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La giustizia riparativa tra i reati ambientali e la criminalità d'impresa.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

LA GIUSTIZIA RIPARATIVA TRA I REATI

AMBIENTALI E LA CRIMINALITÀ D’IMPRESA

Relatore:

Prof.ssa Valentina Bonini

Candidata:

Eleonora Marchi

(2)

INDICE

INTRODUZIONE

... 6

CAPITOLO I:

LA

DIBATTUTA

NOZIONE

DI

AMBIENTE ... 8

1. Premessa ... 8

2. L’ambiente nella Costituzione ... 10

2.1 Teoria monista e teoria pluralista. ... 13

2.2 Concezione antropocentrica e concezione ecocentrica. ... 17

3. L’ambiente nell’ordinamento comunitario e internazionale. ... 20

CAPITOLO II: TECNICA NORMATIVA E STRUTTURA

DEI REATI AMBIENTALI ... 26

1. Premessa ... 26

2. L’incidenza della nozione di ambiente sulla tecnica di costruzione normativa delle fattispecie penali in materia di ambiente ... 27

3. Struttura dei reati ambientali ... 28

4. I reati di pericolo ... 31

4.1 I reati di pericolo astratto e problemi di compatibilità con il principio di offensività ... 35

5. L’accessorietà del diritto penale al diritto amministrativo .. 42

6. Tra tutela di beni e tutela di funzioni ... 43

6.1 La tutela di funzioni come strumentale alla tutela dell’ambiente ... 46

(3)

6.1.2 L’assenza di autorizzazione ... 50

6.1.3 La violazione delle prescrizioni impartite dalla P.A. ... 51

6.1.4 Superamento dei limiti tabellari ... 52

CAPITOLO III:

CRIMINALITÀ

AMBIENTALE

E

RESPONSABILITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE

... 57

1. Il soggetto attivo ... 57

1.1 Focus sulla responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato ambientale ... 59

1.2 Criteri di imputazione oggettivi ... 62

1.2.1 Il problema della delega di funzioni ... 65

1.3 Criteri di imputazione soggettivi ... 67

1.3.1 Reati commessi da soggetti in posizione apicale . 68 1.3.2 Reati commessi da soggetti in posizione subordinata ... 69

2. La colpevolezza ... 70

2.1 Principio di precauzione e colpa ... 73

3. La persona offesa ... 74

3.1 La costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste ... 77

3.2 La costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti ... 80

CAPITOLO IV: LA GIUSTIZIA PENALE RIPARATIVA

... 82

1. Premessa ... 82

2. La necessità di una giustizia penale più riparativa ... 82

3. L’espressione “giustizia riparativa” ... 87

(4)

5. I soggetti ... 90

5.1 La vittima ... 90

5.1.1 Le vittime di “corporate violence” ... 93

5.2 L’autore del reato ... 96

5.3 La comunità ... 97

5.4 Il mediatore ... 99

6. Caratteristiche dei procedimenti di giustizia riparativa .... 100

7. Obiettivi e strumenti della giustizia riparativa ... 102

CAPITOLO V: VERSO LA GESTIONE DEI REATI

AMBIENTALI

ATTRAVERSO

LA

GIUSTIZIA

RIPARATIVA ... 106

1. Premessa ... 106

2. Art 452 – decies c.p. : il ravvedimento operoso ... 107

3. Art. 452 - terdecies c.p.: l’omessa bonifica ... 112

4. Art. 257 TUA: la bonifica dei siti ... 114

5. Parte VI – bis TUA: “Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale” ... 117

5.1 Ambito applicativo: ... 117

5.2 Procedura ... 118

6. L’oblazione ... 121

7. La messa alla prova ... 124

8. La giustizia riparativa nel D.Lgs. 231/2001 ... 131

9. La sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti dell’ente ... 137

CONCLUSIONI

... 142

BIBLIOGRAFIA

... 148

(5)
(6)

INTRODUZIONE

Il presente lavoro è volto a sondare le potenzialità e i margini di applicabilità degli strumenti di giustizia riparativa nella gestione dei conflitti derivanti dalla commissione di reati ambientali. Rivolgendo l’attenzione a tale tipologia di reati, che assumono maggiore rilevanza se commessi nell’ambito dell’esercizio di un’attività di impresa, non ci si potrà esimere da un confronto anche con gli strumenti proposti all’interno del D.Lgs. 231/2001. La necessità di volgere l’attenzione verso strumenti in grado di offrire risposte nuove alle esigenze di tutela, prende le mosse dalla sempre più avvertita inadeguatezza dei modelli di giustizia tradizionale a far fronte a questo tipo di illeciti.

L’elaborato si articola in cinque capitoli: il primo è volto a individuare una nozione di ambiente giuridicamente rilevante, in quanto essa è suscettibile di incidere sia sulla tecnica normativa sia sulla struttura di reato che pare più opportuno adottare per offrire migliore protezione al bene.

Nel secondo e nel terzo capitolo verranno messe in evidenza quelle che sono le caratteristiche proprie dei reati ambientali, costruiti per lo più ricorrendo al modello dei reati di pericolo astratto, al fine di individuare quale sia di volta in volta l’interesse tutelato e, conseguentemente, quale sia il disvalore su cui poggiano le diverse fattispecie incriminatrici.

Nel quarto capitolo si proporrà una ricostruzione delle principali caratteristiche del paradigma della giustizia riparativa, paradigma che «attua una sorta di rivoluzione copernicana, ponendo al centro dell'attenzione non l'autore del reato e l'idea di applicare nei suoi confronti una sanzione quanto più possibile proporzionata al fatto e adeguata alle finalità di prevenzione e

(7)

riabilitazione; bensì la vittima, con l'intento di elidere le conseguenze dannose del reato attraverso la partecipazione attiva del reo»1.

Questo paradigma è, dunque, in grado di offrire una rappresentazione iconografica della giustizia del tutto rinnovata, che può, e anzi, deve fare a meno della benda, della spada e anche della bilancia2.

Infine, nell’ultimo capitolo si andranno ad analizzare, tra gli istituti riconducibili all’ambito dei reati ambientali, quelli maggiormente permeabili all’ingresso delle logiche di giustizia riparativa nel nostro ordinamento.

Avremo modo a questo punto di confrontarci anche con gli strumenti a vocazione riparatoria presenti all’interno del D.Lgs. 231/2001 e di avanzare delle proposte volte ad implementarli ulteriormente, andando ad analizzare, in ultima istanza, la questione relativa alla possibilità, per l’ente, di accedere alla sospensione del procedimento con messa alla prova, istituto di sicuro rilievo ai fini della nostra indagine, in grado di valorizzare, più di ogni altro, il paradigma riparativo.

1 F. Fiorentin, Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, in Guida al

diritto, 2014, p. 63 ss.

2 G. Mannozzi, La giustizia senza spada, Milano, 2003, p. 2 ss., ne offre una

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CAPITOLO I

LA DIBATTUTA NOZIONE DI AMBIENTE

1. Premessa – 2. L’ambiente nella Costituzione – 2.1 Teoria monista e teoria pluralista – 2.2 Concezione antropocentrica e concezione ecocentrica – 3.

L’ambiente nell’ordinamento internazionale e comunitario.

1. Premessa

A ormai tredici anni dall’entrata in vigore del Testo Unico in materia ambientale3, la nozione di ambiente continua ad essere

dibattuta e a ricoprire una rilevanza centrale per chiunque si approcci allo studio dei reati ambientali.

Come è stato osservato, «su tale questione continua a interrogarsi incessantemente la dottrina allo scopo di trarre una qualificazione soddisfacente di un concetto che presenta, quale unica caratteristica certa, la vaghezza4».

Le difficoltà incontrate nel cercare di circoscrivere una nozione giuridicamente apprezzabile di ambiente derivano non solo dall’intrinseca vaghezza del termine o dalla sua diversa qualificazione ad opera del legislatore, ma anche dall’assenza di una definizione dello stesso sia a livello costituzionale, che di

3 D.lgs. 3 aprile 2006 n. 152. Sul tema si veda, L. O. Atzori, Il testo unico

ambiente: commento al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 "nome in materia ambientale", Napoli, 2006; S. Maglia, Diritto ambientale alla luce del D.Lgs. 152/2006 e successive modificazioni, Roma, 2009; F. Giampietro, Analisi critica del D.lgs. N. 152/2006: gli obiettivi ed i tempi di una vera riforma, in

giuristiambientali.it, 2006.

(9)

normativa di settore.

Né, al solo fine di chiarire le idee, è possibile far riferimento alla definizione letterale di ambiente, in base alla quale esso si identificherebbe con tutto ciò che circonda e con cui interagisce un organismo5, essendo questa inutilizzabile a fini giuridici data

la sua scarsa selettività.

Volendo citare le parole di M. Cecchetti, il termine “ambiente” «indica un concetto tendenzialmente macroscopico e di difficile determinazione, che manifesta un’intrinseca complessità strutturale, dovuta al suo carattere poliedrico e multidimensionale6».

Da questo punto di vista, quindi, sono di particolare importanza i contributi che dottrina e giurisprudenza hanno elaborato al fine di addivenire a una ricostruzione, quanto più rigorosa, del concetto di ambiente, dei quali si cercherà, nei paragrafi che seguono, di ripercorrere i principali sviluppi.

Interrogarsi su cosa debba intendersi per “ambiente” è rilevante sotto diversi punti di vista, primo fra tutti individuare l’ambito di operatività delle disposizioni che lo riguardano, in modo tale da definire i confini della tutela penale offerta a tale bene, ma non solo: condurre considerazioni di questo tipo può agevolare soprattutto nell’individuazione di modelli di incriminazione che non anticipino oltremisura la soglia di incriminazione7, e aiutare

a trovare un più corretto bilanciamento tra esigenze di sviluppo da una lato, e di tutela ambientale dall’altro, esigenze evidentemente contrapposte ma entrambe rilevanti per l’uomo

5 Voce “Ambiente” in Enciclopedia Treccani online,

http://www.treccani.it/enciclopedia/ambiente/

6 M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano, 2000,

cit p 1.

7 L. Siracusa, La tutela penale dell’ambiente: bene giuridico e tecniche di

(10)

ed entrambe suscettibili di incidere sull’attività di produzione normativa.

2. L’ambiente nella Costituzione

Una riflessione che abbia ad oggetto la nozione di ambiente, non può che prendere le mosse dalla massima fonte del diritto, ossia la Costituzione.

Ciò che occorre preliminarmente rilevare è l’assenza di un esplicito riferimento al concetto di ambiente nel testo della Costituzione.

Il termine “ambiente”, infatti, apparirà per la prima volta solo con la riforma del Titolo V del 2001, che lo menzionerà all’art. 117. Del resto la c.d. questione ambientale si sarebbe manifestata solo successivamente a partire dagli anni sessanta, mentre all’epoca dei padri costituenti non era ancora avvertita con la stessa sensibilità con cui la percepiamo oggi.

Tuttavia, il fatto che l’ambiente non trovasse tutela a livello costituzionale, almeno prima del 2001, non ha impedito alla dottrina e alla giurisprudenza di adoperarsi per garantirne un riconoscimento, se pur implicito, a partire dal testo costituzionale stesso.

Ciò è stato reso possibile dal fatto che la nostra Costituzione è “una Costituzione capace di futuro”8, cioè capace di adeguarsi

all’evolversi dei problemi e alle diverse esigenze che la società può manifestare, grazie alla sua flessibilità9.

8 S. Grassi, Ambiente e Costituzione, in Rivista quadrimestrale di diritto

dell’ambiente, 2017, n.3, p 13.

9Tale flessibilità è dovuta ad almeno 3 caratteri fondamentali: alla presenza

(11)

Così, la Corte costituzionale, facendo riferimento principalmente agli artt. 2, 9 e 32 della Costituzione, ha iniziato a porre le basi per l’affermazione della rilevanza costituzionale dell’ambiente10.

A detta di molti, l’art. 9 comma 2 Cost. sembrerebbe offrire maggiori spiragli per un riconoscimento costituzionale della materia in oggetto, proprio per il richiamo che opera alla tutela del paesaggio.

In questo senso si è mossa anche la giurisprudenza costituzionale, riconoscendo in diverse sentenze lo stretto collegamento tra la tutela del paesaggio e la tutela dell’ambiente11.

Quanto all’art. 32 Cost., la sua lettura combinata con l’art. 2 Cost. ha portato, la Corte di Cassazione prima12, e la Consulta

poi 13 , ad affermare il diritto all’ambiente salubre. Tale

affermazione assume rilevanza poiché ha evidenziato la sussistenza della relazione tra salubrità dell’ambiente e salute dell’individuo.

norme costituzionali, in particolare l’art. 9 in relazione al rapporto tra scienza e Costituzione (che ha permesso l’elaborazione di concetti quali quello di sviluppo sostenibile e di precauzione), all’apertura verso il diritto internazionale ed europeo che ha reso possibile recepire i principi da questi elaborati. Vedi S.Grassi, op. ult. cit. p. 11 ss.

10 Il primo riferimento esplicito all’ambiente, se pur in termini ancora vaghi e

approssimativi, si ha nella sentenza n. 79 del 26 aprile 1971 della Corte costituzionale. «A partire da questo momento si registra un progressivo ampliamento dei richiami alla tutela dell’ambiente quasi si trattasse di una manifestazione embrionale e graduale di una prima coscienza ambientale della corte». In questo senso vedi M. Cecchetti, op. cit. p. 13.

11 Tra le quali si segnala: Corte costituzionale 3 marzo 1986 n.39; Corte

costituzionale 11 luglio 1989 n.391.

12 Cass. SS.UU. del 6 ottobre 1979 sent n. 5172 in Giur. it., 1980, p. 859. 13 Corte costituzionale 28 maggio 1987 n. 210; Corte costituzionale 30

(12)

Questa pronuncia ha, peraltro, fatto emergere anche il carattere

polistrumentale della tutela dell’ambiente, che può risultare

propedeutica alla salvaguardia di più beni o interessi14.

Tuttavia, il vero salto di qualità si avrà solo con il riconoscimento dell’ambiente come valore costituzionale15, alla stregua della già

citata sentenza della Corte costituzionale n. 210/1987, dove per la prima volta si ragiona di “finalità di protezione di valori costituzionali primari”, facendo riferimento esplicito a “valori costituzionali quali l’ambiente e la salute”; rilevanti a questo fine sono anche le sentenze della Corte costituzionale nn. 617 e 641 del 1987, dove l’ambiente è qualificato come «bene primario e valore assoluto costituzionalmente garantito alla collettività». Del resto tale qualificazione in chiave di valore costituzionale si presenta conforme alle caratteristiche proprie dell’ambiente, prima fra tutte l’evidente impossibilità di definirlo giuridicamente in maniera adeguata; i valori infatti non si prestano ad essere definiti aprioristicamente, essi esprimono interessi altamente condivisi a livello sociale, non comprimibili in formulazioni normative, e hanno la funzione di orientare le condotte dei soggetti di tutti i livelli istituzionali.

Inoltre dal momento che si tratta di un valore costituzionale, esso è suscettibile di bilanciamento con gli altri valori in gioco, cosicché nessuno di questi possa venire, nel caso concreto, pretermesso16.

Solo con la riforma del Titolo V del 2001, il termine “ambiente” è

14 M. Catenacci, La tutela penale dell’ambiente, contributo all’analisi delle

norme penali a struttura “sanzionatoria”, Padova, 1996.

15 Tale qualificazione è definita come «il cuore della disciplina costituzionale

dell’ambiente». Così G. Morbidelli, Il regime amministrativo speciale

dell’ambiente, in Studi in onore di Alberto Predieri, Milano, 1996, p. 1133.

(13)

stato inserito espressamente in Costituzione, in particolare all’art. 117, che nel delineare il riparto di competenza tra Stato e Regioni, al comma secondo, lettera s), attribuisce allo Stato la competenza in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Il fatto che la tutela in oggetto non sia stata inserita tra i principi fondamentali, varrebbe a sminuirne il significato e, alla luce delle considerazioni svolte, sembrerebbe corretto ritenere che il riferimento in questione costituisca il punto di arrivo di uno sviluppo giurisprudenziale già consolidato.

Tuttavia è da riconoscere a tale intervento il pregio di aver fornito alla tutela dell’ambiente basi costituzionali più solide e precise.

2.1 Teoria monista e teoria pluralista.

Sempre al fine di fornire una ricostruzione del concetto di ambiente giuridicamente rilevante, pare opportuno capire, innanzitutto, in quali termini questo debba essere considerato. In particolare dottrina e giurisprudenza si sono interrogate in ordine all’autonoma rilevanza giuridica dell’ambiente, chiedendosi se tale bene fosse distinguibile dai singoli elementi che lo compongono o se costituisse una mera espressione di sintesi volta a far da contenitore e ad offrire tutela a interessi tra loro differenti. Sotto questo profilo assume primaria rilevanza la contrapposizione tra due diverse teorie: la teoria monista e la teoria pluralista.

I sostenitori della concezione pluralista sono proiettati verso l’individuazione e la valorizzazione puntuale dei singoli elementi che compongono l’ambiente.

(14)

I fautori della teoria monista, invece, promuovono una nozione unitaria e onnicomprensiva del concetto di ambiente, riconoscendo a quest’ultimo un’autonoma rilevanza e non un semplice valore descrittivo.

Il dibattito prende le mosse dalla posizione di M. S. Giannini17, il

quale considera il termine “ambiente” un’espressione convenzionale in cui è possibile individuare, secondo una ricostruzione tripartita, «1) l’ambiente a cui fanno riferimento la normativa e il movimento di idee relativi al paesaggio; 2) l’ambiente a cui fanno riferimento la normativa e il movimento di idee relativi alla difesa del suolo, dell’aria, dell’acqua; 3) l’ambiente a cui si fa riferimento nella normativa e negli studi dell’urbanistica».18

Nonostante questo orientamento possa sembrare confermato dalla normativa in materia, che si presenta frastagliata e divisa per settori, si registra una propensione della Corte costituzionale ad una ricostruzione in termini unitari, che emerge nelle già citate sentenze nn. 21019 e 64120 del 1987, ma in maniera

17 M. S. Giannini, “Ambiente”: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv.

trim. dir. pubbl. , 1973, p. 23.

18 Tra gli altri autori sostenitori di una concezione pluralista dell’ambiente si

ricordano: A. Predieri, Paesaggio, in Enc. Dir. XXXI, Milano, 1981, R. Bajno,

Ambiente nel diritto penale (tutela dell’), in Digesto disc, pen, I, Torino, 1987;

E. Capaccioli, F. Dal Piaz, Ambiente, (tutela dell’), voce del Noviss. Dig. It., Appendice, I, Torino, 1980.

19 Dove la Corte costituzionale fa riferimento ad una «concezione unitaria del

bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni».

(15)

ancora più evidente nella sentenza n. 1029 del 198821, nella

quale è possibile cogliere il riferimento all’ambiente come «bene unitario se pur composto da molteplici aspetti rilevanti per la vita naturale e umana».

Entrambi gli orientamenti menzionati non sono esenti da critiche.

Per quanto riguarda la teoria monista, il principale aspetto di criticità è rappresentato dal rischio che una concezione unitaria di ambiente possa condurre a creare fattispecie incriminatrici indeterminate, sebbene animati dalla volontà di offrire adeguata tutela a tutte le componenti del bene stesso. Di conseguenza si segnala l’invito della dottrina ad elaborare definizioni più precise dei singoli beni che compongono l’ambiente, piuttosto che continuare imperterriti nell’individuazione di definizioni unitarie ma inevitabilmente generiche.

D’altra parte la teoria pluralista rischia di portare alla produzione di una disciplina di tutela dell’ambiente frammentaria e quindi inefficace, in quanto espressione di una visione settoriale priva di una necessaria prospettiva di raccordo.

Per una più corretta qualificazione dell’ambiente, allora, appare opportuno prediligere un approccio interdisciplinare che accolga i contributi delle scienze ecologiche, grazie ai quali emerge una nozione di ambiente inteso come «equilibrio ecologico, di volta

varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità.

Il fatto che l'ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l'ordinamento prende in considerazione».

(16)

in volta, della biosfera22 e dei singoli ecosistemi23 di riferimento»

e che la sua tutela consista da ultimo nella « tutela dell’equilibrio ecologico della biosfera e degli ecosistemi considerati »24.

Sulla base di questo approccio è possibile addivenire alla seguente conclusione: quando si parla di ambiente non si fa riferimento a un insieme di interessi o di beni da tutelare singolarmente e indipendentemente gli uni dagli altri, ma si fa riferimento a un equilibrio relazionale, valutabile solo nel suo complesso.

Di conseguenza, siffatto equilibrio non può essere tutelato solo garantendo una tutela separata dei singoli fattori dalla cui interazione esso scaturisce, ma con una protezione integrata e coordinata dei medesimi.

Citando A. Predieri25, «una nozione globale d’ambiente appare

difficilmente afferrabile, intrinsecamente, in una realtà operativa, se non come unità di finalità».

Da questo punto di vista la tutela dell’ambiente può essere efficacemente descritta come un prisma, attraverso il quale devono passare ed essere filtrate in un momento aggregante tutte le prospettive di tutela26.

Questo comporta la necessità di individuare strumenti di tutela capaci di cogliere le connessioni tra i vari interessi diversamente implicati.

22 Spazio occupato da tutti gli esseri viventi del pianeta, e deriva dalla

combinazione di tutti gli ecosistemi. Vedi L. Siracusa, op. cit. p. 13.

23 Insieme nel quale esiste uno stato di equilibrio autonomo rispetto agli altri

ecosistemi.

24 In questo senso vedi B. Caravita, Diritto pubblico dell’ambiente, Bologna,

1990, p. 50; L. Siracusa op. cit. p 13; M. Cecchetti, op. cit. p. 5.

25 A. Predieri, Paesaggio, Enc. Dir XXXI, Milano, 1981.

26 Immagine impiegata da M. Tallacchini, Diritto per la natura. Ecologia e

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2.2 Concezione antropocentrica e concezione ecocentrica.

La ricostruzione della nozione di ambiente passa anche attraverso la possibilità di adottare una concezione antropocentrica oppure ecocentrica,.

Il fattore discriminante tra le due concezioni attiene al diverso modo di intendere il rapporto tra uomo e ambiente, in considerazione del potenziale contrasto tra le attività umane e la tutela dell’ambiente stesso.

Sebbene non si abbia una nozione univoca di antropocentrismo cui fare riferimento, il significato più comunemente attribuitogli si rifà ad un approccio filosofico culturale in base al quale l’uomo si pone come «essere superiore, dotato di ragione e chiamato a dominare e ad appropriarsi della natura, che deve servire come mezzo per il soddisfacimento dei suoi bisogni, come risorsa di produzione, di consumo e di riproduzione della specie umana»27.

Dunque l’antropocentrismo è una concezione che pone l’uomo al centro dell’intero ecosistema: «tutelare l’ambiente significa, in ultima istanza, tutelare le condizioni esistenziali umane»28.

Questo approccio, intendendo la centralità dell’uomo in termini di superiorità, apre la strada ad una visione utilitaristica del rapporto uomo-natura, dalla quale discenderebbe, come conseguenza, la possibilità per l’uomo stesso di intervenire e modificare a suo vantaggio quanto lo circonda.

Secondo questo punto di vista, quindi, la tutela dell’ambiente finisce per essere astrattamente bilanciabile con la tutela di altri

27 J. Luther, Antropocentrismo ed ecocentrismo nel diritto dell’ambiente in

Germania e in Italia, in Pol. Dir., 1989, p. 675.

28 G. De Santis, Diritto penale dell’ambiente, un’ipotesi sistematica, Milano,

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interessi rilevanti per l’uomo.

La concezione ecocentrica, invece, pone al centro una rivalutazione dell’ambiente in quanto tale.

In questa prospettiva il rapporto uomo – ambiente ne esce ridimensionato, in quanto l’uomo «non deve appropriarsi ed impadronirsi della natura come mero oggetto, ma deve ritrovare un suo posto organico in una comunità pacifica con la natura»29.

Di conseguenza, l’uomo può intervenire e modificare quanto lo circonda, ma solo rispettando e preservando l’ambiente.

Da questo orientamento sembrerebbe discendere una tutela dell'ambiente assoluta ed estranea ad eventuali forme di bilanciamento con interessi ulteriori, che recherebbe con sé la necessità di punire qualsiasi alterazione dello stato dell’ambiente, seppur minima.

Per questa ragione può apparire più opportuno propendere, semmai, per una concezione ecocentrica “moderata” ammettendo che «l’azione umana sull’ambiente può interferire sulle condizioni di equilibrio chimiche e fisiche, materialmente alterabili, proprie degli ecosistemi, ma non può giungere ad arrecare ad esse un pregiudizio grave»30.

Tuttavia la contrapposizione tra l’orientamento ecocentrico e quello antropocentrico non deve essere enfatizzata eccessivamente, correndo il rischio che divenga foriera di equivoci e che porti a inutili estremismi, ma occorre prendere atto che, anche a livello giurisprudenziale, la concezione prevalentemente accettata sia quella antropocentrica 31, la

29 J. Luther, op. cit. p. 675. 30 L. Siracusa, op. cit. p. 37.

31 In questo senso si vedano la sentenza n. 210/87 della Corte costituzionale

dove si prevede un riconoscimento specifico alla «salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività», e la sentenza n. 641/87 della Corte stessa dove parlando

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quale, come evidenzia Cecchetti32, traspare sempre in modo

evidente ma in termini piuttosto impliciti e quasi scontati.

La ragione di ciò potrebbe essere rinvenuta nelle posizioni di quegli autori33 che ritengono che l’unico approccio possibile non

possa che essere quello antropocentrico, poiché il diritto, occupandosi dell’uomo, implica una sorta di antropocentrismo necessario.

Del resto, accogliendo la posizione di Bernasconi 34 ,

l’affermazione della centralità dell’ambiente e la considerazione di quest’ultimo come un bene dotato di autonoma rilevanza giuridica rispetto ai beni della persona, non è una prerogativa propria ed esclusiva della concezione ecocentrica, dal momento che l’orientamento antropocentrico valorizza l’esigenza di bilanciare la protezione dell’ambiente e quella dei beni personali parimenti rilevanti nel contesto sociale.

Questa circostanza pare non essere messa in discussione nemmeno dai sostenitori stessi dell’ecocentrismo, che in diverse occasioni non mancano di qualificare tale orientamento in senso moderato.

dell’ambiente si afferma che «la sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzati, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive e agisce».

32 M. Cecchetti op. cit. p. 49.

33 Il riferimento va a F.G. Scoca, Osservazioni sugli strumenti giuridici di

tutela dell’ambiente, Dir e società, 1993, p. 403.

34 C. Bernasconi, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità,

(20)

3. L’ambiente nell’ordinamento comunitario e internazionale.

Alla luce della dimensione transfrontaliera che assume il bene ambiente, sembra opportuno confrontarsi con i riferimenti che si possono cogliere a livello internazionale e comunitario.

Poiché la tutela dell’ambiente sulla scena mondiale viene spesso associata ai diritti individuali dell’uomo, il primo riferimento cui prestare attenzione non può essere rappresentato dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, che, se pur implicitamente, ha considerato l’esistenza di un collegamento tra diritti dell’uomo e ambiente.

A sostegno di questa affermazione si presta una lettura combinata dell’art. 3 della Dichiarazione, in base al quale «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della sua persona» e dell’art. 25 della stessa, secondo cui «Ogni persona ha diritto ad un livello di vita sufficiente ad assicurare la salute e il benessere suo e della sua famiglia, specialmente per quanto concerne l'alimentazione, l'abbigliamento, l'alloggio … »35.

In realtà la comunità internazionale ha prestato una maggiore attenzione alle problematiche ambientali solo a partire dalla seconda metà del XX secolo.

Infatti, la prima vera conferenza sui temi ambientali, promossa dalle Nazioni Unite, avrà luogo solo nel 1972 con la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano.

Suddetta conferenza era volta a far luce sulle relazioni tra protezione dell’ambiente e sviluppo economico, ma è solo con la successiva Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 che si afferma il principio dello sviluppo sostenibile, dove per sviluppo sostenibile deve intendersi un modello di sviluppo realizzato in

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modo da consentire alle generazioni presenti di soddisfare le proprie esigenze e i propri bisogni, senza compromettere la possibilità delle generazioni future di fare altrettanto.

Inoltre dall’art. 1 della Dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo, scaturita dalla suddetta Conferenza, emerge chiaramente un approccio di tipo antropocentrico, nella misura in cui si afferma che «gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura».

Alla Conferenza di Rio farà seguito nel 2002 il c.d. Vertice di Johannesburg con la duplice funzione di bilancio dell’attività svolta a seguito della conferenza di Rio e di rilancio dell’impegno verso uno sviluppo sostenibile. Tuttavia questa conferenza pare non aver avuto particolare successo36 così

come il più recente Summit ambientale Rio +20 svoltosi nel 2012.

Anche a livello comunitario l’attenzione verso i temi ambientali diventerà maggiore solo a partire dagli anni ’70, tantoché il primo atto comunitario in cui si fa esplicito riferimento all’ambiente si avrà solo nel 1971 con la Prima comunicazione in materia di ambiente presentata dalla Commissione al Consiglio, nella quale si afferma la necessità che la tutela dell’ambiente rientri tra gli scopi della Comunità.

Il Trattato di Roma del 1957 istitutivo della CEE, infatti, non faceva riferimento né all’ambiente né alle problematiche ambientali.

L’assenza di riferimenti espliciti in questo senso poteva tuttavia apparire comprensibile; da un lato perché nel 1957, in una fase

36 In questo senso vedi A. Fodella, Il vertice di Johannesburg sullo sviluppo

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post bellica di pieno boom economico, il problema ambientale

non era ancora percepito con la sensibilità con cui lo percepiamo oggi (tantoché nemmeno all’interno della Costituzione si faceva riferimento all’ambiente), dall’altro perché data la connotazione prettamente economica della CEE non apparve necessario, almeno in questa prima fase, occuparsi di siffatte tematiche37.

Preso atto dell’assenza della tutela dell’ambiente nel Trattato istitutivo, anche alla luce degli sviluppi che si ebbero sul piano internazionale, si pose ben presto il problema di individuare il titolo in base al quale la Comunità avrebbe potuto effettuare i primi interventi normativi in materia ambientale.

In virtù del principio di attribuzione, che l’ha caratterizzata fin dalla sua origine, la Comunità sarebbe potuta intervenire solamente nei limiti delle competenze ad essa espressamente conferite dal Trattato38.

Al fine di consentire i primi interventi in materia, venne fatto ricorso alla teoria dei poteri impliciti, secondo la quale alla Comunità possono essere riconosciuti poteri non espressamente conferiti dal Trattato, ma indispensabili per un esercizio efficace delle proprie competenze.

In particolare il riferimento andò all’art. 2 del Trattato che, nella sua versione originaria, prevedeva che «la Comunità ha il compito di promuovere (…) uno sviluppo armonioso delle attività economiche (…), un'espansione continua ed equilibrata». Sulla

37 Cfr. M. Renna, Ambiente e territorio nell’ordinamento europeo, in Riv. It.

Dir. Pubbl. Comun., 2009, p. 649 ss.

38 Vedi L. Azzena, Il sistema delle competenze dell’Unione Europea, p. 81

ss., in G. Colombini, F. Nugnes, 2004, Istituzioni, diritti, economia dal Trattato

di Roma alla Costituzione europea, Pisa, 2004, la quale specifica come nel

Trattato istitutivo le competenze fossero attribuite secondo una logica “funzionale” definendo obiettivi e mezzi atti a raggiungerli.

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base di tale disposizione si iniziò a pensare che lo sviluppo non sarebbe potuto essere armonioso, né l’espansione equilibrata, se in contrasto con la tutela dell’ambiente.

Così si videro la luce i primi interventi del legislatore comunitario in materia ambientale, in un’ottica strumentale alla realizzazione di un mercato unico europeo, omogeneo e concorrenziale39

(posto che le differenze tra le normative ambientali nazionali dei singoli Stati membri, ora più rigide, ora più permissive, avrebbero potuto minare il raggiungimento di tale obiettivo). Solamente con l’Atto unico europeo del 1986, «la materia ambientale comparve nel Trattato quale ambito di intervento autonomo rispetto agli obiettivi di unificazione del mercato»40.

Questo passaggio, oltre a far sì che la materia ambientale rientrasse una volta per tutte tra quelle di competenza comunitaria, ha anche portato ad una situazione del tutto peculiare che ha permesso, in parte, di svincolarsi dalla concezione strumentale dell’intervento in materia ambientale, prevedendo la possibilità per il legislatore comunitario di giustificare le proprie iniziative, ora in funzione della tutela del mercato europeo, ora in funzione della tutela dell’ambiente tout

court.41

39 Cfr. R. Rota, Profili di diritto comunitario dell’ambiente, in Trattato di diritto

dell’ambiente diretto da Paolo dell’Anno ed Eugenio Picozza, Padova, 2012,

p. 152.

40 M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Rivista

quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 2012, p. 65.

41 In questo senso vedi ancora M. Renna, ibidem, p. 66, il quale ritiene

importante sottolineare questa distinzione in quanto dall’utilizzo dell’uno o dell’altro strumento derivano conseguenze differenti circa la possibilità, per gli stati membri, di derogare agli standard di tutela posti dal legislatore comunitario. In particolare posto che in nessun caso è possibile una deroga

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Tuttavia sarà solo con il Trattato di Maastricht del 1992 che l’ambiente diviene oggetto di esplicita considerazione (anche dal punto di vista strettamente terminologico).

Tra i compiti della Comunità menzionati all’art. 2 del Trattato CEE si fa ora riferimento a uno «sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche (…) e una crescita sostenibile (…) che rispetti l’ambiente», andando di fatto a recepire il principio dello sviluppo sostenibile.

Successivamente con il Trattato di Maastricht la Comunità europea perderà la sua connotazione prettamente economica, con la conseguenza che, al netto delle considerazioni effettuate, dopo questo trattato non si ha più «un’Europa di soli “mercanti” (…) ma si è cominciato a realizzare un’Europa di cittadini, che deve garantire e tutelare non solo i diritti economici, ma anche quelli sociali, civili e politici delle persone»42.

Infine, con il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, si è addivenuti ad una formulazione più completa e soddisfacente dell’art. 2 del Trattato CE, prevedendo quale obiettivo specifico della Comunità anche quello di promuovere «un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento di quest’ultimo».

Per quanto riguarda invece i riferimenti alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al Trattato che ha adottato una Costituzione per l’Europa e al Trattato di Lisbona, preme sottolineare come, a parere di alcuni autori43, questi documenti

Sul punto vedi anche M. Mazzamuto, Diritto dell’ambiente e sistema

comunitario delle libertà economiche, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, p.

1571 ss.

42 M. Renna, op. cit. p. 68.

43 Tra i quali si veda M. Renna, Ambiente e territorio nell’ordinamento

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non abbiano apportato interventi particolarmente significativi in materia di ambiente rispetto a quanto stabilito in precedenza. In conclusione si può evidenziare come, al termine di questa evoluzione, l’ambiente sia considerabile alla stregua di un valore anche nell’ordinamento comunitario, riconoscendolo definitivamente come oggetto di tutela diretta e non solo mediata come avveniva in passato.

È bene precisare, però, che a queste conclusioni si è giunti anche su spinta della Corte di giustizia la quale non ha mancato di sottolineare come la tutela ambientale fosse uno degli scopi essenziali della comunità anche prima della definitiva consacrazione nell’Atto unico europeo44.

È poi da rilevare la tendenza all’interno dell’ordinamento comunitario e in particolare della Corte di giustizia a considerare l’ambiente in termini unitari, valorizzandone al contempo una visione antropocentrica, che è andata a influenzare e orientare anche le scelte del giudice costituzionale italiano, il quale ha finito per conformarvisi.

44 A tal proposito si ricordano la sentenza del 7 febbraio 1985 nella causa

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CAPITOLO II

TECNICA NORMATIVA E STRUTTURA DEI REATI

AMBIENTALI

1. Premessa – 2. L’incidenza della nozione di ambiente sulla tecnica di costruzione normativa delle fattispecie penali in materia di ambiente – 3. Struttura dei reati ambientali – 4. I reati di pericolo – 4.1 I reati di pericolo

astratto e problemi di compatibilità con il principio di offensività – 5. L’accessorietà del diritto penale al diritto amministrativo – 6. Tra tutela di

beni e tutela di funzioni – 6.1. La tutela di funzioni come strumentale alla tutela dell’ambiente – 6.1.1. La violazione degli obblighi di comunicazione –

6.1.2. L’assenza di autorizzazione – 6.1.3 La violazione delle prescrizioni impartite dalla P.A – 6.1.4. Superamento dei limiti tabellari.

1. Premessa

Per comprendere come si declini la giustizia penale riparativa nel settore dei reati ambientali, occorre preliminarmente interrogarsi su quale sia la tecnica normativa seguita nella costruzione degli illeciti ambientali e la struttura che questi assumono.

Di pari rilievo è la comprensione del disvalore su cui poggiano le diverse fattispecie incriminatrici.

Pertanto l’obiettivo che ci si pone in questo capitolo è quello di individuare alcune costanti nel settore in parola, caratterizzato da scarsa coerenza ed omogeneità, al fine di trarre delle indicazioni circa le principali caratteristiche dei reati ambientali. La definizione di ambiente alla stregua di un valore, così come emersa in varie pronunce giurisprudenziali, rende difficoltoso il

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ricorso a «tecniche penali caratterizzate dalla rigorosa tipizzazione del fatto oltre che dalla lesività del medesimo»45.

Questa difficoltà ha indotto spesso il legislatore a preferire tecniche di tutela anticipata, portando ad una proliferazione di reati di pericolo astratto.

2. L’incidenza della nozione di ambiente sulla tecnica di costruzione normativa delle fattispecie penali in materia di ambiente

L’accoglimento di una nozione di ambiente, caratterizzata in senso antropocentrico piuttosto che in senso ecocentrico, è in grado di incidere sia sulla tecnica normativa sia sulla struttura del reato che pare più opportuno adottare al fine di offrire una tutela effettiva del bene in questione.

Abbiamo accennato, nel Capitolo I, l’importanza che assume l’accoglimento della nozione antropocentrica di ambiente.

Da essa discende la necessità di operare un bilanciamento della tutela dell’ambiente con ulteriori interessi, parimenti rilevanti per l’uomo, afferenti principalmente al campo dell’attività economica e dello sviluppo.

Del resto, sempre in quest’ottica, è altrettanto importante la concezione che impone l’accoglimento di una nozione di ambiente in termini unitari ma che, come ricordato dalla Corte costituzionale nella citata sent. 641/1987, sia aperta a una tutela dei singoli beni ad essa riconducibili.

In tal modo sarebbe possibile evitare di incorrere in una serie di

45 G. Schiesaro, Problemi e prospettive di riforma della tutela penale

dell’ambiente: verso una riformulazione in chiave offensiva del reato, in Riv.

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inconvenienti propri di quelle fattispecie che hanno ad oggetto beni caratterizzati da profili di genericità.

Una norma che pretendesse di tutelare l’ambiente nella sua globalità infatti, risulterebbe di difficile strutturazione e destinata ad essere contornata da un certo grado di indeterminatezza.46

Considerando invece le specifiche componenti dell’ambiente sarebbe possibile strutturare fattispecie incriminatrici più chiare e, non da ultimo, di più facile conoscibilità da parte dei consociati.

3. Struttura dei reati ambientali

Il diritto penale ambientale si caratterizza per il fatto che il legislatore opta per un’anticipazione dell’intervento penale. In particolare, prima della riforma del 2015, la disciplina penale ambientale era caratterizzata da una serie di fattispecie stratificatesi nel tempo e tra loro disomogenee, che rinvenivano nello schema del reato di pericolo astratto e nel modello contravvenzionale, il modello d’illecito prevalentemente impiegato. Caratteristiche, queste, che ad oggi restano attuali e sembrano ancora qualificare la maggior parte dei reati ambientali.

Occorre tuttavia precisare, fin da subito, che la natura del bene

46 In questo senso cfr. E. Lo Monte, Diritto penale e tutela dell’ambiente. Tra

esigenze di effettività e simbolismo involutivo, Milano, 2004, il quale ritiene

che inevitabile conseguenza del ricorso a fattispecie carenti sotto il profilo della determinatezza, è quella di demandare alla giurisprudenza il compito di dare concretezza alle norme in questione, portando di fatto a un “diritto del caso per caso”, con ripercussioni sia sulla certezza del diritto che sul principio di separazione dei poteri.

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giuridico da tutelare ha avuto ricadute dirette e rilevanti in ordine alle scelta delle possibili tecniche di incriminazione.

In particolare l’individuazione del modello più idoneo a garantire un’adeguata tutela dell’ambiente è condizionata da almeno due fattori dei quali occorre prendere coscienza: da un lato le caratteristiche intrinseche del bene giuridico oggetto di tutela, dall’altro il recepimento della concezione di ambiente, sia essa antropocentrica oppure ecocentrica47.

Trattandosi di un bene cui è riconosciuta una dimensione superindividuale infatti, «l’offesa si diluisce e si fa suggente e la sua natura diffusiva rende ardua l’individuazione di precisi correlati fenomenici»48.

Inoltre non si deve dimenticare che siffatto bene ambiente appare ledibile non tanto per effetto di una singola condotta illecita, bensì per effetto di attività seriali o comunque caratterizzate dal ripetersi generalizzato di una pluralità di condotte tipiche49.

Quest’ultimo aspetto rende di difficile accertamento il nesso causale tra condotta ed evento50.

Dunque l’aver optato per un modello di tutela anticipata che

47 Per le considerazioni in ordine a quest’ultimo aspetto vedi infra Cap. 1. 48 Pedrazzi, Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV Comportamenti

economici e legislazione penale, Milano, 1979, p. 32.

49 C. Bernasconi, Op. ult. cit. p. 86. Cfr. in questo senso S. Grasso,

L’anticipazione della tutela penale: i reati di pericolo e i reati di attentato, in

Riv. it. Dir. proc. pen., 1986, p 679 ss.

50Come rilevato da M. Caterini, Effettività e tecniche di tutela nel diritto

penale dell’ambiente, Napoli, 2017, p. 42 in circostanze in cui la lesione non

è riconducibile con sufficiente certezza a una condotta determinata, si fa strada il rischio che l’accertamento di responsabilità sia di fatto rimesso ai periti, anch’essi divisi dinnanzi alle incertezze della scienza.

Nello stesso senso vedi anche F. Giunta, Il diritto penale dell’ambiente in

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consentisse di concentrare il disvalore della condotta su un momento antecedente all’effettiva lesione del bene oggetto di tutela è stata, per certi aspetti, una scelta necessitata51.

L’anticipazione dell’intervento penale è frequentemente criticata non solo in termini di opportunità politico-criminale, ma anche e soprattutto in relazione al principio di offensività.

L’alternativa consiste nel ricorrere a fattispecie di danno, strada che il legislatore ha imboccato con la L. 68/2015 recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”, con la quale, nel Codice penale, si è introdotto il Titolo VI bis dedicato ai delitti contro l’ambiente, dove hanno fatto la loro comparsa, fra gli altri, i delitti di inquinamento ambientale e di morte e lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale.

Tuttavia i reati di danno, incentrati sull’effettiva lesione del bene giuridico tutelato, sono ritenuti inidonei a garantire un’adeguata tutela dell’ambiente.

Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che, per poter parlare di perfezionamento del reato, è necessario attendere la verificazione di un danno, spesso irreparabile, con costi sociali molto elevati e difficilmente accettabili.

Inoltre si ricorda la difficoltà di accertamento del nesso causale che caratterizza i reati perpetrati nei confronti dell’ambiente, che li rende “incompatibili” con un modello di reato incentrato sul danno.

Quindi, anche alla luce di quest’ultima “inversione di tendenza”, il diritto penale ambientale resta caratterizzato dal ricorso a «tecniche di tutela contravvenzionali e sensibilmente anticipate, nelle quali il disvalore è stato individuato in condotte

51 A. Manna, Struttura e funzione dell’illecito penale ambientale. Le

caratteristiche della normativa sovranazionale, in Giur. Merito, 2004, p. 2162

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prodromiche al tangibile pregiudizio»52.

In conclusione, si può affermare che la scelta del legislatore è stata quella di propendere per una costruzione delle fattispecie seguendo il modello dei reati di pericolo.

4. I reati di pericolo

A questo punto, posto che la scelta del legislatore si è indirizzata verso i reati di pericolo, non resta che capire a quale “tipo” di pericolo si è fatto ricorso e quale “tipo” di pericolo possa dirsi idoneo a garantire una legittima tutela dell’ambiente. Nell’ambito dei reati di pericolo è possibile distinguere tra reati di pericolo concreto e reati di pericolo astratto, entrambi accomunati dal fatto che operano un’anticipazione della tutela, ma che si differenziano sotto il profilo della tecnica legislativa utilizzata53.

I reati di pericolo concreto, a differenza dei reati di pericolo astratto, si caratterizzano per il fatto che, essendo il pericolo un elemento della fattispecie cui si fa espresso riferimento, il

52 M. Caterini, op. cit. p. 44 e 45.

53 Parte della dottrina, prendendo in considerazione il grado di presunzione

del pericolo, propone un’ulteriore distinzione tra pericolo astratto e pericolo presunto.

Secondo tale distinzione si può parlare di reati di pericolo astratto quando ci si trovi dinnanzi a presunzioni relative di pericolosità, vincibili attraverso la prova contraria.

Al contrario, si parla di reati di pericolo presunto allorché la presunzione sia assoluta e, dalla descrizione della condotta operata dal legislatore, non vi siano spazi per il giudice di compiere una valutazione del pericolo.

Sul tema vedi fra gli altri M. Caterini op. cit. p. 47, G. Marinucci, E. Dolcini,

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giudice dovrà accertare un’effettiva messa in pericolo del bene. Il giudizio di pericolosità deve essere espresso secondo il «criterio della prognosi postuma, tenendo conto della situazione di fatto al momento della condotta e formulando una valutazione sul grado di probabilità del pregiudizio del bene»54.

Tuttavia è utile, a questo punto, introdurre ulteriori specificazioni e inquadrare meglio la questione.

Infatti, se l’elemento centrale per operare una distinzione tra i reati di pericolo concreto e i reati di pericolo astratto fosse rappresentato dall’esplicito richiamo al termine “pericolo” all’interno della fattispecie normativa, non si porrebbero particolari problemi, ma così non è.

Spesso il legislatore non ricorre espressamente al termine “pericolo” nell’enucleazione della fattispecie. Nella maggior parte dei casi fa uso di termini quali “incendio”, “epidemia”, “disastro”, caratterizzati da una pregnanza semantica tale da «ammettere solo un’interpretazione che ritenga rilevanti dei fatti concretamente pericolosi» 55.

54 M. Caterini, op. cit. p. 46.

Vedi anche G. De Francesco, Diritto penale, i fondamenti, Torino, 2011, p. 58, che lo definisce efficacemente un «giudizio prognostico a carattere essenzialmente probabilistico».

55 F. D’Alessandro, Pericolo astratto e limiti-soglia. Le promesse non

mantenute del diritto penale, Milano, 2012, p. 164 ss.

Per maggiore chiarezza su che cosa si intenda per “pregnanza semantica” si prenda ad esempio il delitto di incendio di cui all’art. 423 c.p. dove il legislatore ha distinto l’ipotesi dell’incendio di cosa propria dall’ipotesi dell’incendio di cosa altrui. In un primo momento la dottrina, come si evince dai lavori preparatori al codice penale e al codice di procedura penale, riconduceva l’incendio di cosa propria tra i reati di pericolo concreto e l’incendio di cosa altrui tra i reati di pericolo astratto. L’evoluzione dell’interpretazione ha finito per ricondurre anche l’ipotesi dell’incendio di cosa altrui nell’alveo dei reati di pericolo concreto facendo leva proprio sulla

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Quanto ai reati di pericolo astratto, invece, questi si caratterizzano per il fatto che è il legislatore a presumere che una certa condotta sia rischiosa in base a delle regole di esperienza, indipendentemente dal fatto che il pericolo si sia poi realizzato nel caso concreto.

In queste ipotesi, più semplicemente, il pericolo è ritenuto esistente allorché si realizzi la condotta vietata, senza dover verificare di volta in volta l’esistenza di un rischio effettivo. Dunque ciò che viene meno nei reati di pericolo astratto è l’accertamento, da parte del giudice, della effettiva pericolosità della condotta nel caso concreto, perché il giudizio di pericolosità è svolto ex ante dal legislatore.

Tuttavia il giudice sarà comunque chiamato a verificare che la condotta sia sussumibile nella classe di condotte che normalmente si ritengono pericolose per il bene protetto.

Poi, come evidenzia efficacemente parte della dottrina56, se la

riconducibilità della condotta ad una categoria di comportamenti generalmente pericolosi sia bastevole per addivenire a un’attribuzione di responsabilità, rimane un problema aperto. Ad ogni modo ciò che conta adesso è individuare i criteri in base ai quali una condotta può dirsi normalmente pericolosa rispetto a un determinato bene giuridico.

Il punto di partenza per sciogliere questo nodo problematico può essere rinvenuto in un’affermazione di Stella, il quale sintetizza la questione in questi termini: «il pericolo astratto non può essere confuso con il pericolo immaginario e deve essere inteso

pregnanza semantica del termine “incendio”. Del resto, come affermato anche dalla Corte costituzionale, quando si parla di incendio si fa riferimento ad un evento che si caratterizza per vastità, violenza e capacità distruttiva. Dunque qualora non si configuri un pericolo concreto, il reato di incendio di cosa altrui non potrà dirsi perfezionato.

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come pericolo reale»57.

Da questo breve inciso possiamo dedurre che, anche nei reati di pericolo astratto, il pericolo deve avere una sua “concretezza” specificata in base a un parametro oggettivo che è da rinvenire nel sapere scientifico.

In particolare, per poter affermare che una condotta è generalmente pericolosa, non è sufficiente aver osservato in un’unica occasione specifica il verificarsi di un danno, ma, per poter affermare l’esistenza di un pericolo che sia penalmente rilevante, è necessaria una frequenza di fatti dannosi almeno superiore al 50% dei casi totali.

Solo così si può evitare di addivenire all’esito assurdo di considerare pericoloso qualsiasi comportamento umano da cui almeno una volta siano derivati danni.

Questa considerazione permette di specificare che nei reati di pericolo astratto la pericolosità della condotta non è presunta in via arbitraria dal legislatore, come tal volta si afferma, ma è attestata in base alle conoscenze scientifiche.

Sulla scorta di quanto affermato, si manifesta in modo chiaro che i principali problemi posti dalle fattispecie incentrate sul pericolo astratto derivano dal fatto che, essendo costruite su forme standardizzate di aggressione ritenute pericolose su base statistica, il reato sembra sussistere anche se il pericolo, astrattamente pronosticato dal legislatore, non si è in concreto realizzato, venendosi così a creare tensioni e profili di incompatibilità con il principio di offensività.

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4.1 I reati di pericolo astratto e problemi di compatibilità con il principio di offensività

Nonostante si assuma che le fattispecie di pericolo astratto siano costruite dal legislatore facendo riferimento al sapere scientifico, occorre prendere atto che spesso è difficile riscontrare una certezza empirico-scientifica sulla capacità offensiva di alcune condotte.

In assenza di certezze scientifiche assolute circa la pericolosità di un’azione, occorre capire quale sia il grado di attendibilità che il diritto penale richiede alla scienza per poter addivenire ad una incriminazione. A tal proposito spesso si fa riferimento a una ragionevole affidabilità.

Quindi può accadere che non sempre il fatto concreto coincida con quello tipizzato dal legislatore e, pertanto, possono verificarsi casi in cui l’agente viene punito perché la sua condotta rientra tra quelle ritenute normalmente pericolose, a prescindere dal fatto che lo sia stata effettivamente nel caso di specie.

Di conseguenza, in queste ipotesi, potrà verificarsi uno scarto tra tipicità e offensività.

Questi scarti possono verificarsi con maggiore o minore frequenza, a seconda che il legislatore abbia tenuto più o meno in considerazione i risultati delle leggi scientifiche, ma il loro verificarsi non pregiudicherebbe la validità del modello di pericolo astratto, anzi, essi sarebbero tollerabili data la loro irrilevante frequenza statistica. Tuttavia, pur non andando ad inficiare la validità del modello, pongono diversi problemi di compatibilità con il principio di offensività che può dirsi riconosciuto implicitamente dalla nostra Costituzione.

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Del resto la necessità che ciascun reato sia caratterizzato da un’offesa, deriva dal fatto che la compressione della libertà dell’individuo può ammettersi solo dinnanzi ad un’offesa concreta nei confronti di un bene di pari valore costituzionale. Ma un altro aspetto da valutare è quello relativo alla generale tenuta del sistema; il fatto che sia possibile incriminare condotte di per sé non offensive rende difficilmente interiorizzabile la norma incriminatrice e difficilmente percepibile il disvalore del fatto sia per il reo che per tutti i consociati. Di conseguenza si paventa il rischio di una «perdita di credibilità per il sistema che, dovendo intervenire con la sanzione penale per fatti di lieve entità, spunta le sue armi»58.

A questo punto si avverte la necessità di individuare dei meccanismi interpretativi che permettano di ridimensionare il problema e di riscontrare una qualche offesa nel caso di specie, al fine di individuare quantomeno un punto di equilibrio tra il principio di offensività e il modello dei reati di pericolo astratto. Occorre premettere che siffatto bilanciamento tra questi due aspetti è sempre labile e perfettibile allo stesso tempo, ed è un processo sempre in divenire che richiede uno sforzo costante del legislatore e dell’interprete59.

La Corte costituzionale è intervenuta in diverse occasioni andando a riconoscere la struttura composita del principio di offensività ed individuando un duplice livello di operatività dello stesso.

58 S. Moccia, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni

postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. it. dir. proc. pen. 1995, p. 368.

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Il principio opera da un lato come criterio volto ad orientare le scelte del legislatore60, dall’altro come canone ermeneutico per

l’interpretazione e l’applicazione di norme.

In collegamento al primo profilo, si riscontra un atteggiamento prudente da parte della Corte costituzionale61 nel dichiarare

l’illegittimità delle norme per contrasto con il principio di offensività, anche per evitare un’eccessiva ingerenza nelle scelte del legislatore.

La Corte stessa ha infatti affermato che il suo intervento consiste nel «procedere alla verifica dell'offensività “in astratto”, acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque

accidit»62.

Pertanto una declaratoria di incostituzionalità per contrasto con il principio di offensività si può avere allorché la fattispecie, già nella sua formulazione astratta, si dimostri sempre inidonea a descrivere e rappresentare fatti offensivi. Questo atteggiamento di prudenza della Corte non poteva che manifestare i suoi riflessi sull’applicazione e l’interpretazione delle norme ad opera del giudice ordinario.

Infatti, al di fuori dei casi in cui la formulazione astratta sia sempre incapace di rappresentare fatti offensivi, sarà rimesso al giudice il compito di verificare se la fattispecie concreta sia, oltre

60 Per cui la condotta dovrebbe essere assoggettata a pena da parte del

legislatore, in quanto oggettivamente pericolosa per il bene.

61 Per la prima declaratoria di incostituzionalità di una norma per contrasto

con il principio di offensività si dovrà attendere la sent. 17 Luglio 2002 n. 354, in Cass. Pen.

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che rispondente alla fattispecie astratta, anche effettivamente connotata da offensività; qualora non lo sia, la condotta andrà a ricadere nella figura del reato impossibile63.

Tuttavia questa soluzione presenta delle criticità rilevate più volte dalla dottrina.

In primo luogo il principale aspetto di criticità è da rinvenire, senza dubbio, proprio nell’attribuzione al giudice di un potere di accertamento della reale pericolosità della condotta, che rischia di mettere in crisi la distinzione tra pericolo astratto e pericolo concreto.

In secondo luogo, attraverso l’attribuzione al giudice del potere di addivenire a siffatta valutazione circa la reale offensività della condotta, rischiano di essere messi in crisi i principi di certezza del diritto e di legalità qualora al giudice siano attribuiti poteri eccessivamente discrezionali.

Questi rilievi sembrerebbero superabili stando alla ricostruzione operata da Catenacci64, che sottolinea come, nel caso in cui il

giudice dubiti della effettiva pericolosità della condotta, dovrà accertarsene seguendo un procedimento articolato in due fasi: in primo luogo dovrà individuare il bene giuridico tutelato dalla fattispecie astratta e i caratteri del pericolo, in modo da definire il modello legale d’offesa.

63 In questo senso vedi, fra le altre, la sentenza della Corte costituzionale del

18 Luglio 1997 n. 247, in Leggi d’Italia, in base alla quale « … l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, anche per i reati formali e di pericolo presunto, in ogni caso, è devoluta al sindacato del giudice penale. Conseguentemente la mancanza di offensività in concreto, lungi dall'integrare un potenziale vizio di costituzionalità, implica una valutazione di merito rimessa al giudice (sent. n. 360 del 1995; sent. n. 133 del 1992; sent. n. 333 del 1991; sent. n. 296 del 1996)».

64 M. Catenacci, I reati ambientali e il principio di offensività, in Riv.

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Solo in un secondo momento dovrà confrontare il modello così ottenuto con il fatto storico e le sue caratteristiche, per verificare se l’offesa si sia effettivamente realizzata.

Così facendo si attenuano i rischi che questo meccanismo può comportare relativamente al fatto che il principio di offensività possa tradursi in un potere del giudice, del tutto discrezionale, di ritenere offensive condotte che non lo sono, con conseguenti rischi per la certezza del diritto e di incompatibilità con il principio di legalità.

Ma questo meccanismo non rappresenta certo la panacea di tutti i mali; se da un lato risolve alcuni problemi teorici, dall’altro ne porta con sé altri di tipo pratico.

Da questo punto di vista, infatti, il rischio è quello di trascurare le ragioni di stampo prettamente processuale che hanno portato a optare per il modello del pericolo astratto, quali quelle legate all’accertamento del nesso causale, di difficile se non impossibile accertamento per le ragioni sopra viste.

Il legislatore, optando per la costruzione della fattispecie attorno al pericolo astratto, in un certo senso, ha ritenuto di sollevare il Pubblico Ministero dal provare la reale pericolosità della condotta nel caso di specie.

Se la possibilità del giudice di condannare l’imputato dipendesse dalla prova fornita dal Pubblico Ministero circa l’effettiva pericolosità della condotta, si rischierebbe di imporre un metodo di acquisizione della prova disfunzionale alle ragioni che hanno portato a ricorrere alle fattispecie di pericolo astratto65.

Un escamotage per uscire da questa situazione di impasse potrebbe essere quello di valorizzare adeguatamente l’idea di cui, sia la dottrina italiana che tedesca, si erano già fatte

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portatrici, ossia quella di smorzare la portata della presunzione di normale pericolosità intendendola non come assoluta, bensì come relativa.

In questo modo non si imporrebbe al Pubblico Ministero di dare prova dell’effettiva pericolosità della condotta, ma si darebbe all’imputato la possibilità di dimostrare che il pericolo non si è realizzato nel caso di specie.

Tale prova, sebbene rimessa alla valutazione del giudice secondo il suo libero apprezzamento e comunque soggetta al criterio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”, sarebbe sufficientemente in grado di arginare il potere del giudice da un eventuale repressione indiscriminata di condotte apparentemente tipiche ma inoffensive.

Tuttavia questa soluzione, ammettendo la prova della non pericolosità in concreto, opera un’inversione dell’onere della prova e finisce per far gravare sull’imputato un onere dell’accusa comportando il rischio di collisione con il canone dell’in dubio pro reo.

Al contrario, secondo il punto di vista di Catenacci66 , questa

impostazione potrebbe dirsi fondata, in quanto rappresenterebbe un diritto per l’imputato di provare l’assenza di tipicità del fatto, proprio per la mancanza di offensività.

L’attribuzione di tale facoltà troverebbe corrispondenza nelle disposizioni del Codice di procedura penale che regolano la formazione della prova.

In particolare il riferimento andrebbe principalmente all’art. 190 c.p.p. rubricato “diritto alla prova” e all’art. 187 c.p.p. in base al

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