• Non ci sono risultati.

La disintermediazione dei corpi intermedi: il caso dei partiti italiani.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La disintermediazione dei corpi intermedi: il caso dei partiti italiani."

Copied!
123
0
0

Testo completo

(1)

Università degli studi di Pisa

Corso di Laurea Magistrale in Studi Internazionali

Classe LM-52

La Disintermediazione dei Corpi Intermedi: il Caso

dei Partiti Italiani.

Candidato: Relatore:

Tommaso Bertini Eugenio Pizzimenti

(2)

I

Indice

Introduzione ... II

Capitolo 1: Le organizzazioni partitiche ... 1

Capitolo 2: Democrazia interna, Leadership e Disintermediazione ... 40

Capitolo 3: La Disintermediazione nei Partiti Italiani ... 72

Conclusioni ... 97

Appendice ... 104

(3)

II

Introduzione

I partiti sono sempre stati considerati, a partire dalle prime organizzazioni nate nella seconda metà dell’Ottocento fino a quelle fondate in epoca contemporanea, tra i principali attori politici della vita democratica. Ai mutamenti sociali, economici e politici che si sono avvicendati nel corso della storia sono corrisposti mutamenti anche delle associazioni partitiche, sia dal punto di vista delle funzioni svolte che dal punto di vista delle strutture con cui essi hanno organizzato la propria attività. Diversi sono stati anche i metodi con cui i partiti sono stati studiati a livello accademico, producendo una letteratura vasta ed in continua evoluzione. Il presente lavoro affronta il tema della disintermediazione dei corpi intermedi, concetto che solo recentemente è entrato a far parte del lessico della letteratura sui partiti politici, al fine di spiegare i mutamenti che si sono manifestati nei partiti negli ultimi decenni. A tal proposito, la tesi si articola in tre capitoli, secondo la ripartizione di seguito illustrata.

Nel primo capitolo vengono rielaborate le principali teorie classiche facenti riferimento all'approccio organizzativo allo studio dei partiti. Vengono infatti analizzati: i rapporti tra i vari modelli organizzativi originari e il tipo di istituzionalizzazione; la membership e la partecipazione politica interna; il modo in cui l’ideologia ha influenzato le caratteristiche organizzative dei partiti, attraverso una analisi delle fratture sociali e delle famiglie ideologiche; la struttura del potere interno e i rapporti tra società civile, partiti e Stato. Vengono quindi descritti i vari modelli che sono stati rintracciati nel corso del tempo (partito di notabili, partito di massa, partito pigliatutto, partito professionale-elettorale, cartel party, business firm party).

Nel secondo capitolo vengono affrontate le teorie sull'intra-party democracy, ovvero quell’insieme di pratiche che i partiti hanno adottato per rendersi più internamente democratici nella selezione della leadership, dei candidati e nella definizione delle policies. Inoltre, vengono proposti anche i concetti di presidenzializzazione e personalizzazione della politica, che riguardano l'evoluzione della distribuzione di potere interna ai partiti a favore della leadership.

(4)

III Il capitolo si chiude introducendo il concetto di disintermediazione interna, che a livello generale viene utilizzato per descrivere il processo di rimozione degli intermediari da una catena produttiva, una transazione o, più in generale, qualunque tipo di relazione sociale, economica o politica. Applicato ai partiti politici, il fenomeno può essere invece definito come il processo di cambiamento nella rappresentanza politica verso forme di intermediazione più dirette.

Nel terzo capitolo tale concetto viene utilizzato per effettuare un'analisi empirica seguendo l'approccio multidimensionale proposto da Scarrow et. al. (2017): vengono infatti combinati gli elementi teorici alla base della teoria del cartel party, attraverso lo studio del livello di penetrazione statale dei partiti, e il livello di disintermediazione interna, attraverso l'analisi degli statuti di ciascun partito. Lo studio include otto partiti italiani (Partito Democratico della Sinistra, Democratici di Sinistra, Partito Popolare Italiano, Democrazia è Libertà - la Margherita, Partito Democratico, Forza Italia, Popolo Della Libertà e Lega Nord), i quali vengono analizzati in quattro diverse osservazioni su un arco temporale che va dagli anni Novanta fino ai giorni nostri.

Infine, nell’ultima parte del presente lavoro vengono fatte delle considerazioni sull’analisi svolta dal punto di vista dell’evoluzione dei singoli partiti.

(5)

1

Capitolo 1

Le organizzazioni partitiche

1.1 Definizioni, funzioni dei partiti politici e considerazioni preliminari.

I partiti politici costituiscono un fenomeno assai complesso e multiforme, pertanto lo studio di questi può essere affrontato in vari modi, a seconda di cosa si intende mettere in risalto. Secondo la ricostruzione di Krouwel (in Katz e Crotty, 2006, pp. 249-269), vi sono almeno tre dimensioni che possono cogliere l’essenza dei partiti: gli aspetti organizzativi; le caratteristiche sociologiche/elettorali; infine, gli elementi ideologici.

Nel presente capitolo si intende fare riferimento soprattutto alla prima dimensione, quella organizzativa, cercando di riassumere ciò che la letteratura ha potuto offrire sull’analisi dei fattori organizzativi più importanti dei partiti politici. Ciò detto, può essere utile fare menzione di alcune definizioni e di alcune delle funzioni che la letteratura ha affidato ai partiti politici, così da potere iniziare ad approcciarsi al fenomeno. A tal proposito, per poter comprendere la complessità dei partiti, può essere utile richiamare le «ambivalenze» individuate da Raniolo (2013, pp. 4-9):

Il fatto di essere tra la parte e il tutto1;  Tra conflitto e integrazione2;

Tra società e Stato3;

1 I partiti garantiscono il pluralismo svolgendo il ruolo di soggetti separati dal “tutto” (in quei casi

dove la parte ha coinciso con il tutto si è trattato di regimi monopartitici e totalitari). Allo stesso tempo, sono anche quei soggetti che contribuiscono al bene del tutto, scongiurando una deriva fazionistica, in cui le parti prevalgono sul tutto e rischiano di disgregare l’intero sistema politico (Raniolo, 2013, pp. 4-5).

2 Da un lato, i partiti integrano le persone, le coinvolgono nel sistema politico; dall’altro, i partiti si

servono delle identità collettive costruite e dei programmi elaborati al proprio interno per competere per «la conquista e la conservazione del potere» (Raniolo, 2013, p. 5), con il quale è possibile anche cambiare il sistema politico stesso.

3 In questo caso i partiti ricoprono il ruolo di «intermediari che stabiliscono il collegamento fra la

(6)

2  Infine, tra la rappresentanza e il governo4.

Tali dicotomie si richiamano a vicenda, non sono mutualmente esclusive, anche se giova distinguerle dal punto di vista concettuale.

Una delle prime definizioni di partito politico risale al 1770, ed è attribuita ad Edmund Burke, il quale considerava un partito come «un corpo di uomini uniti per la promozione, tramite il loro sforzo congiunto, dell’interesse nazionale, sulla base di qualche principio particolare su cui tutti loro concordano» (Burke [1770], White, in Katz e Crotty, 2006, p. 6).

Una delle definizioni più famose è senza dubbio quella di Weber ([1922] 1986, p. 282), per cui:

«Per partiti si debbono intendere le associazioni fondate su una adesione (formalmente)

libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza5 all’interno di un gruppo

sociale, e ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) - per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi».

Lo stesso Duverger, il quale non aveva «molta simpatia per le definizioni» (Duverger, in Sivini, 1979, p. 207), individua tre categorie intorno alle quali si snodano le varie definizioni. La prima, secondo l’ideologia, mette al centro la comunanza ideologica che spinge le persone ad unirsi in un partito; la seconda enfatizza la rappresentanza di classe, l’infrastruttura sociale, per cui il partito è «l’espressione politica della classe sociale, è l’organizzazione di una classe sociale per una lotta politica» (ibid., p.208); la terza categoria riguarda la struttura organica, mette in risalto l’aspetto organizzativo dei partiti, che quindi si differenziano tra di loro per la loro «struttura» interna e nelle tecniche di «inquadramento sociale» (ibid., p. 211).

essere ancorati in entrambi i campi, cioè nelle istituzioni statali (…), e nella società» (Poguntke, in Bardi, 2006, p. 106).

4 In quest’ottica i partiti sono coloro che rappresentano e trasmettono le domande

che vengono poste al sistema da parte della società (Pizzorno, 1980, p. 13), e allo stesso tempo sono i soggetti politici a cui viene data una delega per agire

all’interno di tale sistema «per giungere a governarlo» (ibid., p. 14).

5 Per potenza, Weber intende «la possibilità che un uomo o una pluralità di uomini possiede, di

imporre il proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi a questo agire» (Weber, in Della Porta, 2015, p. 14).

(7)

3 Un’altra definizione importante è quella proposta da Anthony Downs, ([1957] 1988, p. 56):

«Nel suo significato più ampio un partito politico è una coalizione di individui che cercano, attraverso mezzi legali, di controllare l’apparato governativo. Per coalizione, intendiamo un gruppo di individui che hanno alcuni obiettivi in comune e che cooperano fra loro al fine di realizzarli. Per

apparato governativo, intendiamo la strumentazione fisica, legale e istituzionale che il governo

utilizza per svolgere il suo ruolo specifico nella divisione del lavoro. Per mezzi legali intendiamo, o elezioni svolte regolarmente, o l’esercizio di una legittima influenza».

Questa definizione, oltre a ribadire il fatto che i partiti siano volti alla ricerca del potere e al controllo di quello che qui viene definito come “apparato governativo”, aggiunge un ulteriore elemento, ossia quello delle elezioni. Esse sono, infatti, alla base delle moderne democrazie rappresentative. Nello stesso solco, infine, si muove la definizione “minima” di Giovanni Sartori: «un partito è un qualsiasi gruppo politici identificato da un’etichetta ufficiale che si presenta alle elezioni, ed è capace di collocare attraverso le elezioni (libere o no) candidati alle cariche pubbliche6» (Sartori, [1976] 2005, p. 56).

Per quanto concerne le funzioni dei partiti, oltre a quelle già esposte, Raniolo afferma che i partiti siano organizzazioni «multi-goals» (Raniolo, 2013, p. 12), e distingue tre diversi territori dove i partiti elaborano delle strategie per conseguire i propri obiettivi:

1) Vote-seeking, che riguarda «l’affermazione nell’arena elettorale (ibid.). Si riferisce all’attività di organizzazione della partecipazione, sia dal punto di vista della domanda, strutturando il voto e collegando i cittadini alle istituzioni, sia dal punto di vista dell’offerta elettorale, fornendo liste e candidati da presentare agli elettori.

6 Traduzione in Raniolo (2013), pp. 11-12). Nel ricostruire la storia dei partiti, l’autore individua le

caratteristiche principali del partito: «1. I partiti non sono fazioni; 2. Un partito è parte-di- un- tutto; 3. I partiti sono canali di espressione» (Sartori, [1976] 2005, p. 22, traduzione in Raniolo, 2013, p. 4). La differenza tra fazione e partito è la seguente: la prima è mossa soprattutto da interessi egoistici, senza curarsi delle conseguenze sul resto della comunità; il secondo, per quanto non elimini l’egoismo e l’interesse particolare di alcuni suoi membri, svolge una funzione collettiva, nel senso che «sono una parte di un tutto volte a servire i fini del tutto, mentre la fazione è solo una parte di sé stessa» (Sartori, [1976] 2006, p. 22, traduzione mia).

(8)

4 2) Office-seeking, ovvero «l’assegnazione di cariche pubbliche» (ibid.). Riguarda il fatto che i partiti detengono il monopolio del «reclutamento della classe politica» (ibid., p. 18). Questo monopolio, che da tempo è criticato a livello di opinione pubblica e che risulta recentemente indebolito, ha costituito in realtà un forte contributo al processo di democratizzazione, in quanto precedentemente gli incarichi venivano distribuiti tra una ristretta cerchia di elites, e solo con l’avvento dei partiti essi divennero raggiungibili dal resto dei cittadini.

3) Policy-seeking, ossia «indirizzare le decisioni e le politiche pubbliche» (ibid., p. 12). Ha a che fare con la «formulazione e la realizzazione delle politiche pubbliche e, più in generale, il problem solving collettivo» (ibid., p. 18), in quanto i partiti sono organizzazioni che si occupano di raccogliere le diverse domande provenienti dalla società civile e convertirle in programmi a cui seguiranno, in caso di successo elettorale, delle decisioni vincolanti. In questo modo si rende possibile il controllo sui governanti da parte dei governati.

L’autore riprende, infine, altri due concetti, ossia le funzioni rappresentative, da un lato, e istituzionali/procedurali, dall’altro (ibid., p. 19). Le prime sono volte ad assicurare la «integrazione politica degli elettori e dei gruppi sociali» (ibid.), mentre le seconde riguardano il «funzionamento delle istituzioni, il coordinamento interno al Parlamento, al governo e ai loro reciproci rapporti, così come ai rapporti con le altri istituzioni che con essi interagiscono» (ibid.).

Non si intende addentrarsi troppo nelle questioni definitorie e, tanto meno, nei dilemmi su quali possano essere le “funzioni” dei partiti discusse dalla letteratura, pur essendo assai importanti. Questa scelta è dovuta al fatto che, da un lato, non esiste una definizione ed una lista di funzioni univoche ed universali, come dimostrato dal breve elenco qui esposto, e la ricostruzione di tutto il dibattito al riguardo meriterebbe una trattazione a parte; dall’altro lato, seguendo l’analisi di Panebianco (1982), in questa sede i partiti verranno considerati, in linea di principio, come «organizzazioni» di cui è impossibile determinare aprioristicamente le funzioni, ma che si distinguono da altre organizzazioni per «lo

(9)

5 specifico ambiente in cui svolgono una specifica attività» (Panebianco, 1982, p. 30). I partiti operano in vari ambienti, ma quello che non condividono con nessun altro tipo di organizzazione è l’arena elettorale, e l’attività ad essa connessa è la competizione per i voti (ibid.).

Sul piano dell’organizzazione la letteratura ha individuato, nel corso della storia, quattro principali modelli di partito: partito di quadri, partito di massa, partito pigliatutto e partito cartello. Se ne può aggiungere un quinto, il business-firm party, che verrà trattato nella parte finale del capitolo. Nelle pagine che seguono verranno analizzati alcuni dei più importanti aspetti dell’organizzazione partitica, verranno ricostruiti i modelli di partito alla luce di quanto analizzato. Nel fare ciò si riconosce il fatto che a fenomeni simili gli autori hanno dato denominazioni diverse (Krouwel, in Katz e Crotty, 2006, p. 250), motivo per cui saranno utilizzati, ad esempio, termini quali “partiti di notabili” e “partiti di quadri”, o “partiti di massa” e “partiti di integrazione”, come sinonimi. Infine, l’approccio adottato in questa sede è quello di non considerare ciascun modello come a sé stante e separato dagli altri, bensì di tenere ferma la natura dialettica del processo di sviluppo dei modelli di partito, così come esposta da Katz e Mair ([1995] in Bardi, 2006, pp. 33-58), secondo cui «ogni nuovo tipo di partito provoca una reazione che stimola ulteriori sviluppi, portando quindi ad un nuovo tipo di partito e ad un’altra serie di reazioni e così via» (ibid., p. 33).

1.2 Le origini e l’istituzionalizzazione dei partiti.

Uno degli elementi preliminari dello studio dei partiti è costituito da come un partito nasce e si sviluppa, in quanto è opinione diffusa che il modello originario influenzi lo sviluppo successivo del partito stesso. Una delle teorie più famose è quella di Duverger ([1951] 1971), il quale formulò nella sua opera una tipologia rimasta per tanti anni in uso nello studio politologico dei partiti. Questa tipologia ricostruisce l’origine partitica all’interno di due dimensioni principali: quella interna, nel senso di «origine elettorale e parlamentare» (ibid., p. 16), e quella esterna.

La prima categoria riguarda quei partiti che traggono la loro origine nella formazione di raggruppamenti parlamentari, ai quali è seguita la creazione di

(10)

6 comitati elettorali e, infine, nel momento in cui tra i due si instaura un legame stabile, l’istituzione del partito vero e proprio.

I fattori che hanno facilitato, in principio, la formazione dei gruppi parlamentari sono legati alla comunanza ideologica, alla vicinanza geografica dei membri e alla comunanza di interessi. Inoltre l’autore riporta, pur mettendola discussione (ibid., p. 18), la tesi secondo cui vi sarebbe un qualche effetto della corruzione parlamentare sul rafforzamento e la coesione dei gruppi. Più difficile, invece, appare ricostruire il processo di creazione dei comitati. In parte esso fu dovuto all’allargamento del suffragio, così da poter raccogliere i nuovi elettori, e in parte fu un sentimento di rivalsa nei confronti delle élites tradizionali a fronte di una sempre maggiore domanda di uguaglianza (ibid., p. 19). In quest’ottica, i comitati sarebbero serviti, soprattutto ai partiti socialisti, per far conoscere la nuova classe dirigente presso gli elettori. A seconda dei casi, i comitati si sarebbero formati per volontà di un individuo che raccoglie intorno a sé i propri seguaci, ovvero per la volontà di un gruppo di persone di sostenere la candidatura di un singolo. In altri casi, possono aver dato origine ai comitati una preesistente associazione o particolari circostanze (ibid., p. 21). Attraverso «una coordinazione permanente» (ibid., p. 22) dei comitati e dei «vincoli regolari» (ibid.) tra questi e i gruppi parlamentari, venne data origine ai partiti, con una gerarchia decisionale che vedeva alla sommità il gruppo, i singoli parlamentari e, infine, i comitati elettorali.

Per quanto riguarda la seconda categoria, essa si riferisce a quei partiti che hanno tratto origine dall’attività di una istituzione preesistente ed esterna all’arena parlamentare ed elettorale (ibid., p. 23). Tra le istituzioni elencate dall’autore si possono individuare i sindacati, le società di intellettuali, le Chiese e le sette religiose, come anche società segrete e clandestine, raggruppamenti industriali e commerciali. Nel momento in cui queste associazioni e istituzioni formano il partito, esso avrà delle caratteristiche diverse dal partito di origine interna. Questo tipo di partito nasce infatti per volontà della «base», contrapposta alla creazione dal «vertice» parlamentare che caratterizza i partiti di origine interna (ibid., p. 28). I partiti ad origine esterna saranno, inoltre, tendenzialmente più accentrati7 e più

7 Il livello di accentramento del partito subisce delle variazioni a seconda del livello di

(11)

7 disciplinati degli altri. L’influenza dei parlamentari sulle singole parti sarà quindi minore rispetto ai primi tipi di partiti. L’atteggiamento riguardante le elezioni differenzia ulteriormente le due tipologie di partito: per i partiti di origine interna, il successo elettorale è «l’essenziale della vita del partito, la sua ragione di essere, lo scopo supremo della sua esistenza» (ibid., p. 29); per i partiti di origine esterna, invece, le elezioni sono uno dei tanti mezzi per conseguire la «realizzazione dei suoi fini politici» (ibid.). Infine, l’autore individua anche una demarcazione temporale che divide le due categorie: fino alla fine dell’Ottocento, venivano creati internamente, mentre dagli inizi del Novecento il modello originario prevalente divenne quello esterno.

Questa tipologia, tuttavia, venne in seguito superata dalla letteratura successiva, come dimostrano l’opera di Panebianco (1982) e, più recentemente, quella di Raniolo (2013). Panebianco individua tre principali fattori che determinano il modello originario del partito: se lo sviluppo organizzativo è avvenuto per penetrazione8 o per diffusione9 territoriale o per una combinazione

delle due; la presenza o meno di una istituzione esterna sponsorizzatrice del partito10, con conseguenza sulla legittimità della leadership del partito, distinguendo tra «partiti di legittimazione interna e partiti di legittimazione esterna11» (ibid., p. 108). Infine, la natura del carisma della leadership gioca un ruolo sul modello originario, distinguendo tra un carisma puro e un carisma situazionale12.

8 Ossia quando «un “centro” controlla, stimola, dirige lo sviluppo della “periferia”, la costituzione

delle associazioni locali e intermedie del partito» (Panebianco, 1982, p. 106).

9 Per diffusione territoriale si intende quel processo secondo cui «lo sviluppo avviene per

“germinazione spontanea”: sono le élites locali, in un primo momento, a costruire le associazioni di partito e solo in seguiti queste associazioni vengono integrate in una organizzazione nazionale» (ibid.).

10 La quale, a seconda che sia nazionale o internazionale, condizionerà anche il livello di

istituzionalizzazione.

11 Se esiste una istituzione esterna, essa riceverà le lealtà organizzative dirette e, quindi, costituirà la

fonte di legittimazione principale della leadership di partito, garantendole un peso notevole sulla «competizione interna per il potere» (ibid., p. 108).

12 Si parla di carisma puro nel momento in cui il leader di un partito è indissolubile, in quanto

«ideatore e interprete indiscusso di un insieme di simboli politici» (ibid.), dal partito stesso. Sono quei partiti la cui esistenza è vincolata ai leaders fondatori (come il partito fascista, nazista e quello gollista), motivo per cui essi hanno la capacità e la possibilità di «plasmare a proprio piacimento e discrezione l’organizzazione» (ibid., p. 109). Il carisma situazionale, invece, è riferito a quei leader che, di fronte a situazioni di crisi, sono in grado di trascinare il partito fuori dalla crisi grazie alle proprie doti carismatiche. Questo significa in realtà che questi leader non siano in realtà in grado di imporre la propria linea, bensì di contrattarla efficaciemente. (ibid., pp. 109-110).

(12)

8 Nella misura in cui questi elementi si combinano alla creazione, da parte della leadership, delle cosiddette “mete ideologiche”, degli scopi organizzativi, della base sociale di riferimento (ibid., p. 110) e di quella che, in poche parole, viene definita l’identità collettiva, il partito attraversa una fase di trasformazione. Esso passa da una situazione in cui è un semplice «strumento per la realizzazione di certi obiettivi» (ibid., p. 111), ad una in cui il partito diventa un’istituzione stabile. E’ la fase, appunto, dell’istituzionalizzazione, in cui l’organizzazione «acquista valore in sé, gli scopi sono incorporati nell’organizzazione, diventano inseparabili e spesso indistinguibili da essa» (ibid.). Con l’istituzionalizzazione, uno degli scopi organizzativi diventa la sopravvivenza stessa del partito, e gli obiettivi prima fissati non vengono eliminati, ma «“articolati” […] alle esigenze organizzative» (ibid.)13.

Sono due, secondo l’autore, gli elementi che provocano l’istituzionalizzazione: da un lato, «lo sviluppo di interessi al mantenimento della organizzazione» (ibid., p. 112) e, dall’altro, «lo sviluppo di lealtà organizzative diffuse» (ibid.).

Tutti questi elementi, tuttavia, possono avere effetti diversi sul grado di istituzionalizzazione, che varierà da partito a partito. Sulla base della combinazione di due dimensioni, il livello di autonomia dall’ambiente esterno e il grado di sistemicità interna, legati da una correlazione diretta, l’autore differenzia i partiti secondo un continuum che vede agli estremi le organizzazioni a forte istituzionalizzazione e quelle a debole istituzionalizzazione. Per stabilire come il modello originario e il grado di istituzionalizzazione si combinano tra loro, l’autore costruisce la seguente tipologia:

13 Panebianco confutò la tesi di Michels secondo cui nel partito avverrebbe una “sostituzione dei

fini”: il partito, una volta consolidato, abbandona totalmente gli obiettivi che hanno motivato la creazione dell’organizzazione, sostituendoli con l’unico obiettivo della conservazione dell’organizzazione stessa, diventando anche più prudenti e conservatori sia nei toni che nelle azioni (Michels, in Sivini, 1979, p. 191). Per Panebianco, invece, avviene una articolazione dei fini, nel senso che gli elementi che hanno contribuito a forgiare le identità collettive del partito non vengono abbandonate, ma vengono solamente «“adattate” alle esigenze organizzative» (Panebianco, 1982, p. 48). Gli scopi ufficiali diventano sicuramente più «vaghi ed imprecisi» (ibid., p. 49) una volta avvenuta l’istituzionalizzazione, ma non per questo diventano solamente una facciata.

(13)

9

Modello Originario Istituzionalizzazione

Diffusione territoriale Penetrazione territoriale

Debole Forte Legittimazione interna

Legittimazione esterna nazionale Legittimazione esterna extranazionale

Forte Debole

Forte

Carisma Assente/Forte

Tabella 1.1 Modello originario e grado di istituzionalizzazione14.

Infine, Krouwel (in Katz e Crotty, 2006, pp. 249-269) costruisce un’altra tipologia alla base dell’origine dei partiti, la quale considera due dimensioni: da una parte, la vicinanza alle istituzioni statali ovvero alla società civile; dall’altra il fatto che la fondazione del partito sia il risultato di un’iniziativa individuale ovvero collettiva, e che da tali agenti vengano tratte le relative risorse. La combinazione delle due dimensioni colloca i vari modelli di partito nella seguente maniera:

Iniziativa e risorse individuali

Prossimità allo Stato

Iniziativa e risorse collettive Partiti d’élites Partiti Pigliatutto e Cartel Parties Business firm Parties Partiti di Massa

Prossimità alla società civile

Tabella 1.2 Origine dei partiti nella tipologia di Krouwel15.

Secondo questa ricostruzione, dal punto di vista dello sviluppo storico, si può notare come i partiti siano passati da un’origine istituzionale su base individuale tipica dei partiti ottocenteschi, che potevano contare su contributi individuali, a partiti espressione diretta della società civile che, con l’allargamento del suffragio, poteva contare su ampi contributi della base sociale. In seguito, le conquiste sociali

14 Riproduzione della tabella in Panebianco, 1982, p. 133, Fig. 5.

(14)

10 dei partiti di massa hanno contribuito a creare i partiti pigliatutto, nati dall’unione del partito nelle istituzioni e dei gruppi di interesse (ibid., p. 264), per poi slegarsi successivamente dai gruppi di interesse e unirsi sempre di più alle istituzioni statali, da cui trae tutte le risorse necessarie e che rendono il partito esterno meno rilevante, dando vita ai partiti cartello. Infine, come reazione alla costruzione di cartelli elettorali, dall’iniziativa individuale di imprenditori vengono creati dei nuovi partiti, utilizzando le stesse proprietà organizzative delle aziende, utilizzando risorse private per perseguire scopi politici (ibid.).

1.3 Membership e partecipazione.

Il concetto di “membro” di un partito non è univoco ed immediato. Ogni partito ha la sua concezione di quella che viene definita membership, e all’interno di uno stesso partito esistono varie tipologie di membri. Una delle definizioni è sicuramente quella di Heidar, secondo cui la membership di partito è «un’affiliazione organizzativa da parte di un individuo verso un partito politico, che assegna obblighi e privilegi a quell’individuo» (Heidar, in Katz e Crotty, 2006, p. 301, trad. mia).

A livello macroscopico, una delle possibili classificazioni sui tipi di membership viene offerta da Heidar (ibid., pp. 302-303) quando distingue tre tipi: individuale, ossia quando le singole persone si iscrivono al partito; ausiliare, quando il partito ha al suo interno dei sottogruppi, come ad esempio le associazioni giovanili di partito; infine, collettive, ossia quando l’adesione al partito avviene attraverso l’iscrizione a qualche altro tipo di organizzazione, come i sindacati.

1.3.1 Ferrea legge delle oligarchie, teoria degli incentivi e tipi di iscritti.

Prima di addentrarsi nell’analisi dei membri, occorre studiare quali siano i motivi per cui si aderisce ad un partito. Tra gli approcci maggiormente affrontati dalla letteratura spicca la teoria degli incentivi, secondo cui alla partecipazione degli individui corrisponderebbe un “ritorno” da parte del partito stesso, espresso sotto forma di incentivi. Dal momento che un partito non è solo un’associazione motivata

(15)

11 da interessi razionali, ma anche una comunità di valori16, diversi saranno anche i tipi di incentivi che esso distribuirà ai membri. Tuttavia, non è possibile comprendere la teoria degli incentivi se non viene fatto un passo indietro, ossia analizzare la distribuzione del potere nei partiti.

Una delle prime analisi della questione è fornita dalla «ferrea legge delle oligarchie», elaborata da Michels (in Sivini, 1979, pp. 175-194). Secondo questa legge, riassunta nella frase «chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia» (ibid., p. 178), i partiti, in origine organizzazioni democratiche, orizzontali ed egualitarie, crescendo avevano l’esigenza di costruire una maggiore differenziazione e specializzazione politica. La divisione del lavoro e la burocratizzazione all’interno del partito erano, secondo l’autore, due conseguenze inevitabili, che causarono la graduale perdita di rilevanza dei membri, i quali si trovarono costretti a delegare in misura crescente una porzione sempre maggiore di competenze, con un potere di controllo sui rappresentanti sempre minore. Per necessità tattiche, i partiti si dotarono anche di un «un corpo direttivo di professione» (ibid., p. 180) il quale, da semplice servitore della base, diventò indispensabile per il partito. Questo fu dovuto principalmente al fatto che i dirigenti, una volta al potere, acquisirono delle competenze, sia a livello interno che nell’arena parlamentare, ed una superiorità intellettuale che li rendese inamovibili. Per questo formarono un gruppo chiuso, un’oligarchia sempre più orientata al mantenimento del potere e che sceglieva da sola i propri successori (ibid., p. 188), eliminando qualunque principio democratico all’interno del partito, se non a scopo propagandistico e a livello di facciata. Di fatto, si ribaltava il rapporto tra membri e capi di partito: se all’inizio erano i primi a governare sui secondi, successivamente avvenne il contrario, e il partito assunse sempre più le sembianze di «una potente oligarchia su piede democratico» (ibid., p. 189).

Secondo questa teoria, quindi, il potere risiede unicamente nelle mani dei leader, anche se però non spiega cosa spinge i membri ad aderire al partito. Panebianco (1982) in parte confutò questa impostazione, poiché secondo lui il potere viene definito nei termini di scambio ineguale, nel senso di «relazionale, asimmetrico ma reciproco» (ibid., p. 60) in quanto entrambe le parti, dirigenti e

(16)

12 membri, ottengono qualcosa, anche se non in egual misura. La natura ineguale dello scambio deriva dal fatto che i dirigenti, distribuendo incentivi in cambio di partecipazione, ottengono maggiore libertà di azione rispetto agli altri membri dell’organizzazione.

L’autore riportò due macro categorie di incentivi organizzativi: gli incentivi collettivi e quelli selettivi. La differenza sta nel fatto che nei primi sono quei benefici distribuiti a tutti i membri in parti uguali, mentre i secondo sono benefici distribuiti «ad alcuni dei partecipanti e in modo ineguale» (ibid., p. 36); i primi contengono al proprio interno incentivi legati all’identità organizzativa, alla solidarietà tra i membri e di tipo ideologico; i secondi sono incentivi di tipo monetario, di patronato e di status17. Riguardo a questi incentivi, l’autore chiarisce che i partiti, per sopravvivere, devono distribuire tutti queste tipologie di incentivi, e che il grado di distribuzione di ciascun incentivo varia tra partito e partito e, infine, che i membri stessi ricevono una combinazione di incentivi sia collettivi che selettivi, anche se con gradi diversi (ibid., pp. 63-64).

Per capire però a chi vadano di preciso questi incentivi occorre analizzare la «struttura della partecipazione interna» (Raniolo, 2013, p. 36).

Duverger, immaginando come dei cerchi concentrici che si stringono verso il partito, distinse tra elettori, simpatizzanti, aderenti e militanti di un partito18:

1) Gli elettori rappresentavano il cerchio più esterno, ossia l’insieme dei cittadini che votano per quel partito.

2) I simpatizzanti erano più difficili da individuare rispetto agli elettori. Il simpatizzante era «più di un elettore e meno di un aderente. Come l’elettore, dà il suo voto al partito: ma non si limita a questo. Manifesta il suo accordo al partito; confessa la propria preferenza politica» (Duverger,

17 La letteratura successiva in realtà riorganizza ed amplia l’elenco. Raniolo (2013, pp. 33-34)

individua quattro categorie: gli incentivi individuali (che corrispondono agli incentivi selettivi sopra riportati); gli incentivi identitari; incentivi legati al fine; infine, gli incentivi di processo. L’ultima categoria riguarda l’espansione delle aree di partecipazione degli iscritti, fino a comprendere quelle procedure che vengono comunemente riassunte con l’espressione intra- party democracy. Essa riguarda tutte quelle pratiche che includono, ad esempio, la selezione dei candidati, che sarà oggetto del prossimo capitolo.

18 Seguendo lo stesso principio dei cerchi concentrici, Crouch (in Raniolo, 2013, pp. 37-38),

costruisce un’altra tipologia integrando la precedente con alcune figure: 1) Dirigenti e consiglieri; 2) Rappresentanti parlamentari; 3) Militanti; 4) Iscritti comuni; 5) Sostenitori.

(17)

13 [1951] 1971, p. 147). Il simpatizzante, quindi, era quella persona che sosteneva abitualmente il partito ma senza aderirvi formalmente.

3) Gli aderenti, nei partiti di massa, corrispondevano agli iscritti. Erano coloro che non solo sostenevano il partito e lo votavano regolarmente, ma vi aderivano formalmente. Nei partiti di massa questa adesione formale consisteva nel firmare una scheda di iscrizione e nel pagare una quota regolare19. Nei partiti di quadri di fatto non esistevano aderenti, in quanto «se per aderente si intende colui che sottoscrive un impegno nei confronti del partito e versa regolarmente le quote, i partiti di quadri non hanno aderenti» (ibid., p. 107). Questo perché, come già detto, i partiti fondati sul comitato, non cercavano di ampliarsi: erano un gruppo chiuso.

4) I Militanti costituivano il cuore pulsante del partito. A differenza degli iscritti, che si limitavano ad aderirvi e a versare quote regolare, i militanti lavoravano per il partito: «assistono regolarmente alle riunioni, partecipano alla diffusione di parole d’ordine, contribuiscono all’organizzazione della propaganda, preparano le campagne elettorali» (ibid., p. 156). Non erano paragonabili ai dirigenti, poiché non decidevano direttamente, ma si attivavano costantemente per il partito.

Riferendosi a questa tipologia, Panebianco concentra l’attenzione sui militanti, poiché su di loro ricade maggiormente il peso dello scambio sopra menzionato tra incentivi e partecipazione. Tra i militanti, dunque, vi sono quelli più orientati a scambiare la propria partecipazione con incentivi selettivi, definiti carrieristi, e coloro che condizionano la propria partecipazione al ricevimento di incentivi collettivi, definiti credenti (Panebianco, 1982, p. 67)20. Se questa distinzione è più analitica che pratica, essa è importante poiché descrive tendenze

19 L’autore distingueva tra una adesione aperta e una regolata. La prima «non impone alcuna

condizione o formalità oltre la firma del modulo di adesione (e il versamento di una quota): l’iscrizione al partito è quindi libera» (Duverger, [1951] 1971, p. 115). La seconda pone dei filtri alle adesioni, e avvengono diversi passaggi prima che la richiesta di adesione sia accolta e il richiedente entri effettivamente a far parte della comunità partitica.

20 I credenti sono più numerosi all’interno del partito, motivo per cui le mete ideologiche devono

essere costantemente curate e ricordate dalle élite. Questo rafforza la tesi dell’autore secondo cui, anche se con l’istituzionalizzazione, gli scopi organizzativi vengono articolati e non sostituiti, come sosteneva Michels.

(18)

14 diverse all’interno del partito: i credenti sono affiliati al partito poiché credono nella causa portata avanti da esso, i carrieristi aspirano a diventare i futuri dirigenti (ibid., p. 73). Il potere dunque non è totalmente dalla parte dei dirigenti, come sostenuto da Michels, ma ciò che la teoria degli incentivi dimostra è che esiste comunque una necessità, da parte dell’organizzazione, di costruire una un sistema gerarchico. Esso produrrà delle disuguaglianze all’interno del partito, poiché i piani alti saranno meglio ricompensati in termini materiali e di status, a costo di una «svalutazione dei livelli inferiori» (ibid., p. 70). Le élites devono mantenere un equilibrio tra i due aspetti, le lealtà organizzative (legate agli incentivi collettivi) e le necessità organizzative (legate al sistema gerarchico degli incentivi selettivi), cercando di ottenere dallo scambio un adeguato grado di partecipazione e, allo stesso tempo, un «margine di manovra il più possibile ampio» (ibid., p. 75). Questo avviene quando le élites sono in grado di fornire incentivi che gli aderenti non possono trovare altrove, ossia tenendo basso il «grado di sostituibilità degli incentivi organizzativi» (ibid.).

1.3.2 Qualità della partecipazione e numero degli iscritti.

Il partito di notabili, come già menzionato, non aveva iscritti in senso stretto, e la debolezza numerica veniva compensata con la tipologia di aderenti: le persone che ne fanno parte, infatti, sono notabili, ossia «persone influenti»21 (Duverger, 1979, p. 213), scelti proprio in quanto capaci di sfruttare il proprio prestigio sociale e la propria personalità. La situazione cambiò con i partiti di massa, poiché il suffragio universale, con il conseguente ingresso delle masse nella vita politica, aveva creato due problemi che resero necessaria una nuova tipologia di organizzazione. Da un lato, occorreva «inquadrare le masse […] dar loro una formazione politica e […] trarre dal loro seno delle élites popolari» (Duverger [1951] 1971, p. 62). Dall’altro,

21 Weber definisce i notabili come «quelle persone che:

1) sono in grado, in virtù della loro condizione economica, di agire continuativamente all’interno di un gruppo, dirigendolo o amministrandolo- come professione secondaria- senza uno stipendio oppure con uno stipendio onorario o nominale;

2) e godono di una considerazione sociale, fondata non importa su quale base, che dà loro la possibilità di accettare uffici - in una democrazia diretta dapprima volontariamente, in base alla fiducia dei consociati, e poi per tradizione» (Weber [1922] 1986, vol I, p. 287).

(19)

15 vi era un problema economico, in quanto occorreva raccogliere finanziamenti per poter presentare i propri candidati alle elezioni e tenere in vita il partito, e dato che non si poteva fare affidamento sui proventi dei notabili, poiché la clientela era costituita da operai, venne inventato il sistema delle quote: «chiedere a molte persone di dare poco, ma regolarmente» (Duverger, 1979, p. 215). Questi sono i motivi per cui la linfa vitale dei partiti di massa era data proprio dall’ampia base di iscritti.

Tuttavia, nel secondo dopoguerra il valore attribuito agli iscritti di base andò gradualmente a calare, tanto è vero che Kirchheimer, nell’elencare le caratteristiche del partito pigliatutto, evidenzia due aspetti fondamentali: il «rafforzamento di gruppi dirigenti di vertice» (Kirchheimer [1966], in Sivini, 1979, p. 257) e «una diminuzione del ruolo del singolo membro di partito» (ibid.). Con lo sviluppo di moderni mezzi di comunicazione di massa come la televisione, i dirigenti divennero “la faccia” del partito pigliatutto, motivo per cui ottengono molta più visibilità ed attenzione. D’altro canto, non si chiedeva più lo stesso livello di partecipazione da parte dei cittadini e degli aderenti, il cui rapporto con la politica diventò sempre più «occasionale e discontinuo» (ibid., p. 259). Il risultato fu che la partecipazione si esplicava essenzialmente nella «selezione dei dirigenti» (ibid., p. 264), anche se la fonte di legittimità del leader risiedeva in un pubblico più vasto, ossia quello degli elettori. Nell’analisi del partito professionale-elettorale postulato da Panebianco (1982), che costituisce una variante del partito pigliatutto di Kirchheimer, l’accento venne posto anche sul processo di «professionalizzazione» che caratterizzò i nuovi partiti, ossia il progressivo aumento di peso e di rilevanza dei professionisti «di staff»22, a scapito delle tradizionali burocrazie di partito (ibid., p. 430).

Infine Katz e Mair ([1995] in Bardi, 2006), hanno evidenziato come nell’era dei partiti cartello vi è un generale «declino dei livelli di partecipazione e di coinvolgimento nell’attività di partito» (ibid., p. 45), se non a livello locale, arena più vicina ai cittadini. Al di là dei livelli di partecipazione, i teorici del cartel party hanno riscontrato, anche laddove gli iscritti possano avere più diritti che in passato, una generale posizione «meno privilegiata» (ibid., p. 52). Da un lato «la distinzione

22 Il termine serve ad indicare la differenza tra il professionista della politica in senso weberiano,

ossia il burocrate, colui che vive “di” politica (Weber [1917], 1977, p. 57), e «lo specialista, il tecnico» (Panebianco, 1982, p. 433) che mette le proprie competenze a disposizione del partito.

(20)

16 fra iscritti e non iscritti non è più tanto chiara, visto che i partiti invitano tutti i loro sostenitori, formalmente iscritti o meno, a partecipare alle attività e alle decisioni del partito» (ibid., p. 53); dall’altro si nota una «concezione atomistica della base» (ibid.) nel senso che esercitano i propri diritti direttamente, senza delegati, affiliandosi direttamente al partito nazionale, non locale, fornendo alla leadership una forza e una legittimità senza precedenti.

In ogni caso, la letteratura ha colto il “paradosso” tra il calo dei livelli di partecipazione ed iscrizione ai partiti e l’aumento dei poteri che i nuovi iscritti hanno all’interno del partito. Il calo delle iscrizioni, nell’analisi di Whiteley (2011), è dovuto principalmente alla vicinanza dei partiti allo stato, che con il finanziamento e la relativa legislazione [regulation] disincentiva i partiti a raccogliere e mantenere adesioni volontarie23 (ibid., p. 32). Tuttavia, i due elementi sono stati messi anche in una relazione causale, nel senso che i partiti possono aver allargato lo spettro dei poteri degli aderenti come risposta al calo delle iscrizioni e della disaffezione verso i partiti (Scarrow e Gezgor, 2010, p. 826), anche se questo non ha di per sé cambiato la conformazione della membership24 (ibid, p. 840).

1.4 Ideologia, fratture sociali e famiglie ideologiche

Fino ad ora l’ideologia è stata trattata nei termini di un fattore interno, con la funzione di mobilitare gli aderenti e di fornire le basi per definire gli scopi ufficiali dell’organizzazione. E’ inoltre ciò che lega gli affiliati al partito e che li rende una comunità di valori. Ciò che però occorre analizzare è come il fattore ideologico ha influenzato le differenze tra i vari partiti. I partiti possono essere classificati secondo

23 Il finanziamento ai partiti, come anche la relazione che lega i partiti allo stato, verrà analizzato nel

dettaglio più avanti nel relativo paragrafo. Ciò che qui interessa comprendere è che il finanziamento statale ai partiti, dovuto ad una relazione più forte tra partiti e stato, ha reso meno importante, se non addirittura irrilevante, il contributo finanziario degli attivisti di base, motivo per cui i partiti sono meno intenzionati a reclutarli e a mantenerli. Inoltre, Whiteley sostiene che il numero crescente di regolamenti, scaturiti dal finanziamento statale, ha ridotto gli incentivi a partecipare attivamente alla politica (Whiteley, 2011, p. 32).

24 Lo studio suggerisce che in termini di livelli di istruzione, fasce di reddito, affiliazioni religiose e

di appartenenze a sindacati, gli iscritti ai partiti rispecchino in larga parte la popolazione. Le uniche variabili che divergono sono quella dell’età, dove la disparità tra membri di partito e cittadini è in aumento (Scarrow e Gezgor, 2010, p. 840) e quella di genere, tema che verrà affrontato più da vicino nel prossimo capitolo. Questo nega l’ipotesi che il calo delle iscrizioni e l’aumento dei poteri degli iscritti abbia attratto persone con convinzioni politiche più radicali e polarizzate che in passato (ibid.).

(21)

17 diversi criteri, ed uno di questi è li differenzia a seconda della base sociale e dell’ideologia che ne ha ispirato la creazione. In questo paragrafo verranno descritti i due principali approcci che hanno studiato questo fenomeno.

Il primo è quello delle fratture sociali (in inglese cleavages), elaborato da Stein Rokkan (in Della Porta, 2015, pp. 41-47). Secondo questa teoria, le fratture che hanno dato origine ai vari partiti si sono sviluppate in due momenti storici precisi: da un lato, il «processo di costruzione dello stato nazione» (ibid., p. 42); dall’altro, il «processo di costruzione del capitalismo industriale» (ibid.).

Da questi due fattori originari deriverebbero quattro fratture sociali, le quali hanno a loro volta dato origine a delle tipologie di partiti, che sulla base della loro conformazione, portavano avanti determinate battaglie sociali, secondo lo schema riportato:

Origini Frattura Tipo di Partiti

Oggetto di conflitto

Rivoluzione nazionale Centro/periferia

Stato/Chiesa

Regionalisti Religiosi e liberali

Lingua Istruzione

Rivoluzione industriale Città/campagna

Capitale/lavoro Contadini Conservatori Comunisti/socialisti Barriere doganali Stato sociale

Tabella 1.3 Fratture sociali25.

Ciascuna frattura ha delle caratteristiche particolari, che verranno di seguito descritte:

1) Frattura Centro-Periferia (ibid., pp. 42-44). La prima frattura prende in considerazione i rapporti di tipo culturale, economico e politico tra un “centro”, ossia il luogo dove vengono prese le decisioni politiche, un luogo strategicamente rilevante dal punto di vista economico e dal quale provengono i principali valori culturali, e una “periferia”. Essa è

(22)

18 specularmente opposta al centro, in quanto essa dipende economicamente dalle risorse provenienti dal centro, non è politicamente autonoma, spesso subisce le decisioni prese altrove, e la cultura che esprime è limitata ad una regione periferica e marginale. Non sempre da questo rapporto nasce un conflitto politico ma, laddove viene politicizzato, investe soprattutto questioni culturali, basati sulla preservazione dell’identità e, eventualmente, della lingua locale. Da questo genere di frattura i partiti etnoregionalisti, orientati alla rappresentanza di «gruppi territoriali etnici e/o regionalmente concentrati, […] rivendicando un (variabile) livello di autogoverno» (ibid., p. 44).

2) Frattura Stato-Chiesa (ibid., pp. 44-45). Lo Stato-Nazione, nel suo processo di sviluppo, ha invaso degli spazi che, in precedenza, erano di competenza della Chiesa. Molte di queste sfere investivano questioni morali e le norme comunitarie, ma l’elemento di maggiore scontro fu sul terreno dell’istruzione. Se un tempo l’educazione dei bambini era affidata alle confessioni religiose, con l’avvento dello Stato Nazione, e il conseguente secolarismo, si è creata una frattura tra laici e religiosi, che talvolta si è espressa in formazioni politiche e associazioni, come ad esempio partiti di ispirazione cristiana.

3) Frattura Città-Campagna (ibid., pp. 45-46). La rivoluzione industriale ha l’effetto di spostare il baricentro decisionale nelle città, con la conseguenza che gli interessi tra queste e il «mondo agricolo» divergevano su numerosi aspetti, primi fra tutti la politica doganale e «i prezzi dei prodotti agricoli» (ibid., p. 45). Non sempre questo genere di frattura ha dato vita a specifiche formazioni politiche, quanto piuttosto essere incorporata in un insieme più ampio di battaglie politiche (ibid., p.46).

4) Frattura Capitale-Lavoro (ibid., pp. 46-47). E’ la frattura più comune nel panorama dei paesi europei. Nasce a causa delle tensioni e le disuguaglianze scatenate dalla rivoluzione industriale tra imprenditori e operai. Lungo questa frattura si divide l’asse destra-sinistra, dove il primo esprime gli interessi degli imprenditori, che volevano un intervento statale ed un regime fiscale limitato, mentre il secondo esprime gli interessi dei lavoratori

(23)

19 salariati, volti ad un maggiore interventismo statale e ad una tassazione maggiore ed equa per garantire servizi di assistenza sociale e lavorativa. Le rivendicazioni della classe operaia sono state espresse dai partiti socialisti nati a cavallo tra ottocento e novecento, come anche dai sindacati. Pur essendo stato un fenomeno comune alla maggior parte dei paesi europei, il modo in cui questa frattura si è articolata varia da paese a paese: si passa da paesi in cui lo scontro è stato meno radicale, come in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi, a paesi dove le fratture erano più profonde, come Germania, Francia e Italia (ibid., p. 47).

Nello stesso solco si muove il concetto delle «famiglie spirituali», formulato per la prima volta nel 1985 da Klaus Von Beyme, secondo cui i partiti possono essere raggruppati anche secondo delle visioni del mondo comuni. Su queste basi è possibile quindi elencare le seguenti famiglie, includendone anche alcune individuate a partire dagli anni Novanta (in Della Porta, 2015, pp. 48-51):

Partiti liberali e radicali. Espressione della borghesia ottocentesca contro i proprietari terrieri, favorevoli all’estensione dei diritti civili e politici.

Partiti conservatori. Nati per difendere gli interessi dei proprietari terrieri, in epoche più recenti hanno adottato parte delle dottrine liberali legate alle limitazioni all’interventismo statale.

Partiti socialisti e socialdemocratici. A cavallo tra Ottocento e Novecento, questi partiti erano espressione della classe operaia, spesso in collaborazione con i relativi sindacati. Oltre a predicare l’estensione dei diritti civili e politici, lottavano per l’estensione anche dei diritti sociali delle classi lavoratrici.

Partiti democristiani. Anch’essi di epoca ottocentesca, inizialmente esprimevano il dissenso verso le neonate democrazie liberali. Successivamente si dettero in alcuni casi un’organizzazione di massa, pur non essendo legati ad una classa specifica.

Partiti comunisti. Nati all’indomani della rivoluzione russa, erano costituiti quelle frange dei partiti socialisti che avevano sposato le dottrine del comunismo sovietico.

(24)

20 Partiti agrari. Durante la rivoluzione industriale, nacquero per fare «gli interessi delle campagne» (ibid., p. 49).

Partiti etnoregionalisti. Come già visto, sono partiti creati con lo scopo di difendere le tradizioni e la lingua delle comunità locali.

Partiti della destra radicale. Categoria che comprende una galassia di partiti che vanno da quelli fascisti ai più recenti partiti populisti e xenofobi. Condividono atteggiamenti antidemocratici e contrari ai fenomeni migratori

Partiti ecologisti. A partire dagli anni Ottanta, questi partiti si sono occupati soprattutto di difendere l’ambiente, contro uno sfruttamento delle risorse naturali tale da produrre alti livelli di inquinamento globale e a favore di un’economia eco sostenibile, abbracciando temi cari alla sinistra radicale, e per questo definiti spesso «partiti della sinistra libertaria» (ibid., p. 50).

Partiti populisti di destra. Nati in seguito allo sviluppo della globalizzazione, sono partiti dotati di un’organizzazione incentrata spesso su un «alto livello di concentrazione delle decisioni e personalizzazione del leader» (ibid., p. 51), e che abbraccia temi legati al nazionalismo e alla xenofobia, uniti ad appelli anti establishment26.

Partiti della sinistra radicale. Sono quei partiti che, dopo la fine del comunismo sovietico, hanno subito una trasformazione. Pur accettando le regole della democrazia rappresentativa, sono partiti in forte contrasto con le politiche neoliberiste degli ultimi decenni.

Una volta esposte queste classificazioni, la letteratura ha dimostrato come le fratture prima esposte siano rimaste «congelate» o «ingessate», in quanto per lungo tempo i partiti hanno costruito delle strutture intorno a quei conflitti sociali, che hanno consentito di mantenere stabile il sistema fino alla fine degli anni Ottanta, anche da un punto di vista di scarsa volatilità elettorale (ibid., p. 52). La situazione cambiò con il processo di globalizzazione, il quale ha dato avvio a nuove fratture, e con esse nuove tipologie di partiti, minando la stabilità precedente (ibid., p. 54).

26 Panebianco (1982) ipotizzava che la frattura destra/sinistra potesse essere sostituita dalla frattura

establishment/anti establishment, che «separa le classi dirigenti […] da gruppi consistenti di cittadini» (ibid., p 495), senza però approfondirne troppo l’analisi. Il concetto è stato tuttavia ripreso da Katz e Mair ([1995] in Bardi, 2006), anche se non in termini di frattura, ma inserendola in quelli che costituiscono le sfide al sistema dei partiti cartello, ossia una mobilitazione elettorale sulla base di una volontà di rottura «con la politica tradizionale» (ibid., p. 56).

(25)

21 Per concludere il ragionamento sull’ideologia, tornando alla dimensione organizzativa, occorre notare come nel corso del tempo sia mutato il ricorso all’ideologia nei partiti politici. I partiti burocratici di massa avevano un forte carico ideologico, che serviva da collante per integrare e incapsulare le persone in una comunità di valori legata a precisi interessi di classe. Questi interessi venivano espressi tramite programmi, elaborati in maniera coerente ed organica (Katz e Mair [1995], in Bardi, 2006, p. 34), e riguardavano ampie riforme globali (ibid., p. 49). Il coinvolgimento popolare era massimo in questi partiti. I partiti pigliatutto, invece, per quanto continuavano ad avere una classe gardée, ad essa veniva data meno importanza, e si sentiva meno la necessità di incapsulare le persone, allentando i legami ideologici. L’obiettivo per questi partiti era di ampliare il proprio elettorato anche oltre la propria base sociale, motivo per cui i programmi divennero più generici e l’ideologia di partito venne lasciata sullo sfondo (Kirchheimer [1966], in Sivini, 1979, p. 254), abbandonando le riforme di sistema per dedicarsi a questioni più concrete e circoscritte di miglioramento delle condizioni sociali (Katz e Mair [1995], in Bardi, 2006, p. 49). Il passo successivo avvenne con i partiti cartello, in cui la politica veniva vista come una professione al pari di un ruolo manageriale, motivo per cui l’unico elemento di competizione è «sulla base di rivendicazioni concorrenti sull’efficienza e l’efficacia delle rispettive gestioni» (ibid.). All’ultimo stadio vi sono i business firm parties, che si occupano di singole questioni e non di programmi coerenti, che puntano maggiormente sulle qualità e competenze del leader per attrarre voti (Krouwel, in Katz e Crotty, 2006, p. 266).

1.5 Struttura del potere interno. 1.5.1 Gli elementi di base.

Il modo in cui i partiti impostano l’organizzazione territoriale è oggetto di numerose teorie. Duverger ([1951] 1971) fu uno dei primi a fornire una ricostruzione di quelli che definisce gli «elementi di base», ossia le unità di misura su cui si reggevano le intere organizzazioni partitiche. L’autore distingue quattro elementi, ossia il comitato, la sezione, la cellula e la milizia.

(26)

22 Il Comitato. Tipico dei partiti borghesi a cavallo tra Ottocento e Novecento. Si caratterizzava per essere composto da un gruppo ristretto di membri, ed è tendenzialmente un gruppo chiuso, in quanto non cerca di ampliarsi e «vi si accede per tacita cooptazione o per formale designazione» (ibid., p. 54). Il comitato era riferito ad un’ampia porzione di territorio, generalmente una circoscrizione elettorale. L’attività non era costante nel tempo e le riunioni avvenivano a cadenza irregolare: si passava da un’attività particolarmente intensa durante il periodo delle elezioni, per poi quasi scomparire tra un’elezione e l’altra. Si caratterizzava quindi per essere un elemento «a carattere semi-permanente» (Duverger, [1951], 1971, p. 58). Al suo interno, il comitato non esigeva un’organizzazione particolarmente sofisticata, proprio perché non doveva gestire ampi numeri. Il comitato costituiva l’essenza del partito, in quanto «in esso stesso [stava] l’essenziale» (Duverger, 1979, p. 214).

La Sezione. All’inizio del Novecento, i partiti socialisti avevano ideato questa realtà più decentrata e meno autonoma rispetto al comitato. L’area geografica di riferimento era più ristretta di quella del comitato, spesso a livello di comune o circondario. La sezione era un organo permanente, in quanto le attività rimaneva intensa anche nel periodo tra le elezioni, e si riuniva con cadenza regolare (una o due volta al mese). La sezione si caratterizzava per essere composta da un gruppo di aderenti assai numeroso, e tenta continuamente di espandersi. Pur avendo dei criteri di adesione, la sezione non si rivolgeva ai soli notabili, bensì alle masse, e si caratterizzava per la massima apertura. Proprio per il fatto di dovere gestire ampi numeri di persone, l’organizzazione interna era assai strutturata, con divisione dei compiti e delle responsabilità molto precisa.

La Cellula. Invenzione dei partiti comunisti, era un gruppo di persone assai ristretto (dalle trenta alle cinquanta persone). Si distingueva dai precedenti modelli organizzativi poiché era «un tentativo di raggruppare le persone non più su base territoriale, ma su base professionale» (ibid., p. 216). Tale modello costituiva una struttura permanente, in quanto i colleghi si vedevano ed interagivano quotidianamente. Inoltre, l’inquadramento era più completo in quanto i colleghi condividevano le stesse rivendicazioni pratiche legate al posto di lavoro. Le cellule meglio si applicavano per «tutti coloro che lavorano in un’organizzazione

(27)

23 collettiva» (ibid.), e difficilmente erano strutture che esaurisvano l’attività del partito, che spesso era costretto a «servirsi di altri elementi di base» (ibid., p. 217). La Milizia. Organizzazione militare legata ad un partito, la milizia fu un’invenzione dei partiti fascisti. Si trattava di civili che venivano addestrati militarmente. Come la cellula, la milizia era composta da pochi individui, e si riuniva molto frequentemente, anche se l’oggetto delle riunioni erano spesso «esercitazioni militari, si impara[va] a sfilare, a maneggiare le armi a conoscere le forme di combattimento di strada, di attacco contro raggruppamenti analoghi, di disturbo delle riunioni pubbliche» (ibid.). Inoltre, la milizia, per quanto potesse essere elemento fondamentale all’interno del partito, raramente erano l’unico elemento esistente al loro interno. La struttura interna alla milizia era molto alta, con «gruppi di base piccolissimi che converg[evano] a piramide per costituire unità sempre più grandi» (Duverger, [1951] 1971, p. 75).

1.5.2 La leadership

E’ opinione prevalente che qualunque organizzazione partitica che superi una certa dimensione e complessità si doti di una leadership: come è già stato visto, Michels sosteneva che fosse proprio il crescere di dimensioni a generare la necessità di creare un gruppo di dirigenti. La convinzione che la natura della dirigenza sia di tipo oligarchico non appartiene solo a Michels, poiché lo stesso Duverger, il quale parlava di «cerchio interno» (ibid., p. 203), condivideva la nozione secondo cui i capi del partito si sforzassero di darsi un’apparenza democratica, mantenendo tuttavia delle tendenze autocratiche ed oligarchiche, tanto da distinguere tra «capi apparenti» e «capi effettivi»: «elettivi i primi, designati autocraticamente i secondi» (ibid., p. 198). Senza addentrarsi nei metodi di elezione della dirigenza, che saranno oggetto del prossimo capitolo, ciò che qui interessa approfondire sono le caratteristiche della dirigenza, tema sviluppato esaustivamente da Panebianco (1982). Egli sosteneva che la coalizione dominante27 fosse quella che, all’interno

27 Termine preferito agli altri per tre motivi: 1) il controllo delle zone di incertezza è frutto di una

contrattazione tra più attori; 2) il potere non sempre è concentrato nelle mani delle «cariche interne o parlamentari del partito» (Panebianco, 1982, p. 86), ma può essere detenuto anche da altri soggetti esterni; 2) il termine coalizione, invece di oligarchia, implica che il potere possa essere detenuto

(28)

24 del partito, controllava le cosiddette «zone di incertezza», ossia gli «ambiti di imprevedibilità organizzativa» (ibid., p. 79)28, ed era orientata al mantenimento della «stabilità organizzativa» (ibid., p. 95). Ciò che in ultima analisi distingueva i partiti gli uni dagli altri è proprio quella che viene definita la «conformazione della coalizione dominante», la quale si sviluppa su tre dimensioni:

1) Il grado di coesione/divisione. 2) Il grado di stabilità/instabilità. 3) La mappa del potere organizzativo.

Il punto 1) è quello che riguarda la concentrazione ovvero la dispersione del controllo delle zone di incertezza, come anche della distribuzione degli incentivi, ossia i «giochi di potere verticali» (ibid., p. 311) tra élite e iscritti di cui si è già parlato. Il punto 2), invece, ha a che fare con il rapporto tra le élites, ed è la «capacità di tali componenti di praticare compromessi relativamente duraturi nella spartizione delle sfere d’influenza entro l’organizzazione» (ibid.). Infine, il punto 3) descrive «la configurazione dei rapporti fra gli organi dirigenti del partito» (ibid., p. 318), che verrà affrontata nel prossimo paragrafo.

Questi elementi sono legati al grado di istituzionalizzazione, già affrontato in precedenza, e dalla combinazione di tutti i fattori si otterrà una classificazione delle coalizioni dominanti. Da una istituzionalizzazione forte deriveranno coalizioni tendenzialmente coese e stabili (ibid., p. 311), mentre nei partiti a debole istituzionalizzazione si possono distinguere coalizioni con un centro molto forte, come avviene nei partiti carismatici, e quindi stabili, dalle coalizioni sprovviste di un centro forte (ibid.), quindi instabili. Da queste tre configurazioni si possono dunque desumere tre tipi di coalizioni dominanti: l’oligarchia, caratterizzata dalla presenzia di un piccolo gruppo che detiene il potere (ibid., p. 316); la monocrazia, che ruota intorno ad una sola persona (ibid., p. 317); infine, la poliarchia, dove sono presenti più gruppi dei quali nessuno «è in grado da solo di imporre un controllo

anche al di fuori della dirigenza nazionale del partito, comprendendo anche «leaders intermedi e/o locali» (ibid.).

28 Nella ricostruzione di Panebianco, sono sei le zone di incertezza principali: la competenza, il saere

specialistico; i rapporti con l’ambiente; la comunicazione; le regole formali; il finanziamento; il reclutamento.

(29)

25 egemonico sulla organizzazione» (ibid.). Questa tipologia può essere riassunta nella seguente tabella:

Coalizione dominante Istituzionalizzazione

Oligarchia Coesa-stabile Forte

Monocrazia Coesa-stabile Forte/assente

Poliarchia Divisa-stabile/divisa

instabile

Debole

Tabella 1.4 Tipologia delle coalizioni dominanti29.

1.5.3 Articolazione e mappa del potere organizzativo

Dopo aver ricostruito gli elementi di base dei partiti, Duverger stabiliva come essi si combinassero con le altre componenti all’interno del partito. E’ quello che l’autore definiva l’articolazione. Si aveva un’articolazione forte/rigida quando l’organizzazione era «rigida, formale, gerarchica e amministrativa» (Duverger, in Sivini, 1979, p. 219), e ogni elemento aveva un peso e una collocazione assai precisa all’interno del partito, mentre si aveva un’articolazione debole/elastica quando l’organizzazione interna non era altrettanto rigorosa e formale, bensì più elastica ed informale, lasciando che l’influenza personale dei componenti determinasse di volta in volta il peso e l’importanza di determinati gruppi.

Altro elemento importante è la distinzione tra vincoli orizzontali e vincoli verticali: i primi erano «i rapporti tra gruppi posti allo stesso livello» (ibid.), mentre i secondi erano «quelli che uniscono l’organismo inferiore all’organismo superiore» (ibid). Nei modelli di partito ottocenteschi erano i vincoli orizzontali a prevalere, mentre successivamente si rileva una prevalenza dei vincoli verticali. L’autore distingueva dunque l’accentramento dal decentramento: i partiti accentrati erano «quelli in cui il potere sostanziale [era] completamente in alto, a livello di organizzazione centrale» (ibid., p. 220), mentre i partiti decentrati erano «quelli in cui il potere sostanziale si pone[va] a livello delle organizzazioni locali»30 (ibid.).

29 Riproduzione della Fig. 9 in Panebianco, 1982, p. 317.

30 Duverger individuò quattro ulteriori tipologie di decentramento: locale, ideologico, sociale e

federale (Duverger, [1951] 1971, p. 94). Secondo il primo «i dirigenti locali del partito provengono dalla base, […] hanno grandi poteri, […] [e] le decisioni fondamentali sono prese da loro» (ibid.).

(30)

26 Infine, un altro elemento che l’autore affrontò che in questa sede risulta interessante è l’analisi dello sviluppo dei rapporti tra parlamentari e dirigenti. Esso si compone sostanzialmente di tre fasi.

La prima fase fu di predominio dei parlamentari sui dirigenti. I partiti avevano una struttura molto decentrata, fondata sui comitati locali, nei quali il deputato eletto aveva larga indipendenza rispetto agli altri colleghi. Nel parlamento, il gruppo parlamentare di riferimento «non [aveva] volontà propria, non [aveva] azione comune, non [aveva] disciplina di voto» (Duverger, 1951 [1971], p. 240). Inoltre, essendo l’attività del partito incentrata maggiormente nella lotta elettorale, cercando di far eleggere più deputati possibile, era inevitabile che questi avessero una posizione preminente nel partito. La mancanza di struttura dell’organizzazione e lo scarso numero di militanti faceva sì che mancasse una vera gerarchia ed un’amministrazione all’interno del partito tali da poter generare un potere alternativo a quello dei deputati.

La seconda fase fu di equilibrio tra parlamentari e dirigenti. Corrispondeva alla nascita dei primi partiti di massa, fondati sulle sezioni e dotati di statuti rigidi, un ampio numero di aderenti ed una burocrazia di partito robusta. In questo periodo si diffuse l’idea che i deputati fossero dei «delegati del partito in parlamento» (Duverger, in Sivini, 1979, p.226) e che quindi andasse circoscritta la loro azione secondo il volere del partito stesso. Con numerose strategie31 si cercò di imporre la linea di partito sui parlamentari, anche se, di fatto, si mantenne un equilibrio e una rivalità tra dirigenti e parlamentari, che spesso si risolveva a favore dei secondi.

Il secondo consiste nel «concedere una certa autonomia alle varie “frazioni” o “correnti” fromatesi all’interno del partito per l’influenza data ad esse nei comitati direttivi, per il riconoscimento di una organizzazione separata ecc.» (ibid.). Il terzo prevede di «organizzare in maniera autonoma in seno al partito ogni categoria economica […] e nel conferire poteri importanti a queste sezioni corporative» (ibid., p. 95). L’ultima tipologia ricorre laddove la forma di stato non ha consentito ai gruppi di esprimere «la loro originalità nella struttura federale dello Stato» per cui «diventa importante farla apparire all’interno dei partiti» (ibid., p. 96), come succede ad esempio in Belgio.

31 Diminuendo il numero di deputati negli organi direttivi a favore dei militanti; agendo sul regime

elettorali. Se nei collegi uninominali i singoli candidati mantenevano un’importanza vitale per l’ottenimento del seggio, in uno scrutinio di lista e nei sistemi proporzionali con liste bloccate il partito riesce a subordinare il candidato in maniera più forte; rendendo i deputati dei «salariati di partito» (Duverger, [1951] 1971, p. 251), facendo restituire parte dell’indennità in cambio di uno stipendio; disciplinando il voto secondo le direttive del gruppo, pena l’espulsione dal partito. Tuttavia, la subordinazione del singolo parlamentare al gruppo dipende dalla precisione delle direttive.

Riferimenti

Documenti correlati

E infine, ancora a dimostrazione dell’autenticità della proposta di Rodari di far squadra con bambini e ragazzi e di dare significato profondo alla parola, viene riportata una

Primaria Savarna pomeriggio 23 maggio 3 Piccola festa del gioco decentrata – i bambini/e saranno protagonisti della conduzione di attività (a conseguenza dei laboratori

Nella cantina c’è l’appartamento della famiglia Leprotti, con mamma, papà, e i tre leprottini, mentre al piano terra vive il signor Riccio con sua moglie.. Un vecchio picchio giallo

- Attraverso i ……… che avvolgono gli alveoli polmonari avviene lo scambio di ………e

che io sia amato che io sia stato amato che io fossi amato che io fossi stato amato che tu sia amato che tu sia stato amato che tu fossi amato che tu fossi stato amato che egli

[r]

Lo sa bene Iveco che dal 1996 investe nel- la tecnologia del gas naturale, diventando il costruttore leader in Europa con oltre 25.000 mezzi circolanti: inizialmente con i

L’organizzazione dei tempi nelle prime settimane di scuola non avrà una scansione rigida bensì gli insegnanti, in accordo con i genitori, daranno flessibilità in modo