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La sospensione del procedimento con messa alla prova ne

CAPITOLO V: VERSO LA GESTIONE DEI REAT

9. La sospensione del procedimento con messa alla prova ne

Un modo ulteriore per implementare gli spazi di giustizia riparativa potrebbe essere quello di offrire all’ente la possibilità di accedere alla sospensione del procedimento con messa alla prova, istituto ritenuto in grado di accogliere le istanze della

restorative justice.

In ambito giurisprudenziale, la questione era rimasta pressoché inesplorata fino al 2017, anno in cui si registra un’ordinanza233

del Tribunale di Milano sul tema.

In tale circostanza il Tribunale negò all’ente l’accesso alla

232 Per ulteriori riflessioni sul tema si veda R. Losengo, C. Melzi d’Eril,

responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 op. ult. cit. p. 573 ss.

233 Tribunale di Milano, ordinanza del 27/03/2017, nota di M. Miglio, La

sospensione del processo con messa alla prova non si applica all’ente, in

sospensione del procedimento con messa alla prova perché, oltre a non essere rinvenibile alcuna norma che prevedesse esplicitamente tale possibilità, ritenne il vuoto normativo non colmabile in via interpretativa.

Il ragionamento del Tribunale di Milano prendeva le mosse dall’ormai affermata natura ibrida dell’istituto, riconoscendo però alla componente sostanziale un ruolo preminente rispetto alla componente processuale.

Di conseguenza a nulla varrebbe il riferimento agli artt. 34 e 35 del D.Lgs. 231/2001, che estendono l’applicazione delle sole disposizioni processuali al procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato.

Tuttavia la giurisprudenza e la dottrina hanno recentemente riconosciuto la possibilità di definire il processo nei confronti dell’ente mediante giudizio immediato e direttissimo, nonostante tali riti non siano richiamati espressamente dal Decreto.

Questa constatazione aprirebbe la strada anche ad una rivalutazione della possibilità per l’ente di accedere alla sospensione del procedimento con messa alla prova234.

Se si ammette che «l’ente, per il tramite del suo rappresentante legale, può essere “interrogato” ai fini del giudizio immediato e, altresì, ben può “confessare” ai fini del giudizio direttissimo, allora lo stesso ente potrà anche essere “messo alla prova” nelle forme e nei modi degli articoli 464-bis ss. c.p.p., non ostando a simile operazione la mancanza del coefficiente materiale e psicologico tipico della persona fisica»235.

Certo è che, se a fronte di tale possibilità non si pongono

234 M. Riccardi, M. Chilosi, La messa alla prova nel processo “231”: quali

prospettive per la diversion dell’ente?, in Diritto penale contemporaneo, 2017

p. 58.

particolari problemi di compatibilità con i limiti operativi dell’istituto di cui all’art. 168 –bis c.p. informati al criterio quantitativo (potendosi riferire il limite edittale ivi previsto al reato presupposto), maggiori problematiche si pongono in relazione al riferimento di cui al comma 5 del predetto articolo. Riferendosi allo stato di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, tale comma, difficilmente potrà trovare applicazione nei confronti dell’ente.

Altra questione particolarmente delicata si pone in relazione ai contenuti della prova e alla riferibilità degli stessi alla persone giuridiche. Sotto questo profilo sarà necessario un adattamento dei contenuti che tenga conto del tipo di reato commesso.

Prendendo le mosse da quelle che abbiamo visto essere le peculiari finalità dell’istituto in parola, ovvero la finalità riparatoria e di recupero, tenteremo di individuare i possibili contenuti della prova che potrebbe articolarsi come segue236.

La dimensione riparatoria dell’istituto potrebbe senz’altro essere valorizzata mediante l’attuazione di condotte riparatorie volte a ricomprendere anche il risarcimento del danno, nonché l’eventuale devoluzione del profitto del reato a favore di enti o associazioni a tutela degli interessi lesi.

Quanto alla componente che abbiamo definito “trattamentale- rideucativa”, il cuore pulsante del programma potrebbe essere costituito dall’adozione ed implementazione degli strumenti volti a conseguire una “riorganizzazione virtuosa” 237 dell’ente.

Tuttavia, in linea con lo spirito del Decreto, sarebbe opportuno

236 Per l’individuazione dei possibili contenuti della prova in relazione alle

persone giuridiche si vedano le riflessioni offerte da M. Riccardi, M. Chilosi,

La messa alla prova nel processo “231”, op. cit. p. 64 ss., nonché il

contributo di A. Scalfati, Punire o reintegrare? Prospettive minime sul regime

sanzionatorio degli enti, in Processo penale e giustizia, 2019, p. 10 ss.

limitare l’accesso all’istituto alle sole società che, già prima della realizzazione del reato, fossero dotate di un modello organizzativo e di gestione che non fosse di sola facciata238.

Infine la dimensione sociale si presterebbe ad essere valorizzata dall’adozione di una serie di iniziative e attività volte a riparare i costi sociali derivanti dal reato.

In quest’ottica si potrebbe pensare a un contatto tra ente, vittime e persone a vario titolo coinvolte dalle conseguenze del reato, che sia volto a definire le linee guida di cui tener conto nel procedere alle attività riparatorie239.

In conclusione, sulla base delle analisi fin qui svolte, pare proprio che la proposta di cui si è dato conto si ponga in linea con le finalità del Decreto e pare altresì evidente la sua utilità per almeno tre motivi:

«1) perché è in grado di perseguire più incisivamente la finalità di ridurre il rischio di commissione degli illeciti, incoraggiando, ancora una volta, le società a dotarsi di modelli idonei; 2) perché può salvaguardare le imprese che realmente vogliano impegnarsi nella prevenzione degli illeciti; 3) perché apre il sistema a nuove modalità di definizione della responsabilità “penale” degli enti che, se saggiamente impiegate, potrebbero rappresentare un buon modo per garantire il rispetto e l’applicazione della legge»240.

238 D. Vispo, Il procedimento a carico degli enti: quali alternative alla

punizione?, in Legislazione penale, 2019, p. 13.

239 Iniziativa proposta da S. Giavazzi op. cit. p. 178 ss., in relazione allo

svolgimento delle condotte riparatorie di cui all’art 17 lett. a) D.Lgs. 231/2001, ma che sembra ben adattarsi anche all’ipotesi in parola, valorizzando non solo la dimensione sociale di cui si fa portatrice la giustizia riparativa, ma anche un contatto tra reo e vittima, ove questo sia possibile.

240 G. Fidelbo, R. A. Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla

Tuttavia è opportuno prendere in considerazione anche i rilievi offerti da coloro che non ritengono i tempi maturi per una messa alla prova dell’ente241 e sostengono che, prima di considerare

tale eventualità, sarebbe auspicabile un intervento del legislatore volto a definire anche in che cosa consista la mediazione penale, come si esplichi e da chi sia condotta. Inoltre è dato rilevare come sia complicato capire se l’esito della prova sia da ritenere positivo o negativo. Questo è particolarmente vero sotto il profilo della riorganizzazione dell’ente: difficilmente si potrà valutare aprioristicamente se il modello adottato sia effettivamente idoneo a prevenire la realizzazione dei reati presupposto.

241 G. Sacco, Luci ed ombre della restorative justice nel processo agli enti, in

CONCLUSIONI

L’elaborato era volto ad indagare i margini di compatibilità della giustizia riparativa con i reati ambientali e, nei termini in cui si è detto, con la criminalità d’impresa, partendo dalla considerazione per cui i reati ambientali assumono specifica rilevanza quando commessi nell’ambito dell’esercizio di un’attività d’impresa.

Abbiamo così individuato i principi e le finalità cui ambisce la giustizia riparativa, a partire dalla definizione offerta dall’art. 2 della Direttiva 2012/29/UE che la riconduce a «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale».

Alla luce delle riflessioni svolte, la problematica maggiormente rilevante emersa in ordine alla possibilità di gestire i conflitti ambientali mediante il ricorso al paradigma riparativo è, senza dubbio, da rinvenire nella struttura contravvenzionale dei reati ambientali, per di più, costruiti sul modello dei reati di pericolo astratto.

Tali tipologie di reati si basano su un’anticipazione dell’intervento penale rispetto al verificarsi dell’offesa, dunque non sarebbe inappropriato chiedersi in quali termini possa declinarsi la giustizia riparativa nelle ipotesi in cui non si è verificato alcun danno e, di conseguenza, non c’è alcun danno da riparare.

La questione merita di essere approfondita.

Innanzitutto occorre precisare che il fatto che si tratti di reati incentrati sul pericolo non esclude che dalla loro commissione

possa derivare anche un danno che necessiti di essere riparato. Infatti, anche laddove ci si confronti con reati attinenti alla violazione di precetti amministrativi, occorre considerare che essi non sempre sono rivolti alla sola tutela di funzioni amministrative ma realizzano una tutela mediata dell’ambiente. A tal proposito, abbiamo visto come i reati che si risolvono in violazioni cc.dd. formali siano suddivisibili in tre sottocategorie. Di queste, solo la mancata comunicazione all’autorità competente di informazioni per le quali è previsto il relativo obbligo, si porrebbe ad un livello molto lontano dalla lesione o messa in pericolo del bene.

Questa circostanza ha portato a ritenere che ad essere tutelate, in tali casi, siano solo le funzioni amministrative, al punto che sarebbe da considerare più opportuna una loro depenalizzazione.

Alla luce di questi rilievi risulta difficile parlare di una riparazione che si ponga in linea con la prospettiva accolta dalla giustizia riparativa.

Al contrario, relativamente alle altre due sottocategorie242,

nonché all’ipotesi di superamento dei limiti tabellari, qualora da tali infrazioni non sia derivato un danno, la riparazione si potrà esplicare in attività conformative volte ad eliminare le violazioni e le irregolarità riscontrate.

Un ulteriore profilo problematico emerso è quello relativo alle peculiari forme di vittimizzazione a cui i reati ambientali sono in grado di dare luogo.

Trattandosi di fenomeni di vittimizzazione diffusa, caratterizzati per lo più dal fatto che le vittime non si percepiscono come tali, appare quanto mai difficoltoso pensare alla realizzazione di una

242 Lo svolgimento di attività in assenza di autorizzazione e lo svolgimento di

forma di contatto tre le vittime e il reo.

Nell’economia complessiva dell’analisi non si poteva prescindere da una rassegna degli istituti ritenuti in grado di aprire spazi a percorsi di giustizia riparativa all’interno della materia ambientale, primo fra tutti l’istituto del ravvedimento operoso di cui all’art. 452 – decies c.p.

Il ravvedimento operoso sembra un istituto idoneo a filtrare le logiche riparative, in quanto permette all’autore del reato di dimostrare la sua volontà di conformarsi alle disposizioni violate, sulla base di un percorso intrapreso in maniera volontaria. Ed è proprio l’elemento della volontarietà che deve essere valorizzato alla stregua della restorative justice e che potrebbe giocare un ruolo in chiave di responsabilizzazione del reo. Tuttavia occorre precisare che, ai fini del premio, non rileva il motivo che spinge il soggetto ad optare per il ravvedimento operoso.

La procedura descritta nella Parte VI bis del TUA agli artt. 318 –

bis e ss., invece, sebbene offra, a determinate condizioni,

l’estinzione del reato, non si caratterizza per la volontarietà degli interventi richiesti, i quali sono impartiti dall’organo di vigilanza. Relativamente a tale procedura, anche avendo riguardo al fatto che l’ambito di applicazione risulta limitato ai soli reati contravvenzionali contenuti nel TUA, ad esclusione di quelli che hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette, è logico domandarsi quali spazi ci siano per l’intervento della giustizia riparativa.

Come è stato rilevato, pur in assenza dell’elemento della volontarietà, che caratterizza l’istituto del ravvedimento operoso, il modello in parola comporterebbe «una riflessione sul reato da parte del reo e una riconsiderazione della sua condotta che,

all’esito di una procedura intrapresa volontariamente», sebbene sulla base di prescrizioni imposte, «viene nuovamente a conformarsi alle disposizioni violate»243.

Per questi aspetti l’istituto descritto sembrerebbe compatibile, in senso lato, con principi della giustizia riparativa.

Sotto il profilo sostanziale, il quadro si è completato con l’analisi dei reati di omessa bonifica di cui all’art. 452 – terdecies c.p. e all’art. 257 TUA, i quali permettono di valorizzare la funzione ripristinatoria cui assolve il diritto penale ambientale.

Risulta evidente, in relazione a tali fattispecie, la scelta del legislatore di puntare sulla collaborazione volontaria dell’imputato, minacciando una sanzione qualora non adempia all’ordine del giudice o non provveda alla bonifica in conformità al progetto approvato.

In particolare la fattispecie di cui all’art. 257 TUA presenta spunti per riflessioni particolarmente interessanti.

Il fatto di aver collegato la punibilità all’avvenuta “analisi del rischio sito specifica”, nonché all’approvazione del programma di bonifica, fa sì che finché queste attività non sono svolte, il potenziale responsabile non è sanzionabile per la violazione dell’art. 257 TUA.

Questo aspetto, che rappresenta a tutti gli effetti un vulnus all’applicabilità di questa procedura, nell’ottica della giustizia riparativa potrebbe essere valutato positivamente: il fatto che l’autore del reato si sia attivato per porre in essere una procedura che probabilmente porterà ad accertare la sua responsabilità, assume rilevanza nell’ottica di una sua responsabilizzazione.

243 D. Amato, Quali spazi per la restorative justice nell’ordinamento giuridico

italiano?, in AA. VV. La mediazione dei conflitti ambientali. Linee guida operative e testimonianze degli esperti, Milano, 2016, p. 176.

Sebbene gli istituti finora ricordati possano giocare un qualche ruolo nel permettere l’ingresso della giustizia riparativa nel nostro ordinamento, l’istituto che maggiormente rispecchia le logiche riparative è senz’altro la sospensione del procedimento con messa alla prova.

Infatti, proprio questo istituto, a seconda del contenuto della prova, ammette la possibilità di addivenire ad un contatto tra reo e vittima nell’ambito di una mediazione.

L’importanza di questo strumento ai fini della nostra indagine ci ha portato ad interrogarci circa le possibilità per l’ente di accedere alla sospensione del procedimento con messa alla prova.

Sebbene allo stato attuale si registri una posizione contraria della giurisprudenza rispetto a tale eventualità, abbiamo evidenziato come, de jure condendo, tale soluzione risulti particolarmente appetibile in quanto permetterebbe anche di valorizzare la prospettiva comunitaria in cui si pone le

restorative justice.

Inoltre, in quest’ottica potrebbero trovare un rinnovato interesse anche gli artt. 12 e 17 del D.Lgs. 231/2001, inserendosi nel contesto di un più ampio meccanismo.

Alla luce di queste considerazioni è dato segnalare come gli istituti trattati si pongano per lo più in una logica riparatoria e non riparativa, andando a valorizzare profili di riparazione materiale del danno, ma non di elisione dell’offesa e di incontro con le vittime.

Appare evidente come i tempi siano ormai maturi per un intervento chiarificatore del legislatore su una materia così delicata come quella in oggetto, considerando il fatto che mentre all’estero si iniziano ad apprezzare risultati soddisfacenti, che confermano la validità del paradigma, in Italia

siamo ancora all’anno zero244.

244 C. Mazzucato, La giustizia riparativa in ambito penale ambientale. Confini

e rischi, percorsi e potenzialità, in AA. VV. La mediazione dei conflitti ambientali. Linee guida operative e testimonianze degli esperti, Milano, 2016,

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