANTA CROCE SULL’ARNO

Candidata:

Relatore:

Marta Roffinella

Prof. Mario Morroni

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A papà Giuseppe e mamma Angela, due genitori meravigliosi.

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Indice

Introduzione ... 7

1. L’impresa ... 9

1.1 Definizione d’impresa ... 9

1.2 L’impresa come sistema ... 9

1.3 Le funzioni dell’impresa ... 11

1.4 Le finalità dell’impresa ... 12

1.5 Competitività dell’impresa ... 17

2. Inquadramento economico-normativo dell’impresa ... 45

2.1 L’articolo 2082 del codice civile... 45

2.2 Tipologie d’impresa, le loro dimensioni e la natura del soggetto ... 46

2.3 Imprenditore agricolo ... 47

2.4 Imprenditore commerciale ... 48

2.4.1 La rappresentanza dell’imprenditore commerciale ... 49

2.5 Piccolo imprenditore ... 50 2.6 Impresa familiare ... 50 2.7 Enti pubblici ... 52 2.8 Imprese collettive ... 53 2.8.1 Le società di persone ... 54 2.8.2 Le società di capitali ... 56

2.9 Il registro delle imprese ... 59

2.10 Le scritture contabili ... 61

3. Strategia d’impresa ... 63

3.1 Le possibili distinzioni di competitività ... 68

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3.3 Economie di apprendimento ... 70

3.4 Le economie di replicazione ... 72

3.5 Le economie di varietà produttiva ... 72

3.6 Economie esterne e i distretti industriali ... 74

3.7 La gestione delle conoscenze e le risorse immateriali ... 78

3.8 Sistema di monitoraggio della competitività del prodotto ... 79

3.9 I parametri comportamentali ... 80

3.9.1 Analisi dell’ambiente esterno ... 81

3.9.2 Analisi dell’ambiente interno ... 86

4. La gestione delle risorse umane ... 90

4.1 L’evoluzione storica della direzione del personale ... 94

4.2 Struttura organizzativa dell’impresa e del reparto RU ... 99

4.3 I ruoli e le funzioni all’interno del reparto RU ... 105

4.3.1 La differenza tra ruolo, posizione, mansione e compito ... 107

4.3.2 Job enrichment e il job enlargement ... 108

4.4 La gestione strategica e il funzionamento del reparto RU ... 110

4.5 I sistemi di flusso per la gestione delle risorse umane ... 115

4.5.1 La pianificazione ... 115

4.5.2 Il reclutamento e la selezione ... 116

4.5.3 Lo sviluppo e la formazione ... 119

4.5.4 La carriera e la valutazione del potenziale ... 123

4.5.5 Le risorse umane in uscita: licenziamento e turnover ... 129

4.6 Il costo del personale ... 131

4.6.1 I budget del personale ... 131

4.6.2 I costi misurabili del lavoro ... 132

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5.1 La storia e la struttura del distretto conciario di Santa Croce sull’Arno .... 134

5.2 Struttura dell’azienda presa in esame ... 138

5.3 I prodotti dell’azienda presa in esame ... 140

6. Competitività e strategia dell’impresa ... 142

6.1 Vision, mission aziendale e la sua finalità ... 143

6.2 Il modello delle cinque forze di Porter ... 143

6.3 Strategie dell’azienda presa in esame ... 145

6.3.1 Analisi dell’ambiente interno ... 145

6.3.2 Le economie di scala, di apprendimento, di replicazione e di varietà produttiva ... 147

6.3.3 Il distretto industriale delle concerie ... 148

6.3.4 La competitività del prodotto ... 149

7. La gestione delle risorse umane ... 150

7.1 La gestione del reparto risorse umane: la struttura ... 150

7.2 L’organizzazione della direzione risorse umane ... 151

7.3 I ruoli e le mansioni ricoperte ... 152

7.4 La gestione efficace ed efficiente delle risorse umane ... 153

7.4.1 La pianificazione ... 153

7.4.2 Il reclutamento e la selezione ... 153

7.4.3 Lo sviluppo e la formazione ... 154

7.4.4 La carriera e la valutazione del potenziale ... 154

7.4.5 Le risorse umane in uscita ... 155

7.5 Il costo del lavoro ... 155

8. Conclusioni ... 157

Ringraziamenti ... 159

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Introduzione

Il presente elaborato affronta il tema della gestione delle risorse umane, poi-ché negli ultimi decenni è andato a svilupparsi il concetto di risorsa umana come contributo allo sviluppo dell’impresa. Hanno acquisito un’importanza strategica, poi-ché la qualità e le competenze delle risorse umane sono diventate portatrici di un maggior vantaggio competitivo per le aziende. È in atto un cambiamento sulla perce-zione di questa risorsa che risulta essere sempre più importante per lo sviluppo e il sostentamento delle aziende.

Le motivazioni che hanno spinto la stesura della tesi sono frutto di curiosità circa l’utilizzo e l’implementazione delle risorse umane all’interno di un cuoificio del distretto conciario di Santa Croce sull’Arno, al fine di valutare l’effettiva evoluzione o meno del reparto in questione. La mia previsione era di trovare in azienda un me-todo pratico all’avanguardia per la gestione delle risorse umane.

Gli obiettivi della tesi mirano allo studio dell’implementazione attuale delle risorse umane all’interno dell’azienda. Analizzo le caratteristiche generali di orga-nizzazione aziendale, in modo da avere un quadro generale dell’intero cuoificio, per giungere alle motivazioni che hanno spinto l’azienda stessa all’adozione del metodo attuale di gestione delle risorse umane.

In base agli obiettivi prefissati, lo svolgimento del caso aziendale è stato pos-sibile attraverso svariati incontri aziendali. Un incontro fondamentale è stato con la Responsabile della gestione risorse umane, che attraverso un intervista mi ha delinea-to quelli che sono gli approcci utilizzati all’interno dell’azienda per la gestione del reparto risorse umane.

Il primo capitolo tratta un’introduzione generale dell’impresa e dei metodi di valutazione della competitività, in particolare vengono applicati, nei capitoli succes-sivi, il modello delle cinque forze e la catena del valore di Porter.

Il secondo capitolo da un’introduzione di quelli che sono gli aspetti giuridico-economici riguardanti l’impresa in generale. Vengono descritte le possibili forme d’impresa consentite dalla legislazione italiana e le normative a cui attenersi.

Nel terzo capitolo espongo in modo teorico la composizione delle strategie aziendali. Enuncio in modo teorico l’analisi dell’ambiente interno ed esterno

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all’azienda, le economie di scala, di varietà produttiva, di apprendimento, di replica-zione e le economie esterne del distretto industriale.

Il quarto capitolo vede, inizialmente, un excursus storico sulla gestione delle risorse umane. Di seguito viene esplicato il funzionamento e l’organizzazione del re-parto delle risorse umane e della direzione del personale. In ultimo vengono elencate le funzioni svolte per la gestione delle risorse umane, dal reclutamento fino alla ge-stione delle risorse umane in uscita.

Nel quinto capitolo introduco il caso aziendale iniziando dalla storia del di-stretto conciario di Santa Croce sull’Arno, dalle sue origini fino ad oggi. Spiego la struttura e l’organigramma dell’azienda esponendo il ciclo produttivo che viene svol-to per ottenere il prodotsvol-to finisvol-to, ovvero la suola per scarpe in cuoio.

Il sesto capitolo continua con l’esposizione del caso aziendale, in cui analizzo la competitività dell’azienda attraverso il modello delle cinque forze di Porter, fino a giungere all’analisi dell’ambiente interno con la costruzione della catena del valore di Porter e le economie di scala, di varietà produttiva, di replicazione e di apprendi-mento. In ultimo analizzo quelle che sono le economie esterne proprie del distretto conciario.

Dopo aver dato una visione generale dell’azienda presa in esame, nel settimo capitolo ho illustrato l’organizzazione del reparto risorse umane in combinazione con i ruoli ricoperti. Ho analizzato i flussi di selezione, reclutamento, pianificazione, svi-luppo, formazione, piani carriera, valutazione del potenziale e risorse umane in usci-ta.

Il messaggio che ho voluto trasmettere all’azienda, attraverso i nostri incontri, è stato quello di un necessario investimento nelle risorse umane per un futuro più connesso alla stimolazione del personale e alla sua crescita. La possibilità è quella di poter essere più competitivi rispetto alle altre aziende presenti nel distretto soprattut-to sul piano della qualità e delle competenze delle risorse umane, che può portare ad avere un maggiore vantaggio. Nello svolgimento del caso aziendale non è stato pos-sibile valutare ogni singolo approccio descritto in teoria per mancanza di una pro-gressione aziendale verso le risorse umane. Si rimanda all’ottavo capitolo delle con-clusioni per i dettagli e i risultati connessi con il caso aziendale.

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1. L’impresa

In questo capitolo analizzerò la definizione d’impresa, la sua funzione e la sua finalità per giungere a spiegare come un’impresa possa risultare competitività.

1.1 Definizione d’impresa

L’azienda è quel complesso di beni che vengono usati dall’imprenditore per svolgere la propria attività produttiva. L’impresa è un tipo di azienda che ha l’obiettivo di conseguire un profitto e di perdurare nel lungo periodo. È un’istituzione economico-sociale con la funzione di trasformare gli input in output, con valori più elevati, da scambiare sul mercato (Campobasso, 2010, p. 15). L’impresa, dunque, è un’organizzazione che ha lo scopo di produrre e vendere beni o servizi; attraverso il coordinamento, la combinazione e il monitoraggio di un insieme di risorse umane, fisiche e finanziarie (Morroni, 2010, p. 11).

1.2 L’impresa come sistema

Il sistema impresa è un insieme ordinato, non sconnesso, di parti e di relazioni di parti, che tende naturalmente o è programmato al raggiungimento di un determina-to fine. Il comportamendetermina-to delle parti distingue il sistema da un semplice aggregadetermina-to. Vedere l’impresa come un sistema è un’astrazione concettuale, e non una visione og-gettiva, ciò porta a vedere l’impresa come un sistema finalizzato alla creazione di va-lore. Gli elementi che costituiscono l’impresa sono rappresentati da uomini, materia-li, macchine, energie, conoscenze e procedure; i legami tra essi, l’impresa e l’ambiente esterno sono di tipo legale, commerciale, finanziario, sociale, economico e fisico (Bellandi, 1993, pp. 1-2). Per cui l’impresa è un sistema:

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 complesso: poiché coinvolge diversi elementi con caratteristiche diffe-renziate; l’organizzazione aziendale avrà il compito di combinarli per la creazione di valore;

 relazionale e aperto: poiché l’impresa opera in una realtà complessa interagendo con i mercati di approvvigionamento e di sbocco; per po-ter produrre inpo-teragisce con i mercati di approvvigionamento per ri-fornirsi di input da ricollocare come output, una volta lavorati, nei mercati di sbocco;è, dunque, influenzata dai rapporti esterni e a sua volta li influenza;

 di trasformazione: essendo l’impresa un meccanismo di metamorfosi dell’input in output, portando quest’ultimo ad avere un valore mag-giore; l’impresa, quindi, deve essere efficiente, ovvero deve ottenere il giusto bilanciamento dei valori tra l’input e l’output e, a parità di in-put, massimizzare l’output; l’efficacia è la capacità aziendale di rag-giungere gli obiettivi di qualità e, perciò, per essere competitiva deve essere efficiente ed efficace;

dotato di un meccanismo di feedback: ossia deve adottare, in caso di errori, un meccanismo di correzione che deve essere tenuto periodi-camente sottocontrollo, in modo tale da raggiungere l’obiettivo di mi-glioramento;

 cognitivo: poiché l’impresa applica gli apprendimenti all’interno del sistema: un esempio sono le risorse umane, poiché entrando nel siste-ma azienda portano con sé le loro conoscenze. L’impresa deve essere in grado di inserire le conoscenze delle singole risorse umane all’interno dell’intero sistema aziendale;

 finalizzato e tecnologico: l’impresa ha come fine ultimo il perdurare nel tempo, questo obiettivo è legato al profitto perché se l’impresa ha un profitto soddisfacente, perdurerà nel tempo; tuttavia è errato dire che il fine dell’impresa è il profitto perché tale concetto è legato al breve periodo: l’obiettivo principale è di mantenere una condizione solida e di stabilità;

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 vitale: nel senso che deve sopravvivere nel tempo. L’obiettivo di per-durare nel tempo è possibile grazie all’organo decisionale e alla strut-tura operativa (Bellandi, 1993, pp. 2-9).

1.3 Le funzioni dell’impresa

Il concetto di funzione non va confuso con quello di finalità d’impresa. Men-tre il primo riguarda il ruolo che gli viene assegnato dal contesto, il secondo è il fine ultimo dell’impresa (Spina, 2012, p. 19).

Ogni azienda può essere vista come:

 un’organizzazione economica: il cui scopo è la produzione di beni e servizi in grado di soddisfare un bisogno e quindi generare uno scam-bio. È una delle funzioni più importanti svolta dall’impresa stessa, non solo giacché singola azienda ma anche nel completo quadro sociale. Ogni impresa contribuisce alla possibilità che altre aziende si dedichi-no a soddisfare altri bisogni;

 sistema sociale: perché rappresenta uno strumento per la distribuzione di ricchezza creata, rappresentando così uno strumento per il soddisfa-cimento delle necessità anche di coloro che operano al suo interno. Per il suo funzionamento, infatti, necessita di forza lavoro, denaro, merci, servizi, ecc. E’ evidente che svolge un ruolo primario per il so-stentamento di coloro che fanno parte della sua organizzazione;

 struttura patrimoniale: intesa come complesso di beni organizzato al fine di giungere al processo produttivo. L’impresa deve, quindi, sod-disfare la funzione di produzione di reddito richiedendo un investi-mento di capitale a certi livelli di rischio.

L’impresa ricopre una molteplicità di funzioni a seconda dei ruoli che ricopre all’interno del sistema economico-sociale. Le funzioni dell’impresa possono, anche, essere classificate come segue:

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 produrre beni e servizi in grado di soddisfare un bisogno e quindi ge-nerare uno scambio;

 assicurare un equilibrio economico che sia in grado di remunerare tut-te le risorse impiegatut-te;

 consentire la remunerazione del capitale investito in modo soddisfa-cente;

 assicurare il benessere di tutti coloro che entrano in contatto con l’impresa, ogni individuo o gruppo che è influenzato dalle finalità d’impresa, ovvero gli stakeholder.

1.4 Le finalità dell’impresa

Come precedentemente definito, le finalità dell’impresa non vanno confuse con le funzioni d’impresa. La finalità dell’impresa è lo scopo ultimo e ha un carattere universale (Spina, 2012, p. 21).

Il problema della finalità d’impresa si inizia a porre con la nascita dell’impresa manageriale, caratterizzata dalla separazione della proprietà dalla fun-zione di governo dell’impresa, ovvero gli azionisti detengono la proprietà mentre i manager non la detengono ma hanno vasti poteri sul governo, che si scosta dall’ambiente operativo della concorrenza perfetta. La concorrenza perfetta è una forma di mercato in cui il numero di operatori economici presenti sul mercato non ha la possibilità di influenzare il prezzo di vendita dei beni prodotti; il prezzo è fissato dall’incontro della domanda e dell’offerta di mercato.

Quando si parla di finalità dell’impresa il primo concetto che salta all’occhio è il profitto; questo perché, in un modello di concorrenza perfetta, la massimizzazio-ne del profitto è il fimassimizzazio-ne ultimo cui deve tendere l’intera organizzaziomassimizzazio-ne aziendale. Le imprese nella realtà si discostano da questo contesto teorico; infatti, nel modello neo-classico dell’impresa operante in un quadro di concorrenza perfetta, ci sono delle premesse che non possono essere attese nella vita reale, tali caratteristiche sono:

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 assenza di asimmetria informativa e razionalità oggettiva nell’operare le scelte;

 omogeneità dei prodotti offerti;

 impossibilità da parte dei soggetti di influenzare i prezzi di mercato;

 tecnologie e gusti stazionari ed uniformi.

È ovvio che risulta impossibile adattare queste premesse nel contesto in cui opera la grande impresa manageriale. Quest’ultima è strutturata in più impianti, pro-duce diversi prodotti, ha un’organizzazione che può variare continuamente per alcuni periodi ed essere statica per altri, ha una netta separazione tra proprietà e controllo, risponde ad una molteplicità di stakeholder sia interni che esterni. Da questo si dedu-ce che la teoria della massimizzazione del profitto come finalità d’impresa non può essere trasferita in un contesto di impresa manageriale.

Esistono diverse teorie, che si sono sviluppate negli anni, sulla finalità d’impresa. Suddette teorie si possono raggruppare in tre categorie di seguito elencate:

1. la prima categoria vede una serie di teorie che dimostrano come la fi-nalità dell’impresa sia la massimizzazione di obiettivi diversi dal pro-fitto;

2. nella seconda categoria si trovano le teorie che vedono la finalità dell’impresa come la soddisfazione di una molteplicità di obiettivi; 3. alla terza categoria si possono ricondurre le teorie che si rifanno alla

massimizzazione del profitto, il quale viene rivisitato per dargli un’impronta più realista.

Nell’ambito delle tre categorie si possono identificare alcune posizioni singo-le che vasingo-le la pena discutere.

Con riferimento alla prima categoria abbiamo:

 il modello di Marris: tale modello sostiene che, nelle imprese moder-ne, in cui c’è una separazione tra proprietà e direziomoder-ne, i manager puntano non tanto alla massimizzazione del profitto, quanto

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all’espansione dell’impresa, da cui dipendono i guadagni manageria-li; la massimizzazione del tasso di crescita nel lungo periodo non esclude la massimizzazione di altri obiettivi. Da ciò consegue che la loro tendenza sarà quella di massimizzare il tasso di crescita del ca-pitale investito. Questi soggetti devono il loro potere e la loro posi-zione alla proprietà, rappresentata dagli azionisti, e dovranno agire correttamente nei confronti di quest’ultimi per poter mantenere la lo-ro posizione. In questo trade-off che si va a creare, tra desiderio di crescita ed esigenza di sicurezza della propria posizione, il profitto svolge un ruolo di primaria importanza. Infatti da una parte, nella misura in cui viene reinvestito nell’impresa, finanzia lo sviluppo fa-vorendo così gli obiettivi dei manager; dall’altra, viene distribuito sottoforma di utili garantendo, così, la soddisfazione degli azionisti e portando alla riconferma del manager stesso. Secondo Marris, nella grande impresa manageriale, si massimizza attraverso un sistema va-lutativo che ha alla base due elementi diversi: da una parte la cresci-ta dell’impresa e dall’altra la sicurezza della propria posizione ma-nageriale. Il profitto, in tutto questo, svolge il ruolo di strumento atto a soddisfare entrambe le esigenze. Massimizzazione della crescita e massimizzazione del profitto sono incompatibili, dato che oltre ad una certa soglia di crescita il profitto tende a diminuire progressiva-mente a causa dell’insorgere di diseconomie di scala, ovvero all’aumentare della dimensione aziendale aumenta il costo medio della produzione. Occorre che i manager scelgano con cura il mi-glior punto di equilibrio possibile tra crescita dell’impresa e conse-guimento del profitto (Marris, 1972, pp. 275-324);

 il modello di Williamson: tale modello appoggia l’idea che la cresci-ta delle dimensioni aziendali comporcresci-ta, allo stesso tempo, l’aumento del numero e della complessità delle decisioni da prendere. Ciò è spiegabile con la considerazione che man mano che le imprese cre-scono assumono più lavoratori determinando una maggiore stratifi-cazione gerarchica e un incremento dei costi di supervisione. Secon-do Williamson, i lavoratori si suddiviSecon-dono in produttivi ed

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zativi, e solo coloro che sono collocati ai livelli gerarchici più bassi sono produttivi. Quest’ultimi svolgono il proprio lavoro seguendo le istruzioni e le informazioni che gli vengono fornite da coloro che sono collocati nei livelli gerarchici più alti. Al crescere dei livelli ge-rarchici solo una parte delle informazioni giunge ai livelli più bassi. Si verifica una perdita di efficacia nella capacità di fornire istruzioni o dare informazioni, che si traduce in minor efficienza produttiva. Se da un lato la crescita delle dimensioni aziendali determina un ri-sparmio di costi per lo sfruttamento di economie di scala1, dall’altro comporta un loro aumento per la maggiore incidenza dei costi di su-pervisione e di coordinamento (Williamson, 1991, pp. 9-19).

In riferimento alla seconda categoria troviamo:

 il modello di Cyert-March: essi partono dalla premessa che le istitu-zioni non hanno obiettivi, dato che questi sono propri dei soggetti che in esse operano; nell’impresa e intorno ad essa operano un numero elevato di soggetti, aventi ciascuno un proprio bagaglio di motivazioni ed esigenze, tra cui si instaura un meccanismo di contrattazione che porta alla definizione di un set di obiettivi. Questi obiettivi, spesso, sono in conflitto tra di loro e questo comporta una gestione a tutti i li-velli d’impresa sia nel breve periodo che in quello medio-lungo. Per ogni area dell’impresa viene stabilito un target frutto dell’equilibrio raggiunto tra le forze in gioco. Successivamente verrà analizzato il target per, eventualmente, apportare modifiche necessarie (Cyert, March, 1970, pp. 45-65);

 approcci omeostatici: i modelli di questo tipo si collocano tra quelli di non massimizzazione che vedono l’impresa come un organismo bio-logico che risponde agli stimoli datigli dal mondo esterno. Tra i soste-nitori di questa categoria possiamo trovare:

1 Si veda capitolo 3.2.

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a. Boulding: individua la condizione di equilibrio nella struttura del bilancio che può essere alterata, nel tempo, dalle azioni in-traprese dall’impresa e dall’influenza del contesto concorren-ziale dell’ambiente in cui opera. Perciò, ogni volta che una di queste forze allontana l’impresa dalla sua struttura di bilancio, essa reagirà fino a tornare nella sua struttura di partenza (Boulding, 1950, pp. 27-49);

b. Knauth: afferma che lo stato di equilibrio che l’impresa tende a mantenere è rappresentato dalla sua posizione di mercato con riferimento a svariati elementi come gli investimenti, il volume delle vendite, la quota di mercato, il profitto (Knauth, 1956, pp. 18-65);

c. Chamberlain: l’impresa cerca di raggiungere i suoi obiettivi adeguandosi all’ambiente esterno e agisce su quest’ultimo in modo da modificarlo, attraverso la negoziazione, a suo favore (Chamberlain, 1955, pp. 35-78);

d. Nelson, Winter e Cross: il comportamento dei soggetti che operano all’interno dell’impresa è guidato da meccanismi di feedback che li portano ad optare per quelle scelte e quei com-portamenti che in passato hanno dato i risultati più soddisfa-centi (Cross, 1983, pp. 128-156).

Per quanto riguarda la terza categoria, tutti coloro che ne fanno parte sosten-gono che il principio della massimizzazione del profitto non sia superato. Il profitto e la sua massimizzazione rappresentano la base su cui sono stati costruiti i seguenti modelli:

a. Ansoff: fa riferimento ad obiettivi economici di massimizzazione di lungo periodo del saggio di rendimento delle risorse fisiche pos-sedute dall’impresa, congiuntamente con le proprie finalità sociali e le qualità del management (Ansoff, 1968, pp. 35-42);

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b. Ackoff: distingue tra gli obiettivi di stile (immagine, qualità, so-cialità del management) e obiettivi di rendimento (efficienza, eco-nomicità, reddito), (Ackoff, 1973, pp. 44-69);

c. Momigliano: l’obiettivo strategico dell’impresa è l’adattabilità e flessibilità volte a preservare le risorse impiegate in caso di eventi negativi imprevisti (Momigliano, 1975, pp. 277-304).

Tutte queste teorie sopra citate possono essere ricondotte ad un’unica base, vale a dire quella secondo cui la finalità dell’impresa è la sua sopravvivenza. Essa viene riconosciuta universalmente a prescindere dal modello che si vuole applicare. Da qui si deduce che la finalità della sopravvivenza dell’impresa è un vincolo, per il manager, nel formulare gli obiettivi intermedi; nel conseguire i propri obiettivi, esso dovrà per forza di cose tenere in considerazione la sopravvivenza dell’impresa. Nel lungo periodo la sopravvivenza si pone come filo conduttore per l’interpretazione delle politiche e delle strategie poste in essere dall’impresa; porta essa stessa ad espandersi in nuovi mercati, a diversificare il prodotto, a crescere internamente, a fa-re ricerca nel marketing, a collaborafa-re con altfa-re impfa-rese.

In conclusione, si evince che solo la sopravvivenza dell’impresa può essere la finalità assoluta di ogni impresa.

1.5 Competitività dell’impresa

Per l’impresa essere competitiva significa raggiungere l’eccellenza nel campo della redditività rispetto ai suoi competitori. L’obiettivo dell’impresa è il raggiungi-mento del vantaggio competitivo; nasce dal valore che un’impresa crea per i suoi ac-quirenti in modo da fornire risultati superiori alla spesa sostenuta dall’impresa stessa per crearlo (Porter, 1987, p. 9). Il vantaggio competitivo, secondo Michael Porter, è raggiungibile grazie a tre tipologie di strategie, illustrate nella Figura 1:

1. la leadership di costo: è la strategia che può adottare un’impresa per diventare l’unica produttrice di un determinato bene ad un costo più basso rispetto ai suoi concorrenti. Solitamente l’impresa opera in un

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settore ampio e in esso ha un vasto campo d’azione; questo è impor-tante perché maggiore sarà la sua operatività, maggiore è il vantaggio di costo. Le fonti che operano per il vantaggio competitivo possono essere: il perseguimento di economie di scala, le tecnologie esclusive o l’accesso preferenziale nell’acquisto delle materie prime. Un produt-tore a basso costo deve sfruttare al massimo tutte le fonti del vantag-gio competitivo ma non deve ignorare le basi della differenziazione, poiché se il prodotto non viene percepito dai clienti come paragonabi-le sarà costretto a tenere i prezzi molto più bassi di quelli della con-correnza per riuscire a vendere. Questo comporta un annullamento dei benefici della posizione favorevole che ricopriva (Porter, 1987, pp. 17-20);

2. la differenziazione: è la strategia che mira alla produzione di un bene con alcune caratteristiche che vengono unificate, in modo tale che il cliente percepisca il prodotto come unico e sia disposto a pagare un prezzo più elevato rispetto ai prodotti dei concorrenti. La differenzia-zione può basarsi sul prodotto stesso, sul sistema di consegna, sulle strategie di marketing o su una serie di altri fattori. Un’impresa che riesca a realizzare la differenziazione otterrà risultati superiori alla media del settore solo se riuscirà a mantenere i prezzi superiori rispet-to al cosrispet-to extra sostenurispet-to per la differenziazione. La logica della stra-tegia della differenziazione richiede che l’impresa sia veramente unica in qualcosa, o essere percepita come tale (Porter, 1987, p. 21-22); 3. la focalizzazione: è una strategia diversa rispetto alle precedenti.

L’impresa, all’interno del proprio settore, sceglie di focalizzarsi su un’area ristretta e adatta la propria strategia per escludere gli altri. Chi cerca di focalizzarsi su un segmento svilupperà una strategia competi-tiva nel suddetto segmento anche se non risulterà competicompeti-tiva nell’intero settore. La strategia della focalizzazione ha due varianti: la focalizzazione sui costi, in cui l’impresa persegue un vantaggio di co-sto sul segmento prescelto, e la focalizzazione sulla differenziazione, in cui perseguirà la differenziazione solo in quel segmento scelto. In

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entrambi i casi le varianti poggiano sulle differenze tra il segmento scelto e gli altri settori (Porter, 1987, p. 22).

Figura 1 Le strategie competitive di Porter

Fonte: Porter (1987, p. 11)

Un’impresa che persegue tutte le strategie sopra elencate e non riesce a rea-lizzarne nessuna si trova bloccata a metà strada, ovvero non avrà nessun vantaggio competitivo. Un’impresa bloccata si troverà svantaggiata rispetto i concorrenti per-ché le altre imprese che sono riuscite ad adottare una delle strategie saranno in una posizione migliore per competere: se l’impresa bloccata dovesse trovare un cliente redditizio o scoprire un nuovo prodotto, i concorrenti che detengono il vantaggio competitivo spazzeranno via i profitti. Trovarsi bloccati spesso è un indice della mancanza di volontà di fare delle scelte su come entrare in concorrenza (Porter, 1987, p. 24). La strategia di base funziona in modo ottimale quando resiste all’erosione determinata dal comportamento dei concorrenti o dall’evoluzione del settore in cui opera l’impresa. Per sostenere una strategia di base, l’impresa deve ave-re delle barrieave-re che ave-rendano difficile l’imitazione della strategia stessa (Porter, 1987,

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pp. 28-29). Le esigenze e le capacità risultano essere differenti per riuscire a realizza-re una strategia di base, che portano ad una diversa struttura organizzativa e cultura aziendale. Quest’ultima ricopre un ruolo fondamentale per il raggiungimento del vantaggio competitivo. Strategie di base diverse implicano culture aziendali differen-ti. Ad esempio, la differenziazione può essere facilitata da una cultura che mira all’innovazione, all’individualità e alla capacità di assumersi rischi, mentre la leader-ship di costo avrà come base una cultura aziendale legata alla parsimonia, alla disci-plina e all’attenzione per i dettagli. La cultura aziendale può rafforzare il vantaggio competitivo che una strategia di base cerca di realizzare, se è quella giusta (Porter, 1987, pp. 32-33).

Sotto l’aspetto dell’impresa, è importante sottolineare che il concetto di petitività va a toccare diversi livelli di analisi. Infatti, per analizzare il grado di com-petitività occorre analizzare il grado di attrattività del settore di appartenenza o il tas-so di competitività del Paese. La strategia deve nascere da una conoscenza approfon-dita delle regole della concorrenza del settore di appartenenza. Un’impostazione si-mile è alla base del modello delle cinque forze di Porter che analizza le forze che operano nell’ambiente economico e che devono essere tenute sotto controllo per evi-tare di perdere competitività. Le cinque forze determinano la redditività del settore perché vanno ad influenzare i prezzi, i costi e gli investimenti che devono sostenere le imprese appartenenti al suddetto settore. Le imprese, però, attraverso le proprie strategie, possono influenzare le cinque forze. Se un’impresa riesce a modificarne la struttura, l’attrattività di un settore può cambiare radicalmente. Molte strategie di successo hanno cambiato le regole della concorrenza dei settori (Porter, 1987, pp. 10-12). Come illustrato nella Figura 2, gli attori di queste cinque forze sono:

1. concorrenti diretti: sono quei soggetti che offrono la stessa tipologia di prodotto sul mercato. Secondo lo schema di Porter ci sono cinque fat-tori che determinano la posizione competitiva di ciascun concorrente:

 la concentrazione: riguarda il numero di imprese presenti in quel determinato settore; se risulta frammentato, cioè costitui-to da molte imprese, sarà difficile controllare i prezzi ed è faci-le che si riducano;

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 la diversità strutturale: se le imprese si assomigliano negli obiettivi e nelle strategie, sarà più difficile sottrarsi alla con-correnza basata sul prezzo;

 la differenziazione dell’offerta: quando i prodotti offerti ai consumatori sono simili, il cliente sarà portato ad acquistare il bene in base esclusivamente al prezzo; questo porta le imprese ad abbassare i prezzi per incrementare le vendite;

 la capacità produttiva: nel caso in cui ci sia un eccesso di capa-cità produttiva le imprese tenderanno ad abbassare i prezzi in modo da incrementare gli ordini e distribuire, così, i costi fissi su un volume di vendite più ampio;

 struttura di costo: il rapporto che intercorre tra i costi fissi e i costi variabili.

L’obiettivo di questo schema è quello di poter analizzare il quadro completo di come le altre imprese si muovono, in modo da adottare una strategia che sia all’altezza dei concorrenti (Porter, 1987, pp. 14-15).

2. fornitori: sono quei soggetti da cui l’impresa acquista materie prime o semilavorati. Analizzare i principali fornitori vuol dire mettere in evi-denza i fattori che possono influenzare la competitività dell’impresa. Essi possono condizionare il ciclo di approvvigionamento attraverso il livello dei prezzi, le modalità di pagamento, la qualità, ecc. La forza contrattuale dei fornitori, secondo Porter, dipende dai seguenti fattori:

 percentuale di acquisti presso un unico fornitore: nel caso in cui l’impresa avesse un unico fornitore, esso avrebbe un potere elevatissimo;

 esistenza di prodotti sostitutivi: quando il fornitore ha un bene con caratteristiche esclusive, il suo potere contrattuale sarà maggiore, almeno fino a quando l’impresa non riesca a trovare un altro fornitore con un prodotto simile;

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 costi di cambiamento del fornitore: se in caso di interruzione dei rapporti con il fornitore ci dovessero essere elevati costi, allora esso avrà un elevato potere contrattuale. Anche in as-senza di clausole contrattuali onerose ci possono essere dei problemi con il nuovo fornitore, come la mancanza di uno stesso sconto o un livello di servizio differente dal fornitore precedente;

 possibilità di integrazione verticale: un fornitore può decidere di integrarsi con la distribuzione “a valle” attraverso un pro-prio canale distributivo (Porter, 1987, p. 16).

3. clienti: essi sono i destinatari del prodotto finale dell’impresa. Ovvia-mente si riferisce a quei clienti che hanno un elevato peso contrattuale e che potrebbero essere in grado di indurre comportamenti tali per cui si ridurrebbe il margine di profitto. Tale margine è l’ammontare del profitto netto che risulta dalla vendita del prodotto dopo aver pagato tutti i fattori della produzione che hanno contribuito alla sua realizza-zione. I fattori principali che danno un certo peso ai clienti sono:

 dimensione degli acquisti: maggiore sarà il volume degli ac-quisti del cliente, tanto maggiore sarà il suo potere contrattua-le;

 concentrazione della clientela: il cliente avrà un maggiore po-tere contrattuale se il numero dei clienti dell’impresa è minore;

 possibilità di integrazione verticale: si riferisce alla possibilità che ha un cliente di scegliere se comprare un prodotto oppure se produrlo da sé. Se ciò dovesse accadere, l’impresa perde-rebbe un cliente e guadagneperde-rebbe un concorrente (Porter, 1987, p. 17).

4. potenziali entranti: sono quei soggetti che potrebbero decidere di en-trare a far parte del settore in cui opera l’impresa. La minaccia dei po-tenziali entranti dipende dalle barriere all’entrata; più sono elevate,

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tanto più saranno protette le imprese che sono riuscite ad entrate. Esse sono dei costi di produzione che devono essere sostenuti dalle nuove imprese per poter entrare a far parte di un determinato settore. Nel lungo periodo, misurano di quanto le imprese, che già operano sul mercato, possono alzare i prezzi di vendita al di sopra dei costi medi minimi di produzione e distribuzione, senza indurre altre imprese ad entrare su quel mercato. Le barriere all’entrata possono essere tecno-logiche (ad esempio le economie di scala), legali (ad esempio brevetti e diritti di esclusività), di organizzazione del mercato (canali distribu-tivi, reti di marketing e fedeltà dei consumatori) (Porter, 1987, p. 18). 5. produttori di beni sostitutivi: sono quei soggetti che immettono sul

mercato prodotti diversi da quelli dell’impresa ma che soddisfano maggiormente il fabbisogno dei consumatori. Questa minaccia impo-ne spesso un tetto ai prezzi praticabili oltre il quale il consumatore troverà conveniente passare ad un altro prodotto. Questo avviene solo se c’è un elevato grado di similitudine tra i prodotti e se il costo che dovrà sostenere il consumatore per passare da un prodotto ad un altro non sia elevato (Porter, 1987, p. 18).

Figura 2 Le cinque forze di Porter

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Sotto il profilo aziendale, la competitività assume rilevanza sotto tre aspetti: di risultato, potenziale e di processo.

La competitività di risultato è resa esplicita attraverso gli indicatori di per-formance, come ad esempio il reddito pro capite che misura il grado di concentrazio-ne, più è basso e maggiore sarà la concorrenza fra le imprese.

La competitività potenziale si basa su risorse, capacità e competenze che sono fondamentali per i risultati futuri.

In ultimo, la competitività di processo è data dalla qualità, dalla flessibilità e dalle scelte strategiche adottate dal management che permetteranno di ottenere quel grado di superiorità rispetto ai concorrenti.

La presenza dei concorrenti può generare molti vantaggi strategici raggruppa-bili in quattro categorie:

1. aumento del vantaggio competitivo: grazie ad una serie di fattori, i concorrenti possono aumentare il vantaggio competitivo; possono es-sere un modello da seguire per la differenziazione, oppure possono aiutare la contrattazione con i sindacati. Un concorrente può dare mo-tivo di ridurre i costi, migliorare i prodotti e tenersi aggiornato sulle nuove tecnologie. In aggiunta i concorrenti possono accettare di servi-re segmenti che non inteservi-ressano all’impservi-resa per vari motivi;

2. miglioramento della struttura attuale del settore: avere concorrenti può portare al miglioramento del settore in vari modi, come l’incremento della domanda o rafforzando gli elementi desiderabili della struttura; 3. incremento dello sviluppo del mercato: i concorrenti possono

condivi-dere i costi dello sviluppo del mercato, ridurre i rischi per gli acqui-renti, aiutare a legittimare o standardizzare una tecnologia o promuo-vere l’immagine del settore;

4. deterrente all’entrata: i concorrenti possono contribuire alla strategia difensiva aumentando le probabilità di ritorsioni, evidenziando le dif-ficoltà di entrata, bloccando le strade d’accesso o affollando i canali di distribuzione (Porter, 1987, pp. 232-243).

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Ogni impresa è un insieme di attività volte alla creazione di un determinato prodotto. Per analizzare le fonti del vantaggio competitivo occorre stabilire una me-todologia sistematica per analizzare le attività svolte dall’impresa e come esse intera-giscono (Porter, 1987, p. 43). Queste attività si possono rappresentare sotto forma di una catena del valore, illustrata nella Figura 3.

Figura 3 La catena del valore

Fonte: Porter (1987, p. 47)

La catena del valore di un’impresa è lo specchio della sua storia, delle sue strategie e di come le mette in pratica. Estesa ad un intero settore, essa sarebbe trop-po ampia e rischierebbe di offuscare dei punti fondamentali, ecco perché, per co-struirla, è buona norma riferirsi all’attività specifica dell’impresa operante in un segmento distinto del settore. In concorrenza, il valore è dato dalla somma che i compratori sono disposti a pagare per il prodotto offerto dall’impresa. La misura del valore è data dal ricavo totale e il numero di unità vendute. Un’impresa crea profitto quando il valore supera i costi sostenuti per la produzione del bene. La catena del va-lore visualizza il vava-lore totale ed è caratterizzata da due elementi: le attività genera-trici di valore e il margine. Le attività generagenera-trici di valore sono quelle attività fisi-camente svolte dall’impresa per la creazione di un prodotto. Il margine è la differen-za tra il valore totale e il costo complessivo per lo svolgimento dell’attività generatri-ci di valore. Il margine può essere calcolato in modi diversi; le catene del valore dei fornitori e dei canali comprendono un margine che è bene isolare per calcolarlo, dato

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che questi costi saranno pagati dai compratori (Porter, 1987, pp. 46-48). Le attività generatrici di valore possono essere suddivise in due grandi categorie: le attività pri-marie impiegate nella creazione fisica del prodotto e le attività di supporto che so-stengono le attività primarie fornendo tecnologie e risorse umane. Per identificare le attività generatrici di valore occorre isolarle:

1. attività primarie: possono essere distinte cinque categorie generiche: a. logistica in entrata: tutte le attività associate al ricevimento e

alla distribuzione degli input, quali la gestione dei materiali, il controllo delle scorte e le restituzioni ai fornitori;

b. attività operative: tutte le attività associate alla trasformazione degli input in prodotto finito, quali la lavorazione, il montag-gio, il collaudo e la gestione degli impianti;

c. logistica in uscita: tutte le attività associate alla distribuzione fisica del prodotto ai compratori;

d. marketing e vendite: tutte le attività che sono orientate a procu-rare i mezzi mediante i quali i compratori possono acquistare il prodotto o ne sono indotti, quali la pubblicità, la promozione, le offerte, la scelta dei canali e la determinazione dei prezzi; e. servizi: tutte le attività dirette alla fornitura dei servizi per

mi-gliorare o mantenere il valore del prodotto, quali le installazio-ni, le riparazioni e la fornitura dei ricambi.

2. Attività di supporto: possono essere suddivise in quattro categorie ge-neriche:

a. approvvigionamento: si riferisce agli input acquistati che sono presenti in ogni attività generatrice di valore;

b. sviluppo della tecnologia: articolato in una serie di attività che si raggruppano in impegni per migliorare il prodotto e impegni per migliorare il processo. Le tecnologie impiegate nell’impresa sono molto ampie e sono importanti ai fini del vantaggio competitivo;

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c. gestione delle risorse umane: sono tutte le attività che riguar-dano la ricerca, l’assunzione, l’addestramento, lo sviluppo e la mobilità del personale impiegato all’interno dell’impresa. La gestione delle risorse umane è importante per il vantaggio competitivo poiché ricopre il ruolo che determina le compe-tenze e le motivazioni dei dipendenti e i costi di assunzione e addestramento;

d. attività infrastrutturali dell’impresa: a differenza di altre attivi-tà di supporto, esse lavorano a sostegno dell’intera catena e non di singole attività. Si compongono di numerose attività quali: la direzione generale, la pianificazione, l’amministrazione, la finanza, il legale, i rapporti con gli enti pubblici e la gestione della qualità (Porter, 1987, pp. 48-54). La catena del valore di un’impresa è coinvolta in un flusso più ampio di atti-vità che prende il nome di sistema del valore rappresentata nella Figura 4.

Figura 4 Sistema del valore

Fonte: Porter (1987, p. 44)

I fornitori hanno una loro catena del valore; creano e consegnano gli input ac-quistati e usati nella catena dell’impresa. I fornitori possono influenzare le prestazio-ni dell’impresa in vari modi. Inoltre, molti prodotti passano attraverso la catena del valore dei canali verso il compratore. I canali possono influenzare il compratore e le attività dell’impresa fornitrice. Pertanto, il prodotto finisce per diventare parte della catena del valore del suo compratore. Occorre comprendere come l’impresa si inqua-dra nel sistema del valore nel suo complesso per poter mantenere o raggiungere il vantaggio competitivo (Porter, 1987, pp. 43-45).

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“Da quando è aumentata la consapevolezza che è necessario affrontare espli-citamente l’incertezza nel corso della pianificazione, un certo numero di imprese ha cominciato ad usare gli scenari come strumenti per comprendere le implicazioni stra-tegiche dell’incertezza: uno scenario è una visione internamente coerente di ciò che il futuro potrebbe essere. Costruendo scenari multipli, un’impresa può esplorare siste-maticamente le conseguenze possibili dell’incertezza; per scegliere la sua strategia” (Porter, 1987, p. 496).

Gli scenari sono un ottimo dispositivo per prendere in considerazione l’incertezza nelle scelte strategiche. Nella strategia competitiva, l’unità di riferimento per l’analisi degli scenari è il settore. Gli scenari di settore consentono all’impresa di introdurre l’incertezza nelle strategie di un determinato settore. Quando viene foca-lizzato un settore, le incertezze macroeconomiche, politiche e tecnologiche vengono sondate per cogliere le implicazioni a livello concorrenziale. Inoltre, gli scenari di settore comprendono il comportamento dei concorrenti, un fattore chiave di incertez-za nel processo strategico (Porter, 1987, p. 497).

Lo scenario di settore si basa su un insieme di ipotesi sulle incertezze più importanti che potrebbero influenzare la struttura. Esso non è una previsione ma una possibile struttura futura. Devono essere scelti con cura un insieme di scenari che riflettano le future possibili strutture del settore. Successivamente, viene usato l’insieme degli scenari per progettare una strategia competitiva. La costruzione degli scenari, grazie alle cinque forze competitive, avviene come di seguito elencato:

 identificare le incertezze che possono influire sulla struttura del settore;

 stabilire i fattori causali che le determinano;

 formulare un ventaglio di supposizioni plausibili su ciascun fattore causa-le importante;

 combinare le supposizioni sui singoli fattori in scenari internamente coe-renti;

 analizzare la struttura del settore che potrebbe prevalere in base a ciascun scenario;

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 prevedere il comportamento dei concorrenti in base a ciascun scenario. Per costruire uno scenario di settore servono molte interazioni e un processo valutativo. Può essere difficile determinare in modo completo le incertezze più im-portanti al fine della strategia (Porter, 1987, pp. 498-499).

La strategia ottimale per un’impresa è diversa a seconda dello scenario preso in considerazione, poiché ogni scenario comporta una struttura di settore differente e comportamenti dei concorrenti diversi; l’impresa non sa quale scenario si concretiz-zerà e quindi deve scegliere il modo migliore per affrontare l’incertezza nella scelta della propria strategia. Una strategia costruita attraverso un unico scenario è perico-losa mentre una che comprende tutti gli scenari è costosa e spesso gli scenari posso-no essere in contraddizione tra di loro (Porter, 1987, pp. 522-523).

Ci sono cinque approcci di base per affrontare l’incertezza nella scelta strate-gica:

1. scommettere sullo scenario più probabile: in questo modo l’impresa adotta la strategia intorno allo scenario, o agli scenari più probabili mettendo in conto la possibilità che non si verifichi-no. Il rischio in cui si incorre è la possibilità che si manifestino al-tri scenari, rendendo la strategia inadeguata;

2. scommettere sullo scenario migliore: con questo approccio l’impresa attua lo scenario che, nel lungo periodo, può apportare un vantaggio competitivo duraturo. Questo scenario cerca un alto potenziale di crescita e il rischio è che lo scenario migliore non si attui;

3. coprirsi: l’impresa sceglie una strategia che abbia risultati soddi-sfacenti in relazione agli scenari che stima siano quelli realizzabili concretamente. In questo modo si può progettare una strategia ro-busta. La logica è simile alla teoria dei giochi, nella quale un gio-catore fa la mossa che minimizza la sua perdita massima. Adottan-do questa metoAdottan-dologia si sostengono costi più elevati rispetto ad una strategia di scommessa, poiché l’impresa deve essere prepara-ta per numerose possibili circosprepara-tanze competitive diverse;

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4. conservare flessibilità: consiste nell’adottare una strategia che pre-servi la flessibilità fino a quando non appare più evidente lo scena-rio. Una volta che le incertezze iniziano a risolversi viene scelta una strategia adatta allo scenario che si sta manifestando. Un’impresa che preserva la flessibilità risulta danneggiata in ter-mini di posizione strategica, poiché le imprese che si impegnano anticipatamente otterranno dei vantaggi quali la reputazione o la capacità di acquisire i migliori canali di rivendita;

5. influenzare: l’impresa utilizza le sue risorse per far sì che si mani-festi lo scenario desiderabile. Per fare questo occorre influenzare quei fattori causali che vanno oltre allo scenario (Porter, 1987, pp. 524-527).

Spesso vengono adottate strategie combinate e sequenziali. È possibile adot-tare uno scenario probabile o migliore cercando di influenzare quello che si concre-tizzerà (Porter, 1987, pp. 527-528).

In qualsiasi modo l’impresa voglia affrontare il cambiamento incerto della struttura del proprio settore deve tenere conto dei seguenti fattori:

 vantaggi nel muoversi per primi: chi fa la prima mossa può dettare le regole della concorrenza. Possono verificarsi alcuni vantaggi come la reputazione, ovvero ottenere una reputazione di leader collocando l’impresa in una posizione di unicità con benefici di lunga durata. Muovendosi per primi è possibile conquistare un posizionamento at-traente di prodotto o di mercato e nel caso in cui siano presenti i costi di passaggio è possibile bloccare le vendite future. Può esserci un ac-cesso esclusivo ai canali per un nuovo prodotto, scegliendo i migliori intermediari. Inoltre, può esserci un accesso alle risorse essendo la prima a contrattare. In ultimo, muovendosi per primi è possibile otte-nere profitti temporaneamente elevati (Porter, 1987, pp. 214-216);

 posizione competitiva iniziale: se si imposta una strategia in base allo scenario che si adatta alla posizione iniziale dell’impresa può produrre un risultato migliore piuttosto che impostare una strategia in base allo scenario più probabile;

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 costi o risorse necessarie: l’approccio del coprirsi o dell’influenzare richiede maggiori risorse, mentre l’approccio della conservazione del-la flessibilità si trova tra i due estremi;

 le scelte attese dei concorrenti: la scelta adottata dall’impresa deve ri-flettere le scelte che hanno fatto i suoi concorrenti o che intendono fa-re. Occorre comprendere in che modo le singole attività nella catena del valore possono contribuire al vantaggio competitivo nei vari sce-nari (Porter, 1987, pp. 528-530).

Henry Mintzberg sostiene che in ogni impresa esistono forze che la spingono in direzioni diverse.

Figura 5 Le cinque strutture

Fonte: Karlof (1990. p. 187)

Come illustrato nella Figura 5, le frecce più grandi si riferiscono ai cambia-menti. Il gruppo delle frecce più piccole indicano che l’ideologia crea coesione men-tre la politica porta alla divisione (Karlof, 1990, p. 187). Mintzberg ipotizza che nelle organizzazione interagiscono un certo numero di forze:

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 struttura semplice: il coordinamento avviene attraverso una supervi-sione diretta; è una struttura organica. Il capo ha potere su tutte le de-cisioni. L’ambiente circostante la strutture è semplice e dinamico allo stesso tempo. Rappresenta una fase di passaggio nello sviluppo dell’impresa;

 la macchina burocratica: è una struttura che funziona come delle mac-chine regolate. La macchina burocratica si poggia su routine standar-dizzate e la tecnostruttura diventa uno degli aspetti più importanti. È costituita da analisti che acquistano il potere informale poiché sono gli unici a standardizzare il lavoro degli altri;

 la burocrazia professionale: è un’organizzazione caratterizzata da un lavoro stabile e standardizzato, ma è anche complessa e si appoggia ad un meccanismo di coordinazione che la decentralizza. Strutture come questa possono essere riscontrate nell’università, negli ospedali e in organizzazioni simili;

 la struttura divisionale: è un insieme di unità quasi autonome e colle-gate ad un’amministrazione centrale. Queste unità prendono il nome di divisioni, mentre l’amministrazione viene chiamata sede centrale;

 l’adhocrazia: è una struttura complessa con un alto grado di specializ-zazione nel lavoro orizzontale basato sulla formazione per l’amministrazione interna. Questa struttura incentiva lo scambio reci-proco che costituisce il meccanismo di coordinamento (Karlof, 1990 pp. 186-190).

La creazione di una strategia, come illustrato nella Figura 6, avviene consirando e confrontando le minacce e le opportunità esterne con i punti di forza e le de-bolezze interne. Le opportunità esterne vengono sfruttate grazie ai punti di forza in-terni, mentre le minacce vengono evitate e i punti di debolezza superati. Nella crea-zione della strategia assumono rilievo i valori della leadership e dell’etica della so-cietà, la cosiddetta responsabilità sociale, ovvero è una manifestazione di volontà da parte dell’impresa di gestire in modo efficace le problematiche d’impatto sociale

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all’interno delle zone di attività. La formazione della strategia è un processo control-lato e deve rimanere semplice e informale. Devono essere pienamente sviluppate nel processo di progettazione. Infine, una volta scelta la strategia, essa viene implemen-tata (Mintzberg, 1996, pp. 25-30).

Figura 6 Modello base di pianificazione

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Le strategie possono avere differenti forme, come esposto nella Figura 7.

Figura 7 Forme di strategia

Fonte: Mintzberg (1996, p. 16)

Le strategie deliberate possono essere considerate come le intenzioni piena-mente realizzate, mentre le strategie irrealizzate sono quelle che sono state escluse. La strategia emergente è un modello, che attraverso diverse azioni, finisce per con-vergere nel tempo verso una certa coerenza. Poche strategie possono essere conside-rate delibeconside-rate e nella realtà occorre combinare le stconside-rategie delibeconside-rate con le stconside-rategie emergenti nel tentativo di esercitare il controllo (Mintzberg, 1996, pp. 15-17).

Il processo di creazione di una strategia, sia deliberata che emergente, deve essere visto come una scatola nera impenetrabile in cui operano i pianificatori. Come osservabile dalla Figura 8, i pianificatori possono essere coinvolti a livello di input al processo, di supporto al processo o di conseguenze del processo (Mintzberg, 1996, p. 245).

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Figura 8 Formazione della strategia

Fonte: Mintzberg (1996, p. 245)

Mintzberg distingue tre tipi di sviluppo della strategia:

1. il modello della pianificazione: in cui la strategia è un processo voluto e controllato. In questo modello si ipotizza che l’attuazione della strategia segua un determinato periodo di tempo. Dal proces-so di pianificazione scaturisce la strategia pienamente sviluppata, formulata e resa nota. Questo modello classico prevede l’esistenza di uno staff che punta al raggiungimento di una posizione strategi-ca (Karlof, 1990, p. 185);

2. il modello della visione di tipo imprenditoriale: in cui la strategia risulta essere un processo semiconscio che prende forma nella mente dell’imprenditore. La visione giunge grazie all’esperienza di quest’ultimo, essa funge da ombrello sotto il quale prendere de-cisioni specifiche per il futuro. Questa visione deve rimanere per-sonale per preservarne la fertilità (Karlof, 1990, p. 185);

3. il modello dell’apprendimento attraverso l’esperienza: è una stra-tegia che si forma attraverso stimoli che vengono dati dagli input esterni. Chi elabora questa strategia deve crearla con grande

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bilità ed essere sempre pronto a rimodellarla (Karlof, 1990, p. 186).

Figura 9 Controllo strategico

Fonte: Mintzberg (1996, p. 265)

Come illustrato nella Figura 9, occorre valutare la performance delle strategie deliberate (B nella figura) e determinare il grado di realizzazione delle strategie for-malmente intenzionali (A). Prima occorre valutare quali strategie di fatto sono state realizzate (C), intenzionali o meno. L’ultima attività deve essere ampliata (D) per la determinazione delle performance di tutte le strategie, ovvero il controllo strategico deve valutare i comportamenti e le performance. Il controllo strategico e definito da due stadi: nel primo le strategie devono essere tracciate per esaminare l’emergere di strategie intenzionali e non; nel secondo stadio viene considerata l’efficacia delle strategie realizzate. Le strategie, dunque, possono fallire, poiché possono essere state adottate senza successo oppure possono essere state implementate con successo ma risultare inadeguate. Allo stesso modo, le strategie possono riuscire anche se non

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no state inizialmente prese in considerazione. È ovvio che se una strategia risulta es-sere la più adatta, anche se non è stata considerata, verrà applicata (Mintzberg, 1996, pp. 263-266).

Kenichi Ohmae sostiene che nella formulazione di una strategia occorre tener conto di tre fattori importanti: l’impresa, il cliente e la concorrenza. Ogni protagoni-sta è portatore dei propri interessi e obiettivi. Come si evince dalla Figura 10, la stra-tegia che deve adottare l’impresa deve differenziarsi positivamente rispetto a quella dei concorrenti, usando i punti di forza per soddisfare i bisogni della clientela (Oh-mae, 1985, pp. 81-82).

Figura 10 Triangolo strategico

Fonte: Ohmae (1985, p. 82)

Durante la formulazione di una strategia occorre tenere conto di tre fattori principali: l’impresa, il cliente e la concorrenza che vanno a formare il triangolo stra-tegico. In una grande azienda con gruppi diversi di clienti, c’è più di un triangolo

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strategico con più di una strategia da formulare. Occorre decidere quante strategie adottare (Ohmae, 1985, pp. 81-84).

Ohmae sostiene che lo stratega, oltre ad esaminare i punti critici, deve acqui-sire una visione globale della concorrenza. Essa deve riguardare le capacità della concorrenza nel campo della ricerca e sviluppo, le sinergie nelle fasi di approvvigio-namento, produzione, vendita e assistenza tecnica come indicato nella Figura 11.

Figura 11 Prospettiva globale

Fonte: Ohmae (1985, p. 86)

Una strategia ben fatta deve toccare i seguenti ambiti:

 i segmenti chiave dei gruppi della clientela che presentano bisogni si-mili;

 le funzioni chiave dell’impresa che portano agli occhi della clientela la sensazione di differenziazione del prodotto rispetto agli altri concor-renti;

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 tutti gli aspetti chiave della concorrenza in modo da sfruttare i vantag-gi e non trovarsi impreparati nel caso di adozione di stratevantag-gie da parte dei competitori (Ohmae, 1985, pp. 84-85).

Ohmae prosegue con l’analisi delle risorse, ovvero come bisogna impiegare le risorse disponibili. I pianificatori giapponesi sono soliti usare la seguente frase: “hi-to-kane-mono”, che significa: le persone, il denaro e i beni immobili. L’impresa può essere efficiente solo se queste tre risorse sono usate in modo equilibrato come illu-strato nella Figura 12.

Figura 12 Risorse gestionali

Fonte: Ohmae (1985, p. 145)

L’impiego di queste tre risorse critiche dovrebbe venire nel seguente modo: l’impresa dovrebbe impiegare per prima la risorsa “persona” ovvero i manager; quando essi avranno sviluppato idee creative per sfruttare il potenziale dell’impresa si deve procedere all’applicazione della risorsa “denaro” (le risorse finanziarie) e in ultimo la risorsa “beni” (ovvero le strutture produttive, i macchinare, ecc.). I fondi, quindi, servono come trampolino per la realizzazione dell’obiettivo aziendale e sono la forza che mantengono insieme le tre risorse. Solo le persone che possono produrre

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buone idee e i dirigenti validi possono attuare delle buone strategie (Ohmae, 1985, pp. 142-149).

Il cardine della strategia è il vantaggio competitivo. Senza la concorrenza non ci sarebbe bisogno di alcuna strategia, essa implica un vantaggio durevole nei con-fronti dei concorrenti e, quindi, il tentativo di costruire il miglior vantaggio possibile. Nella realtà non occorre una strategia perfetta, basta una strategia che porti ad essere migliore rispetto ai competitori. È considerata una buona strategia quella che riesce ad ottenere più terreno rispetto agli altri ad un costo ragionevole.

Figura 13 Le quattro strategie di base

Fonte: Ohmae (1985, p. 32)

Esistono quattro metodi per rafforzare la posizione di un’impresa rispetto ai concorrenti, come disegnato nella Figura 13:

1. gli FCS (Fattori Chiave di Successo): riguardano la destinazione delle risorse con l’obiettivo di rafforzare alcune capacità in modo da aumentare la quota di mercato e la redditività. Occorre individuare i

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fattori chiave di successo di quel determinato settore in modo da concentrare le risorse in un punto cruciale e acquisire il vantaggio competitivo;

2. la strategia della superiorità relativa: comporta lo sfruttamento di differenze di condizioni esistenti tra imprese competitive per giun-gere ad un vantaggio relativo. La strategia ha due possibilità: la pri-ma è quella di sfruttare la tecnologia, la rete di vendita, la redditivi-tà, ecc. di quei prodotti che non sono in diretta concorrenza tra le imprese; la seconda è quella di sfruttare eventuali altre differenze tra la struttura patrimoniale dell’impresa e quella dei concorrenti; 3. la strategia basata su iniziative aggressive: è volta ad intaccare la

posizione di un concorrente capovolgendo i fattori chiave di succes-so sui quali essucces-so a costruito il proprio vantaggio competitivo. Per realizzare questa strategia bisogna mettere in discussione tutti i pre-supposti scontati del settore in modo da apportare un cambiamento nelle regole del gioco, conquistando così un nuovo vantaggio com-petitivo;

4. la strategia basata sui gradi di libertà strategica: fa riferimento all’uso di innovazioni che possono consistere nell’apertura di nuovi mercati o nello sviluppo di nuovi prodotti. In ambedue i casi occorre sfruttare il mercato operando in modo vigoroso nelle aree lasciate libere dai concorrenti.

Questi quattro metodi hanno un unico obiettivo: evitare di fare le stesse scelte dei concorrenti. Lo scopo di questi metodi è quello di acquisire un vantaggio relativo con iniziative che sono difficili da applicare dai competitori e di incrementare ulte-riormente il vantaggio acquisito (Ohmae, 1985, pp. 30-34).

“Nel momento in cui si elabora una strategia, se si comincia a pensare a tutto ciò che non si può fare e ci si chiede solo quali sono le possibilità che restano è quasi certo che risulterà impossibile superare la situazione problematica esistente” (Oh-mae, 1985, p. 74).

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Lo stratega deve aver ben chiaro gli obiettivi della strategia e deve essere in grado di indurre all’interno dell’impresa la consapevolezza della situazione ideale. Deve rendere gli impedimenti, che possono sembrare insormontabili, dei semplici ostacoli facili da superare. Quando all’interno dell’impresa non c’è una consapevo-lezza comune e non si conoscono gli ostacoli, i dirigenti vanno in direzioni opposte e diventa impossibile raggiungere una soluzione dei problemi. Ma una volta acquisita la consapevolezza comune, le persone interessate possono concentrare le loro energie nel rimuovere gli ostacoli e giungere alla soluzione finale. I risultati che l’impresa può ottenere sono ricavati da una combinazione di pianificazione e di esecuzione (Ohmae, 1985, pp. 74-77).

Dietro ad una serie di decisioni ci sono cinque fasi importanti da seguire: 1. si deve definire con chiarezza il campo d’azione;

2. si devono ricavare le forze che agiscono nell’ambiente operativo e si deve tracciare uno schema del possibile sviluppo;

3. tra le molte opzioni occorre decidere in quale investire le risorse. Un numero elevato di risorse impiegate su un numero limitato di opzioni porta l’impresa ad assicurarsi maggiori probabilità di suc-cesso;

4. l’impresa deve valutare le risorse a disposizione per l’investimento nella strategia e fare attenzione a non sbilanciarsi;

5. la direzione deve seguire le ipotesi di partenza, tuttavia se inter-vengono dei mutamenti, lo stratega non deve esitare ad apportare delle modifiche (Ohmae, 1985, pp. 222-223).

I presupposti che non possono mancare sono rappresentati da una definizione del campo d’azione e una precisa strategia. Inoltre, occorre distribuire in modo cor-retto le risorse gestionali e restare coerenti alle ipotesi di base, ma se avvengono dei mutamenti nel mondo esterno, occorre cambiare direzione senza indugio (Ohmae, 1985, p. 244).

Ci sono tre vincoli che lo stratega deve tenere conto nella formulazione della strategia:

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1. realtà: deve ininterrottamente tenere conto del cliente, della concor-renza e del campo di competenza dell’azienda;

2. tempismo: se i tempi non sono maturi per la strategia è inevitabile che essa fallisca. Di conseguenza una strategia può fallire se è passato il momento giusto;

3. risorse: occorre tenere conto delle limitazioni in fatto di risorse (Oh-mae, 1985, pp. 246-250).

Dunque la competitività, per essere spiegata, va inserita in un contesto spazia-le e temporaspazia-le. Per quanto riguarda il fattore spaziaspazia-le, l’ambito di riferimento è sia il mercato a livello di settore sia il mercato a livello di territorio; in questo senso si tie-ne conto della competitività a livello internazionale tra Paesi. In relaziotie-ne al tempo, la competitività segue un continuo mutamento dei comportamenti secondo la seguen-te logica:

 attiva: comportamento che anticipa i mutamenti;

 passiva: inerzia che riduce la competitività dell’impresa;

 reattiva: l’impresa si adatta ai cambiamenti;

 proattiva: è l’impresa stessa a dominare i cambiamenti.

Mentre per misurare il grado di competitività occorre valutare due aspetti im-portanti: la concorrenzialità e la parità di condizioni. Con il primo concetto si vuole esprimere l’importanza di una valutazione del grado di competitività ove ci sia un vasto mercato che non sia un monopolio o oligopolio. Siamo in presenza di monopo-lio quando c’è una sola impresa che opera in un determinato settore, in molti Paesi la fornitura di energia elettrica avviene in regime di monopolio; si ha oligopolio quando poche imprese offrono un determinato prodotto, quando poche imprese concorrono su un mercato, prima di scegliere le proprie strategie, devono essere valutate quelle messe in atto dai concorrenti. Il secondo aspetto riguarda la parità di condizioni, cioè le imprese devono possedere le stesse risorse. Alcuni strumenti di misurazione pos-sono essere: il ROI (Return On Investment), la produttività, l’efficienza, il tasso di crescita del fatturato, la varietà dell’offerta o il tasso di export.

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In conclusione, per comprendere che cosa origina e influenza la competitività occorre esporre il modello circolare dei sette drivers della competitività, elaborato da Puglisi:

1. management e governance: riguarda le condizioni interne di governo come la struttura societaria o l’implementazione dei principi manage-riali;

2. infrastrutture e logistica: si riferisce ai fattori esterni all’impresa che possono incidere sulle scelte del policy maker (servizi logistici e dei trasporti);

3. lavoro ed etica professionale: la dipendenza del grado di competitività dalle caratteristiche del mercato del lavoro quali rigidità, ruolo dei sindacati e le forme di lavoro flessibile;

4. territorio: evidenzia la relazione tra il livello di competitività di un ter-ritorio e quello delle imprese. È ovvio che politiche territoriali ade-guate possano aiutare lo sviluppo dell’imprese sul territorio;

5. progettualità pubbliche: le risorse che vengono messe a disposizione dagli enti pubblici, come gli sgravi fiscali;

6. internazionalizzazione: fa riferimento al grado di esposizione di un settore al contesto internazionale;

7. risorse critiche: ne fanno parte tutte quelle risorse come i servizi di consulenza, banche, università e centri di ricerca (Puglisi, 2003, pp. 137-160).

La competitività, dunque, non comprende solo le strategie adottate dal mana-ger ma è influenzata da tutta una serie di fattori interni ed esterni all’impresa.

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