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Donne e scelte di portafoglio Differenze di genere e stili di investimento

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

D

IPARTIMENTO DI

E

CONOMIA E

M

ANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

Tesi di Laurea

Donne e scelte di portafoglio

Differenze di genere e stili di investimento

Relatrice

Prof.ssa Maria Laura Ruiz

Candidata

Elisa Benetti

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Indice

Introduzione ... 5

Capitolo 1 Differenze di genere nell’avversione al rischio e all’incertezza ... 7

1.1 Finanza comportamentale e anomalie nelle scelte di investimento ... 7

1.1.1 Gli errori cognitivi ... 8

1.1.2 Overconfidence, ottimismo e genere ... 10

1.2 Eventi rischiosi e eventi incerti. Il concetto di ambiguità ...13

1.3 Avversione all’ambiguità. Il paradosso di Ellsberg ... 14

1.4 Percezione e assunzione del rischio ... 16

1.5 Donne e avversione al rischio nelle decisioni finanziarie ... 19

Capitolo 2 Percezione e risposta al rischio degli investitori professionali. Il caso delle donne business angels ... 23

2.1 Il processo decisionale dei manager ... 23

2.2 Il caso degli investitori professionali ... 25

2.3 La performance degli hedge fund gestiti da donne ... 32

2.4 Donne business angels ... 34

Capitolo 3 Scelte e stili di investimento ... 45

3.1 Le scelte di investimento delle famiglie italiane ... 45

3.1.1 Conoscenze finanziarie e tratti comportamentali ... 46

3.1.2 Scelte di investimento e rischio finanziario ... 53

3.1.3 Abitudini e stili di investimento ... 56

3.1.4 La domanda di consulenza ... 62

3.2 Donne e investimenti ... 66

3.2.1 Mentalità, approccio e scopi ... 71

3.3 Il gender gap nell’alfabetizzazione finanziaria ... 75

3.4 Genere, stato civile e decisioni di portafoglio ... 78

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Capitolo 4 Riconsiderazioni in merito alla maggiore avversione al rischio per le

donne. Rapporto tra intermediari finanziari e investitrici. ... 81

4.1 Decisioni finanziarie: le donne sono veramente più avverse al rischio? ... 81

4.1.1 Risultati ... 83

4.2 Le donne sono investitrici più avverse al rischio? ... 87

4.3 I brokers trattano meglio gli uomini rispetto alle donne? ... 89

Conclusioni ... 93

Bibliografia ... 97

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Introduzione

Nel seguente elaborato ho affrontato il tema delle differenze di genere in merito all’atteggiamento verso il rischio nell’ambito delle decisioni di investimento. In particolare, mi sono soffermata sulle scelte finanziarie compiute dalle donne, e, con l’obiettivo di analizzare come esse percepiscano il rischio relativo ai diversi strumenti finanziari, ho cercato di rispondere alle seguenti domande, attraverso la ricerca e lo studio di articoli in riviste specializzate: le donne sono più o meno avverse al rischio rispetto agli uomini quando si tratta di scelte di portafoglio? Le differenze di genere, se esistono, sono più o meno pronunciate nella popolazione “manageriale” o in quella “non manageriale” e, a tal proposito, come si comportano gli investitori professionali e i risparmiatori retail? Ho poi approfondito il ruolo e l’importanza di alcuni fattori come l’alfabetizzazione in materia finanziaria con l’analisi del divario tra abilità auto-percepite e conoscenza dimostrata, le caratteristiche socio-demografiche e il ricorso alla consulenza di un esperto.

Più in dettaglio, nel primo capitolo, dopo aver descritto le anomalie nelle decisioni di investimento che derivano da errori cognitivi (determinati dall’utilizzo di un numero limitato di regole intuitive ed approssimative, le cosiddette euristiche), ho analizzato i comportamenti di overconfidence (aumentata fiducia nelle proprie capacità non giustificata da dati reali) e ottimismo (formulazione di previsioni distorte e a proprio vantaggio generate dal non considerare gli scenari negativi) con un’attenzione alle diversità tra uomini e donne, per poi passare alla percezione e assunzione del rischio nell’ottica della finanza comportamentale e allo studio di Jianakoplos e Bernasek (1998) sull’avversione al rischio delle donne nelle decisioni finanziarie. Nel secondo capitolo ho trattato le differenze nella propensione al rischio e il processo decisionale per gli uomini e le donne appartenenti alla “popolazione manageriale” che hanno ricevuto un’educazione formale sul

management (Johnson e Powell, 1992), e poi un’analisi delle decisioni in

termini di investimento in un ambiente professionale dove i manager gestori di fondi hanno un background educativo e un’esperienza di lavoro simili (Niessen e Ruenzi, 2007). Ho proseguito il lavoro con il caso degli investitori

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professionali uomini e donne (Olsen e Cox, 2001), e in particolare la valutazione degli attributi di rischio per gli investimenti e le differenze di genere sulla percezione del rischio finanziario per classi di attività, e poi con la performance degli hedge fund gestiti da donne; infine, il rapporto tra donne business angels e investimenti nel capitale di rischio (Harrison e Mason, 2007). Nel terzo capitolo ho esaminato le scelte di investimento delle famiglie italiane emerse dal Rapporto Consob del 2016, con particolare riguardo alle conoscenze finanziarie, alle abitudini e agli stili di investimento dei risparmiatori retail, passando poi allo studio di Michael Liersch (2015) che si è interrogato sul fatto se esistano differenze innate nei comportamenti di investimento tra uomini e donne, chi tra i due vorrebbe essere coinvolto più attivamente nell’investimento e se, quando si tratta di investire, uno dei due è più focalizzato/a sulle questioni legate alla famiglia; poi un approfondimento su come le donne percepiscono l’investimento e il rischio (mentalità), la previsione del percorso di investimento (approccio) e gli obiettivi che sperano di raggiungere (scopo). Nella seconda parte del capitolo ho affrontato il tema del gender gap nell’alfabetizzazione finanziaria come testimoniato da un’indagine dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel 2012, con lo studio di Longobardi e Pagliuca (2015) in merito alle determinanti di questo gap e infine un aspetto curioso che riguarda gli effetti che i livelli di testosterone avrebbero sulla propensione al rischio finanziario e su quella a intraprendere certe carriere professionali piuttosto che altre. Nel quarto e ultimo capitolo ho ripreso in considerazione l’aspetto di maggiore avversione al rischio per le donne con l’analisi dello studio di Schubert et al. (1999) che si è interrogato proprio sul fatto se le donne siano davvero più avverse al rischio rispetto agli uomini in materia di decisioni finanziarie e l’articolo di Anne Davies (2013) che prende in esame alcune barriere comuni che riducono la partecipazione delle donne al “tavolo degli investimenti”. In conclusione ho riportato una riflessione sull’atteggiamento degli intermediari finanziari verso i clienti e in particolare nei confronti delle donne investitrici (Wang, 1994).

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Capitolo 1

Differenze di genere nell’avversione al rischio

e all’incertezza

1.1 Finanza comportamentale e anomalie nelle scelte di

investimento

La teoria classica della finanza e l’ipotesi d’efficienza dei mercati finanziari ipotizzano che gli individui nel compiere le proprie scelte di investimento siano perfettamente razionali, acquisendo ed elaborando immediatamente, interamente e correttamente tutta l’informazione rilevante per la determinazione dei prezzi e dei rendimenti delle attività. In tale prospettiva le preferenze degli investitori risultano indipendenti, stabili e coerenti e domanda e offerta sono adeguate sulla base delle informazioni elaborate, uguali per tutti, facendo variare i prezzi che raggiungono istantaneamente il valore di equilibrio. Tuttavia, la ricerca empirica ha smentito tali ipotesi, evidenziando come le scelte d’investimento presentino diverse anomalie che derivano da errori di ragionamento e di preferenze: bassa partecipazione al mercato finanziario e, in particolare, a quello azionario; tendenza a detenere portafogli poco diversificati per attività, emittente ed area geografica; tendenza a movimentare eccessivamente il portafoglio (N. Linciano, 2010). Il risultato è un disallineamento delle caratteristiche di rischio-rendimento del prodotto rispetto al livello di propensione al rischio, alla capacità economica e all’orizzonte temporale di riferimento del soggetto. Un esempio classico di anomalia nelle decisioni di investimento è rappresentato dallo scostamento tra le prescrizioni del Capital Asset Pricing Model1 e la composizione dei portafogli dei

risparmiatori retail, noto come asset allocation puzzle (Canner, Mankiw, and Weil 1997): la teoria stabilisce che date le tre classi fondamentali di attività

1CAPM: modello proposto da Sharpe nel 1964 per la determinazione del prezzo di un’attività

calcolato sulla relazione tra il rendimento del titolo e la sua rischiosità, misurata tramite un unico fattore di rischio, denominato beta (coefficiente che misura la reattività del rendimento del titolo ai movimenti del mercato). Secondo tale modello il prezzo è influenzato soltanto dal rischio sistematico (o rischio di mercato) che dipende dalla rischiosità del mercato nel suo complesso e non può essere diversificato, mentre la componente rischio idiosincratico (o specifico) associato alle caratteristiche delle singole attività finanziarie può essere eliminata attraverso un’opportuna diversificazione, aumentando il numero di attività in portafoglio.

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finanziarie (liquidità, obbligazioni, azioni) soltanto la quota di ricchezza detenuta sotto forma di liquidità dovrebbe essere influenzata dal grado di avversione al rischio, dato che la ripartizione efficiente tra azioni e obbligazioni è uguale per tutti gli investitori e corrispondente al portafoglio di mercato. Nella realtà invece si riscontra la tendenza dei consulenti finanziari a proporre una ripartizione più sbilanciata verso le azioni quanto maggiore è l’ammontare di liquidità (e quindi l’avversione al rischio) e l’orizzonte temporale di riferimento. La finanza comportamentale, campo di ricerca interdisciplinare, partendo dall’assunto di base di un’interazione tra aspetti psicologico-cognitivi e prettamente economici, cerca di spiegare il comportamento e gli errori degli operatori nei mercati finanziari.

1.1.1 Gli errori cognitivi

La predisposizione ad un errore sistematico di tipo cognitivo è denominata bias, ed indica un pregiudizio formatosi nei momenti della raccolta e dell’interpretazione delle informazioni attraverso un numero limitato di regole intuitive ed approssimative, le cosiddette euristiche (Kahneman e Tversky, 1974). Come evidenziato nella Tab.1.1 l’euristica della disponibilità guida la raccolta delle informazioni, mentre le euristiche della rappresentatività e dell’ancoraggio guidano il processo di elaborazione.

Tab. 1.1: Raccolta ed Elaborazione delle informazioni

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L’utilizzo di euristiche della disponibilità conduce gli individui a giudicare gli eventi facili da ricordare, in quanto più noti e recenti o vissuti in prima persona, e in numerosità maggiore rispetto a quelli di pari frequenza ma più difficili da ricordare. Un esempio è rappresentato dalla tendenza degli investitori a concentrare gli acquisti sulle azioni che hanno evidenziato elevati volumi di transazione o significative variazioni di prezzo (Barber e Odean, 2008). Se l’evento non può essere recuperato facilmente nella memoria vengono costruiti degli scenari, ma in questo caso dato che la struttura della memoria stessa influenza il processo, il rischio è di incorrere in errori procedurali. Inoltre può verificarsi l’errore di “correlazione indotta”, vale a dire che la valutazione della frequenza di un evento basata sui ricordi disponibili può dare origine ad associazioni di fatto inesistenti tra eventi indipendenti. Per quanto riguarda l’utilizzo di euristiche della rappresentatività gli errori indotti sono riconducibili a:

- tendenza ad ignorare le informazioni sulla frequenza oggettiva di manifestazione di un evento (la stima di probabilità viene assegnata facendo riferimento alla similarità rispetto a una certa classe di eventi);

- tendenza ad ignorare la dimensione del campione: si ritiene che la probabilità che si verifichi un evento in un campione di grandi dimensioni possa essere osservata anche in un campione di piccole dimensioni; è l’errore tipico del giocatore d’azzardo, il gambler fallacy, dove l’individuo ritiene che un evento casuale abbia più probabilità di manifestarsi perché non si è verificato per un certo periodo di tempo (nel lancio di una moneta, dopo aver ottenuto testa per cinque volte consecutive, la propensione è di prevedere un aumento della probabilità che il prossimo lancio darà come risultato croce, quando statisticamente gli esiti nei diversi lanci sono tra loro indipendenti e la probabilità di ogni risultato è sempre del 50%);

- tendenza a ritenere che le manifestazioni estreme di un fenomeno siano predittive anche per il futuro: conjunction fallacy, vale a dire sovrastimare la probabilità di due eventi congiunti e sottostimare la probabilità di due eventi disgiunti (ad esempio le previsioni future sull’andamento delle azioni tendono

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ad essere ottimistiche se il corso dei titoli ha evidenziato una crescita consistente per un certo periodo di tempo e viceversa).

L’ancoraggio, infine, determina un processo decisionale influenzato da un’informazione di partenza che agisce da àncora, trattenendo a sé gli aggiustamenti successivi , dando origine al fenomeno di underreaction rispetto a notizie e fatti nuovi. Il processo di cambiamento di opinione risulta così lento e difficile. Ad esempio quando il prezzo di un titolo in un determinato momento diventa il riferimento per la valutazione dell’andamento del titolo stesso in futuro, senza tenere conto di altri elementi utili quali la storia del titolo e la variabilità del prezzo in passato (H. Shefrin, 2002).

1.1.2 Overconfidence, ottimismo e genere

Alle euristiche esaminate sono collegati gli atteggiamenti di overconfidence e ottimismo. Il primo fa riferimento al fatto che gli individui esprimono un’aumentata fiducia nelle proprie capacità non giustificata da dati reali; è la presunzione di poter battere il mercato e l’illusione di avere il controllo, trascurando il fattore casualità quando si crede che l’abilità personale sia predominante. Questo atteggiamento può determinare una sottostima della variabilità di un fenomeno, vale a dire una valutazione degli intervalli di confidenza troppo stretti, e la convinzione di essere migliori rispetto alla media, generando un’eccessiva sicurezza in se stessi. Conseguentemente si pesano meno i rischi e le possibili conseguenze negative. L’ottimismo si configura come l’attitudine a non considerare, tra diversi scenari possibili, quelli negativi, portando alla formulazione di previsioni spesso distorte e a proprio vantaggio; proprio per questo l’optimism bias è una trappola diffusa e potenzialmente pericolosa per il portafoglio, che impedisce agli investitori di effettuare un’efficace pianificazione2. L’overconfidence sembra essere alla base della

tendenza degli operatori che effettuano un trading smisurato a sopravvalutare il valore delle proprie competenze e informazioni; modelli teorici dimostrano che l’utilità attesa dei traders overconfident si riduce e i portafogli dei soggetti che ritengono essere più informati registrano una performance inferiore. Guiso e Jappelli (2006) in uno studio relativo a un campione di investitori di un

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intermediario italiano rilevano che la raccolta di più informazione è associata a movimentazioni più frequenti di portafoglio, a una minore diversificazione e scarsa propensione a delegare le decisioni di investimento a un consulente finanziario, per effetto dell’attitudine a sottovalutare l’abilità e il valore dell’informazione posseduta da altri3. Un investitore razionale negozia

strumenti finanziari solo se il rendimento previsto supera i costi di transazione, mentre un investitore overconfident sovrastima la precisione delle sue informazioni e quindi i rendimenti previsti dalla negoziazione, decidendo di operare anche quando questi risultano negativi. Uno studio condotto da B. M. Barber e T. Odean (2001) basato sulla previsione che gli investitori

overconfident praticano un trading eccessivo, dimostra tale ipotesi

distinguendo gli operatori in base al sesso. La ricerca psicologica rileva infatti che in settori come la finanza gli uomini risultano più overconfident rispetto alle donne, quindi la teoria prevede che gli uomini effettuano trading in misura maggiore; le ipotesi alla base dei modelli di overconfidence sono due:

Hp 1: gli uomini sono più overconfident e negoziano più delle donne;

Hp 2: negoziando di più, gli uomini danneggiano i loro rendimenti più di quanto facciano le donne.

Utilizzando un set di dati su posizioni e operazioni in trading di oltre 35 mila famiglie raccolti da una grande società di brokeraggio statunitense, lo studio analizza gli investimenti in titoli da parte di uomini e donne da Febbraio 1991 a Gennaio 1997. La ricerca si è concentrata su investimenti in azioni ordinarie da parte delle famiglie dove era possibile identificare il sesso della persona che per prima ha aperto un conto presso la società (79% uomini e 21% donne). Oltre al genere interessanti sono i dati relativi allo stato civile, la presenza di figli, età e reddito. In particolare, le donne sposate sono il 68% contro il 76% circa degli uomini e anche la percentuale con figli è inferiore (25% versus 32%), mentre l’età media è approssimativamente la stessa (intorno ai 50 anni) e il reddito familiare leggermente inferiore per le donne. Un’altra variabile emersa è

3In contrasto con la teoria classica secondo cui l’acquisizione di informazione da parte di

individui razionali viene effettuata fino al punto in cui i relativi costi marginali eguagliano il beneficio atteso incrementale, consentendo peraltro ai soggetti più informati di ottenere rendimenti migliori.

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l’esperienza auto-riportata sull’investimento: in generale, le donne hanno dichiarato di avere meno esperienza di investimento rispetto agli uomini (ad esempio circa il 48% delle donne riferisce di avere una buona o estesa esperienza sull’investimento, mentre il 62,5% degli uomini riferisce lo stesso livello di esperienza). Nelle coppie sposate ciascuno può influenzare la decisione d’investimento dell’altro, e in alcuni casi il coniuge che decide di investire può non essere quello che ha inizialmente aperto il conto, riducendo in tal modo la differenza di genere sull’overconfidence. Andando ad analizzare i valori delle posizioni e il tasso di turnover dei portafogli detenuti da uomini e donne, le donne detengono una posizione in titoli inferiore, anche se la differenza non è significativa (19.000 $ versus 22.000 $) mentre di maggiore interesse è lo scostamento nel turnover: l’evidenza empirica è coerente con la prima ipotesi dei modelli di overconfidence (per cui le donne risulterebbero meno

overconfident e meno inclini alla negoziazione): le donne presentano un tasso di

rotazione del portafoglio di circa il 53% annuo, mentre gli uomini intorno al 77% annuo, e la differenza è ancora più pronunciata tra uomini e donne sigle (85% contro 51%); inoltre, per gli uomini si registra un rendimento netto minore di 0.94 punti percentuali all’anno rispetto alle donne, che arriva a 1,44 punti percentuali nel confronto tra uomini e donne single, in linea anche con la seconda ipotesi dei modelli di overconfidence.

In uno studio condotto da Jacobsen, Lee, Marquering e Zhang (2014) è stato analizzato come le differenze di genere in merito all’ottimismo possano portare gli uomini a detenere attività più rischiose; i risultati hanno mostrato che gli uomini sono sensibilmente più ottimisti delle donne riguardo all’economia e nell’approccio ai mercati finanziari: l’uomo investe in media il 47% della sua ricchezza in titoli, contro il 43% riscontrato nella donna. Indipendentemente dal genere, è emerso che i soggetti detengono maggiormente titoli azionari se sono più ottimisti sui futuri risultati del mercato (il 50% di valore dell’intero portafoglio contro il 35% per gli investitori pessimisti); le donne, tuttavia, percepiscono il rischio nel mercato azionario significativamente più elevato rispetto agli uomini, e prevedono, in media, risultati futuri peggiori, portando a detenere meno titoli nei loro portafogli. L’analisi della sola categoria “donne e uomini molto ottimisti” ha rivelato, invece, che non esistono sostanziali

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differenze, ed anzi le donne fortemente ottimiste investono quasi il 5% in più in azioni rispetto agli uomini molto ottimisti. La differenza di genere nell’ottimismo non è solo limitata al mercato azionario, ma si applica anche ad altri aspetti dell’economia, come la crescita economica, i tassi di interesse e l’inflazione.

1.2 Eventi rischiosi e eventi incerti. Il concetto di ambiguità

Il comportamento degli individui quando si trovano in situazioni in cui dover prendere una decisione è influenzato dalla presenza o assenza di informazioni; se fossero a conoscenza di tutti i dati necessari, sarebbero in grado di valutare le alternative di scelta e le conseguenze sia negative che positive (opportunità) derivanti da ciascuna di esse. Il ruolo dell’informazione è fondamentale proprio perché permette di associare una probabilità di realizzazione alle alternative stesse. Nello specifico i contesti in cui un soggetto può trovarsi sono tre: certezza, rischio e ambiguità o incertezza. In un contesto di certezza si dispone di tutte le informazioni per poter associare ad ogni alternativa una probabilità di verificarsi; esiste una relazione biunivoca tra scelta e conseguenza, vale a dire che ad ogni scelta corrisponde una sola conseguenza e le informazioni a disposizione sono sicure e sufficienti per poter prendere una decisione certa. Il problema sorge quando non vi è certezza e la differenza tra situazione di rischio e situazione di ambiguità è determinata dalla possibilità di conoscere o meno la probabilità associata alle alternative. In un contesto di rischio le informazioni sono legate ad eventi casuali, ma la probabilità di verificarsi è nota (ad esempio nel lancio di un dado dove è possibile associare agli eventi una distribuzione di probabilità). In un contesto di incertezza invece le informazioni a disposizione dipendono da eventi casuali ai quali non è possibile attribuire una valutazione probabilistica oggettiva, ed è proprio la scarsa conoscenza o poche informazioni su un evento a creare ambiguità. L’economista statunitense Knight (1921) ha definito il rischio come “incertezza misurabile” e l’ambiguità “incertezza non misurabile”: nel rischio infatti le probabilità sono numericamente misurabili e descrivono la frequenza relativa di un determinato evento nel corso del tempo.

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1.3 Avversione all’ambiguità. Il paradosso di Ellsberg

L’avversione all’ambiguità è un comportamento introdotto inizialmente dall’economista statunitense D. Ellsberg (1961). Il cosiddetto paradosso di Ellsberg dimostra come in contesti caratterizzati da ambiguità i soggetti modificano il loro atteggiamento da razionale a irrazionale, violando la teoria dell’utilità attesa che prevede la scelta dell’alternativa che massimizza l’utilità, vale a dire quella che produce il massimo benessere per l’individuo. L’esperimento prevede un’urna contenente 30 palline di colore rosso e 60 palline di colore nero o giallo, dove non si conosce l’esatta proporzione. Le palline all’interno dell’urna sono ben mischiate, in modo tale che la probabilità di essere estratte è la medesima per ciascuna di esse. Ai soggetti è consentito scegliere una tra le scommesse proposte:

Su un’altra urna avente le stesse proprietà della precedente la coppia di scommesse tra cui scegliere è la seguente:

Dato che si conosce soltanto la probabilità che una data pallina sia rossa (frazione pari a 1/3) o non rossa, pari a 2/3, questa configurazione sottopone l’individuo ad una situazione di incertezza riguardo alla possibilità che le palline non rosse siano gialle o nere. Le vincite in palio sono le medesime e ne consegue che sarà preferita la scommessa A rispetto alla B se e solo se si attribuisce all’estrazione di una pallina rossa una probabilità maggiore che all’estrazione di una pallina nera; se invece viene attribuita alle due alternative la stessa probabilità, non vi sarà una particolare preferenza. Allo stesso modo la preferenza di C rispetto a D sarà giustificata se e solo se si crede più probabile

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estrarre una pallina rossa o gialla rispetto a una nera o gialla. Se si ritiene che estrarre una pallina rossa sia più probabile che estrarne una nera, allora sarà più probabile estrarne una rossa o gialla che una nera o gialla. Di conseguenza, preferire la scommessa A alla B, dovrebbe comportare la scelta di C rispetto a D, e viceversa se si preferisce la D alla C, si dovrebbe scegliere la B alla A. Invece, la maggior parte dei soggetti a cui è stato sottoposto l’esperimento ha risposto che preferisce A rispetto a B e D rispetto a C, violando la teoria dell’utilità attesa e rivelando un’errata valutazione sulle probabilità, come dimostrato dalla rappresentazione numerica:

per il calcolo dell’utilità attesa occorre infatti assegnare le probabilità e un soggetto razionale dovrebbe stimare p (R) = 1/3 se la pallina estratta è rossa e p (N) + p (G) = 2/3 se la pallina estratta non è rossa, quindi p (R) + p (N) + p (G) = 1, dove p (R), p (N) e p (G) sono rispettivamente le probabilità che la pallina estratta sia rossa, nera o gialla. Se la scommessa A è preferita alla B , ciò si riflette in una relazione tra le rispettive utilità attese:

A ≥ B  1/3  U (100 $) + 2/3  U (0 $) ≥ p (N)  U (100 $) + [1 – p (N) ] U (0 $)  [1/3 – p (N)]  U (100$) ≥ [1/3 – p (N)]  U (0 $)

Dove U è la funzione di utilità. Allo stesso modo, se si preferisce la scommessa D alla C, si ottiene la diseguaglianza:

D ≥ C  2/3  U (100$) + 1/3  U (0 $) ≥ [1 – p (N)]  U (100 $) + p (N)  U (o $)  [2/3 – 1 + p (N)]  U (100 $) ≥ [- 1/3 + p (N)]  U (0 $) 

[- 1/3 + p (N)]  U (100 $) ≤[ - 1/3 + p (N)]  U (0$)

Per spiegare il risultato dell’esperimento potremmo chiederci se le informazioni a disposizione dei soggetti e che permettono di valutare la probabilità di successo o insuccesso influenzano le preferenze: è possibile affermare che le scelte ricadono sulle alternative basate su informazioni precise (A e D) che determinano la possibilità di vincita o perdita, e quindi la scelta compiuta è collegata a informazioni affidabili e precise piuttosto che assenti o non sufficienti. L’assenza di informazioni porta infatti ad un’ambiguità nella valutazione delle probabilità degli esiti e ad un valore atteso impreciso che gli individui non sono in grado di massimizzare. Avversione all’ambiguità è quindi l’atteggiamento di rifiuto verso situazioni ambigue, incerte, la tendenza a preferire rischi conosciuti a quelli sconosciuti, vale a dire la preferenza per ciò

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che è familiare rispetto a ciò che non lo è, come emerso in uno studio illustrato nel prossimo paragrafo.

1.4 Percezione e assunzione del rischio

Le euristiche e gli atteggiamenti menzionati nei paragrafi precedenti sembrano influenzare la percezione del rischio nell’ottica della finanza comportamentale. Il rischio non è soltanto un concetto matematico/statistico che la teoria finanziaria classica assume come grandezza oggettiva e quantificabile attraverso una misura simmetrica (quale ad esempio la varianza che pesa guadagni e perdite potenziali nello stesso modo), ma anche un costrutto mentale, dove fattori psicologici ed euristiche utilizzate dagli individui possono determinare sia un significativo disallineamento tra la percezione soggettiva e una data misura oggettiva di rischio, sia una comprensione distorta della relazione rischio/rendimento. Uno studio pubblicato nel 2011 da Wang M., Keller C. e Siegrist M. sulla percezione del rischio dei prodotti di investimento nella zona di lingua tedesca in Svizzera ha documentato che il rischio percepito dai soggetti intervistati manifesta una bassa correlazione con la varianza del rendimento dei prodotti finanziari, mentre è quasi perfettamente e negativamente correlato con il livello di comprensione dei prodotti dichiarato dai soggetti stessi. Gli intervistati hanno percepito i prodotti di investimento più diffusi e facili da comprendere come meno rischiosi, probabilmente guidati dall’euristica della familiarità. La teoria tradizionale di portafoglio assume che gli individui massimizzino le loro utilità attese e di conseguenza gli investitori avversi al rischio dovrebbero essere inclini alla diversificazione. In realtà esistono casi in cui le persone non seguono questa strategia, bensì concentrano le loro scelte di portafoglio ad esempio su beni nazionali e titoli emessi dal datore di lavoro, pur aumentando il rischio complessivo del portafoglio di investimenti. Per spiegare tale fenomeno si potrebbe pensare che i soggetti possiedano informazioni superiori sui beni e titoli conosciuti e quindi sfruttano tale vantaggio informativo, ma lo studio in questione indica invece una «distorsione della probabilità di giudizio»: gli investitori sono troppo ottimisti e sottostimano il rischio degli strumenti a loro familiari. Il sondaggio ha riguardato cinquecento investitori privati della Svizzera (70% uomini e 30% donne) che sono stati

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invitati a valutare i rischi di una serie di prodotti di investimento, come ad esempio obbligazioni, azioni, oro e inoltre è stato chiesto loro di segnalare il grado di difficoltà nella comprensione e la prevalenza di tali prodotti tra gli investitori (Grafico 1.1). I risultati emersi hanno evidenziato che i soggetti percepiscono le obbligazioni in Svizzera più sicure rispetto alle obbligazioni in Europa e queste ultime più sicure rispetto alle obbligazioni internazionali, così come hanno valutato le azioni blue chip in Svizzera meno rischiose rispetto alle azioni blue chip negli Stati Uniti; inoltre si è registrata una «categorizzazione dei prodotti di investimento», vale a dire che gli intervistati hanno considerato i prodotti all’interno di ciascuna categoria (obbligazioni, azioni, assicurazione,

blue-chip, investimenti alternativi) come simili tra loro per quanto riguarda il

livello di percezione del rischio. In media, gli strumenti di investimento appartenenti alla categoria “Assicurazione” come ad esempio fondi pensione e conti di risparmio sono stati classificati come meno rischiosi, mentre la categoria degli “Investimenti alternativi” come arte, antiquariato, fondi di materie prime è stata valutata come la più rischiosa, seguita dal segmento delle azioni blue-chip. Per quanto riguarda le differenze di genere sul rischio complessivo percepito è emerso che rispetto agli uomini le donne percepiscono un rischio significativamente più alto associato alla categoria “Azioni” e un rischio più basso associato alla categoria “Investimenti alternativi”, mentre non sono state rilevate differenze in merito alla percezione del rischio riferito alle categorie “Obbligazioni”, “Assicurazioni” e “Titoli blue-chip”. Sia gli uomini che le donne sembrano utilizzare l’euristica della familiarità per i giudizi di rischio: le categorie di attività considerate più facili da comprendere (ad esempio “Assicurazioni”) sono state valutate anche come meno rischiose, mentre gli strumenti più difficili da comprendere (ad esempio “Investimenti alternativi”) sono stati valutati come più rischiosi. Le donne hanno considerato la categoria “Azioni” come più difficile da comprendere e infatti la percepiscono anche come più rischiosa rispetto agli uomini, i quali tuttavia sembra non abbiano mostrato il bias della familiarità per la categoria “Blue-chip”: anche se considerata come molto più facile da comprendere rispetto alle donne, risulta ancora percepita come investimento ad alto rischio, e ciò suggerisce che gli intervistati di sesso maschile non siano stati influenzati dalla loro conoscenza auto-percepita.

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Grafico 1.1: Comprensione vs. Rischio percepito

[Comprensione si riferisce alla domanda: “Avete la sensazione che il prodotto di investimento sia facile o difficile?” (1 = facile, 5 = difficile). Rischio percepito si riferisce alla domanda “Quanto rischioso considerate ciascuno dei seguenti prodotti finanziari?” (1 = molto basso; 5 = molto alto)].

Fonte: Wang, Keller & Siegrist (2011)

Olsen R.A. (1997) ha messo in evidenza come i gestori professionali di portafogli e gli investitori individuali sembrano condividere una concezione comune di rischio d’investimento “multidimensionale”, quale funzione di quattro attributi: - eventualità di un’ingente perdita potenziale;

- possibilità di ottenere un rendimento inferiore agli obiettivi prefissati; - sensazione di controllo dell’investitore (abilità nel gestire le perdite); - livello di cultura finanziaria (conoscenza in merito a un investimento).

Olsen ha inoltre mostrato una differenza di comportamento in base alla modalità di presentazione di una decisione di investimento; in particolare, gli individui sarebbero avversi al rischio quando una decisione è descritta in

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termini di possibili guadagni e preferiscono attività finanziarie con bassa volatilità e rendimenti più contenuti. Viceversa risulterebbero propensi al rischio quando la stressa decisione è illustrata in termini di potenziali perdite, in quanto disposti ad accettare una volatilità maggiore che consenta di ottenere rendimenti più elevati.

Diacon S. e Ennew C. (2001) hanno dato un contributo ulteriore per la comprensione dei fattori che incidono sulla percezione del rischio di uno strumento d’investimento, riferendo che essa può essere caratterizzata da cinque dimensioni: diffidenza nel consulente finanziario e/o nell’emittente del prodotto, gravità delle conseguenze negative (avversione alle perdite), volatilità, bassa conoscenza finanziaria e fallimento della regolamentazione (scarsa tutela legale).

1.5 Donne e avversione al rischio nelle decisioni

finanziarie

N. A. Jianakoplos e A. Bernasek (1998) hanno rilevato che le donne single manifestano un’avversione al rischio più elevata nelle decisioni finanziarie rispetto agli uomini single. Dall’analisi delle posizioni detenute su attività rischiose da parte delle famiglie, è emerso che all’aumentare della ricchezza, la proporzione in attività rischiose aumenta di un importo minore per le donne single che per gli uomini single (ad esempio, considerando una ricchezza pari a 20.000 $, si rileva che le donne single detengono il 43% della loro ricchezza in attività rischiose, rispetto al 51% per gli uomini; se la ricchezza aumenta fino a 100.000 $, la quota aumenta sia per gli uomini che per le donne, ma l’incremento sarà di 19 punti percentuali per le donne e di 28 punti percentuali per gli uomini, a prova di una maggiore avversione al rischio da parte del genere femminile). Le differenze di genere sono influenzate anche dall’età, dalla razza e dal numero di bambini. Una maggiore avversione al rischio finanziario può fornire una spiegazione per i livelli più bassi di reddito e ricchezza delle donne rispetto agli uomini. Tenuto conto che le attività più rischiose devono compensare gli investitori avversi al rischio con maggiori rendimenti attesi, e quanto più sono avversi al rischio tanto più bassi saranno i loro rendimenti attesi sugli investimenti, da un’analisi sulle finanze dei consumatori supportata

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dal Federal Reserve System in merito all’assunzione di rischio nelle decisioni di investimento, circa il 60% delle donne intervistate ha dichiarato di non essere disposta ad accettare alcun rischio, contro il 40% degli uomini; inoltre, le donne detengono circa lo stesso ammontare di ricchezza in azioni e obbligazioni, mentre gli uomini hanno dichiarato di investire il doppio dei dollari in azioni. Dallo studio è emerso che anche l’età ha un impatto molto diverso sulla ripartizione dei portafogli per le donne single contro gli uomini single e le coppie sposate, come evidenziato nel Grafico 1.2: per le donne single la proporzione di ricchezza in attività rischiose aumenta nelle classi d’età più giovani, con un picco nella classe 36-40 anni, per poi diminuire nelle classi d’età più anziane, dove un valore negativo può essere interpretato come la volontà di acquistare un’assicurazione per evitare rischi. Per la maggior parte delle classi di età, la proporzione delle attività rischiose detenuta da donne single tende ad essere inferiore a quella degli uomini single e coppie sposate, indicando che, indipendentemente dall’età, le donne single tendono ad essere più avverse al rischio rispetto agli uomini single e alle coppie sposate.

Grafico 1.2: Profilo d’età sull’investimento in attività rischiose

Fonte: Jianakoplos e Bernasek (1998)

Anche la razza sembra svolgere un ruolo diverso nelle decisioni in ambito finanziario per le donne single contro gli uomini single e le coppie sposate; in

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particolare, è stato stimato che le donne single di colore detengono attività più rischiose rispetto alle donne single bianche, e il 58% di attività rischiose contro il 49% degli uomini single di colore e il 42% delle coppie sposate di colore; inoltre, il 21% delle donne nelle famiglie afro-americane è il principale responsabile delle decisioni finanziarie, rispetto a solo il 10% delle donne nelle coppie bianche sposate, suggerendo che le donne di colore sposate siano più coinvolte nell’investimento e più inclini ad assumere rischi rispetto alle donne bianche sposate. Infine, l’assunzione di rischio è influenzata dal numero di persone al di sotto dei 18 anni presenti in famiglia: all’aumentare del numero di bambini/giovani dipendenti dalla famiglia, la proporzione di attività rischiose detenute diminuisce significativamente per le donne single, mentre non è influenzata per gli uomini single e aumenta notevolmente per le coppie sposate. In conclusione dagli studi analizzati è emerso che le decisioni di investimento degli individui presentano delle “anomalie” (bassa partecipazione al mercato finanziario, tendenza a detenere portafogli poco diversificati per attività e a movimentare eccessivamente il portafoglio) che derivano da errori di tipo cognitivo, determinati dall’utilizzo di un numero limitato di regole intuitive ed approssimative, le cosiddette euristiche, a cui si collegano gli atteggiamenti di

overconfidence e ottimismo. Barber e Odean (2001) hanno rilevato che gli

uomini risultano più overconfident e acquistano e vendono titoli frequentemente ma, negoziando di più, danneggiano i loro rendimenti più di quanto faccia la controparte femminile. Jacobsen et al. (2014) hanno sottolineato come gli uomini siano sensibilmente più ottimisti delle donne riguardo all’economia e nell’approccio ai mercati finanziari e che questo li possa portare a detenere attività più rischiose in portafoglio; le donne, invece, riconoscendo un rischio significativamente più elevato nel mercato azionario prevedono, in media, risultati futuri peggiori, pertanto investirebbero meno in titoli azionari. Anche dallo studio di Wang et al. (2011) è emerso che le donne percepiscono un rischio più alto associato alla categoria “Azioni”. Jianakoplos e Bernasek (1998) hanno messo in evidenza che le donne single manifestano un’avversione al rischio maggiore nelle decisioni finanziarie rispetto agli uomini single: all’aumentare della ricchezza, la proporzione in attività rischiose aumenta di un importo minore per le donne single che per gli uomini single, e le

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differenze di genere sono influenzate anche dall’età, dalla razza, e dal numero di bambini.

Nel prossimo capitolo verranno analizzate le differenze nella propensione al rischio e il processo decisionale per gli uomini e le donne manager, la percezione e risposta al rischio per gli investitori professionali specializzati, la performance degli hedge fund gestiti da donne e il caso delle donne business

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Capitolo 2

Percezione e risposta al rischio degli

investitori professionali. Il caso delle donne

business angels

2.1 Il processo decisionale dei manager

Un ulteriore ambito di analisi per cogliere le differenze tra donne e uomini nella propensione al rischio e nel processo decisionale è la categoria dei manager. Le donne stanno assumendo un ruolo sempre più importante nella gestione aziendale e i manager sono valutati in ultima analisi in base alla qualità e al successo delle decisioni prese. Mentre la capacità di prendere decisioni efficaci è sempre un bene per l’azienda, l’inclinazione ad assumere rischi può, a seconda delle circostanze, essere un vantaggio o uno svantaggio; di conseguenza, qualsiasi differenza sulla qualità delle decisioni assunte da parte di donne e uomini manager e nella propensione al rischio avrà importanti ripercussioni per le organizzazioni.

J. E. V. Johnson e P. L. Powell (1992) considerano due distinte popolazioni: una prima popolazione “non manageriale” composta da una categoria di soggetti provenienti da una varietà di gruppi professionali e sociali, la maggior parte dei quali non ha ricevuto un’educazione formale sul management, e una seconda popolazione “manageriale” formata esclusivamente da manager e potenziali manager che hanno ricevuto un’educazione formale. Gli studiosi hanno rilevato differenze di genere nella qualità delle decisioni (intesa come capacità di utilizzare le informazioni disponibili per fare le scelte più appropriate), in particolare in relazione alla propensione ad accettare il rischio, nella popolazione “non manageriale”, e questo potrebbe riflettere fattori quali l’accesso alle informazioni, esperienza, istruzione o tipo di personalità; nella popolazione “manageriale” donne e uomini presentano, invece, caratteristiche simili; in particolare alcune delle ragioni fornite per escludere le donne da posizioni di leadership potrebbero essere basate su falsi stereotipi comunemente detenuti (come ad esempio l’essere percepite meno capaci di

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agire come leader, meno dominanti, meno abili nel prendere decisioni, più influenzate e meno indipendenti degli uomini), derivanti da osservazioni sulla popolazione “non manageriale”. Nonostante questi stereotipi, infatti, non sono state riscontrate diversità significative nell’autostima, nell’atteggiamento al rischio, nel locus of control, nella flessibilità di pensiero, nella capacità di manipolare e persuadere gli altri o nell’apertura verso l’innovazione. Le donne gestiscono le imprese in maniera analoga agli uomini, in riferimento a: valori condivisi, strategie, strutture, sistemi, personale, skills e stili, e quindi i manager formalmente istruiti sia uomini che donne possono contribuire allo stesso modo al processo decisionale organizzativo; anche la motivazione delle imprenditrici femminili è risultata simile agli uomini in termini di necessità di indipendenza, denaro e identificazione delle opportunità di business.

Passando all’analisi delle decisioni in termini di investimento in un ambiente professionale in cui i manager gestori di fondi hanno un background educativo e un’esperienza di lavoro simili, Niessen e Ruenzi (2007) riscontrano differenze di genere comportamentali; utilizzando i dati provenienti da una società di gestione di fondi comuni di investimento statunitense è emerso che le donne manager sono più avverse al rischio, seguono stili di investimento meno estremi e più stabili nel tempo ed effettuano un trading minore rispetto ai manager uomini. Sebbene non siano state rilevate differenze sostanziali nella performance media dei fondi, le donne manager ricevono afflussi di capitale più bassi, suggerendo che potrebbero essere percepite come meno qualificate. In generale, gli studiosi non concludono che i gestori di fondi uomini negoziano di più perché sono più overconfident, in quanto ciò dovrebbe portare a una performance peggiore dei fondi che non si manifesta, per cui i risultati di Barber e Odean (2001) precedentemente illustrati non valgono per i manager donne e uomini gestori di fondi. Nel complesso le differenze documentate sono meno pronunciate rispetto a quelle riportate in studi che indagano le differenze di genere all’interno della popolazione “non manageriale”, in linea con Johnson e Powell (1992). Lo studio rileva anche come la stereotipizzazione in merito a una minor qualifica delle manager donna potrebbe essere un problema nelle società di fondi comuni: in primo luogo, gli investitori potrebbero non voler investire in un fondo gestito da una manager donna e le stesse società e i brokers sarebbero

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più propensi a pubblicizzare i fondi gestiti da uomini; in secondo luogo la stampa finanziaria potrebbe segnalare meno o meno favorevolmente i fondi gestiti da donne. La scoperta di minori afflussi di capitale in fondi gestiti da donne pone una questione provocatoria sul perché le società di gestione di fondi assumano donne, pur volendo massimizzare gli afflussi di denaro e infine i profitti. A tal proposito lo studio rileva che le grandi e consolidate società di fondi hanno maggiori probabilità di impiegare manager donne rispetto alle società più piccole e giovani, e la spiegazione risiederebbe nel fatto che le prime presentano un rischio elevato di essere citate per discriminazione se non assumono donne; inoltre, a causa della loro dimensione, incorrerebbero in un rischio maggiore di perdita di reputazione dovuto a procedimenti legali anti-discriminazione; un’altra spiegazione potrebbe derivare dal fatto che le società più grandi e consolidate offrono una maggiore sicurezza i termini di occupazione e per questo sarebbero preferite come datori di lavoro, dal punto di vista di una donna manager più avversa al rischio. In ultima analisi queste società spesso si rivolgono a grandi investitori professionali che richiedono una diversità di forza-lavoro nelle compagnie di investimento con le quali fanno “affari”. Le differenze comportamentali riscontrate tra gestori donne e uomini hanno importanti implicazioni per gli investitori del fondo: in particolare, gli investitori che preferiscono stili di investimento moderati e stabili dovrebbero investire in fondi gestiti da donne, mentre quelli più audaci dovrebbero scegliere quelli gestiti da uomini.

2.2 Il caso degli investitori professionali

R. A. Olsen e C. M. Cox (2001) concentrandosi sul comportamento di investitori professionali uomini e donne, in particolare sulla percezione e risposta al rischio, analizzano come i fattori culturali e sociali possano portare ad adottare decisioni diverse, anche qualora formazione, esperienza e informazioni siano equivalenti. Lo studio mette in evidenza come i professionisti donna pesano di più attributi di rischio quali la possibilità di perdita e l’ambiguità rispetto ai colleghi uomini, inoltre le donne tendono a sottolineare maggiormente una riduzione della rischiosità nella costruzione di portafoglio e le differenze tendono ad essere più significative per asset e portafogli agli estremi del rischio. I dati sono stati raccolti in forma di indagine su due gruppi di investitori

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professionali: il primo costituito da 209 analisti finanziari di cui 42 (20%) donne, il secondo composto da 274 pianificatori finanziari certificati di cui 99 (36%) donne. Per entrambi i gruppi la durata media di esperienza lavorativa è stata tra i 13 e i 15 anni. Tra gli analisti finanziari, l’84% ha elencato i propri doveri primari come gestore di portafogli istituzionali o analista, mentre il 16% come consulente finanziario; tutti i pianificatori finanziari hanno dichiarato di occuparsi di consulenza agli investimenti. Nella Tab. 2.1 sono presentate le risposte raccolte in un’intervista dove i soggetti sono stati invitati a valutare, su una scala da 1 (molto importante) a 5 (molto poco importante) un set prestabilito di attributi di rischio per gli investimenti.

Tab. 2.1: Valutazione degli attributi di rischio

Fonte: Olsen e Cox (2001)

Le variazioni in downside (rischio di perdita) si sono rivelate attributi di rischio più importanti rispetto alla variabilità dei rendimenti delle attività o alla possibilità di un guadagno elevato. Le risposte indicano anche che l’ambiguità tende ad essere più rilevante della variabilità del rendimento, soprattutto per le donne. Tuttavia, la particolarità risiede nel fatto che le donne hanno attribuito maggiore enfasi al rischio di perdita e all’ambiguità rispetto ai colleghi uomini; infatti, alla domanda se una maggiore ambiguità, definita come incertezza sulla

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natura esatta della gamma di possibili stati futuri, abbia ridotto in misura significativa il loro livello di fiducia e incrementato il rischio percepito, il 92% delle donne, rispetto al solo 69% degli uomini, ha risposto in modo affermativo. Per analizzare le differenze di genere sulla percezione del rischio finanziario per classi di attività, ai soggetti è stato chiesto di valutare, su una scala da zero (nessun rischio) a quattro (rischio molto elevato), sei differenti classi di attività finanziarie, come riportato nella Tab. 2.2:

Tab. 2.2: Rischio percepito per classe di attività

Fonte: Olsen e Cox (2001)

Si può notare che le valutazioni medie di rischio sono praticamente le stesse per gli uomini e le donne, ad eccezione delle attività a rischio minore (conti di risparmio e i buoni del tesoro poliennali) e quelle a rischio più elevato (IPO di nuove imprese), che le donne reputano più rischiose rispetto ai colleghi uomini. La spiegazione suggerita dagli autori potrebbe essere che i conti di risparmio e i buoni del tesoro poliennali hanno un rischio di downside significativo dovuto al rischio di tasso d’interesse e all’inflazione: se le donne sono più preoccupate per un potenziale ribasso, allora queste attività potrebbero essere considerate relativamente più rischiose, in quanto è minore la compensazione data da un possibile rialzo rispetto ad altre attività, come le azioni ordinarie. Per quanto riguarda le IPO di nuove imprese, con l’alto grado di incertezza circa

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l’andamento futuro della nuova società, il maggior rischio percepito dalle donne investitori sull’offerta pubblica iniziale è coerente con la maggiore attenzione di queste ultime per gli attributi di potenziale perdita e ambiguità. In questo senso le donne investitrici potrebbero essere definite dei “decisori inclini alla sicurezza”, con un comportamento simile a quello adottato dalle donne imprenditrici: in particolare, avrebbero più probabilità di stabilire un obiettivo massimo di dimensione moderata e adottare politiche per ridurre il rischio e assicurare una crescita lenta ma costante. Gli uomini invece si concentrano su elevati tassi di crescita iniziali, con il rischio di aumentare la probabilità di fallimento. Nella Tab. 2.3 sono riportate le risposte alle domande volte a scoprire se le donne investitrici presentino la stessa tendenza incline alla sicurezza delle donne imprenditrici, rispetto agli uomini.

Tab. 2.3: Opinioni sul rischio di investimento

[Le domande 2 e 3 sono rivolte agli uomini e alle donne investitori/investitrici professionali].

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I risultati suggeriscono che il gruppo delle donne investitrici mostra una maggiore enfasi sul potenziale di sicurezza rispetto ai colleghi uomini. In particolare, le donne manifestano la tendenza a selezionare un obiettivo di rendimento e poi lavorare per ridurre il rischio, mentre gli uomini si concentrano maggiormente su come aumentare il rendimento. Entrambi gli investitori professionali uomini e donne ritengono che le donne si concentrino di più sulla riduzione dei rischi di quanto non facciano gli uomini e che siano meno sicure, anche quando il livello di esperienza e conoscenza è lo stesso. In conclusione, lo studio suggerisce che i professionisti donna pongono maggiore attenzione sul potenziale di perdita rispetto agli uomini in un contesto di investimento. Inoltre, le donne sembrano essere più sensibili all’ambiguità o all’incertezza associata all’investimento in attività finanziarie e quindi danno maggior peso alla sicurezza. Questi risultati sollevano la questione sul fatto che la differenza di genere sulla percezione e risposta al rischio di investimento possa aumentare la possibilità che si verifichino problemi di comunicazione e incomprensioni tra consulenti e clienti; la Tab. 2.2 ha evidenziato che uomini e donne differiscono in modo significativo in relazione alla loro percezione del rischio di certe attività finanziarie e pertanto sembra ragionevole ipotizzare che potrebbero determinarsi differenti composizioni di portafogli consigliati da parte di advisor uomini e donne. Per verificare tale ipotesi, tutti gli intervistati che hanno riportato come occupazione il consulente per gli investimenti sono stati invitati ad allocare i fondi per due ipotetici clienti. Gli scenari dei clienti sono stati modellati e pre-testati per assicurarne la veridicità; poiché solitamente pochi clienti investono un ammontare notevole di fondi in IPO ad alto rischio, gli scenari sono focalizzati sull’allocazione in attività a medio e basso rischio. Gli scenari e i risultati sono riportati nelle Tab. 2.4 e 2.5:

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30 Tab. 2.4: Famiglia benestante

[La famiglia Ramirez risiede in un quartiere residenziale di Atlanta. Bill Ramirez ha 45 anni, gode di buona salute ed è un ingegnere di successo; sua moglie ha 45 anni, una laurea in scienze archivistiche e librarie e lavora part-time presso un college per ragazzi della zona. I figli di 16 e 12 anni frequentano la scuola. Al momento la famiglia ha un mutuo di 108.000 $ sulla propria casa dal valore di 230.000 $ e i risparmi da investire ammontano a 248.000 $ in conto corrente; su un reddito di 116.000 $ l’anno, il risparmio è di circa 32.000 $. Bill prevede l’età pensionabile a 65 anni con una pensione pari a circa il 45% del suo stipendio; attualmente ha un’assicurazione sulla vita di 325.000 $].

Fonte: Olsen e Cox (2001)

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[Jim Peake deve lasciare il lavoro a causa di un incidente che lo ha reso semiparalizzato. A parte la sua condizione, che non necessita di costi significativi per trattamenti o spese per vivere, Jim gode di discreta salute. Dal momento che ha compito 56 anni e non ha ricevuto un’educazione formale, è in dubbio che sarà in grado di ottenere un reddito da lavoro nel futuro; è divorziato senza figli e non ha grandi debiti. Jim abita in un appartamento e possiede un camper-camion che utilizza come mezzo di trasporto. Le necessità finanziarie minime sono di circa 15.000 $ all’anno e le disponibilità liquide ammontano a 295.000 $; dispone inoltre di un’adeguata assicurazione sanitaria].

Fonte: Olsen e Cox (2001)

La Tab. 2.4 mostra che, nel caso in cui una percentuale minore di ricchezza sia investita in attività a basso rischio, non si rileva una differenza significativa tra portafogli consigliati da consulenti uomini e donne; tuttavia, nella Tab. 2.5 dove ci si aspetta che sia più appropriato un portafoglio di tipo conservativo, le consulenti donne hanno allocato un ammontare più elevato di ricchezza in titoli di aziende con elevati tassi di crescita piuttosto che in quelle con rendimento più basso; questo risultato mette in evidenza il fatto che esse tendono a considerare le attività a reddito fisso di alta qualità ma con bassi rendimenti come più rischiose rispetto ai colleghi uomini.

Le principali implicazioni di questo studio sono da un lato che le differenze basate sul genere potrebbero emergere solo se i portafogli comportano una maggiore enfasi su attività finanziarie tradizionalmente considerate a rischio basso o molto alto; dall’altro che se anche le clienti donne sono più inclini a focalizzarsi sulla sicurezza piuttosto che sul rendimento, potrebbero sentirsi più a proprio agio con le consulenti donne, le quali tendono a inquadrare l’attività di allocazione del portafoglio allo stesso modo. Secondo un’altra indagine, il 72% dei consulenti ha affermato che le clienti donne dipendono di più dal consiglio dei consulenti rispetto ai clienti uomini; inoltre il 71% dei consulenti ha dichiarato che le donne sono più interessate a come gli investimenti si inseriscono nel quadro più ampio della loro vita economica e sociale4. Tuttavia,

soltanto il 63% degli uomini consulenti, rispetto all’82% delle colleghe, è disposto a guardare alle decisioni di investimento in questa prospettiva più grande.

4Nel senso che manifestano un interesse non soltanto per il risultato dell’investimento in sé ma

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Uno studio condotto da K. Bosquet, P. de Goeij e K. Smedts (2013) ha analizzato l’esistenza di un’eterogeneità di genere nelle raccomandazioni dei consulenti finanziari; è emerso che la probabilità per le donne di consigliare una raccomandazione ottimistica è inferiore del 40% rispetto ai colleghi uomini; inoltre, le donne hanno un basso tasso medio di rappresentanza (17%) nella professione di analista finanziario e circa il 48% degli analisti di genere femminile sono impiegate in un istituto finanziario di alto livello; in questo caso la probabilità di emettere una raccomandazione ottimistica è inferiore del 16% rispetto agli uomini e del 30% rispetto alle colleghe nelle istituzioni finanziarie meno prestigiose. Un aspetto interessante riguarda le grandi imprese, le quali avrebbero maggiori probabilità di ricevere raccomandazioni ottimistiche; infatti, proprio in questo ambito le analiste donne sarebbero più ottimiste nel dare consigli di investimento rispetto ai colleghi uomini. L’ottimismo nei confronti delle aziende di grande dimensione può essere attribuito a due fattori: in primo luogo, le grandi imprese possono essere percepite come più stabili, e in secondo luogo, forse più importante, i consigli di investimento ottimistici darebbero origine a maggiori commissioni (a causa del loro elevato volume) e conseguentemente a stipendi più elevati per gli analisti finanziari5.

Considerando la complessità della professione di analista, è emerso che più aziende segue, più è probabile che esprima una raccomandazione pessimistica; inoltre, la conoscenza approfondita di un’impresa e dei suoi concorrenti potrebbe portare a una prospettiva più realistica e quindi meno ottimistica. Infine, qualora l’analista si occupi di più settori in un determinato periodo, è più probabile che la sua raccomandazione sia ottimistica (la probabilità di un consiglio ottimistico è del 5% più elevata quando si segue un settore aggiuntivo).

2.3 La performance degli hedge fund gestiti da donne

Uno studio condotto nel 2015 dalla State Street Corporation6 ha analizzato i

comportamenti di uomini e donne in tema di investimenti, mettendo in evidenza come dal 2007 in poi, gli hedge fund gestiti da donne abbiano reso in media il 59% contro il 37% registrato dai gestori di sesso maschile, ma

5 Si tratterebbe di investimenti di grande dimensione, che comportano anche maggiori

commissioni per la consulenza ricevuta.

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sottolineando anche come le donne nel mondo nella finanza siano numericamente inferiori. Un’indagine che ha riguardato 864 professionisti dell’investimento di 19 paesi ha certificato questo “gender gap”: le donne sono in netta minoranza nelle diverse figure professionali, fatta eccezione per gli organismi di controllo e regolamentazione dove la presenza femminile si attesta al 46%. Secondo i ricercatori di State Street, che hanno intervistato 2800 investitori distribuiti in 16 paesi tra cui l’Italia e studiato come la diversità di genere influenzi le decisioni di investimento, ciò che differenzia maggiormente uomini e donne sono tre fattori:

- il processo decisionale: le donne sarebbero più portate a prendere decisioni condivise e meno facilmente si attribuiscono interamente il merito di una scelta di successo;

- gli aspetti caratteriali: le donne sono più orientate ad un orizzonte temporale di lungo periodo, maggiormente avverse al rischio e più inclini ad ammettere gli aspetti non compresi di un’operazione di investimento;

- il livello di conoscenza finanziaria: entrambi i sessi mostrano una buona conoscenza sui prodotti finanziari, ma sui concetti base (ad esempio quanto impatta l’inflazione sui risparmi), le donne appaiono più indietro.

R. Aggarwal e N. M. Boyson (2016) utilizzando il database Thomson-Reuters per il periodo dal 1994 al 2013 hanno analizzato la performance degli hedge

fund che hanno almeno un gestore di portafogli donna e quella di fondi in cui

tutti i gestori sono donne, ed è emerso che in questi ultimi i risultati non si differenziano da quelli gestiti prevalentemente da uomini e anche i profili di rischio sono simili; come nello studio menzionato precedentemente, anche in questo caso il numero dei gestori donna è notevolmente inferiore rispetto agli uomini. Prendendo in considerazione il tasso di fallimento, i fondi con tutti i gestori donna falliscono con tassi più alti, trainati dalla difficoltà nella raccolta di capitali, ma tra questi, quelli che sopravvivono hanno migliori prestazioni rispetto a quelli gestiti in prevalenza da soli uomini, da cui si deduce che se le donne si impegnano a lavorare meglio nella gestione, i fondi hanno più probabilità di sopravvivere. Un altro aspetto emerso è che utilizzando i mezzi di comunicazione per valutare l’interesse degli investitori, i fondi gestiti da donne

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ricevono meno attenzione; in particolare la proporzione delle menzioni delle donne negli hedge fund rispetto alle citazioni totali dei fondi sarebbe ancora più piccola della percentuale di hedge fund gestiti da donne rispetto al totale dei fondi stessi. I risultati suggeriscono che non esistono differenze intrinseche nelle abilità tra manager uomini e donne, ma soltanto i fondi gestiti da

manager donna molto performanti riescono a sopravvivere, mentre quelli

gestiti da uomini continuano ad esistere anche se con una performance media. Due forti predittori del fallimento dei fondi gestiti da donne sono se il fondo è ancora aperto a nuovi investimenti e l’ammontare delle attività in gestione (con minori attività che predicono il fallimento): entrambe le situazioni suggeriscono che i fondi non sono stati in grado di attirare sufficienti risorse, probabilmente perché gli investitori non considerano le donne come gestori tipici di hedge

fund.

2.4 Donne business angels

R. T. Harrison e C. M. Mason (2007) hanno esaminato il rapporto tra donne e investimenti nel capitale di rischio, rivelando come le donne investitrici attive nel mercato dei business angels differiscano dalla controparte maschile per aspetti limitati. Tuttavia, l’omofilia7 di genere, vale a dire l’esistenza di reti

sociali isolate, limiterebbe dal lato della domanda la ricerca e l’accesso al capitale per le imprenditrici; infatti, poiché le donne coinvolte nella realizzazione di investimenti, sia come gestori di fondi di venture capital che come business angels sono molte poche, solo una piccola percentuale di imprese femminili riesce a raccogliere capitale (deficit di finanziamento). Questi due aspetti potrebbero essere correlati: la scarsa partecipazione delle donne come investitrici può essere un modo per spiegare l’uso ristretto del capitale di rischio come fonte di finanziamento da parte delle donne imprenditrici. In questo senso lo studio cerca di rispondere a tre questioni fondamentali: primo, le donne

business angels differiscono dalla controparte maschile in termini di

conoscenze e caratteristiche demografiche? Secondo, uomini e donne business

7 L'omofilia, (vale a dire "l'amore del simile/dell'uguale") si riferisce alla selezione di altri

membri del team sulla base di caratteristiche simili, quali l’età, l’identità di genere, l'etnia, la nazionalità, la classe sociale e il ruolo organizzativo.

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angels hanno lo stesso approccio agli investimenti? Terzo, le donne business angels sono più propense a investire nelle imprese femminili?

La difficoltà riscontrata dalle donne investitrici nel mercato dei business angels è attribuita a due ragioni principali: in primo luogo le donne hanno meno probabilità di aver avuto un’esperienza imprenditoriale precedente o un alto livello di esperienza manageriale in un contesto aziendale e quindi sono meno propense a partecipare alle reti degli high net worth individual; in secondo luogo, anche stabilendo tali contatti, faticano nonostante capacità e impegno, a causa della mancanza di una relazione consolidata o fiducia generata da rapporti di lunga data; sono questi fattori, piuttosto che il genere, che sottolineano le differenze nella propensione di uomini e donne a diventare

business angels. La ricerca identifica poche donne investitrici, tipicamente

meno del 5% del totale, come evidenziato nella Tab. 2.6.

Tab. 2.6: Percentuale di donne business angels: confronto a livello internazionale

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