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Diritto, decisione, caso

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Academic year: 2021

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SCUOLA DOTTORALE INTERNAZIONALE "TULLIO

ASCARELLI"

Diritto – Economia – Storia

SEZIONE "

Diritto europeo su base storico - comparatistica

"

XVII Ciclo

"Diritto, decisione, caso"

Ch.mo Prof. Eligio Resta Dottoranda: Favorita Barra

Tutor

Ch.mo Prof. Lorenzo Fascione

Coordinatore

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CAPITOLO I

SISTEMA GIURIDICO E DECISIONE

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1. Decisione, sistema, organizzazione

Il sistema giudico instaura con la decisione un rapporto costitutivo e costante.

Ad uno sguardo attento, tale nesso simbiotico pare ramificarsi sia in una direzione prettamente procedurale, che funzionale.

Da un punto di vista squisitamente strutturale, risulta evidente che il diritto è un reticolato di principi e regole decisionali più o meno sistematizzate. Tuttavia, se da un lato, la molteplice fenomenologia dei paradigmi decisionali costituisce la nervatura del diritto; dall’altro, tale involucro funge da potente sonda attraverso la quale è possibile svelare l’imperativo del sistema giuridico: appunto, decidere.1

Alla luce di queste prime considerazioni, il diritto può essere osservato, senza ombra di dubbio, come un sistema non solo formalmente, ma anche sostanzialmente costruito sulla decisione. Invero è da essa che trae la sua linfa vitale. Ciò emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 12 delle preleggi del Codice civile italiano. Tale norma di chiusura, mentre sancisce il principio del non liquet, erge la decisione a codice comunicativo del sistema giuridico2.

Una narrazione sul diritto, quale costruzione così fortemente imperniata sulla decisione, non può prescindere dal tentativo di definirla. Compito impervio, questo, che generalmente, approda ad esiti tautologici. Del resto, affermare che la decisione è una scelta, o che corrisponda ad un’azione cosciente e volontaria, non attribuisce a questo termine alcuna colorazione o tonalità specifica. Per delineare il concetto di decisione, a questo punto, è necessario richiamare quegli strati di significato custoditi nella parola stessa. È noto che il verbo “decidere” deriva dal latino de-caedere.

Tale derivazione rimanda all’attività poietica della separazione; ad una frattura che intercetta e scinde una maniera d’essere da un'altra; in termini temporali: un prima da un

1Tra i suddetti principi e regole decisionali si menzionano in riferimento all’ordinamento giuridico italiano: l’art. 12 preleggi; gli artt. 72 e 138 Cost; gli artt. 225, 226 c.p.c, nonché gli artt. 275, 276, 277, 278, 279, 281 quater – sexies c.p.c,; gli artt. 321, 352, 374, 375 c.p.c.

2 Tale principio è altresì espresso nell’art. 4 del Titolo preliminare del Code Civil, nonchè nell’art. 7 dell’ABGB. L’art. 4 del Titolo preliminare del Code civil impone al giudice il dovere di decidere in ogni caso senza poter addurre a pretesto “il silenzio, l’oscurità o il difetto della legge”, pena la sanzione prevista per la denegata giustizia: “Le juge qui refusera de juger sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de

l’insuffisance de la loi, pourra étre poursuivi comme coupable de déni de justice”. L’art. 7 dell’ABGB detta

alcuni canoni interpretativi: “Qualora una causa non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi simili precisamente decisi dalle leggi e ai motivi di altre leggi analoghe. Rimanendo nondimeno il caso dubbioso, si dovrà decidere secondo i principi del diritto naturale, avuto riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e maturamente ponderate”. Si precisa inoltre che il principio del non liquet regge tanto gli ordinamenti positivi quanto gli ordinamenti di common law

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dopo. Non è un caso che, nella tradizione greca-aristotelica, la kρίσις assumesse rilevanza in quanto asse portante della vita politica comunitaria. Tale aspetto sarà oggetto di approfondimento nel corso della trattazione.

Per ora è interessante soffermarci sul paradosso che il concetto di decisione porta con sé. Ogni decisione può essere concepita come “unità della distinzione”.

Per dirla come Niklas Luhmann, le decisioni sono osservazioni operanti mediante forme particolari di distinzioni, chiamate alternative3.

Invero lo studioso parte dal presupposto che la decisione sia un’osservazione; più precisamente una distinzione che individua un solo versante e non entrambi di una differenza. È evidente che, essendo ogni lato della distinzione raggiungibile, essa intercetta essenzialmente il lato su cui cade la scelta. 4 Viene così tracciato un solco. Il paradosso dell'unità della decisione risiede proprio nel suo rapporto con l’alternativa. Ci si chiede infatti come la si possa circoscrivere ad un versante della distinzione senza richiamare la distinzione stessa.5 Del resto se è vero che la decisione non è condensata

nell'alternativa, come potrebbe venire alla luce senza di essa?

E ancora: se "solo l'alternativa fa della decisione una decisione", l'alternativa è una, ma nello stesso tempo è nessuna, poiché diversamente la decisione non sarebbe una decisione6.

Tali interrogativi rendono palese che, addentrarsi nel campo semantico della decisione, porta a confrontarsi con una evidente complessità.

La decisione è invero il luogo della coesistenza di inclusione ed esclusione, così come della distinzione e del risultato della distinzione. In altre parole continua oscillazione, da un versante all'altro di una differenza, in relazione ai più disparati angoli di osservazione. In conformità a quanto sopra esposto l'unità di tale concetto si rivela un'impossibilità.

3Niklas Luhamann, Organizzazione e decisione, Milano, Mondadori, 2005, p. 109.

4 Il concetto di distinzione ha dunque a che fare con l’operazione di stabilire differenze. Essa viene in rilievo, in quanto costituisce l’imprescindibile veicolo della conoscenza. A tal riguardo, degno di nota è il discorso di G W. Leibniz sulla conoscenza. La distinzione, spiega il filosofo, garantisce il riconoscimento dell’oggetto, senza condurre alla conoscenza degli elementi distintivi che lo definiscono in modo specifico. Siamo di fronte ad un’idea di conoscenza chiara, ma confusa. Leibniz al fine di esemplificarla, fa riferimento al caso dei colori, dei sapori, degli odori, distinti in base alla percezione sensibile “e non grazie a dei contrassegni enunciabili”, oltre che al rilevante caso di un giudizio positivo o negativo su un’opera d’arte, che non si è però in grado di motivare, se non ricorrendo alla presenza o assenza di un “non so che”: Cfr. Gottfried Wilhelm von Leibniz, Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, Scritti Filosofici, a cura di D.O. Bianca, Torino, Utet, 1968, vol.II.

5Si veda a proposito del paradosso dell’osservazione Niklas Luhmann, op cit., p. 104.

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Secondo la lucida analisi di Niklas Luhmann, la decisione è dunque un’osservazione

inosservabile, un evento che rimane inspiegabile e tragicamente incompreso.

Tuttavia, lo svelamento di un paradosso non costituisce necessariamente il punto d’arresto di una riflessione, quanto piuttosto l’approdo ad una analisi consapevole, che acquista una particolare profondità prospettica.

Al di là del mistero di cui si fa portatrice, la decisione assume rilevanza all'interno di ogni sistema organizzato come "evento comunicativo". D'altronde si sa: ogni sistema sociale si fonda e si autoalimenta sulla comunicazione di decisioni, che derivano e costituiscono il presupposto di altre decisioni. A sua volta, l'accettazione delle stesse, indipendentemente dal fatto che si realizzi, viene garantita dall'organizzazione attraverso catene decisionali, che intercettano vere e proprie strutture a tale scopo istituite. Da quanto sopra esposto, la teoria luhmaninana traccia un legame forte tra organizzazione, osservazione e decisione. Questi elementi formano una trama complessa in cui ognuno di essi presuppone e richiama gli altri in egual misura. In tale ottica ogni sistema decisionale risulta essere prodotto e allo stesso tempo produrre organizzazione, osservazione e comunicazione, così come ogni sistema organizzativo è generato e simultaneamente genera osservazione, comunicazione e decisione.

Come è noto il sistema giuridico è un sistema autopoietico7. Più specificamente è autopoietico il sistema che produce continuamente se stesso come suo proprio prodotto. La decisione è la comunicazione che rende possibile questa autoriproduzione. Tuttavia affinché l’autopoiesi sia possibile è necessario che il sistema si trovi nel perdurante stato di incertezza, stato derivante dalla relazione con l’ambiente. Invero il sistema giuridico produce, assorbe e controlla l’incertezza autorganizzandosi. Sul punto, Niklas Luhmann afferma nitidamente: “Il sistema non può trasformare l’insita (diremo anche: autoprodotta) incertezza in certezza. L’assorbimento di incertezza (e di questo dovremmo parlare ampiamente) può essere solo una trasformazione, di volta in volta attuale, della forma dell’incertezza in adattamento a stati mutevoli di irritazione.8

L’irritabilità non è altro che riproduzione di incertezza a partire da determinati stimoli, un particolare equilibrio tra orientamento delle aspettative del sistema e percezione di esigenze nuove derivanti dall’ambiente.

7 Per un’analisi approfondita della teoria dei sistemi sociali si rinvia a Talcott Parsons, Il sistema sociale, introduzione di Luciano Gallino, Milano, Edizioni di Comunità, 1981, nonché sempre di Talcott Parsons,

La struttura dell’azione sociale, introduzione di Gianfranco Poggi, Bologna, il Mulino, 1962.

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Il sistema giuridico oltre ad essere descritto come un sistema organizzato, può altresì essere ricostruito come un sistema decisionale, più precisamente come un insieme di circuiti decisionali, finalisticamente orientato a decidere sulle questioni socialmente rilevanti nonché sulle controversie. In base a tale angolo visuale l’assorbimento dell’incertezza è requisito, scopo e allo stesso tempo risorsa del sistema. Del resto in stato di costante certezza non ci sarebbe nulla da decidere e il sistema perirebbe a causa della sua immobilizzazione. È interessante notare come l’assorbimento dell’incertezza, limite e risorsa del sistema giuridico, è essa stessa un procedimento decisionale, che rigenera costantemente l’incertezza neutralizzata. Ora sorge il problema di individuare in che modo l’incertezza organizzativa venga distribuita, riprodotta e neutralizzata all’interno del sistema. L’incertezza scivola lungo le catene decisionali, addensandosi per poi tornare a fluire nei rapporti interni di potere gerarchizzato che strutturano il sistema. Alla luce di queste sintetiche ma imprescindibili notazioni l’assunto che l’incertezza venga trasformata in certezza appare un dato a cui credere, esclusivamente perché fonda la rappresentazione che il sistema ha di se stesso.

Interessante il rapporto che si instaura tra diritto e certezza. Quest’ultima “di fronte ad eventi contingenti può essere acquisita solo indirettamente attraverso l’aumento dell’incertezza, perché solo in questo modo possono essere costruiti sistemi in ambiente per essi complesso e contingente”9.

Invero, attraverso la lente della teoria dei sistemi può essere riletto il tradizionale concetto di “certezza del diritto”. Ancora una volta molto significative sono le parole di Niklas Luhmann. “La certezza del diritto non è l’ingenua certezza arcaica di essere nel giusto e di poter affermare il proprio diritto, ma è soltanto quella certezza che pone il titolare del diritto stesso nell’incertezza: nell’incertezza di poter affermare il proprio diritto quando si abbia un diritto”10.

Nell’ottica della teoria dei sistemi, il diritto può essere osservato come “un sistema strutturato di processi decisionali11. Esso è l’insieme di eventi selettivi che acquisiscono una particolare struttura in base a criteri di selezione autodeterminati. Operativamente ogni sistema sociale riproduce fabbisogno di decisioni attraverso decisioni12. Da ciò segue che ogni decisione è premessa di un’ulteriore decisione.

9 Ivi p. 202.

10 Ibidem.

11 Niklas Luhmann, La differenziazione del diritto, Bologna, il Mulino, 1990, p. 177.

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Come afferma Niklas Luhmann: “Nella rete ricorsiva dell’autopoiesi le decisioni si orientano sempre ad altre decisioni e perlopiù riflettono il valore orientativo per altre decisioni”13.

Tuttavia va precisato che il rapporto tra premesse e decisioni non è né di tipo logico, né causale.

In tal senso non possono essere dedotte decisioni da premesse, né queste ultime corrispondono a cause di decisioni. È più appropriato affermare che le premesse decisionali stabiliscono i criteri di operatività e fissano i procedimenti di approvazione delle future decisioni. Invero le premesse costituiscono i parametri attraverso i quali misurare la validità delle future decisioni. Esse possono essere altresì definite come “le condizioni regolative del decidere in modo corretto”14

A loro volta le premesse sono decisioni, veicoli dell’autoorganizzazione e autoriproduzione del sistema. Parliamo in tal senso di decisioni di pianificazione. All’interno della gerarchia degli atti sistemici quest’ultime si collocano in una posizione elevata, tuttavia non hanno una natura diversa dalle altre decisioni situate ad un livello gerarchico inferiore. Anche esse canalizzano l’incertezza e riducono, per il fatto di accrescerla, la contingenza che fluisce dall’ambiente. In altre parole la contingenza non viene eliminata, ma circoscritta ad una sola possibilità, che diviene per questo necessità15. In tal senso il diritto opera una regolamentazione della contingenza attraverso il filtro delle decisioni.

La determinazione selettiva di una decisione comporta la determinazione di ulteriori decisioni. Più specificamente una decisione posta ad un grado gerarchico superiore è connotata dalla coazione a determinare le modalità di determinazione e l’oggetto di una decisione di livello gerarchico inferiore. A titolo di esempio le decisioni pianificatrici sono caratterizzate dalla coazione a regolamentare i criteri di adozione e di coordinamento tra differenti premesse decisionali.

Nella statuizione delle decisioni che definiscono le condizioni di correttezza di altre decisioni il sistema sceglie se orientare i suoi programmi agli input o agli output. Nel primo caso parleremo di programmi condizionali, nel secondo di programmi di scopo, a

13 Ivi p. 189.

14 Ivi p.185.

15 Niklas Luhmann, La differenziazione del diritto, cit., p. 201: “La contingenza allora, non viene negata

direttamente, non viene ridotta per il fatto che la si elimini e che si costringa l’agire entro una sola possibilità, che diviene, quindi, necessità: essa viene ridotta per il fatto che la si accresce”.

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seconda che essi poggino sulla valutazione del nesso condizione-conseguenza, o mezzo e scopo16.

Tuttavia, come già accennato, i programmi non forniscono il modello di decisioni già definite, quanto piuttosto apprestano criteri per la produzione della possibilità di decidere sulla situazione concreta. Va invero considerato che il caso di volta in volta associa ai programmi nuove distorsioni cognitive.

Tra l’altro, deve essere sottolineato che ogni decisione per essere valutata ex post deve prima essere costruita cognitivamente. In riferimento a tale operazione essa viene modellata ampliando o riducendo spazi di libertà a seconda dei bisogni.

Alle contingenze specifiche che accompagnano una singola decisione si aggiungono generali limiti di tipo cognitivo, quali la scarsità del tempo e la carenza di informazioni. Di fronte a questi ostacoli il sistema rielabora costantemente il suo grado di complessità interna. Ciò avviene sostanzialmente programmando la gerarchizzazione delle vie di comunicazione e delle competenze17.

A questo punto è necessario precisare che i programmi decisionali, siano essi condizionali che di scopo, hanno un’ulteriore funzione: strutturano la memoria del sistema. Essi decidono cosa nella prassi di sistema deve essere ricordato e cosa può essere dimenticato. Osserva lucidamente Luhmann: “la memoria di orientamento mantiene quegli aspetti delle decisioni che possono essere utilizzati come premesse decisionali, e dimentica tutti gli altri”18.

Questa funzione mnemonica è tipica dei sistemi che programmano decisioni mediante decisioni.

I programmi condizionali stabiliscono in presenza di quali presupposti procedere con un’attivazione. Si prenda il caso di istanze presentate in momenti diversi, da persone diverse, ma che sono soggette allo stesso trattamento. Anche nella programmazione di scopo si possono creare “routine” nell’accoppiamento di mezzi più idonei al raggiungimento di determinati scopi. Del resto una direttiva resta inefficace se non è ricordata. Tra memoria e programmazione si instaura un rapporto biunivoco: se da un lato, i programmi incrementano la memoria di sistema o, se necessario, la modificano, dall’altro quest’ultima contribuisce all’espletamento della programmazione in maniera pertinente alle conseguenze o ai risultati da ottenere.

16 Niklas Luhmann, Organizzazione e decisione, cit. p. 215. 17 Ivi p. 227

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Alla luce di quanto sopra esposto si viene delineando un modello di razionalità fortemente imperniato all’autopoiesi del sistema. È il sistema a scegliere al proprio interno le cause e i mezzi che consentano un agire adeguato alle conseguenze e agli scopi che intende perseguire.

In quest’ottica la decisione assume il ruolo di anello di congiunzione tra cause ed effetti, mezzi e scopi; per un verso essa è strumento dell’attualizzazione della razionalità sistemica.

2. Il tempo della decisione

Il rapporto tra decisione e tempo ha da sempre suscitato una viva riflessione filosofica. Da un certo punto di vista la decisione è una produzione del tempo che, contestualmente, ne offre una ridefinizione. Si può persino affermare che la decisione scandisce un nuovo fluire del tempo: il tempo della decisione. Come ha sapientemente affermato Aldo Gargani: “ogni decisione produce daccapo il tempo”19. Essa assume in sé la duplicità di

due opposte dimensioni: se da un lato costituisce un granulo nel tempo, dall’altro racchiude in sé tutti i tempi: “comprende l’atteso e ciò che è atteso, il desiderio insieme al desiderato, connette tutti gli ingredienti della vita nel mondo che sancisce, appunto, come decisione”20.

È interessante notare come ogni decisione immette il tempo debito, kairòs, nel tempo prestabilito della vita quotidiana, kronos21. Questa incorporazione rivela un versante

profondamente nichilistico.

La decisione è ciò che avviene, ponte tra passato e futuro. Essa vive di una perenne attualità, che priva il passato della sua determinatezza e il futuro della sua indeterminatezza.

Come osserva Niklas Luhmann i sistemi sociali hanno costruito una specifica semantica del tempo.

In altre parole i sistemi organizzati hanno “addomesticato” il tempo, che diviene auto-riferimento dentro meccanismi convenzionalmente predeterminati22.

19 Aldo Gargani, Lo stupore e il caso, Bari, Laterza, 1992, p. 30. 20 Ivi p. 31.

21 Sul concetto di kairòs si rinvia a: Giacomo Marramao, Kairos. Apologia del tempo debito, Roma-Bari,

Laterza, 2005.

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A questo punto la nostra attenzione cade sulle modalità in cui i sistemi regolano il tempo, essendone a loro volta inevitabilmente regolati. Il punto di partenza di tale riflessione coincide con la constatazione che le decisioni prendono sempre forma da ciò che è attuale. Tuttavia pur essendo assunte nel presente, riescono a sincronizzarsi col passato e con il futuro. La decisione sancisce la sua indipendenza dal passato e contestualmente lo ricorda o lo dimentica in maniera selettiva. Osserva Luhmann “ogni decisione da prendere cerca il suo passato al quale appartengono anche altre decisioni passate, informandosi e individuando alternative”23. Da un altro angolo visuale la decisione vincola il futuro,

riducendone possibilità. Questa operazione può assumere forme diverse, generalmente la determinazione di scopi, o la previsione di rischi o pericoli. Ciò che ne deriva è un futuro incerto.

É evidente che il passato è innestato nel futuro e che il futuro è introdotto nel passato24. Ogni decisione poggia su una doppia dimensione temporale, quella del suo passato e quella del suo futuro. Il passato subentra nella misura della sua non modificabilità, il futuro nel suo non essere determinato. Attraverso questi due orizzonti temporali la decisione determina se stessa e il suo tempo.

Invero essa è una proiezione del tempo nel tempo, che scandisce una differenza tra passato e futuro.

Ogni sistema elabora al suo interno una temporalizzazione della complessità, sezionando il tempo in maniera da rendere possibile un rimando a possibilità che garantiscono il necessario ambito di scelta per le decisioni25.

A questo punto la presente analisi può soffermarsi sul particolare rapporto che si instaura tra tempo e decisione giuridica. Il legislatore italiano sancisce all’art. 11 delle preleggi che: “la legge non dispone che per l’avvenire essa: non ha effetto retroattivo”. Questo principio può tuttavia essere discrezionalmente derogato. Da ciò segue che, se in linea generale, la legge dispone una regolamentazione del futuro, quasi per arginarne l’incertezza, in casi particolari, al fine di tutelare interessi costituzionalmente protetti, essa regola eventi accaduti prima della sua entrata in vigore.

Una specifica riflessione accompagna la questione dell’irretroattività della legge in materia penale.

23 Niklas Luhmann, Organizzazione e decisione, cit., p. 137

24 Ibidem.

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L’art. 25 comma 2 della Costituzione italiana statuisce che: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. È così sancito il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, altresì disposto dall’art. 2 c.p. comma 1. Particolare attenzione deve essere prestata a questo articolo. Il comma 3 dispone che “se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 135”.

Pertanto, nel caso di successione modificativa, la legge posteriore si applica retroattivamente se più favorevole al reo rispetto a quella in vigore al momento della commissione del reato. In questo caso il legislatore autorizza una immissione della dimensione presente nel passato. Viene così tutelato il principio costituzionale dell’inviolabilità della libertà personale inciso fortemente dalla pena detentiva. Sussiste però un limite all’applicazione di questa disposizione normativa: l’intervento di una condanna irrevocabile. A questo punto l’osservazione può scindersi in due piani Da un’ottica interna al sistema il giudicato cristallizza il presente26. Invece, da un punto di

vista ad esso esterno, la sentenza irrevocabile produce nuova complessità temporale.

3. Genealogia della decisione

Il pensiero delle origini costituisce il contributo essenziale per la comprensione delle dinamiche sottese ai paradigmi decisionali e nello stesso tempo mette in luce uno scivolamento semantico che dall’antico conduce al moderno.

È necessario dunque ripartire dagli insegnamenti aristotelici contenuti in particolare nell’Etica Nicomachea e nella Politica, per mettere a fuoco come la centralità della decisione possa assumere diverse colorazioni nel passaggio dalla comunità politica arcaica ai moderni sistemi giuridici.

Le parole chiave del discorso aristotelico sono: “giudizio”, “scelta” e “deliberazione”, concetti sia riconducibili ad una dimensione sostanziale che formale.

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Il giudizio (κρίσις) é “separazione”, taglio netto all’interno di un campo di possibilità, più specificamente decisione. La kρίσις27 è indubbiamente il risultato di un procedimento

intellettivo, che tradotto in azione, modifica il dato fenomenico. Traslata da una dimensione prettamente individuale ad una collettiva, essa assume rilevanza come asse portante della costruzione politica arcaica.

È necessario a questo punto sottolineare che la dimensione comunitaria è il luogo in cui etica e politica coincidono nel perseguimento di uno stesso fine: la felicità, “il bene supremo” 28.

La politica è, quindi, il campo in cui si innesta la traiettoria che conduce alla felicità collettiva.

Il percorso che tende all’eudaimonia è una “ricerca” costruita su una serie di scelte che si traducono in azioni. Risulta evidente, sin dalle battute iniziali dell’Etica Nicomachea, che ogni azione tende ad un bene, il quale, può sia essere perseguito in vista di un altro bene e divenire a sua volta mezzo, oppure incarnare la perfezione, individuando un fine in sé. Utilizzando le parole di Aristotele la felicità è “ciò che è scelto per sé e mai per altro”.29

La scelta, in questo senso, diviene modus di un agire mediano, equidistante da difetto e eccesso, in cui il criterio di riferimento diviene il comportamento del phronimos, eretto a “modello” dalla comunità in base a parametri comportamentali moralmente condivisi.30

Egli è infatti detentore della phronesis, la capacità di deliberare su ciò che risulta vantaggioso e “buono”, mediante un calcolo prudente delle opportunità, in vista di singoli fini praticabili, che se sommati conducono alla “vita felice” 31.

La scelta è indubbiamente inscritta nell’ambito dell’agire volontario, costituendone una particolare articolazione. Non tutte le azioni volontarie sono in essa riconducibili, restano escluse quelle determinate da costrizione esterna o compiute in stato di immaturità, di ignoranza o incapacità. Una qualsiasi azione può essere imputata all’agente e dunque essere oggetto di eventuale responsabilità morale e giuridica, solo quando, il principio dell’azione può essere ricondotto all’agente o, più precisamente, alla parte che in esso è dominante, la sua componente razionale. A tal proposito Aristotele scrive: “Ognuno

27 La parola kρίσις è riconducibile al verbo kρίνω da cui il latino cerno, discrimen, cribum, traducibile in lingua italiana sia con distinguere, secernere, separare, che con scegliere, giudicare e decidere, cfr. Vocabolario Greco Italiano, L. Rocci, Perugia, Società Editrice Dante Alighieri, 2002.

28 Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Claudio Mazzarelli, Milano, Bompiani, 2000, libro I, 1094 a20.

29 Ivi I, 1097 a 34.

30 Ivi II, 1107a: “La virtù, dunque, è una disposizione concernete una scelta, consistente in una medietà, in rapporto a noi, determinata in base ad un criterio, e precisamente al criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo saggio”.

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smette di cercare come agirà quando ha ricondotto il principio dell’azione a se stesso, e precisamente a quella parte di sé che è dominante, giacché è questa che sceglie” 32 Da un’analisi prettamente linguistica la scelta, proairesis33, può essere definita una

selezione in base a ciò che risulta preferito attraverso una deliberazione, procedimento intellettivo, che traduce la semplice volizione, in scelta razionalmente orientata verso uno scopo. Emblematiche, ancora una volta, sono le parole di Aristotele: “Poiché dunque, l’oggetto della scelta è una cosa che dipende da noi, desiderata in base ad una deliberazione, anche la scelta sarà un desiderio di cose che dipendono da noi: infatti quando, in base ad una deliberazione arriviamo ad un giudizio, proviamo un desiderio conforme alla deliberazione” 34.

Dunque, la scelta è ascrivibile all’agente, in quanto libera e consapevole solo se prodotto di una deliberazione. Muovendo dapprima da un ambito esclusivamente coscienziale, la deliberazione corrisponde ad un esame che si svolge nel foro interno, ed ha ad oggetto i mezzi praticabili per il raggiungimento di un fine. Utilizzando l’immagine aristotelica, essa corrisponde al procedimento di costruzione di una figura geometrica. La scelta, che ne è risultato, può essere definita un “desiderio deliberato” e, allo stesso modo, il giudizio corrisponde ad un desiderio conforme ad una deliberazione.

Proairesis e krisis costituiscono dunque il ponte tra orexis e phronesis, tra la sfera delle

tendenze e dei desideri dell’uomo e il campo della saggezza pratica, che ha il compito di moderarli e orientarli.

In altre parole, scelta e giudizio tracciano una linea mediana tra i fini dell’agire, desiderabili in base alla conformazione dell’agente ad un tessuto normativo di tipo naturale e sociale e il calcolo razionale dei mezzi idonei per raggiungerli. Ciò risulta chiaramente da un passo dell’Etica Nicomachea: “Infatti la virtù fa retto lo scopo, e la saggezza fa retti i mezzi per raggiungerlo”.35 Non a caso Mario Vegetti ricostruisce “la

prassi razionale” aristotelica in base ad un sillogismo, la cui premessa maggiore contiene il fine, già posto dalla virtù; la minore i mezzi determinati dalla phronesis; la conclusione è l’azione.36 Forma particolare di saggezza pratica è quella politica, che anima l’attività

deliberativa e giudiziaria della città. 37

32 Ivi III, 1111 a 25; 1113 a6.

33Il verbo pro-aireo, assume il significato di prendere, assumere, tirare fuori, estrarre, preferire, eleggere cfr. Vocabolario greco italiano, L. Rocci, op. cit.

34 Ivi III, 1113 a 10. 35 Ivi VI, 1144a 6 e ss.

36 Mario Vegetti, L’etica degli antichi, Roma - Bari, Laterza, 1989. 37 Aristotele, Etica Nicomachea, cit. VI, 1141, b 32.

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Se infatti al centro dell’Etica Nicomachea è posta la scelta tra il bene e il male, “desiderio pensante” (orexis dianoetiké)38attraverso il quale si determina la qualità morale del

cittadino39; nella Politica la narrazione ruota tutta attorno al giudizio, inteso come atto

formale che attiene al governo della polis o alla statuizione di ciò che spetta a ciascuno. Proprio in apertura Aristotele scrive: “Ma la giustizia è virtù politica perché il giudizio è l’ordine della comunità politica; e il giudizio è la determinazione di ciò che è giusto.”40

La polis è una particolare forma di aggregazione umana, radicata sulla comunanza del suolo e fondata sulla relazione comando - obbedienza, non intercorrente esclusivamente tra governati e governati, ma anche tra padrone e schiavo, tra padre e figlio, tra uomo e donna.

Queste relazioni di potere intercettano tre tipologie di autorità differenti.

Aristotele precisa che l’autorità politica, a differenza dell’autorità padronale e domestica, si esplica nel comando esercitato su “liberi e uguali”.41 Non a caso l’archè, campo

semantico chiave della Politica aristotelica, costituisce la possibilità per la polis di mantenere unità e autosufficienza.

È necessario, a questo punto, indagare il rapporto tra comando e decisione, concetti profondamente co-implicati. Se il comando inteso come requisito del potere, è presupposto della facoltà decisionale, il giudizio (krisis) ne costituisce la forma e nello stesso tempo la misura.

In altre parole la decisione è informatio del comando, la sua cristallizzazione.

Ogni atto di comando, dalla legge al verdetto emesso dai tribunali, contribuisce alla creazione di un ordine, taxis utilizzando la parola greca.42Secondo un noto studio, questo termine corrisponde ad un assetto relazionale di elementi, connessi tra loro, deliberatamente orientati alla realizzazione di uno scopo, tendenzialmente il mantenimento o la restaurazione di quell’ordine.43

La taxis della comunità greca arcaica è, dunque, ordine “esogeno”44, il cui scopo coincide con il suo fine, il raggiungimento della vita buona coagulata nella medietà.45 Dall’analisi aristotelica si evince che la decisione è metro di misura dell’ordine. In un passo della

38 Ivi VI 2 1139b 4

39 Ivi III, 1112a 2: “Infatti, è con lo scegliere tra il bene e il male, che determiniamo la nostra qualità morale”. 40 Aristotele, Politica, Milano, BUR, 2002, I, 1253 a 35.

41 Ivi I, 1255 b 20.

42 Ivi I, 1253 a 35; IV 1290 5.

43 Friedrich A Von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Milano, Il Saggiatore, 2000, p. 51-54. 44 Ibidem.

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Politica, la costituzione è definita come “ordine imposto alle cariche pubbliche, che vengono distribuite o secondo il peso politico di chi vi accede o secondo un criterio di uguaglianza, che poggia su di un elemento comune per esempio ai ricchi o ai poveri o agli uni come agli altri”.46È evidente che la costituzione é krisis, e nomos allo stesso

tempo, distribuzione e regola delle magistrature, “governo della cittadinanza e fine della comunità politica”.47Le singole leggi invece, ad essa subalterne, consentono, da un lato,

l’applicazione di quei principi fondamentali contenuti nelle disposizioni costituzionali e, dall’altro, costituiscono il termine medio di ogni giudizio48. È evidente che ogni specie di

Costituzione intercetta una forma di governo differente, lasciando emergere in superficie il problema di decidere quali siano i criteri di legittimazione per l’accesso alle cariche deliberative e giudiziarie.

Operando una sintesi delle molteplici variabili, che individuano la vasta fenomenologia di tipi e specie di costituzioni attuabili in un dato contesto storico e sociale, possono essere isolati due modelli di riferimento, la democrazia e l’oligarchia.

Quest’operazione sposta il nostro sguardo dalla dimensione contenutistica del giudizio alla sua componente procedurale

In linea di massima un governo democratico, fondato sull’uguaglianza di tutti i cittadini, è contrassegnato del potenziale accesso di tutto il popolo alla cariche politiche, “la sovranità esercitata da tutti su ciascuno e da ciascuno su tutti a turno; il sorteggio come sistema per scegliere i magistrati o per lo meno quelli che non devono avere particolare esperienza o competenza specifica; l’abolizione del censo come condizione per adire alle cariche pubbliche, o la sua riduzione ai minimi termini; il divieto di essere rieletto con poche eccezioni valide per poche cariche, salva la rieleggibilità per quelle militari; la brevità del tempo di esercizio imposta a tutte le cariche o a tutte quelle per le quali è possibile; la funzione di giudici attribuita a chiunque sia stato scelto tra tutti con giurisdizione su tutte le cause o le più numerose più importanti e più decisive” […] 49. Tratto distintivo dell’ordinamento democratico è dunque l’accentramento su ciascuno dell’autorità di comandare e nello stesso tempo della facoltà di essere comandati. Ogni cittadino è allo stesso tempo artefice e destinatario delle decisioni politiche, non a caso la partecipazione alle cariche pubbliche è esercitata a turno e/o a sorteggio. Tale assetto

46 Ivi IV, 1290 a 5.

47 Ivi IV, 1289 a 10- 15. 48 Ivi IV, 1287 b. 49 Ivi VI libro 1317 b 20

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dimostra, che ognuno possiede geneticamente l’arte del giudizio politico, la politiké

techne; dunque, è chiamato sia a governare la polis in qualità di magistrato, che a discutere

in assemblea, che ad aggiudicare nei tribunali civili e penali.50 Più precisamente la capacità di deliberare e di giudicare è assunta nella teoria aristotelica come criterio definitorio della condizione di cittadino.51

La democrazia ateniese, raggiunta la massima fioritura con la riforma di Clistene attorno al 507 a. C., poggia la sua impalcatura su numero esiguo di istituzioni, tra le quali spiccano l’assemblea e il Consiglio. L’ecclesía può essere definita come il centro decisionale della

polis, per l’eterogeneità e la rilevanza delle materie su cui è chiamata a deliberare.

Titolare del diritto di partecipazione al governo della polis è chiunque, in stato di libertà, abbia compiuto diciotto anni. Le leggi ordinarie, le riforme e i provvedimenti in materia finanziaria, la dichiarazione dello stato di guerra o di pace, sono oggetto di discussione e di esame da parte del cittadino, che si sia spontaneamente riunito in assemblea.

In una logica di ripartizione di competenze, se il demos è sovrano nella deliberazione di un’ampia fascia di decisioni politiche, alla Boulè è riservato il potere di iniziativa legislativa e il potere di controllo sull’operato delle magistrature. La modalità di accesso al Consiglio, i cui membri sono selezionati in misura proporzionale da dieci tribù territoriali, è scandita dal sorteggio.

La selezione casuale, dinamica costante nella determinazione delle cariche pubbliche, è per l’eccellenza il tratto distintivo dell’ordinamento democratico. Tuttavia essa è pratica applicabile anche ad altre forme di governo seppure in presenza di differenti presupposti procedurali. Proprio in ordine alla nomina delle magistrature Aristotele precisa: “Quando un numero ristretto di cittadini sceglie i magistrati da un numero ristretto di eleggibili con la votazione, si ha l’oligarchia; e questo vale anche con il sorteggio (che però non avviene nello stesso modo)” 52 . Degenerazione dell’assetto costituzionale aristocratico,

l’oligarchia si differenzia dalla democrazia per quei criteri decisionali, sulla quale è costruita, che vanno a incidere sul numero e sullo status di chi è chiamato a scegliere le linee politiche della comunità. Considerando la costituzione, come decisione sul “modo” di distribuzione delle magistrature53, si può osservare che ogni forma di governo è il

50Per una più diretta analisi del concetto chiave aristotelico dell’uomo come zoon politicòn, si rinvia a: Moses I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, Economica Laterza, Roma Bari, 1997, pp. 25-28.

51 Aristotele, Politica, cit., III 1275 a 30-35: “ma il miglior criterio per definire il cittadino in assoluto è la partecipazione ai tribunali e alle magistrature”; cfr. ivi III, 1275 b 15-20.

52 Ivi IV, 1300 b 1-5 53 Ivi IV, 1289 a 15.

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risultato di una combinazione di fattori che attengono alla selezione dei cittadini legittimati a nominare i magistrati, all’ambito cetuale entro il quale la nomina deve ricadere e alla modalità di nomina54. In base a questo paradigma l’oligarchia intercetta un ordine costituzionale, all’interno del quale, solo un numero ristretto di cittadini è chiamato a nominare le cariche pubbliche, l’ambito entro cui la scelta prende forma è circoscritto ad alcuni cittadini, scelti in base all’appartenenza ad una certa stirpe (γένoς) e/o ad un censo (τίμηματις) elevato.

Si potrebbe affermare che oligarchia e democrazia si pongono in una linea immaginaria, in cui il potere decisionale, in un estremo, è detenuto da pochi in base ad una scelta operata da alcuni, e, nell’altro, è esercitato da ognuno, effettivamente, nelle deliberazioni assembleari e da tutti come chance di accesso, in relazione alle magistrature. Tuttavia per Aristotele il miglior ordinamento costituzionale si cristallizza nella forma intermedia tra due eccessi, in cui il potere è custodito nelle mani della classe media. Difatti sia i poveri, che i ricchi, portatori di opposti interessi particolari, fanno pendere l’ago della bilancia del governo su un estremo o su un altro, determinando così l’allontanamento della vita politica dalla medietà.55

Come nell’Etica anche nella Politica la méson costituisce il cuore segreto della produzione aristotelica. Concetto riconducibile ad un campo semantico doppio, se da un lato essa individua lo strumento attraverso il quale raggiungere un certo fine; dall’altro corrisponde ad una posizione tra due estremi, in altre parole ad un intermezzo. La medietà segna la via che conduce all’amicizia, ma allo stesso tempo è philia, baricentro della costruzione politica. Da questo punto di vista la costituzione può essere definita, in un certo senso, vita intermedia della città, continua messa in forma operata dalla virtù. Secondo la prospettiva aristotelica solo la classe media, costituita da cittadini uguali e simili, può porsi ad una giusta distanza dalle cariche pubbliche, in modo che non si possa verificare né indifferenza rispetto ad esse, né una lotta per ricoprile. In questo senso una posizione mediana nel gioco degli interessi e delle istanze comunitarie riflette la natura della costruzione politica e, nello stesso tempo costituisce, l’ambiente adatto al dominio della ragione.56

54 Ivi IV, 1300 a 15.

55 Ivi IV, 1296 a 5-35.

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4. La decisione giuridica nella prospettiva della teoria normativistica del diritto

Si è detto che il sistema giuridico è strutturato su una sequenza di decisioni tra loro interdipendenti. Tale conformazione sub specie decisionis può essere rintracciata anche alla luce della teoria generale del diritto che, per eccellenza, sembra procedere al dissolvimento di ogni momento decisionistico: la teoria normativistica.

Il suo massimo esponente, Hans Kelsen teorizza, come è noto, una strutturazione a gradi dell’ordinamento giuridico (Stufenbau). Più specificamente ogni norma, partendo proprio dalla Grundnorm, che conferisce legittimità all’intero ordinamento, pone un’altra norma e la autorizza a statuire diritto, secondo i procedimenti formali previsti dalla norma di rango superiore. Da questo punto di vista il meccanismo normativo può essere tradotto in una concatenazione di autorizzazioni a decidere ad un livello inferiore. Le norme dunque possono essere lette come autorizzazioni decisionali.

Kelsen definisce l’ordinamento come “una concatenazione produttiva”. Ogni norma è valida in quanto è stata prodotta da una regola determinata, in base a specifiche modalità57. Le norme sono pertanto poste: non sono dedotte logicamente dalla norma di

grado superiore, ma costituiscono un atto di volontà. Pertanto il diritto decide e orienta la sua propria produzione: “una norma giuridica regola il procedimento con cui un’altra norma giuridica viene prodotta e, regola anche in grado diverso il contenuto della norma che deve essere prodotta”58. Tale concatenazione di autorizzazioni decisionali procede dunque dalla Grundnorm alla Grundgesetz, dalla Grundgesetz alle leggi ordinarie, da quest’ultime ai provvedimenti giurisdizionali e amministrativi. La Costituzione, come è noto, ricopre il più alto grado nella gerarchia delle fonti statali. Le sue funzioni consistono nell’individuare gli organi preposti ad espletare determinate competenze, nel sancire i procedimenti di produzione normativa e nel determinare il contenuto delle leggi future. Allo stesso modo le leggi ordinarie definiscono il procedimento e fissano i contenuti delle norme individuali emanate dalle autorità amministrative e dai tribunali.

Il pensatore praghese precisa che ogni norma generale che connette un fatto astrattamente predeterminato a specifiche conseguenze giuridiche necessita di essere individualizzata

57 Hans Kelsen, “Lineamenti di dottrina pura del diritto”, traduzione italiana di Renato Treves, Torino, Einaudi, 2000, p. 96: “Una norma vale come norma giuridica, sempre e soltanto perché si è presentata in un modo particolarmente stabilito, è stata prodotta secondo una regola del tutto determinata, è stata posta secondo un metodo specifico”.

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per raggiungere il suo proprio significato. In tale ottica la giurisdizione è attività costitutiva; essa “è produzione del diritto nel vero senso della parola”59. Dunque l’identificazione del diritto nella norma generale e astratta costituirebbe esclusivamente “un pregiudizio”. La sentenza, continua Kelsen, è “individualizzazione o concretizzazione della norma giuridica generale e astratta, la continuazione del processo di produzione del diritto dal generale all’individuale”60.

Come la giurisdizione anche l’attività amministrativa è individualizzazione e concretizzazione di leggi generali e astratte, specificamente di leggi amministrative. Nel campo del diritto civile l’estrema individualizzazione e concretizzazione delle norme generali, oltre che nell’atto giurisdizionale, si esplica in direzione dell’autonomia privata. Fra la legge e la sentenza si pone infatti il negozio giuridico. Le parti, delegate dalla legge, pongono delle regole di comportamento reciproco. La loro violazione costituisce il fatto che deve essere accertato nella sentenza. L’estrema conseguenza dell’illecito è l’atto esecutivo, espressione dell’ultima fase del processo di “produzione del diritto” che ha inizio con la promulgazione della Costituzione.

Tuttavia gli atti normativi non sono solo atti di produzione, ma anche di esecuzione del diritto. Se da una parte lo creano, dall’altra lo applicano. Ogni atto applica una norma di grado gerarchico superiore e nello stesso tempo, produce una norma di grado gerarchico inferiore. Invero ogni norma è atto di esecuzione e autorizzazione decisionale a produrre diritto. Più specificamente la norma fondamentale autorizza la Costituzione alla produzione normativa; quest’ultima autorizza le norme generali e astratte a regolare una determinata fattispecie; le norme autorizzano le sentenza o gli atti amministrativi a decidere sul caso concreto, nonché i privati a scegliere la regolamentazione dei propri interessi.

Tuttavia è necessario precisare che la norma di grado superiore non determina mai in maniera completa il contenuto della norma di grado inferiore. Invero l’organo competente a produrre la norma di grado inferiore detiene un potere discrezionale più o meno ampio. In questo modo la norma di grado superiore funge da modello che deve essere riempito di contenuto. Come osserva Kelsen ogni atto giuridico è determinato solo in parte da una norma di grado gerarchico superiore. La quota di indeterminatezza rimanente “si può

59 Ivi p. 109.

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riferire tanto al fatto condizionante, quanto alla conseguenza condizionata, cioè tanto al «come» quanto al «che cosa» dell’atto da realizzarsi”61.

L’indeterminatezza può risiedere nell’intenzione dell’organo che pone la norma di grado più elevato o diversamente può essere non intenzionale. In quest’ultimo caso la vaghezza può essere conseguenza non intenzionale della natura della norma che deve essere eseguita. Da ciò segue che la norma da applicare fornisce esclusivamente uno schema entro il quale si innestano diverse possibilità di esecuzione. Invero per interpretazione si intende il riconoscimento delle possibilità sviluppabili entro lo schema che offre la norma da interpretare. Con ciò è possibile affermare che “l’interpretazione della legge non deve condurre necessariamente ad un’unica decisione come la sola esatta, bensì, possibilmente, a varie decisioni che hanno tutte il medesimo valore in quanto corrispondono alla norma da applicarsi anche se una soltanto tra esse, nell’atto della sentenza, diventa diritto positivo”62. È manifesto che ogni determinazione della norma individuale nel

procedimento di esecuzione della legge è una funzione della volontà. Tale rilievo richiama lo snodo cruciale della teoria schmittiana. Come è noto Carl Schmitt afferma che in ogni statuizione, c’è un elemento di pura decisione in alcun modo derivabile dalla norma63.

In quest’ottica il punto di partenza della teoria kelseniana è ribaltato: la decisione è origine di ogni normazione. Schmitt asserisce che la forza giuridica della decisione non deriva dalla norma.

Memorabili sono le sue parole: “in senso normativo, la decisione è nata da un nulla. La forza giuridica della decisione è qualcosa di diverso dal risultato del suo fondamento. Essa non si spiega con l’aiuto di una norma, ma viceversa è solo grazie ad un punto di riferimento che si stabilisce che cosa sia una norma e che cosa sia la correttezza normativa. In base alla norma non si ha nessun punto di riferimento, ma solo una quantità di contenuto”64.

Tuttavia, non può essere taciuto che il concetto di decisione sovrana porta con sé quello di normatività. Invero il sovrano è colui che nello stato d’eccezione ripristina quella

61 Ivi p. 118.

62 Ivi p. 121.

63 Sul punto si rinvia a Carl Schmitt, Teologia politica, in Le Categorie del politico, a cura di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Bologna, il Mulino, 1972; si fa altresì riferimento a: idem, Dottrina della

Costituzione, a cura di Antonio Caracciolo, Milano, Giuffrè, 1984.

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“situazione media omogenea”65, necessaria affinché ogni norma generale possa avere

efficacia. Per situazione media omogenea non si intende un Konkrete Ordnung, quanto piuttosto il fatto che, nel momento in cui il sovrano decide, questo suo atto è trasformato in modello di comportamento.

Del resto la decisione sovrana è tale solo se riesce ad imporsi al contesto sociale, ridisegnando l’unità dell’ordinamento.

Da quanto sopra esposto è evidente che ogni norma presuppone una decisione e che ogni decisione giuridica non è configurabile se svincolata dal tessuto normativo. A tal proposito è opportuno notare che la norma non può essere prodotta o applicata senza una decisione e, viceversa, una decisione non può “sopravvivere” senza il sigillo formale di efficacia conferito dall’iter normativo procedurale66

4.1 L’orizzonte degli: «Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, entwickelt aus der Lehre

vom Rechtssatze»

Rilevante è, a questo punto, far riferimento ad un’opera di Hans Kelsen pubblicata nel 1911e titolata: Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, entwickelt aus der Lehre vom

Rechtssatze. La parola chiave di questo scritto è: “volontà”, concetto molto sottile che

attiene all’imputazione giuridica di un comportamento67.

La proposizione giuridica è espressione di una volontà statale qualificata. Essa sancisce l’esistenza della volontà dello Stato di auto-obbligarsi. Del resto la norma non obbliga solo i consociati, ma anche lo Stato stesso a tenere una certa condotta. In conformità con la teoria imperativistica del diritto la norma è essenzialmente un imperativo, dal quale è

65 Carl Schmitt. Teologia Politica, cit. p. 39: “La norma ha bisogno di una situazione media omogenea.

Questa normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua efficacia immanente. Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha senso l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale e, sovrano è colui che decide in modo definitivo se questo stato di normalità regna davvero”.

66 Il nesso relazionale tra norma e decisione è stato oggetto del dibattito giuridico- filosofico, in particolare si rinvia a: Alfonso Catania, Decisione e norma, Napoli, Casa editrice Dott. Eugenio Jovene, 1979. 67 Si precisa che il concetto di voluntas e quello equivalente seppur non identico di boulesis è inteso da gran parte della filosofia classica come principio razionale dell’agire; in stretto collegamento con la ratio dell’azione. Per Aristotele la boulesis “risiede nella parte calcolativa” (Aristotele, Topici, IV,5, 126 a, 15, vedi in Id, Organon, trad. it. Marcello Zanatta, vol. II, Torino, Utet, 1996, p. 196). Platone, invece, ha messo in evidenza la distinzione tra la volontà del potente, che opera razionalmente e il “volere” del tiranno che agisce a piacimento; quest’ultimo dunque non fa ciò che “vuole”, ma ciò che a lui “sembra” (cfr. Platone,

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ricavabile la volontà statale di punire o autorizzare una sanzione. Tuttavia, precisa Kelsen, che alla luce di tale impostazione teorica, non è possibile conferire alla norma una specifica connotazione giuridico-formale. Più precisamente la norma deve essere definita come “l’accertamento di quei presupposti cui si ricollega una volontà dello Stato e non il comando, finalizzato ad uno scopo, di un potere”68. La proposizione giuridica che accerta

le condizioni su cui è ancorata la volontà statale assume così la forma dell’imperativo ipotetico.

Da ciò, asserire che determinate conseguenze giuridiche sono “volute” dallo Stato, equivale ad affermare che la proposizione giuridica stessa implica l’imputazione allo

Stato.

Secondo un particolare angolo prospettico, lo studioso praghese sottolinea che le norme sono giudizi sull’esistenza della volontà condizionata dello Stato69.

D’altronde la volontà statuale può essere configurabile sono nell’accezione di volontà

condizionata.

Ogni condotta degli organi statali è invero giustificata da determinati presupposti. Così, ad esempio, quando non si hanno i requisiti sanciti per la produzione di una legge, non sorge alcuna volontà statale e l’atto normativo non ha validità.

Invero, nella legge non si coagula solo la volontà dello Stato di produrre obblighi giuridici in capo ai cittadini, ma anche la sua volontà di tenere una determinata condotta70.

Hans Kelsen osserva nitidamente: “Si tenga presente solo che la persona statale, giuridicamente, non è altro che volontà statale (e allo stesso modo il diritto è solo un giudizio su questa volontà). Lo Stato esiste solo in quanto “vuole”. Esso non c’è né prima della sua volontà né al di fuori di essa e tutto ciò che non è ancora volontà perfetta ricade al di fuori dei suoi confini, che coincidono con la sfera del diritto”71. È evidente che la volontà è giuridicamente rilevante solo se manifestata e incanalata nelle forme del procedimento normativo. Invero, nel processo di formazione della volontà statale si gioca il tentativo di costruirla giuridicamente. Emblematico è il rilievo che emerge dall’analisi kelseniana: “La produzione del diritto […] ovvero la nascita della persona statale stanno

68 Hans Kelsen, Hauptprobleme der Saatsrechtslehre, entwickelt aus derLehre vom Rechtssatze, Tübingen,

Mohr, 1911, trad. it. Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, a partire dalla dottrina

della proposizione giuridica, a cura di Agostino Carrino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, p.

270. 69 Ivi p. 275

70 Sulla teoria dell’auto-obbligazione dello Stato si veda: Georg Jellinek, La dottrina generale dello Stato, a cura di Vittorio Emanuele Orlando, Milano, Società Editrice Libraria, 1921.

71 Hans Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, a partire dalla dottrina della

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al di fuori dell’ambito giuridico, proprio come la generazione spontanea e la genesi ininterrotta di nuova vita dall’assenza di vita ricadono al di fuori della sfera della considerazione esplicativa dell’essere, al di fuori della scienza della natura”72. Proprio

tale passaggio degli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre rende manifesta la componente puramente decisionista di ogni produzione giuridica e/o normativa.

Su questo snodo fondamentale il pensiero kelseniano e il pensiero schmittiano convergono.

Come è stato dimostrato, la pura decisione è dunque fortemente incardinata nel processo di formazione della legge, nonché nel complesso ingranaggio organizzativo del sistema giuridico.

Del resto in quest’opera risalente lo Stato è osservato in chiave di organizzazione politica. La teoria normativistica è ancora in fase di gestazione.

5. Il paradigma procedurale di decisione sui conflitti

Come è stato precedentemente affermato, la proposizione giuridica può essere letta, nell’ottica delle teoria kelseniana, come la decisione sui mezzi di produzione del diritto. Tale ricostruzione delinea un paradigma procedurale di regolazione giuridica sostanzialmente indifferente e neutrale rispetto all’oggetto che intende regolare73.

Come è noto, tale modello si è andato sviluppando nel corso del processo storico che ha condotto il diritto dal medioevo all’età moderna.

Esauritesi le ragioni di un diritto differenziato per ceti si è affermata la necessità di un ordinamento giuridico valido universalmente, costruito su norme generali e astratte. Esso ha posto a tutela dell’uguaglianza e della libertà la procedura. Il diritto come procedura è definito pacificamente come una grande conquista storica, che ha assunto in primo luogo

72 Ibidem.

73 È evidente che il paradigma procedurale di decisione sui conflitti non si esaurisce sul piano teorico entro la costruzione della teoria kelseniana. Come è noto il normativismo logico kelseniano ha influenzato dottrine successive. Si pensi alle scuole analitiche. Tra tutti si veda il fondamentale contributo di Herbert Lionel Adolphus Hart, a cura di Mario Cattaneo, Il concetto di diritto, Torino, Einaudi 2002; per la dottrina italiana si faccia riferimento a: Ugo Scarpelli, Filosofia analitica e giurisprudenza, Milano, Nuvoletti, 1953. Non può non essere menzionata l’imponente opera di Luigi Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e

della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2007, elaborata in base ad una teoria del diritto improntata su un

metodo assiomatico, fortemente connessa sia alle teorie analitiche e del linguaggio quanto alla visione pura e logica del diritto.

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le vesti di “Stato di diritto”74. Tale trionfo ha decretato la presa di distanza dall’arbitrio

della decisione sovrana. Tuttavia tale prospettiva si è dimostrata insufficiente nel momento in cui ha dovuto fare i conti con il problema della giuridificazione della vita. La fine del mito dell’omogeneità sociale, favorito dall’egemonia di una sola classe al potere, l’affermazione di ordinamenti giuridici, politici e sociali pluralisti e pluriclasse hanno reso manifesta la precarietà del paradigma puramente processuale75.

I limiti del formalismo hanno condotto parte della dottrina a disvelare il simulacro della forma e a connettere il diritto al fatto. In altre parole il diritto può essere osservato nella sua fondamentale funzione di tecnica regolativa di concreti rapporti giuridici afferenti a soggetti realmente esistenti. Va precisato che la critica del formalismo non si è tradotta mai nell’abbandono della forma.76Quest’ultima deve più che altro essere intesa come il veicolo di una specifica sostanza normativa. Invero la procedura nel diritto non può dissimulare la realtà e la concretezza dei rapporti giuridici. Il legame tra forma, diritto e realtà sociale deve essere mantenuto forte. Come ha ben osservato Gaetano Azzariti: “la procedura rappresenta un mezzo per dare soluzione giuridica ai conflitti sociali e politici che percorrono il diviso corpo sociale, non può invece essere intesa come il fine ultimo del diritto”77. Alla luce di ciò il diritto deve essere considerato come norma sociale, che

regola i rapporti giuridici, senza astrarsi completamente dall’oggetto specifico del contendere78.

Del resto non è in alcun caso possibile scindere radicalmente il legame che sussiste tra fatto e diritto, tra realtà e forma. In tale ottica il paradigma procedurale si presenta come la formalizzazione del modo in cui il potere si esplica. A questo punto va precisato, che storicamente tale formalizzazione assume sfumature diverse. In una prima fase, con il consolidarsi dello Stato assolutista nell’Europa continentale, la formalizzazione dei rapporti politici e amministrativi, esplica la prerogativa del sovrano di vigilare sull’operato dei soggetti investiti di pubbliche funzioni.

In questo caso la procedimentalizzazione dei rapporti giuridici è finalizzata ad istanze ancora assolutistiche di governo e controllo.

74 Sul punto si faccia riferimento a Niklas Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Frankfurt a Main, Suhrkamp, 1969.

75 Come sostenuto da: Gaetano Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Roma – Bari, Laterza, 2010, p. 219.

76 Cfr. Giovanni Tarello, Formalismo, in Novissimo Digesto Italiano, vol. VII, Torino, Utet, 1965, pp. 571

ss; Riccardo Orestano, «Diritto». Incontri e scontri, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 383 ss. 77 Gaetano Azzariti, op. cit., p 221.

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In una seconda fase, invece, la formalizzazione inizia ad assumere le vesti di garanzia e limite del potere. Più precisamente con l’avvento dello Stato liberale di diritto i vincoli procedurali hanno acquistato un valore di limite effettivo del potere.

Può invero affermarsi che il rispetto di vincoli di natura procedurale costituiscono una condizione necessaria per l’abbandono da parte degli ordinamenti giuridici statali di caratteristiche proprie di Stati autoritari, ma non può assumersi che la mera formalizzazione sia anche una condizione sufficiente79.

Così, allo stesso modo, la limitazione del potere del sovrano è elemento necessario per la nascita dello Stato costituzionale di diritto, ma non assorbe totalmente le sue prerogative. Invero lo Stato costituzionale moderno impone oltre ai limiti di forma, anche limiti di contenuto: il rispetto di specifici principi giuridici politici e sociali.

Nell’ambito della teoria generale del diritto il normativismo tende ad affidare la questione della soluzione dei conflitti a presupposti prettamente procedurali. Anzi è possibile affermare che ogni problema relativo alla decisione sui conflitti è connesso alla questione del fondamento della validità della norma80. In tale ottica però la soluzione dei conflitti non ha a che fare con la composizione di conflitti sociali, quanto piuttosto con la necessità di trovare soluzione alle antinomie normative81.

Questione da risolvere tramite l’applicazione di principi logici.

Nella teoria kelseniana i fatti e la realtà non hanno rilevanza. Tuttavia, in tale ottica, il “diritto puro” separato da qualsiasi contaminazione fattuale viene snaturato, privato della sua essenza e ridotto a mera apparenza. Ciò è riconosciuto puntualmente proprio dal padre fondatore della “dottrina pura” del diritto, che sottolinea: “secondo il concetto dinamico, il diritto è qualcosa che è stato creato seguendo un dato procedimento, e ogni cosa che sia stata creata in tal modo è diritto. Ma questo concetto dinamico di diritto è soltanto in apparenza un concetto di diritto. Esso non offre alcuna soluzione del problema relativo all’essenza del diritto, al criterio in virtù del quale il diritto può distinguersi dalle altre norme sociali. Questo concetto dinamico fornisce una risposta soltanto al problema del se e del perché una data norma appartenga ad un sistema di norme giuridiche valide, formi parte di un dato ordinamento giuridico. E la risposta è che una norma appartiene ad

79 Gaetano Azzariti, op. cit. p. 230.

80 Si veda Hans Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, traduzione italiana di Sergio Cotta e Renato Treves, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, p. 111, Id., La dottrina pura del diritto, traduzione italiana di Mario Giuseppe Losano, Torino, Einaudi, 1990, p. 217.

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un dato ordinamento giuridico, se è creata in conformità ad un procedimento prescritto dalla costituzione fondamentale di tale ordinamento”82.

La norma viene così ricondotta a pura forma. Ma proprio il rigore formale della teoria normativista cela una contraddizione. In un passaggio argomentativo della Teoria generale del diritto Kelsen afferma: “Ciò non significa tuttavia che qualsiasi cosa sia stata creata secondo quel procedimento sia diritto, nel senso di norma giuridica. Sarà una norma giuridica soltanto se intende regolare il comportamento umano, e lo regola provvedendo come sanzione un atto coercitivo”83.

Riemerge così la connessione tra norma e realtà materiale. Pertanto, pur riconoscendo la forza logico- sistematica della dottrina pura del diritto, non può non essere messa in luce la difficoltà di ricondurre l’intera vita del diritto ad una pura normatività.

Come è noto, il fondamento filosofico della dottrina in esame è la separazione tra il diritto è l’esperienza sociale; tra il “dover essere” e “l’essere”84. Tale rilievo, elaborato

all’interno della “Scuola di Vienna”, è assunto come compito preponderante della scienza giuridica85.

Invero nella teoria kelseniana le categorie giuridiche e gli istituti normativi sono “finzioni”, rispetto alle quali la realtà risulta irrilevante. Del resto l’essenza immateriale del diritto, che consta di una natura squisitamente logica, può essere raggiunta esclusivamente attraverso la sua depurazione dalla concretezza dei rapporti sociali. Tuttavia il tentativo di ridurre l’ordinamento ad un sistema di norme, in cui la validità è sia criterio logico formale di esistenza delle stesse, sia vincolo di congiunzione tra esse, è destinato a fare i conti con il problema del suo fondamento. Spiega lucidamente Kelsen: “la ricerca di un fondamento, non può proseguire all’infinito, come la ricerca della causa di un effetto. Tale ricerca deve terminare con una norma presupposta come ultima e suprema”86.

82 Hans Kelsen, Teoria generale del diritto, cit. p. 124. 83 Ivi p. 125.

84 Tale rilevo è esplicitato sin dalla più risalente produzione teorica di Hans Kelsen, si veda: Problemi

fondamentali della dottrina di diritto pubblico, a partire dalla dottrina della proposizione giuridica, cit. p.

7 e p. 18; tra i molti studi che hanno avuto ad oggetto il fondamento filosofico della dottrina pura del diritto si faccia riferimento a: Renato Treves, Il fondamento filosofico della dottrina pura del diritto di Hans

Kelsen, in Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino, vol. LXIX, 1933-34, pp. 65 ss.

85 Sul ruolo di Kelsen all’interno della Scuola di Vienna si veda: Giuseppe Volpe, Il costituzionalismo nel

Novecento, Roma- Bari, Laterza, 2000, p. 139 s. e p. 288.

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Da ciò segue che la Grundnorm immette alla base della concatenazione produttiva delle norme un elemento extranormativo. Risulta perciò fallace la possibilità di separare nettamente la costruzione normativa dalla realtà extranormativa.

Ma vi è di più. Lo sforzo teorico di escludere la realtà dal sistema normativo, se da un lato conduce lo studioso a cogliere la natura di alcune delle categorie fondamentali del diritto e dello Stato, dall’altro produce costruzioni scientifiche vuote, che segnano l’incolmabile distanza tra l’ordinamento giuridico e l’ordinamento giuridico concreto87.

In tale ottica il diritto non può essere considerato come un corpo impermeabile alle infiltrazioni della realtà politica, sociale, culturale circostante. La polimorfia di tali aspetti configura l’ordinamento giuridico concreto, per nulla riconducibile a puro logicismo. Il diritto è un istituzione normativa e sociale, che si confronta continuamente col pluralismo e le differenze sociali. La sua forza ordinante si pone così in un rapporto dialettico con il caos più o meno apparente dei fatti sociali.

Su tal punto è rilevante far riferimento alla tesi di Eugen Ehrlich. Come è noto tra quest’ultimo e Hans Kelsen si è svolto, in seguito alla pubblicazione dei “Fondamenti della sociologia del diritto”, un acceso dibattito sulle pagine dell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik». In primo luogo Kelsen contesta l’opera ehrlichiana per la confusione tra la sfera del dover essere e dell’essere.

Questa confusione è resa evidente dalla definizione di regola. Ehrlich afferma che una regola dell’agire sociale è “ovviamente una regola secondo la quale non solo si agisce, ma si deve anche agire”.88 Lo studioso ne svela dunque una duplice natura: in essa

risaltano sia l’aspetto fattuale che normativo. Oltre a ciò Ehrlich precisa che nella proposizione giuridica non è racchiuso l’intero diritto. In tal senso esso non è un fenomeno corazzato della sua normatività. Memorabili risuonano le parole: “Voler rinchiudere il diritto di un’epoca o di un popolo entro gli articoli di un codice sarebbe ragionevole quasi quanto voler catturare una corrente in uno stagno: la parte che vi entrerà non sarà più corrente viva, ma dell’acqua morta, e molta parte della corrente non vi entrerà affatto”89.

87 Cfr. Gaetano Azzariti, op., cit., p. 239.

88 Eugen Ehrlich, I fondamenti della sociologia del diritto, a cura di Alberto Febbrajo, Milano, Giuffrè, 1976, p.843.

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