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Arricchimento della carne di suino con omega-3

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE AGRARIE, ALIMENTARI E

AGROAMBIENTALI

Corso di Laurea Magistrale in Biosicurezza e Qualità degli

Alimenti

Arricchimento della carne di suino con omega-3

RELATORE

CANDIDATO

Prof. Andrea SERRA

Roxana Elena AMARIE

CORRELATORE

Prof.ssa Antonella CASTAGNA

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SOMMARIO

1 INTRODUZIONE 5

2 METABOLISMO LIPIDICO 7

2.1 DIGESTIONE 7

2.2 ASSORBIMENTOEDIMMAGAZZINAMENTODEGLIACIDIGRASSIEDEIMONOGLICERIDIDI

PROVENIENZAALIMENTARE 8

2.3 LIPOGENESI 9

2.4 ACIDIGRASSI 10

3 TESSUTO ADIPOSO 14

3.1 GRASSOSOTTOCUTANEO 16

3.2 GRASSOINTRAMUSCOLARE(IMF) 16

3.2.1 QUALITÀ NUTRIZIONALE DEL GRASSO SUINO 20

4 IL CONCETTO DI QUALITÀ 222

4.1 QUALITÀNUTRIZIONALE 22

5 CLAIMS 255

5.1 REGOLAMENTO (UE)N.1924/2006 255

5.2 REGOLAMENTO (UE)N.116/2010 277

6 IL CONSUMO DI CARNE SUINA 288

7 LA FILIERA SUINA DEI PRODOTTI DOP. CONSIDERAZIONI ECONOMICHE 299

8 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DEI PROSCIUTTI DOP 31

9 STRATEGIE DI ARRICCHIMENTO IN OMEGA 3 DELLA CARNE SUINA 333

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9.2 ARRICCHIMENTO IN OMEGA 3 A LUNGA CATENA. 344

10 PARTE SPERIMENTALE 366

10.1 SCOPO DELLA TESI 366

10.2 MATERIALIEMETODI 377

10.2.1 DISEGNO SPERIMENTALE 377

10.2.2 ANALISI COMPOSIZIONE DEGLI ACIDI GRASSI 377

10.2.2.1 Estrazione della frazione lipidica 377

10.2.2.2 Esterificazione degli acidi grassi 388

10.2.2.3 Analisi con gas cromatografia degli acidi grassi 388

10.3 RISULTATI E DISCUSSIONE 40

10.4 CONCLUSIONI 54

(5)

1 INTRODUZIONE

L'interazione tra la genetica dell’individuo e l'ambiente che lo circonda è il fondamento sul quale si basa lo stato di salute e di malattia. Negli ultimi decenni, usando le tecniche di biologia molecolare, è stato dimostrato che i fattori genetici determinano suscettibilità alle malattie, mentre i fattori ambientali determinano quali individui geneticamente sensibili saranno colpiti (Simopoulos et al., 1990; Simopoulos et al., 1995; Simopoulos et al., 1997; Simopoulos et al., 2001). L'alimentazione è uno di quei fattori ambientali e gioca un ruolo di grande importanza.

Attraverso la ricerca scientifica sugli alimenti, siamo stati in grado di evidenziare che esiste un’ampia gamma di sostanze con effetto nutrizionale e fisiologico sull’uomo, quali ad esempio vitamine, sali minerali, amminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre, estratti di erbe, ed altre ancora via dicendo. In particolar modo è stato dimostrato più volte il beneficio sulla salute che gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) apportano, tra questi soprattutto gli omega-3. A quest’ultima categoria appartengono due acidi grassi molto studiati recentemente. Questi sono l’acido eicosapentaenoico (EPA) (20:5 n-3) e quello docosaesaenoico (DHA) (22:6 n-3), dei quali sono ormai noti i numerosi effetti biologici con riscontri benefici sulla salute umana (Connor, 2000, Legrand et al., 2001, Simopoulos, 2001, Kris-Etherton et al., 2002, Kris-Etherton et al., 2003).

La dieta occidentale è particolarmente ricca in acidi grassi n-6 rispetto a quelli n-3 (Hargis and Van Elswyk, 1993, Enser et al., 2000). L’acido linoleico (18:2n-6; LA) e l’acido α-linolenico (18:3n-3; ALA) sono acidi grassi polinsaturi essenziali nella dieta dell’uomo e precursori di tutti gli altri acidi grassi appartenenti alle serie omega-6 e omega-3. Una dieta bilanciata dovrebbe avere un rapporto omega-6/omega-3 non superiore a 4:1. La dieta occidentale invece ha questo rapporto che si aggira intorno a 16:1. (Simopoulos et al., 2002; Bourre et al., 2005; Wood et al., 2003; Raes et al., 2004; Kouba, 2006). L’assunzione di acidi grassi n-3 è bassa a causa del calo di consumo di pesce e dell’aumento dell’assunzione di prodotti animali allevati in modo intensivo, quindi alimentati con mangimi ricchi in grani contenenti grassi n-6, i quali portano alla produzione di carne ricca in n-6 e povera in n-3 (Crawford, 1968).

La crescente consapevolezza della necessità di avere una dieta con un più elevato contenuto di PUFA n-3 ha fatto sì che si capisca l’importanza di avere a disposizione una

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carne come fonte naturale di questi acidi grassi. È possibile ottenere carni arricchite attraverso la modifica della razione alimentare dell’animale, avendo come risultato finale un incremento del valore nutrizionale della carne stessa. Questo è possibile farlo per le carni di tutte le specie animali, ma è più facile nei monogastrici (gli acidi grassi assunti con la dieta vengono assorbiti nell’intestino senza essere modificati) piuttosto che nei poligastrici, dove invece gli acidi grassi alimentari vengono idrogenati nell’intestino (Wood et al., 2003).

La carne rimane una base importante dell’alimentazione dell’uomo, e quella di maiale è la carne più consumata al mondo (FAO, 2008). Gli acidi grassi essenziali n-6 e n-3 devono essere assunti con gli alimenti, ed è proprio la concentrazione di questi acidi nella dieta che determina la loro concentrazione finale nei tessuti animali. La composizione degli acidi grassi immagazzinati nei tessuti adiposi infatti riflette ampiamente quella dei lipidi ingeriti (Mourot and Hermier, 2001; Wood et al., 2003). Pertanto, l’uomo può aumentare l’assunzione (intake) di acidi grassi n-3 consumando prodotti tradizionali, quali ad esempio la carne, arricchiti con acidi grassi insaturi a lunga catena (PUFA).

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2 METABOLISMO LIPIDICO

2.1 DIGESTIONE

I lipidi provenienti dalla dieta, costituiti soprattutto da trigliceridi, subiscono una prima parziale digestione nella cavità orale ad opera della lipasi linguale. La reazione catalizzata da questo enzima porta alla liberazione di un singolo acido grasso, di preferenza a catena corta o media, e di un 1,2-diacilglicerolo la cui digestione terminerà nel duodeno. Dalla cavità orale, il bolo alimentare prosegue il suo percorso fino ad arrivare nello stomaco. Qui la digestione lipidica continua grazie all’azione della lipasi gastrica, la quale preferenzialmente idrolizza i trigliceridi con gli acidi grassi a catena corta e media, ma può agire anche su quelli con acidi grassi a catena lunga. A prescindere dal tipo di acido grasso, anche questa lipasi catalizza di preferenza il distacco di quelli in posizione sn-3, portando alla liberazione di un acido grasso libero, il quale viene direttamente assorbito dalla mucosa gastrica e trasportato al fegato, e di un 1,2-diacilglicerolo. La digestione lipidica viene quindi completata a livello intestinale grazie all’azione combinata della lipasi pancreatica con i sali biliari, i fosfolipidi contenuti nella bile (in particolare la fosfatidilcolina) e gli enzimi localizzati sulla membrana luminale e all’interno degli enterociti. La lipasi pancreatica catalizza di preferenza il distacco degli acidi grassi, in genere con 10 o più atomi di carbonio, in posizione sn-1 e sn-3 dello scheletro di glicerolo, dando origine a acidi grassi liberi e 2-monoacilgliceroli.

Il 2-monoacilglicerolo, ovvero la forma principale in cui i monoacilgliceroli sono assorbiti a livello dell’intestino tenue, può anche subire un processo di isomerizzazione nel quale l’acido grasso rimanente si sposta dalla posizione 2 alla posizione 1 o 3 e conseguentemente può essere idrolizzato dalla lipasi generando glicerolo libero, anch’esso assorbito per diffusione (Hamosh 1990; Bender 2004; Iqbal-Hussain 2009). Quest’ultima reazione però non coinvolge più del 25% degli acidi grassi a lunga catena (Akesson et al., 1978) o più del 60% degli acidi grassi a media catena (Jensen et al., 1994) che occupano la posizione 2. Quindi possiamo affermare che, specialmente per quanto riguarda gli acidi grassi a lunga catena, quelli che si trovano in posizione sn-2 vengono assorbiti in via preferenziale, sottoforma di monogliceridi rispetto agli acidi grassi liberi (Small, 1991).

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2.2 ASSORBIMENTO ED IMMAGAZZINAMENTO DEGLI ACIDI GRASSI E DEI MONOGLICERIDI DI PROVENIENZA ALIMENTARE

Gli acidi grassi liberi e i monogliceridi provenienti dalla digestione dei lipidi assunti con l’alimentazione vengono assorbiti per diffusione dalle cellule intestinali del digiuno. All'interno delle cellule della mucosa gli acidi grassi vengono risintetizzati in trigliceridi. Questo processo permette di ottenere molecole con una costruzione differente rispetto a quelle assunte con l’alimentazione. Trigliceridi con acidi grassi a lunga catena e fosfolipidi neosintetizzati, assieme al colesterolo libero ed esterificato formano nella cellula intestinale degli aggregati micellari: i chilomicroni. Questi aggregati molecolari sono il mezzo di trasporto usato dai trigliceridi per muoversi in un mezzo acquoso come la linfa e il sangue. I chilomicroni vengono quindi riversati nei vasi linfatici e raggiungono il circolo generale attraverso la vena succlavia.

Per quanto riguarda invece gli acidi grassi a corta e media catena che si formano, essi non vengono esterificati in nuovi trigliceridi ma vengono direttamente riversati nei vasi sanguigni e trasportati, legati all’albumina, direttamente al fegato

.

Attraverso il sistema circolatorio chilomicroni e acidi grassi sono in grado di raggiungere i vari tessuti. La lipoprotein-lipasi è l’enzima responsabile dell’idrolisi dei trigliceridi trasportati dai chilomicroni, ed è presente in particolare abbondanza nei tessuti adiposo, muscolare scheletrico, cardiaco e nella ghiandola mammaria. Le lipoprotein-lipasi del tessuto adiposo e del tessuto muscolare scheletrico sono

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responsabili dell’idrolisi della maggior parte dei trigliceridi circolanti. La loro attività è regolata in modo tale che in condizioni di ridotto apporto energetico sia più funzionale l’enzima presente nei muscoli mentre in condizioni di elevato apporto energetico sia più attivo l’enzima del tessuto adiposo. I trigliceridi presenti nei chilomicroni venendo quindi idrolizzati dalle lipoprotein lipasi, rilasciano acidi grassi e glicerolo nei tessuti. Questi verranno quindi utilizzati nei processi fisiologici o stoccati a seconda delle esigenze dell’organismo.

2.3 LIPOGENESI

Oltre ai lipidi assunti con la dieta (esogeni), nella carne animale troviamo anche lipidi endogeni, provenienti da una sintesi interna (Vernor-Flint, 1988).

O’Hea e Leveille (1969a) hanno dimostrato che diversamente da quello che succede nell’uomo, nel suino il 99% della sintesi lipidica de novo avviene nel tessuto adiposo e solo l’1% nel fegato. Questa specificità è dimostrata dalla maggiore attività degli enzimi lipogenici (acido grasso sintasi, glucosio-6-fosfato deidrogenasi, acetil-CoA carbossilasi, enzima malico e citrato liasi) nel tessuto adiposo (Vance et al., 2002). L’80% dei lipidi totali vengono sintetizzati a partire dal glucosio alimentare, il quale è il principale precursore degli acidi grassi (Henry et al., 1977). Dalla sintesi de novo si ottengono acidi grassi saturi e monoinsaturi, i più rappresentativi sono rispettivamente l’acido palmitico C16:0 e l’acido oleico C18:1.

Durante la crescita del maiale, la sintesi lipidica si verifica cronologicamente nei tessuti adiposi sottocutanei, poi nei tessuti adiposi intermuscolari e infine nel tessuto adiposo intramuscolare (Lee et al., 1974). Questo dipende dall’età dell’animale e non dal suo peso.

La lipogenesi è notevolmente influenzata dalla dieta e da fattori ad essa correlati. Ad esempio, incrementando il contenuto proteico della dieta a discapito dei carboidrati oppure aumentando la concentrazione lipidica (sempre in un regime isocalorico) il risultato sarà una diminuzione della sintesi lipidica de novo (Allee et al., 1971a,b).

Sono state fatte ricerche anche su come la modalità di somministrazione della razione giornaliera possa influenzare la lipogenesi. Alcuni autori hanno riportato che i suini alimentati ad libitum hanno diminuito sia la sintesi de novo degli acidi grassi che

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l’attività degli enzimi lipogenici, rispetto ai propri simili alimentati con lo stresso mangime ma somministrato in modo razionato (Allee et al., 1972b). Altri autori invece, non hanno riscontrato differenze (O’Hea and Leveille 1969 b; Steele and Forbish 1976), oppure addirittura hanno osservato l’effetto opposto (Mersmann et al. 1981).

Aumentando invece, il numero di pasti giornalieri da due a cinque, mantenendo costante l’intake totale di grasso giornaliero, si è visto che il tasso di sintesi de novo degli acidi grassi non viene influenzato (Sharma et al 1973).

Altro parametro che influenza la lipogenesi è il sesso dell’animale. Allee et al. (1971a, 1972a) riporta che le scrofe hanno un tasso di lipogenesi più basso rispetto a quello dei machi castrati alimentati con la stessa dieta. Le carcasse delle femmine infatti, hanno riportato meno grasso rispetto a quelle dei maschi castrati. Mersmann (1984) inoltre, ha riportato che i maschi interi hanno un tasso di lipogenesi più basso sia di quello delle femmine che dei maschi castrati, e al contempo le loro carcasse sono anche più magre.

Dall’analisi della composizione in acidi grassi del backfat (grasso dorsale) di animali appartenenti alle categorie magri e obesi, alimentati ad libitum con lo stesso mangime, si è evidenziata una percentuale più alta di grassi saturi (C14, C16, C18) e monoinsaturi (C16:1 e C18:1) in quelli obesi. Questi acidi rappresentano i prodotti finali della sintesi de

novo, e la loro aumentata concentrazione potrebbe spiegarsi se la sintesi de novo fosse la

principale fonte di grasso negli animali obesi. Martin et al., (1972) ha dimostrato una relazione diretta tra il contenuto in acidi grassi saturi nel grasso sottocutaneo e il grado di obesità del suino.

2.4 ACIDI GRASSI

La molecola di un acido grasso (Fatty Acid, FA) è costituita da una catena idrocarburica alifatica con un gruppo carbossilico (-COOH) terminale. In natura, il numero di atomi di carbonio di suddette catene è compreso tra 4 (C4) e 22 (C22). In presenza di soli legami singoli le molecole prendono il nome di acidi grassi saturi (Saturated Fatty Acid, SFA), mentre se nella catena è presente almeno un doppio legame si parla di acidi grassi insaturi (Unsaturated Fatty Acid, UFA). In particolare, di acidi grassi monoinsaturi (Monounsaturated Fatty Acids, MUFA) e acidi grassi polinsaturi (Polyunsaturated Fatty

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Acids, PUFA) quando i doppi legami sono rispettivamente uno o in numero superiore (Campbel, 1995).

I lipidi composti prevalentemente da SFA sono solitamente solidi a temperatura ambiente, mentre quelli più insaturi e/o a corta catena sono liquidi poiché hanno un punto di fusione più basso (Campbel, 1995); quest’ultimi inoltre sono più reattivi chimicamente, ovvero più instabili alle reazioni con l’ossigeno.

Gli UFA presentano isomeria cis o trans; in particolare, negli isomeri cis che in natura sono la maggioranza, i due idrogeni a livello di un doppio legame sono disposti sullo stesso lato della catena, mentre nei trans si trovano su lati opposti. Ad esempio, nel tessuto muscolare il MUFA maggiormente rappresentato e l’acido oleico (Oleic Acid, OA), C18:1 cis-9.

I PUFA si possono classificare in quattro famiglie in funzione della posizione del primo doppio legame nella catena, incominciando a contare gli atomi di carbonio dall’estremo del gruppo metilico: n-3 (Omega3), n-6 (Omega6), n-7 (Omega7), e n-9 (Omega9) (IUPAC, 1978).

Gli acidi grassi della famiglia n-7 si sintetizzano a partire dall’acido palmitico (C16:0) mentre quelli della famiglia n-9 lo fanno a partire da acido stearico (C18:0). Gli acidi grassi di queste due famiglie non sono considerati essenziali, dal momento che possono essere sintetizzati dall’organismo. Viceversa, gli acidi grassi delle serie n-3 e n-6 si considerano essenziali perché devono essere forniti con la dieta; gli acidi grassi linoleico (C18:2 n-6) e linolenico (C18:3 n-3) lo sono in senso stretto (gli animali non posseggono gli enzimi atti a produrli), i derivati a lunga catena acido arachidonico (C20:4 n-6), EPA (C22:5 n-3) e DHA (C22:6 n-3) lo diventano di fatto ed in particolari condizioni in non esistono gli enzimi in quanto i sistemi di desaturazione non riescono ad introdurre doppi legami molto vicini al metile terminale (Simopoulos 2002; Smith 2007). EPA e DHA possono essere quindi definiti “condizione indispensabili”, mentre l’AA condizione dispensabile.

I più importanti PUFA essenziali sono l’acido linoleico (Linoleic Acid, LA, C18:2 n-6) e l’α-linolenico (α-Linolenic Acid, ALA, C18:3 n-3), in quanto precursori di tutti gli altri PUFA n-6 e n-3 (Figura 2). Dalla trasformazione di un FA di una famiglia si possono generare solo FA della stessa famiglia; per esempio un FA della famiglia n-3 non può convertirsi a uno della famiglia n-6 e viceversa, sebbene entrambe le linee utilizzino gli stessi enzimi di desaturazione ed elongazione.

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Figura 2. Classificazione acidi grassi e biosintesi delle serie omega-6 e omega-3

Gli acidi linoleico e α-linolenico, così come altri PUFA, formano parte di varie membrane cellulari e hanno un ruolo importante nel trasporto dei lipidi e nell’attività di alcuni enzimi lipoproteici. Inoltre, questi FA sono i precursori della sintesi degli eicosanoidi che includono: prostaglandine, trombossani e leucotrieni.

Gli eicosanoidi sono sostanze ad azione “simil-ormonale” che regolano molte funzioni fisiologiche come la coagulazione sanguinea, la pressione venosa, la contrazione della muscolatura liscia e la risposta immunitaria (Calder, 2004). LA e ALA sono anche la fonte di altri importanti FA essenziali quali: l’acido eicosapentaenoico (EPA), l’acido

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docosapentaenoico (DPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA). L’EPA ha un effetto modulatore nella produzione di eicosanoidi a partire dall’acido arachidonico (Jeffrey et al., 2001) ed è il precursore delle prostaglandine della serie 3, dei trombossani e dei leucotrieni della serie 5. Il DHA invece si pensa giochi un ruolo importante nella funzione cerebrale e retinale. Le raccomandazioni delle autorità internazionali per quanto riguarda l’assunzione di EPA e DHA vanno da 200 a 650 mg al giorno (Nishida et al., 2007).

Molte malattie a decorso cronico quali patologie cardiovascolari, diabete, tumori, obesità, patologie autoimmuni, artrite reumatoide, asma e depressione, sono associate ad un aumento nella produzione di trombossani A2 (TXA2), leucotrieni B4 (LTB4), IL-1β, IL-6, tumor necrosis factor (TNF), e C-reactive protein. Tutti questi fattori aumentano in concentrazione quando si assumono quantità sempre maggiori di acidi grassi omega-6 e al contrario diminuiscono con un apporto maggiore di omega-3 (ALA, EPA e DHA) attraverso la dieta. Sebbene sia più facile il reperimento e di conseguenza un’assunzione maggiore di ALA, numerosi studi hanno dimostrato una maggiore efficienza contro queste patologie, degli acidi grassi EPA e DHA.

Il rapporto ottimale omega-6/omega-3 varia da 1:1 a 4:1, in funzione della malattia considerata. Poiché molte delle patologie croniche prevalenti nella cultura occidentale sono multi-geniche e multifattoriali, non c’è da sorprendersi dell’ampio range di dosi e rapporti n-6/n-3 consigliati.

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3 TESSUTO ADIPOSO

Negli ultimi decenni, attraverso programmi di selezione genetica delle razze si è arrivati ad ottenere suini con maggiore capacità riproduttiva e di crescita, un accrescimento muscolare più efficiente (Knap-Rauw, 2009) e una riduzione del contenuto totale di grasso, compreso quello intramuscolare (Intamuscular Fat, IMF) (Li et al., 2008). Poklukar et al. (2020) infatti, mette in evidenza come il deposito di grasso sia più accentuato nelle razze autoctone rispetto a quelle selezionate, e come l’analisi sulla composizione in acidi grassi del tessuto adiposo sottocutaneo e intramuscolare abbia dimostrato un contenuto di MUFA più elevato nelle razze locali, indicando anche una loro maggiore capacità di sintetizzare e desaturare il grasso.

La selezione ha permesso di ridurre lo spessore del lardo apportando un benefico alla qualità della carcassa (Lebert-Mourot, 1998) ma anche problemi nella trasformazione e nella conservazione della carne, così come una diversa palatabilità. È proprio la marezzatura, ovvero il grasso intramuscolare, ad essere responsabile di alcuni indicatori di qualità della carne quali: tenerezza, succosità e flavour (Brewer et al., 2001). Questi tre indicatori riportano valori tanto più bassi quanto minore è la percentuale di grasso intramuscolare (Barton-Gade, 1990). È quindi importante diminuire il contenuto totale di grasso nella carcassa senza però intaccare la quantità del grasso intramuscolare.

Oltre alla diminuzione dello spessore del grasso dorsale si è avuto un incremento della percentuale di acido linoleico (C18:2 n-6) (Martin-Herbein, 1976) di derivazione esclusivamente alimentare. Questo si può spiegare con il fatto che nelle linee magre la quantità di lipidi endogeni è inferiore rispetto alla stessa nelle linee grasse. Tali modifiche hanno un impatto negativo sul tessuto adiposo in fase di trasformazione (diminuisce il punto di fusione) ma hanno un impatto positivo sulla qualità in termini di dieta umana (fonte di acidi grassi essenziali).

Alla nascita, la percentuale di lipidi di stoccaggio nel suinetto rappresenta solo l’1-2% del peso vivo (Le Dividich et al., 1991), ma il tessuto adiposo cresce velocemente, infatti già a dodici giorni di vita questa percentuale aumenta di 10 volte, mentre il peso vivo è aumentato solo di 3.

La crescita del tessuto adiposo è indotta da una modifica del metabolismo lipidico, causato da un aumento dell'afflusso di acidi grassi liberi nel tessuto lipidico stesso

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(Saponaro et al., 2015), con conseguente ipertrofia (crescita in volume) e iperplasia (crescita nel numero) degli adipociti (Alfonso et al., 2005; Nakajima et al, 2011). Gli adipociti sono inizialmente piccole cellule di forma sferica, che possiedono un'elevata attività in termini di sintesi lipidica (Mersmann-Smith, 2005).

Nelle prime fasi della vita, il tessuto adiposo di un maiale cresce principalmente per iperplasia, processo caratterizzato dalla proliferazione e differenziazione di cellule staminali mesenchimali multipotenti in adipociti maturi (Mersmann-Smith, 2005; Urrutia et al., 2018), e solo dopo un significativo aumento del numero cellulare, gli adipociti iniziano a ingrandirsi. La maggior parte della loro crescita è dovuta all'accumulo di lipidi (trigliceridi) portati attraverso la circolazione; in minor misura contribuisce anche la sintesi de novo endogena di acidi grassi a partire dal glucosio in eccesso assunto con la dieta. Henry et al. (1997) mostra infatti come i fattori alimentari svolgono un ruolo importante sulla crescita degli adipociti e sull’immagazzinamento dei grassi.

Generalmente il tessuto adiposo suino viene classificato in tre categorie a seconda della sua posizione anatomica e del suo contributo all’adiposità della carcassa (Hood et al., 1973; Henry et al., 1997). Possiamo quindi distinguere:

• GRASSO SOTTOCUTANEO. Costituisce insieme alla cotenna, l’involucro generale della carcassa e rappresenta il 65% dei tessuti adiposi totali separabili.

• GRASSO INTRAMUSCOLARE. È associato ai tessuti connettivi che separano i piani muscolari mediani e profondi, rappresenta il 30% dei tessuti adiposi separabili.

• GRASSO INTERNO. Rappresentato principalmente dai grassi intestinali e perirenali, rappresenta circa il 5% del grasso totale.

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3.1 GRASSO SOTTOCUTANEO

La sua composizione in acidi grassi è fortemente influenzata dagli acidi grassi assunti con la dieta, ma anche dalla tipologia di allevamento, dall’età dell’animale al momento della macellazione, dal sesso, dal contenuto lipidico totale della carcassa e dalla temperatura ambientale (Wood et al., 2008).

I PUFA vengono apportati con l’alimentazione (Wood et al., 1997) mentre i MUFA possono essere depositati sia tramite l’alimentazione che attraverso la desaturazione dei SFA ottenuti dalla sintesi de novo (Wood et al., 2008). Un elevato contenuto in MUFA è direttamente proporzionale alla capacità di sintetizzare e desaturare il grasso (in funzione della razza).

Diversi autori hanno dimostrato una correlazione diretta tra il grado di saturazione e l’incremento del deposito di grasso nel tessuto adiposo sottocutaneo (Johns 1940; Koch et al., 1968; Numberg et al., 1989; Wood-Enser 1997). Tuttavia, Wood et al. (1996) ha visto che la concentrazione dell’acido α-linolenico non è influenzata dallo spessore del lardo.

3.2 GRASSO INTRAMUSCOLARE (IMF)

Il grasso intramuscolare è composto da fosfolipidi, trigliceridi e colesterolo; non è visibile né anatomicamente separabile. Fosfolipidi e colesterolo fanno parte delle membrane cellulari, mentre i trigliceridi vengono stoccati per lo più all’interno degli adipociti e in minor misura in goccioline all’interno del citoplasma delle miofibrille (Hocquette et al., 2010). Gli adipociti possono essere raggruppati tra i fasci di fibre oppure isolati tra le singole fibre muscolari. La percentuale di adipociti isolati varia tra il 10 ed il 20 % degli adipociti totali (Mourot et al., 1999). Questo numero e la dimensione dell’adipocita aumenta con l’aumentare del contenuto lipidico totale del muscolo.

Vari fattori influenzano il contenuto di grasso intramuscolare, primo fra tutti la razza suina di appartenenza (Tabella 1).

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Tabella 1. Comparazione del contenuto lipidico intramuscolare nel Longissimus dorsi di suini di razza pura o con forte dominanza del gene principale

Razza Contenuto lipidico1 Razza Contenuto lipidico1

Large White 1.24 Tia Meslan 1.56

French Landrace 1.19 Gallia 1.51

Belgian Landrace 1.67 Penshire 1.66

Pietrain 1.35 Laconie 1.60

Duroc 2.41 Meishan 3.07

1 Espresso in % sul peso vivo in animali macellati al peso e all’età commerciali di macellazione (Stefaan et al., 2004)

Vari studi indicano anche una correlazione fra sesso dell’animale e composizione in acidi grassi della carne, tra questi possiamo citare Hogberg et al. 2001 e 2002, Koch et al. 1968, Nilze´n et al. 2001, Villegas et al. 1973 e Warnants e Van Oeckel 1998. Questi autori hanno dimostrato una concentrazione di PUFA maggiore nelle femmine se messe a confronto con maschi castrati e ciò potrebbe essere dovuto ad una differenza nel metabolismo lipidico (Hogberg et al., 2002, 2001). Hogberg et al. (2003) ha riscontrato differenze a favore della muscolatura femminile sia per i trigliceridi che per i fosfolipidi: i trigliceridi presentavano livelli più alti di 18:2 n-6 e 20:4 n-6, mentre nei fosfolipidi sono stati riscontrati livelli più alti di HUFA.

Altra variabile della percentuale di grasso intramuscolare è la localizzazione anatomica del muscolo (Tabella 2).

Tabella 2. Contenuto lipidico (%) di alcuni muscoli suini all’età commerciale di macellazione

Muscolo 1 Contenuto lipidico (%)

Longissimus dorsi 1.3 ± 0.3 Adductor femoris 2.0 ± 0.5 Biceps femoris 1.4 ± 0.4 Psoas majeur 1.3 ±0.3 Trapezius 2.0 ± 0.7 Masseter 1.8 ± 0.5 Semimembranosus 1.7 ± 0.4 Semitendinsus 3.5 ± 0.5

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La quantità di grasso intramuscolare è infatti legata alla struttura e alla composizione muscolare (Tabella 3) (Listrat et al., 2016). Il contenuto di fosfolipidi nel muscolo è relativamente indipendente dal contenuto totale di grassi e varia tra lo 0,2 e l'1% del peso muscolare, mentre esiste una correlazione tra quantità di trigliceridi (da 0.2 ad oltre il 5%) e quantità totale di grassi (Fernandez et al., 1999; Gandemer 1999; Sinclair-O’Dea 1990).

Tabella 3. Contenuto in trigliceridi e fosfolipidi (in g/100g di muscolo) in vari muscoli suini

Muscolo Trigliceri di Fosfoli pidi Longissimus dorsi 1.0 0.48 Biceps femoris 0.8 0.63 Psoas majeur 0.7 0.72 Trapezius 1.3 0.69 Leseigneur et al., 1991

I fosfolipidi sono particolarmente ricchi in PUFA, mentre i trigliceridi ne contengono una più bassa quantità. La tabella 4 mostra le percentuali calcolate in vari studi.

Tabella 4. Distribuzione dei PUFA nei fosfolipidi (PH) e nei trigliceridi (TG) e il rapporto PH/TG nel

grasso intramuscolare totale del Longissimus dorsi nel maiale

% PUFA in PH % PUFA in TG PH/TG Riferimento bibliografico

44.7 – 45.0 9.3 – 14.5 0.23 – 0.43 Cameron et al., 2000 43.7 – 46.9 9.3 – 13.3 0.44 – 0.57 Enser et al., 2000 41.9 – 42.8 7.26 – 10.1 0.22 – 0.23 Lopez-Bote et al., 1997 40.4 – 48.2 8.1 – 12.3 0.59 – 0.73 Rey et al., 2001 35.3 – 38.7 5.3 – 10.2 0.26 – 0.34 Warnants et al., 1996

Poiché i fosfolipidi sono componenti della membrana, la loro proporzione di PUFA è rigorosamente controllata per mantenere le proprietà della membrana. Nei trigliceridi invece, sebbene il contenuto di PUFA può essere influenzato da fattori alimentari, esso è

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diluito dalla sintesi de novo di acidi grassi SFA e MUFA, causando così un calo del rapporto P/S (PUFA/SFA) e un incremento della deposizione di grasso.

I vari muscoli quindi, differiscono nel contenuto di grasso e possono anche differire nella composizione degli acidi grassi. In linea teorica la composizione la quantità e la qualità del grasso del muscolo del suino potrebbe correlato al tipo di fibra muscolare; i muscoli a metabolismo glicolitico contengono meno grassi di quelli a metabolismo ossidativi. Tuttavia, Leseigneur Meynier e Gandemer (1991) hanno dimostrato che la quantità totale di lipidi intramuscolari e di trigliceridi non è strettamente correlata al tipo di fibra metabolica. I muscoli glicolitici e ossidativi possono contenere quantità simili di grasso intramuscolare. Analogamente, questi autori hanno dimostrato che la composizione degli acidi grassi dei fosfolipidi e dei trigliceridi è poco influenzata dal tipo di fibra metabolica. Al contrario, il contenuto di fosfolipidi e la distribuzione di varie classi di fosfolipidi variano a seconda del tipo di fibra metabolica. I muscoli ossidativi rossi contengono più fosfolipidi, con una maggiore proporzione di fosfatidiletanolamina e cardiolipina, rispetto ai muscoli glicolitici bianchi. Queste differenze possono essere spiegate con il più numero di organelli, in particolare mitocondri, di muscoli rossi e la specifica composizione di classe fosfolipidica delle membrane mitocondriali rispetto ad altre membrane (Leseigneur-Meynier e Gandemer, 1991; Gandemer 1999).

Ultimo fattore e, forse, più importato fattore in grado di modificare la composizione in acidi grassi della carne è l’alimentazione. La composizione in acidi grassi del tessuto adiposo intramuscolare è meno correlata con la dieta (Lebret et al., 1999) rispetto a quanto accade nel sottocutaneo, tuttavia questa relazione è maggiore se la dieta include alte percentuali di PUFA. A causa della relativa abbondanza di fosfolipidi nel muscolo, la carne può efficientemente essere arricchita in PUFA (Nurnberg et al.,1998). Inoltre, sappiamo che la sintesi lipidica, dalla quale si ottengono SFA e MUFA, diminuisce nel sottocutaneo ma rimane pressoché invariata nell'intramuscolare se nella dieta aumenta il contenuto lipidico (Allee et al., 1972).

Pertanto, diversi autori hanno provato ad incrementare il contenuto della carne in PUFA, con un particolare riguardo per quelli della serie n-3, utilizzando nella dieta varie tipologie di supplementi. Questi erano ricchi principalmente in acidi grassi polinsaturi C18:2 n-6 (linoleico) e C18:3 n-3 (α-linolenico), poiché come già detto tali acidi grassi non possono essere sintetizzati dall’organismo animale, mentre i PUFA a catena più lunga

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(C20-22) appartenenti alle serie n-6 e n-3 possono essere sintetizzati all’interno dell’organismo a partire dai loro precursori sopracitati.

Alcuni autori (Irie-Sakimoto 1992; Morgan et al., 1992; Ishida et al., 1996; Leskanich et al., 1997; Raes et al., 2004) per incrementare i livelli di EPA e DHA nella carne suina hanno utilizzato come supplemento olio di pesce, altri (Cunnane et al., 1990; Cherian-Sim, 1995; Romans et al., 1995a,b; Ahn et al., 1996; Spect-Overholt et al., 1997; Riley et al., 1998a,b; Kouba, 2006) il panello di lino, altri ancora (Rhee et al., 1988, Kouba, 2006) l’olio di colza.

3.2.1 Qualità nutrizionale del grasso suino

Come è stato già detto, a seconda della tipo di alimentazione, possiamo riscontrare carni suine con vari valori nel rapporto P/S.

𝑃 𝑆

=

(𝐶18:2𝑛−6)+(𝐶18:3𝑛−3) 𝐶12:0+𝐶14:0+𝐶16:0

Questo rapporto è ampiamente utilizzato dagli studiosi del settore per indicare la qualità nutrizionale di un prodotto, in funzione degli acidi grassi contenuti, e viene assunto come valore minimo accettabile 0.45. Tale rapporto è influenzato dalle concentrazioni di acidi grassi delle serie omega-6 e omega-3, e dal rapporto n-6/n-3 della frazione lipidica totale. Quest’ultimo però varia a seconda del rapporto n-6/n-3 delle frazioni di fosfolipidi e trigliceridi.

Di particolare interesse è anche il rapporto C18:2n-6/C18:3n-3; questo, nei fosfolipidi di membrana è generalmente più alto che nei trigliceridi, riflettendo la deposizione preferenziale di C18:2n-6 nei fosfolipidi e una ripartizione più simile di C18:3n-3 nei trigliceridi e fosfolipidi.

Poiché la quantità di PUFA a catena più lunga depositata nei trigliceridi è molto bassa, il rapporto C18:2n-6/C18:3n-3 e il rapporto globale n-6/n-3 sono molto simili nella frazione triglicerica. Al contrario, il rapporto globale n-6/n-3 dei fosfolipidi di membrana è inferiore al rapporto C18:2n-6/C18:3n-3 a causa della sintesi preferenziale di acidi grassi a

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catena più lunga della serie n-3 rispetto alla serie n-6. Ciò significa che l'effetto dei cambiamenti nel rapporto fosfolipidi/trigliceridi, a seguito di cambiamenti nel livello di grasso, sul rapporto n-6/n-3 è variabile e dipende dalla dieta.

Per una data dieta, il rapporto C18:2n-6/C18:3n-3 nella carne molto magra sarà più alto che nella carne con un livello di grasso più elevato, mentre il risultato della variazione del tenore di grassi sul rapporto globale n-6/n-3 è meno marcato (review Stefaan et al., 2004).

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4 IL CONCETTO DI QUALITÀ

La qualità viene definita come la “capacità di soddisfare le esigenze del cliente che usufruisce di un prodotto o servizio”. Esistono fattori qualitativi oggettivi, che dipendono dall'alimento, e fattori soggettivi, che invece sono legati alle aspettative e ai gusti del consumatore. La qualità totale di un alimento è un concetto multifattoriale, quindi dipende da un insieme di singole “qualità” strettamente correlate tra loro. I vari aspetti che concorrono a definire la qualità possono essere classificati con la regola delle cinque “S”:

Sicurezza sul profilo igienico-sanitario, inteso come assenza di germi patogeni,

ridotta carica batterica, assenza di residui di additivi, farmaci, pesticidi e anabolizzanti.

Salute, cioè qualità relativa alle caratteristiche nutrizionali, contenuto proteico,

vitaminico, lipidico, di sali minerali e valore calorico.

Sensi, cioè qualità organolettica, sotto due punti di vista; caratteristiche osservabili

al momento dell’acquisto e quelle osservabili al momento del consumo. Le prime sono date dal colore, dalla grana e dalla tessitura, dalla perdita di essudato dalla superficie di taglio e dalla marezzatura. Le seconde sono: tenerezza, succulenza, sapidità, fragranza, assenza di odori sgradevoli.

Servizio, riguarda le caratteristiche tecnologiche e commerciali relative alla

durabilità del prodotto (shelf-life), la calibratura e il rapporto qualità/prezzo. • Storia, cioè qualità riferita all'origine e alla tipicità del prodotto.

Ai fini di questa tesi ci interessano in particolar modo la qualità nutrizionale e quella tecnologica.

4.1 QUALITÀ NUTRIZIONALE

È indubbio l’alto valore nutritivo della carne in generale per l’elevato apporto di proteine dall’alto valore biologico e per il contenuto in ferro altamente assimilabile. La carne suina oltre a questo possiede altre caratteristiche nutrizionali molto importanti nella dieta dell’uomo. In particolare, è una fonte importante di zinco, selenio, acido folico,

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Vitamina A, e Vitamine del gruppo B, di cui particolarmente importante è la B12, non esistono fonti alternative poiché la troviamo principalmente in alimenti di origine animale.

La selezione genetica delle razze e le nuove tecniche di allevamento hanno permesso di abbassare il contenuto lipidico totale da valori intorno al 35-45% fino a valori poco inferiori al 20% (Henry 1977; Nguyen-Everts 2004; Tribout et al., 2004) prediligendo una diminuzione in volume del tessuto adiposo sottocutaneo e cercando di lasciare intatto quello intramuscolare, importante per le caratteristiche sensoriali (Canova et al., 2009).

Numerosi autori inoltre, hanno tentato modificare la qualità nutrizionale nel senso di un aumento degli acidi grassi essenziali o ad azione nutraceutica. Questo rappresenta un ulteriore aspetto positivo per includere questo alimento nella nostra dieta.

Se da una parte un elevato contenuto in PUFA apporta benefici alla salute del consumatore, dall’altra questo potrebbe rappresentare un problema di tipo tecnologico nel prodotto. Un quantitativo troppo elevato di acidi grassi insaturi porta ad un minore punto di fusione del grasso, con conseguente abbassamento della consistenza, difficoltà nella lavorazione e problemi durante l’affettamento dei salumi da essa derivati. Un altro problema è la minore conservabilità (shelf-life) del prodotto. I PUFA, a causa dei loro doppi legami, sono più sensibili all’ossidazione rispetto ai SFA; tanto più un acido grasso è insaturo, tanto più rapida è la sua ossidazione e quindi tanto più bassa sarà la shelf-life del prodotto (Wood et al., 2003). A questo problema si è trovata la soluzione nell’arricchire la razione animale con un antiossidante, la Vitamina E (Kouba et al., 2003).

In base alla natura del supplemento di PUFA, si può anche avere comparsa di odori sgradevoli (off-flavour). Questo succede in particolar modo quando si utilizza carne o olio di pesce (Hargis-Van Elswyk 1993; Sheard et al., 2000; Kouba et al., 2008).

Secondo Girard et al. (1988), al momento della trasformazione della carne suina, un tessuto adiposo di buona qualità ed idoneo alla trasformazione dovrebbe contenere non più del 12% di acido linoleico e almeno un 12% di acido stearico. Un tessuto adiposo contenente più del 15% di acido linoleico al momento della macellazione, subirà una perdita di questo acido pari al 10-20% del totale durante la conservazione della carne, a causa di una sua ossidazione (Camoes et al., 1995).

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Fernandez et al. nel 1999 ha pubblicato uno studio basato su test sensoriali nel quale ha dimostrato che i consumatori apprezzano un contenuto lipidico pari al 3% nel muscolo Longissimus dorsi del maiale. Tuttavia, recentemente l'industria della carne suina si trova di fronte a un problema dovuto alla quantità limitata di grasso visibile nei tessuti della carne, perché la produzione di suini più magri e più pesanti ha effetti negativi sulla quantità di grasso intermuscolare (IMF), che rende la carne di maiale più dura, meno umida e meno saporita (Fortin et al., 2005; Channon et al., 2017).

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5 Claims

5.1 Regolamento (UE) N. 1924/2006

Come afferma il regolamento UE 1924/2006, la ricerca scientifica sugli alimenti ha evidenziato che esiste un’ampia gamma di sostanze con effetto nutrizionale e fisiologico sull’uomo, quali ad esempio vitamine, sali minerali, amminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre, estratti di erbe, ecc.. Conseguentemente a questo, negli ultimi anni si è assistito ad un crescente numero di prodotti che richiamano, in etichetta o attraverso la pubblicità, questi elementi. Gli alimenti promossi con queste indicazioni possono essere percepiti dal consumatore come portatori di un beneficio nutrizionale, fisiologico o, in generale, positivo per la salute e tale da differenziali da altri prodotti convenzionali presenti sul mercato. Questo crea un indubbio vantaggio commerciale perché può incidere direttamente sulla probabilità che un prodotto venga acquistato. La Commissione Europea ha pertanto ritenuto necessario intervenire stabilendo principi generali applicabili per la pubblicità ed etichettatura di questa particolare tipologia di alimenti, al fine di garantire un elevato livello di tutela dei consumatori e la piena consapevolezza delle scelte di acquisto. A queste motivazioni si affiancano anche quelle dirette a garantire la correttezza negli scambi commerciali tra i diversi operatori economici: la presenza di differenze tra disposizioni nazionali relative alle indicazioni nutrizionali e salutistiche possono, infatti, impedire la libera circolazione degli alimenti ed instaurare condizioni di concorrenza disuguali.

Sulla base di queste considerazioni è stato quindi emanato il Reg. Ce 1924/2006 relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari. Il legislatore stabilisce che con il termine indicazione (o claim) si intende qualunque messaggio o rappresentazione non obbligatorio in base alla legislazione comunitaria o nazionale, comprese le rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche in qualsiasi forma, che affermi, suggerisca o sottintenda che un alimento abbia particolari caratteristiche.

Sulla base di un processo di selezione condotto dalla Commissione Europea in collaborazione con l’EFSA, vengono individuate tre diverse categorie di indicazioni che

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possono essere riportate su etichette e pubblicità, e per ciascuna di esse vengono forniti i requisiti specifici di utilizzo. Queste categorie sono:

indicazioni nutrizionali. Le indicazioni attestano che un alimento possiede

particolari proprietà nutrizionali dovute all’energia che apporta, o meno, e alle sostanze nutritive o di altro tipo che contiene, o meno.

indicazioni sulla salute. L'indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda

l'esistenza di un rapporto tra un alimento o uno dei suoi componenti e la salute. L'utilizzo di questo tipo di etichetta è ammesso solo se le informazioni, emesse dai produttori, sono accompagnate da una dicitura relativa all'importanza di una dieta varia ed equilibrata e di uno stile di vita sano, e se sono indicate la quantità dell'alimento e le modalità di consumo necessarie per ottenere l'effetto benefico indicato.

indicazioni relative alla riduzione di un rischio di malattia. L’indicazione relativa

alla riduzione di un rischio di malattia è rappresentata da qualunque indicazione sulla salute che affermi, suggerisca o sottintenda che il consumo di una categoria di alimenti, di un alimento o di uno dei suoi componenti riduce significativamente un fattore di rischio di sviluppo di una malattia umana;

Per quanto riguarda le condizioni generali di utilizzo dei claims nutrizionali e sulla salute, il Reg. Ce 1924/2006 precisa che essi:

• devono essere formulati sulla base di prove scientificamente accettate, rese disponibili alle Autorità competenti dei controlli se richiesto, tenendo conto di tutti i dati scientifici disponibili e valutando gli elementi di prova.

• devono fare riferimento agli alimenti pronti per essere consumati. • non devono incoraggiare consumi eccessivi del cibo;

• non devono essere falsi, ambigui o fuorvianti;

• devono essere comprensibili per il consumatore medio • non devono far nascere o sfruttare timori nei consumatori;

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5.2 Regolamento (UE) N. 116/2010

Il Parlamento Europeo nel 2010 ha apportato delle modifiche al regolamento sopracitato con un nuovo regolamento, il N. 116/2010). Questa volta dà delle indicazioni precise riguardanti le indicazioni nutrizionali sugli acidi grassi omega-3 sottoscrivendo:

FONTE DI ACIDI GRASSI OMEGA-3. L'indicazione che un alimento è fonte di acidi

grassi omega-3 e ogni altra indicazione che può avere lo stesso significato per il consumatore sono consentite solo se il prodotto contiene almeno 0,3 g di acido alfa-linolenico per 100 g e per 100 kcal oppure almeno 40 mg della somma di acido eicosapentaenoico e acido docosaesaenoico per 100 g e per 100 kcal.

RICCO DI ACIDI GRASSI OMEGA-3. L'indicazione che un alimento è ricco di acidi

grassi omega-3 e ogni altra indicazione che può avere lo stesso significato per il consumatore è consentita solo se il prodotto contiene almeno 0,6 g di acido alfa-linolenico per 100 g e per 100 kcal oppure almeno 80 mg della somma di acido eicosapentaenoico e acido docosaesaenoico per 100 g e per 100 kcal.

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6 Il consumo di carne suina

Secondo l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura (FAO), nel 2019 la produzione di carni bovine, ovine, avicole e suine dovrebbe ammontare a 335 milioni di tonnellate in equivalente peso carcassa. La carne suina rappresenta tipicamente più di un terzo della produzione mondiale di carne, il pollame il 39% e la carne bovina il 21%, mentre il consumo pro-capite si aggira introno a 43,3 kg/anno.

Secondo Carni Sostenibili le stime sopra elencate si riferiscono ai consumi apparenti, che considerano anche le parti non commestibili. In Italia, infatti, in media il consumo reale è di circa 37,9 Kg di carne all’anno.

Secondo i dati di consumo apparente attualmente disponibili (FAO e Ismea), in media un abitante italiano consuma annualmente 237 g al giorno di tutti i tipi di carne (pollo, suino, bovino, ovi-caprina).

Il consumo reale pro-capite corrisponde invece a meno della metà, ovvero 104 g al giorno di carne, pari a 728 g alla settimana e 38 kg all’anno. Tale consumo comprende tutta la carne, indipendentemente da come (cruda, cotta, trasformata in salumi, presente in preparazioni alimentari miste, in scatolata, ecc.). Considerando solo il consumo di carne rossa (bovina e suina) e salumi (escludendo quindi le carni bianche), il consumo reale si attesta a 69 g al giorno, pari a 463 g pro-capite a settimana.

L’Assica (Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi aderente a Confindustria) nella sua Assemblea annuale ha evidenziato che nel 2018 il consumo pro-capite di salumi si aggira intorno ai 10.7 kg, di questi il 21.8% è rappresentato dal prosciutto crudo.

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7 La filiera suina dei prodotti DOP. Considerazioni economiche

Prendendo in considerazione l’aspetto economico, l’ISMEA (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) in collaborazione con il CRPA (Centro Ricerche Produzioni Animali), ha realizzato un’indagine mirata a rilevare i costi di produzione del suino pesante in allevamenti da ingrasso e a ciclo chiuso. Lo studio pubblicato nel 2019 fa riferimento all’ultima rilevazione, fatta nel 2017, in allevamenti certificati per la produzione di suini pesanti destinati alla trasformazione dei principali salumi a denominazione di origine protetta, tra i quali Prosciutto di Parma e Prosciutto San Daniele.

Negli allevamenti da ingrasso, che hanno prodotto suini di oltre 160 kg di peso vivo, il costo di produzione nel 2017 è risultato pari a 1.64 €/kg mentre il prezzo medio di vendita del suino al macello era di 1,77 €/kg.

Negli allevamenti a ciclo chiuso il costo di produzione si è attestato in media a 1.48 €/kg, mentre il prezzo di vendita intorno a 1.79 €/kg.

In entrambe le tipologie di allevamento il costo di produzione più elevato è quella di alimentazione. Si consideri infatti che il costo medio della razione è di 24.20 €/quintale e che per l’intera durata dell’ingrasso (mediamente 197 giorni) ogni suino assume da un minimo di 2.25 ad un massimo di 2.59 kg di mangime al giorno (mediamente 2.39 kg/capo/die).

Per razioni integrati con alimenti in grado di determinare un arricchimento in omega-3 della carne, occorre aggiungere i costi dell’integrazione.

Consideriamo ad esempio un arricchimento con il panello di lino. Dati TESEO dell’anno 2017 dicono che il lino aveva un costo medio di 383 €/quintale. La quantità massima consentita dai disciplinari per l’utilizzo di panello di lino è pari al 2% della sostanza secca della razione; per 2.4 kg è possibile utilizzare quindi fino a 48 grammi/capo di panello di lino. In un allevamento con 100 suini, integrando con il lino le razioni dell’intero ciclo di ingrasso (197 giorni), l’allevatore dovrà affrontare un’ulteriore spesa di 3.633 €. Questa spesa naturalmente si abbassa diminuendo i giorni di integrazione, ma si alza aumentando il numero di animali trattati e/o la percentuale di lino utilizzata.

Il costo di produzione di un kg di carne è di 1.64, mentre il ricavo al macello è di 1.77 €/kg, quindi, ipotizzando un peso di macellazione di 160 kg:

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1.64 €/kg * 160 kg = 262.4 € (costo totale di produzione) 1.77 €/kg * 160 kg = 283.2 € (ricavo al macello) 283.2 € – 262.4 € = 20,80 € (guadagno dell’allevatore)

Se nel costo di produzione si considerano anche i costi per l’integrazione, si nota che il margine per l’allevatore si riduce fino quasi ad azzerarsi.

I dati ricavati finora si riferiscono ad intere carcasse di animali che potrebbero andare alle lavorazioni del circuito protetto, ma questo non è certo in assoluto. La materia prima viene ispezionata e classificata post macellazione e quindi destinata al circuito protetto, nel caso rispecchi le caratteristiche richieste dai disciplinari, oppure destinata al circuito non protetto. Ovviamente, visti i diversi parametri qualitativi anche il prezzo del prodotto sarà diverso.

Un esempio molto chiaro è quello che succede con le cosce destinate alla produzione di prosciutto crudo. Nel 2017 (dati TESEO) una coscia di peso superiore ai 12 kg destinata alla produzione di prosciutto crudo costava mediamente 4.106 €/kg, mentre una coscia destinata al circuito protetto (13-16kg) costava 5.288 €/kg, ovvero un differenziale di prezzo 1.182 €/kg/coscia. Questo vuol dire che se i parametri dei disciplinari per i prosciutti DOP sono stati tutti rispettati, per una coscia da 13 kg si avrà un differenziale di prezzo di 15,366 € (ovvero 30,732 € a suino) rispetto a quello che si ricaverebbe con la stessa coscia destinata al circuito non protetto. Questo sta a significare che se il prodotto non può essere venduto nel circuito protetto, il danno economico per l’allevatore è veramente rilevante.

L’arricchimento della carne in omega-3, deve pertanto essere ottenuto con tecniche ed approcci che tengano in considerazione la necessità di ottenere un prodotto arricchito ma, al contempo, conforme alle norme, indicazioni e prescrizioni contenute nei disciplinari di produzione.

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8 DISCIPLINARI DI PRODUZIONE DEI PROSCIUTTI DOP

Come riportato sopra l’appartenenza ad un circuito protetto (DOP, IGP) porta a dei vantaggi economici maggiori rispetto alla vendita dello stesso prodotto non protetto. Affinché questo avvenga, il produttore deve rispettare le norme di produzione tipiche di quel prodotto che ritrova elencate nel rispettivo disciplinare di produzione.

Nel caso della carne suina, le Denominazioni di Origine Protetta più importanti sono quelle del Prosciutto di Parma DOP (53.6% del totale), mortadella Bologna DOP (18% del totale) e Prosciutto San Daniele DOP (13.5%); nel totale questi tre prodotti rappresentano oltre l’85% del totale delle produzioni DOP della filiera suina. Il disciplinare della mortadella Bologna non presenta particolari indicazioni sull’alimentazione dei suini, mentre quello del Prosciutto di Parma e San Daniele, riportano ben precise indicazioni in tal senso.

Nei disciplinari di produzione, molto simili tra loro nella parte iniziale, di questi due prodotti, vengono elencati una serie di requisiti che la materia prima deve possedere.

Primo requisito fra tutti è la razza di appartenenza del suino; questa deve necessariamente appartenere a quelle razze definite “magre”, quali ad esempio Large White e Landrace in purezza oppure esclusivamente incroci nel caso se ne scelgano altre, poiché è importante mantenere un certo quantitativo di grasso allo scopo di preservare un più a lungo periodo di conservazione del prodotto finito e di permettere una lavorazione il più ottimale possibile. A tal proposito infatti, i disciplinari impongono due parametri importanti che definiscono la qualità della materia prima e la sua possibile lavorazione nel circuito protetto:

- la consistenza del grasso deve essere stimata attraverso il numero di iodio (non deve superare 70) e/o del contenuto di acido linoleico (non deve essere superiore al 15 %)

- lo spessore del grasso della parte esterna della coscia fresca rifilata dovrebbe aggirarsi intorno ai 20 millimetri nel caso di cosce fresche usate per produrre prosciutti con peso compreso fra 7 e 9 kg, e ai 30 millimetri per cosce fresche per prosciutti con peso superiore ai 9 kg; lo spessore va misurato verticalmente in corrispondenza della testa del femore.

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Al momento della macellazione le carcasse vengono sottoposte a valutazione per definire la loro percentuale di carne magra. In totale si possono avere 5 classi (Regolamento EU 1308/2013):

• S = % di carne magra > 60

• E = % di carne magra compresa tra 55 e 60 • U = % di carne magra compresa tra 50 e 55 • R = % di carne magra compresa tra 45 e 50 • = % di carne magra compresa tra 40 e 45 • P = % di carne magra < 40.

Secondo i disciplinari dei prosciutti DOP, vengono accettate solo carcasse appartenenti alle classi U, R e O.

Altro parametro da rispettare è quello del peso della materia prima che preferibilmente dovrebbe essere compreso tra i 12 ed i 14 kg, ma in ogni caso non deve essere mai inferiore ai 10 kg. L’animale al momento della sua macellazione deve avere un’età minima di 9 mesi ed un peso medio di 160 kg ±10%.

I disciplinari inoltre, fanno anche un elenco con gli alimenti consentiti in animali fino agli 80 kg di peso vivo, ed in animali oltre gli 80 kg, ovvero quelli nella fase di ingrasso. In quest’ultima categoria è importante sottolineare che entrambi i disciplinari consentono un utilizzo di expeller di lino pari ad un massimo del 2% della sostanza secca della razione.

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9 Strategie di arricchimento in omega-3 della carne suina

9.1 LINO

Il lino è un alimento molto interessante sia per quanto riguarda l’alimentazione umana che per quella animale. È una coltivazione multi-funzionale, ma quello che la rende particolarmente interessante sono la composizione in acidi grassi polinsaturi e l’elevato contenuto lipidico totale del seme: 38-45% a seconda della varietà, della posizione e dell'ambiente (Oomah et al, 1997; Daun et al, 2003).

L’USDA, Ministero dell'agricoltura statunitense, fornisce i seguenti dati, su 100 grammi di semi di lino, 40 grammi sono rappresentati da lipidi.

Questi 40 g sono così divisi:

• 28.72 g di acidi grassi polinsaturi, Ac. linolenico (ALA) (C18:3 n-3), 22.81 g; Ac. linoleico (LA) (C18:2 n-6), 5.90 g;

• 7.53 g di acidi monoinsaturi, Ac. Oleico (C18:1 n-9), 7.36; • 3.67 g di acidi saturi.

Considerando quindi l’elevato apporto di acidi grassi essenziali che questi semi sono in grado di dare, il lino viene molto sfruttato nell’alimentazione umana sotto forma di olio.

Nell’alimentazione animale invece, viene utilizzato il panello di lino, ovvero il sottoprodotto ottenuto in seguito all’estrazione dell’olio dal seme, che comunque ha un’interessante percentuale lipidica residua, dall’1 al 22.5% (Bhatty e Cherdkiatgumchai, 1990), in funzione delle condizioni o tecniche impiegate durante l'estrazione dell’olio. Il processo di pressatura a freddo è meno accurato del processo di estrazione con solvente (impiegato solitamente), con conseguente maggiore contenuto residuo di olio nei panelli.

L’analisi chimica eseguita su 100 grammi di panello di lino ha dimostrato che 15 grammi sono rappresentati da lipidi residui. Di questi il 75.74% è rappresentato dai polinsaturi (Ac linolenico 59.34 % e Ac. linoleico 16.40 %), il 15.30 % sono monoinsaturi (quasi esclusivamente acido oleico) e solo una piccola percentuale, 8.93%, è rappresentata dai saturi. Ecco quindi che il panello di lino risulta essere un’ottima fonte di

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ALA. Numerosi studi infatti si sono concentrati sull’utilizzo di questo panello per arricchire in grassi omega-3 le carni degli animali.

Guillevic et al. (2009), così come altri autori (review of Wood et al., 2003; review of Raes et al., 2004; review of Kouba, 2006) hanno dimostrato che l’utilizzo del lino porta effettivamente ad un incremento del contenuto in PUFA n-3 sia nel muscolo che nel tessuto adiposo, ad eccezione del DHA. Tuttavia, altri autori come ad esempio Enser et al., (2000) hanno dimostrato anche un incremento in DHA.

9.2 Arricchimento in omega-3 a lunga catena.

Numerosi studi dimostrano l’importanza degli acidi grassi n-3 a lunga catena nella dieta umana. L’acido eicosapentaenoico (EPA, 20:5 n-3) e soprattutto l’acido docosaesaenoico (DHA, 22:6 n-3) contribuiscono al corretto sviluppo cerebrale (Burdge et al., 2002), alla normale funzione cardiaca (Mori et al., 1999) e a quella del sistema immunitario (Hussein et al., 2005).

Sia l’organismo umano che quello suino possono sintetizzare EPA e DHA a partire dall’ALA, ma questo avviene per quantità di ALA inferiori al 10% del totale (Hussein et al., 2005; Holub 2002). Ecco quindi che risulta importante assumere questi acidi grassi già preformati nell’alimento.

Visti gli scarsi risultati nell’arricchimento delle carni suine in DHA attraverso l’utilizzo di panello di lino, la ricerca si è concentrata nel trovare fonti alternative in PUFA n-3 che apportassero nella razione concentrazioni iniziali più elevate di questo acido grasso polinsaturo. Inizialmente si è lavorato con olio e carne di pesce (Irie-Sakimoto 1992). Si è visto però che aggiungendo concentrazioni di olio di pesce superiori all’1% nei mangimi si ha l’insorgenza di sapori sgradevoli; vi sono inoltre preoccupazioni riguardanti ai possibili contaminanti ambientali in sottoprodotti ittici non adeguatamente testati (Howe et al., 2002). Sono state fatte prove anche con fonti lipidiche alternative come il sego d'agnello, ma anche questo porta alla formazione di sapori anomali (Kristinsson et al., 2001).

L’alternativa oggi più accreditata sembra essere l’utilizzo di microalghe come supplemento di DHA. L’integrazione con le alghe marine del genere Schizochythrum sp. ha dimostrato di aumentare i livelli di EPA e DHA nelle carni senza incidere negativamente

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sulla produttività degli animali (Marriott et al., 2002; Sardi et al., 2006; Abril et al., 2003; Meadus et al., 2010).

Per quanto riguarda invece l'integrazione alimentare dei suini con altre fonti di alghe che possono essere coltivate in modo eterotrofico, soprattutto in condizioni di basso contenuto di sodio, si hanno ancora poche informazioni.

Recentemente, la microalga Aurantiochytrium limacinum è stata aggiunta alla razione in basse concentrazioni, 0,25% e 0,5%, e somministrata per l'intera fase di ingrasso (117-121 giorni). Il risultato ottenuto è stato un incremento di DHA sia nel

Longissumus lumborum che nel grasso dorsale (Moran et al., 2017a,b). Risultati positivi

sono stati riscontrati anche con concentrazioni più alte di Aurantiochytrium limacinum (Moran et al., 2018) o di Schizochytrium (Vossen et al., 2017; Sardi et al., 2006) somministrate per periodi più brevi.

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10 PARTE SPERIMENTALE

10.1 Scopo della tesi

Nella parte generale della tesi sono stati più volte ricordati gli effetti benefici che gli acidi grassi polinsaturi hanno nei confronti della salute dell’uomo; al contempo è stato anche sottolineato che il numero di alimenti in grado di apportare un quantitativo significativo di acidi grassi della serie omega 3. Per questi motivi la ricerca degli ultimi decenni si è concentrata su metodi efficaci per arricchire il contenuto di questi acidi grassi essenziali in uno degli alimenti più consumati al mondo, quale appunto la carne suina.

Quella suina è una specie monogastrica e pertanto la modifica della composizione in acidi grassi della carne a partire dall’alimentazione degli animali è, in teoria, piuttosto facile. In Italia, oltre il 60% della carne suina macellata è destinata alla trasformazione e, di questa, oltre il 50% è utilizzata per produzioni DOP. Come ricordato nella parte generale della tesi, il differenziale economico tra il prodotto (soprattutto la coscia) utilizzato per la DOP o meno è rilevante. I disciplinari di produzione dei prosciutti DOP riportano nel dettaglio l’elenco degli alimenti ammessi e formulano alcune precise indicazioni sulle caratteristiche delle cosce da utilizzare. Tra queste particolare attenzione è riservata al grasso, sia in termini di copertura adiposa della coscia, che in termini di composizione della componente lipidica insatura, temuta per l’effetto negativo che può avere sul punto di fusione del grasso stesso.

Scopo di questo progetto era quello di ottenere un arricchimento della carne suina con omega-3 conforme ai livelli richiesti dal Reg. UE 116/2010 del claim “fonte di omega 3”, ma nel rispetto delle norme e delle prescrizioni indicate dal disciplinare di produzione del Prosciutto di Parma DOP.

A tal fine sono stati utilizzati due approcci: il primo prevedeva l’utilizzo di alimenti a base di lino al fine di incrementare il contenuto di ALA; il secondo l’utilizzo di integratori a base di alghe per incrementare il contenuto di EPA e DHA.

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10.2 MATERIALI E METODI

10.2.1 Disegno sperimentale

Con questo esperimento si è voluto verificare la possibilità di arricchimento della carne in ALA mediante l’adozione di una razione supplementata con diversi livelli di panello di lino somministrata agli animali per gli ultimi 75 giorni della fase di finissaggio, secondo lo schema riportato di seguito

Schema dell’esperimento n. 1

Fase Periodo 1 Periodo 2

Lino (% sulla SS) giorni Lino (% sulla SS) giorni

0 - - - - 1 2 75 - - 2 3.5 68 5 7 3 3.5 65 5 10 4 3.5 30 5 45 5 3.5 25 5 50 6 3.5 7 5 68 7 5 7 3.5 68

Al fine di verificare se la traslocazione degli acidi grassi era selettiva per i diversi tessuti, sono stati analizzati, per ogni animale, 5 diverse regioni anatomiche: spalla, lardo, pancetta, gola e magro di coscia.

10.2.2 Analisi composizione degli acidi grassi

10.2.2.1 Estrazione della frazione lipidica

La frazione lipidica necessaria per la determinazione del profilo acidico è stata ottenuta con la metodica messa a punto da Folch e collaboratori (1957), alla quale sono state apportate alcune modifiche.

Due grammi e mezzo di carne di maiale proveniente dal taglio “magro di coscia” sono stati messi in provetta pyrex da 30 mL, a questi sono stati aggiunti 20 mL di una soluzione di cloroformio/metanolo (CHCl3:CH3COH) 2:1 (v/v). Il campione è stato quindi omogeneizzato con turbina (ultra-turrax) per almeno 1 minuto e posto ad incubare in bagnomaria a 40 °C per 2 ore, affinché si abbia una migliore efficienza di estrazione.

Dopo l’incubazione il campione è stato filtrato in una provetta da 30 mL per rimuovere la fase solida. Al campione sono stati aggiunti 5 ml di KCl 1M in soluzione

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acquosa e sono stati agitati vigorosamente. Dopodiché, i campioni sono stati centrifugati a 2000 rpm per 5 minuti.

A questo punto abbiamo ottenuto la formazione di due fasi. È stata prelevata la fase inferiore e messa in un pallone da rotavapor, precedentemente tarato e siglato. Il contenuto del pallone è stato quindi portato a secco e posto in essiccatore sottovuoto overnight e al riparo dalla luce. A questo punto il pallone contenente il campione è stato nuovamente pesato e sospeso in una miscela esano/isopropanolo 4:1 (v/v). I campioni così ottenuti sono stati trasferiti in provette vial ambrate e conservati a -20 °C fino al momento delle analisi successive.

10.2.2.2 Esterificazione degli acidi grassi

Il profilo degli acidi grassi dei trigliceridi è stato determinato mediante eterificazione base catalizzata, secondo la metodica descritta da Christie (1982). Per ogni frazione, sono stati pesati 15-20 mg in vial ambrate e portati a secco mediante flusso d’azoto. I campioni sono poi stati sistemati in essiccatore sottovuoto overnight e al riparo dalla luce. Successivamente, ad ogni campione sono stati aggiunti 0,5 ml di metilato sodico e 1 ml di una miscela di standard C9-C19 sciolti in esano (esteri metilici del C9:0 e C19:0 alla concentrazione di 1 mg/mL). Ogni vial è stata quindi agitata al vortex per almeno 1 minuto e lasciata poi a riposare per 20 minuti in attesa della formazione delle due fasi. Il surnatante è stato trasferito in provette eppendorf siglate. Infine, il campione contenuto nelle provette eppendorf è stato trasferito in vial da autocampionatore per l’analisi gas-cromatografica.

10.2.2.3 Analisi con gas cromatografia degli acidi grassi

I campioni sono stati analizzati mediante gas-cromatografia con le seguenti condizioni: 1 μL di esteri metilici sono stati iniettati in un gas-cromatografo GC2010 Shimadzu gas chromatograph (Shimadzu, Columbia, MD, USA) munito di FID e colonna capillare polare (Chrompack CP-Sil 88 Varian, Middelburg, Netherland, 100 m x 0.25 mm i.d.,film thickness 0.20 μm). Come carrier è stato utilizzato idrogeno con un flusso di 1mL/min. Il rapporto di split è stato 1:80. La programmata di analisi del gas-cromatografo

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è stata la seguente: la temperatura iniziale del forno era 60°C tenuta costante per 1 minuto; successivamente è aumentata a 173°C con un incremento di 2°C/min e tenuta costante per 30 minuti prima di aumentare a 185°C con un incremento di 1°C/min e tenuta costante per 5 min; successivamente la temperatura è aumentata a 220°C con un incremento di 3°C/min, rimanendo costante per 19 min.

La temperatura dell’iniettore è stata settata a 270°C mentre quella del detector a 300°C.

Gli esteri metilici degli acidi grassi (FAME) sono stati individuati confrontando il cromatogramma dei campioni con quello di una miscela di 37 FAME (Supelco, Bellefonte PA, USA).

Per l’identificazione dei PUFA è stata utilizzata una miscela costituita da isomeri non coniugati dell’acido linoleico, C20:5 cis-5,8,11,14,17, C22:6 cis-4,7,10,13,16,19 (Supelco, Bellefonte, PA, USA), C18:3 cis-6,9,12 e C18:3 cis- 9,12,15 (Matreya Inc., Pleasant Gap, PA, USA).

L’identificazione degli isomeri del C18:1 si è basata sull’utilizzo di una miscela commerciale (Supelco, Bellefonte PA, USA) e sul confronto con il profilo isomerico pubblicato in letteratura da Wolff e Corrine (1995).

Il calcolo delle quantità degli acidi grassi è stato effettuato confrontando le aree dei rispettivi picchi degli acidi grassi con quella degli standard interni (acido nonanoico e nonadecanoico) considerando unitario il fattore di risposta. La composizione degli acidi grassi è espressa in g/100g di lipidi e in mg/100 g di tal quale.

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