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La tutela della salute e la sicurezza alimentare in un mondo globalizzato

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Academic year: 2021

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INDICE

CAPITOLO PRIMO: ANALISI DEL DIRITTO ALLA SALUTE

-1.1 La Tutela del diritto alla salute...3

-1.2 Excursus storico...4

-1.3 Normativa Costituzionale e Leggi in materia...12

-1.4 Il diritto alla salute in correlazione con gli altri diritti...17

-1.5 Il Diritto alla salute tra profili costituzionali ed amministrativi...18

C

APITOLO

S

ECONDO

: L

ASICUREZZA ALIMENTARE -2.1 L'ipotesi di configurare la sicurezza alimentare come un diritto...25

-2.2 Piani di prevenzione e controlli per assicurare l'effettività...34

-2.3 Panorama normativo europeo e nazionale...37

-2.4 Il sistema di vigilanza europeo...59

-2.5 Il sistema interno dei controlli e delle tutele...70

CAPITOLO TERZO: MOLTEPLICITÀ DELLE NORMATIVE E

FRAMMENTAZIONE DELLADISCIPLINA -3.1 Expo, la Carta di Milano: è davvero un punto di svolta?...83

-3.2 Nuove forme di “social eating” e sicurezza alimentare, il caso degli “Home Restaurant”...87

-3.3 Aumento dei controlli, maggior sicurezza per i consumatori. L'attività dei NAS ed USMAF...92

CONCLUSIONI: CRITICITÀ E RIFLESSIONI …...108

B

IBLIOGRAFIA

…...110

(2)

RINGRAZIAMENTI …...113

(3)

PREFAZIONE

Ho scelto di trattare questo argomento perché credo che, tra tutti i diritti costituzionalmente garantiti, il diritto alla salute sia quello più importante, quello che necessita altresì di maggior tutela rispetto agli altri. Se chiedessimo a ciascun abitante che si trovi sulla faccia della terra, ricco o povero che sia, cosa vorrebbe per la sua vita futura, egli risponderebbe certamente la “salute”. Per questo ho deciso di svolgere questa mia tesi attraverso un'analisi critica del suddetto diritto, cercando di trattarne gli aspetti fondamentali e svolgendo un'accurata ricerca su una tematica di pregnante attualità: la “sicurezza alimentare”, assai dibattuta nell'opinione pubblica anche grazie ad inchieste da parte di alcuni mass media che hanno smosso le coscienze collettive ed inculcato un'attenzione maggiore per quel che riguarda il cibo che acquistiamo e consumiamo ogni giorno.

La salute è il primo

dovere della vita.

Oscar Wilde

(4)

C

APITOLO

P

RIMO

A

NALISI DEL DIRITTO ALLA SALUTE

1.1 Cos'è il diritto alla salute e perché va tutelato

Il diritto alla salute mira a garantire non solo l'essere, ovvero l'esistenza del soggetto, ma anche il “bene essere”, attraverso il diritto all'assistenza e mediante la rimozione di tutti quei fattori negativi, che, attentando alla convivenza dell'individuo nel contesto sociale in cui vive, ne menomano le possibilità operative e di relazione.

Caposaldo della disciplina in materia è l'art. 32 della Costituzione, che così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

In senso lato, la suddetta norma statuisce che ciascun individuo è titolare del diritto alla salute, da intendersi non più solo come assenza di malattie ed infermità psicofisiche, bensì come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, cosi come rimarcato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della sanità).

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Ma per garantire ciò, lo Stato necessita di un apparato a tal uopo strutturato: se si segue l’interpretazione del diritto alla salute come fonte di prestazioni statuali, esso appare fortemente condizionato dalle risorse finanziarie pubbliche, in quanto tutti i diritti in genere hanno un costo, rappresentato dalle spese di funzionamento della macchina pubblica che è indispensabile per assicurare il godimento dei servizi ai cittadini, in modo da garantir loro un benessere sociale.

In tale ottica la salute costituisce un bene primario non soltanto dell’individuo: da un lato, perché la tutela dell’efficienza somatopsichica del singolo corrisponde, in definitiva, alla difesa dell’efficienza delle strutture produttive della società stessa; dall’altro, perché la tutela della salute dei singoli individui componenti la società costituisce la situazione favorevole allo sviluppo del progresso sociale e del bene comune.

La disposizione, quindi, nel sancire la tutela della salute come ”diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività”, di fatto obbliga lo Stato a promuovere ogni opportuna iniziativa e ad adottare precisi comportamenti finalizzati alla migliore tutela possibile della salute, in termini di generalità e di globalità; il mantenimento di uno stato di completo benessere psico-fisico e sociale costituisce, difatti, oltre che un diritto fondamentale per l’uomo, per i valori di cui lo stesso è portatore come persona, anche un preminente interesse della collettività per l’impegno ed il ruolo che l’uomo stesso è chiamato ad assolvere nel sociale, nell’ambito dello sviluppo e della crescita della società civile.

Sul piano della rilevanza giuridica si ha, pertanto, che tale norma è, nel contempo, programmatica, in quanto impegna il Legislatore su molteplici piani (della ricerca e della sperimentazione, nonché burocratico-organizzativo verso idonee iniziative volte all’attuazione di un compiuto sistema di tutela adeguato alle esigenze di una società che cresce e che progredisce), ma anche precettiva in quanto

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l’individuo, come cittadino, vanta nei confronti dello Stato un vero e proprio diritto soggettivo alla tutela della propria salute.

In definitiva, intesa come sub specie iuris, la salute rappresenta un parametro ottimale verso cui la società dovrebbe tendere, mentre sul piano oggettivo è un’aspirazione o, addirittura, una speranza.

1.2 Excursus storico e assetto normativo attuale: la disciplina interna.

Storicamente il diritto alla salute ha subìto un'inevitabile evoluzione.

È possibile, infatti, individuare tre fasi, con altrettante qualificazioni giuridiche del diritto de quo: se nella fase pionieristica, la salute era considerata quale mera questione di ordine pubblico, successivamente, il diritto alla salute veniva qualificato quale tipico diritto sociale, fino all'approdo ai nostri giorni, in cui, invece, la salute rappresenta un vero e proprio diritto soggettivo del cittadino.

Infatti, nel periodo di formazione degli Stati unitari, allo Stato era attribuito l’esercizio di mere funzioni pubbliche, con la conseguenza che la tutela della salute non poteva che essere vista alla stregua di una questione di ordine pubblico. In tale periodo storico, difatti, vi era una scarsa propensione da parte dello stato di diritto (o liberale) a considerare ed ad occuparsi del benessere sociale dei cittadini. Con la nascita dello Stato sociale, quale assetto della maggior parte dei Paesi europei, il diritto alla salute viene gradualmente inserito nella generale categoria dei c.d. diritti sociali, categoria che può essere definita come l'insieme dei diritti del cittadino a ricevere determinate prestazioni da parte degli apparati pubblici dello Stato. Nel nostro Paese il diritto alla salute, contestualmente e successivamente all’emanazione della Carta Costituzionale del 1948, continuava ad essere riconosciuto quale diritto sociale, in quanto rappresentava l'interesse positivo ad una

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protezione attiva dell’integrità psico-fisica dell’uomo, più che in quella di mero interesse negativo all’intangibilità della semplice integrità fisica.

Tuttavia, le profonde trasformazioni dello stato di diritto e della società nel suo complesso hanno fatto sì che nel corso degli anni, il quadro costituzionale nazionale si sia progressivamente arricchito di norme e principi di derivazione anche comunitaria, alla stregua del mutato clima ed in sintonia con i nuovi orizzonti prospettati dalle società contemporanee.

In sede comunitaria, infatti, si è statuito che "la Comunità contribuisce a garantire un livello elevato di protezione della salute umana, incoraggiando la cooperazione tra gli Stati membri e, se necessario, sostenendone l'azione” e che essa “si indirizza in primo luogo alla prevenzione delle malattie, segnatamente dei grandi flagelli, compresa la tossicodipendenza, favorendo la ricerca sulle loro cause e sulla loro propagazione, nonché l'informazione e l'educazione in materia sanitaria” aggiungendo, altresì, che “Le esigenze di protezione della salute costituiscono una componente delle altre politiche della Comunità” (art 129 del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea).

Alla stregua di ciò, essendo il diritto alla salute qualificato dal Costituente quale diritto fondamentale, esso deve collocarsi a pieno titolo in posizione paritaria rispetto alle classiche libertà fondamentali, e presenta, pertanto, i caratteri di un diritto costituzionalmente garantito, inalienabile, intrasmissibile, irrinunciabile e, in certi limiti, indisponibile.

Il diritto alla salute, previsto e racchiuso nell'art. 32 Cost., come poc'anzi illustrato, è da intendersi quale “fondamentale interesse dell’individuo” ed al contempo “interesse della collettività”, in linea con la volontà del Costituente, che aveva inteso attribuire un duplice

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significato al diritto de quo, come “bene individuale da proteggere” e “ bene generale di rilevanza collettiva”.

La norma in questione, però, è stata oggetto di dibattito dottrinale circa la sua reale portata, subendo progressivi mutamenti interpretativi, fino all'assetto odierno a seguito della sentenza della Corte di Cassazione n. 796/1973 che qualificò definitivamente tale diritto come un vero e proprio diritto soggettivo. In altre parole, il diritto alla salute venne considerato come un “diritto assoluto e di rango primario della persona umana”, con la conseguenza che l’individuo ed il suo diritto alla salute iniziarono ad assumere sempre più un ruolo centrale, al punto che lo scopo primario era di assicurare la tutela della salute a tutti i cittadini, secondo i principi di uguaglianza ed uniformità, senza distinzioni di categorie o condizioni personali e sociali.

Dunque, la Cassazione diede un forte impulso ad un nuovo progetto, certamente ambizioso, che consentì di aprire nuovi ed inesplorati orizzonti relativamente alla norma in esame.

Alla stregua dei dettami della giurisprudenza di legittimità, il Legislatore, con la Riforma Sanitaria messa in atto con la Legge 833 del 1978, ha definito i contorni della disciplina nell’ordinamento costituzionale italiano, contribuendo, la suddetta Riforma, all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, i cui capisaldi sono la parificazione della posizione del servizio sanitario pubblico con quello privato e l'estensione dell'obbligo dello Stato di assicurare le prestazioni sanitarie e farmaceutiche a tutta la popolazione e non più solamente agli indigenti, come prevedeva il sistema sanitario precedente. Si è passato, perciò, gradualmente da un modello incentrato essenzialmente sulla previdenza sociale, ad un sistema di sicurezza sociale.

Appare conseguente che l’art. 1 della Legge n. 833 del 1978, quale Legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, riproponga la

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formula costituzionale. Intervenuta dopo diverse “leggi ponte”, tale normativa fu definita “Legge di organizzazione”, laddove dettava princìpi, forme di pianificazione e programmazione dei servizi sanitari e le relative modalità di finanziamento.

Nello specifico, contribuì all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), grazie al quale fu assicurata l’equiparazione della posizione degli utenti del servizio sanitario pubblico, ben al di là di quanto imposto dalla disciplina costituzionale. In altri termini, fu esteso l’obbligo dello Stato di assicurare le prestazioni sanitarie e farmaceutiche a tutta la popolazione e non più solamente agli indigenti.

Si trattò di un dato normativo altamente significativo perché sintomatico del mutato spirito dei tempi o, più precisamente, del passaggio da un modello incentrato essenzialmente sulla previdenza sociale, ove i cittadini ricevevano assistenza solo dietro il versamento di contributi agli enti mutualistici di appartenenza, ad un sistema di sicurezza sociale.

Le riforme successive, dal 1992 al 2000 hanno anticipato la Riforma del titolo V della Costituzione (Legge n. 3/2001) ed hanno inciso sulle competenze degli Enti che compongono la Repubblica.

Nell’affrontare un tema come quello della salute non si può prescindere dal dire che, come accade per tutti i diritti individuali la cui soddisfazione risiede in un facere dell’Amministrazione, anche il diritto alla salute è garantito non solo dalla definizione di norme e, più in generale, di regole astratte, ma anche e soprattutto da comportamenti e da azioni amministrative.

A riprova di ciò la sfera dei diritti fondamentali del cittadino si è ulteriormente allargata nel momento stesso in cui è venuto a mutare il rapporto tra questi e lo Stato; quest’ultimo, da astensionista e garante della libertà individuale è diventato interventista e garante delle libertà collettive attraverso la tutela di una vasta gamma di diritti e doveri del

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cittadino, comprensivi non solo dei rapporti civili e politici, ma anche di quelli sociali ed economici.

Invero, la costruzione del servizio sanitario locale ha avuto un impatto notevole anche sull’evoluzione dei rapporti tra i vari livello di governo, laddove ha rappresentato una anticipazione delle riforme Bassanini introdotte verso la fine degli anni novanta.

Per quanto concerne, invece, le successive riforme che hanno riguardato gli anni 1992 -1999, va detto che queste ultime hanno anticipato la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione di cui alla Legge n. 3/2001.

Difatti, hanno inciso sulle competenze degli Enti locali che compongono la Repubblica.

Le motivazioni che agli inizi degli anni ’90 spinsero ad una riapertura del problema dell’effettività della salute furono rappresentate, rispettivamente, dalla crisi fiscale dello Stato e dal mutare dei soggetti pubblici.

Questo indusse il Legislatore ad intervenire sull’assetto del servizio sanitario nazionale seguendo due linee di indirizzo: una concernente l’articolazione delle competenze e, l’altra, riguardante i rapporti tra pubblico e privato.

Con la riforma del 1992 attuata con il D.L.gs n. 502 venne eliminato il ricorso alla procedura legislativa e furono spostate in capo al Governo ed alla Conferenza permanente Stato – Regioni le funzioni volte alla definizione del piano sanitario nazionale (PSN). Venne mantenuto il modello della pianificazione a cascata (livello statale e regionale) ed il controllo statale sui flussi finanziari, anche se limitato ai livelli essenziali ed uniformi di assistenza.

Per quanto concerne il secondo aspetto relativo ai meccanismi di raccordo fra servizi pubblici e privati (a seguito della Legge 59 del 1997 e del D.L.gs 112 del 1998), è con la legge delega n. 419 del 1998 che fu avviato un percorso di riforma del servizio sanitario mirante a

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conferire nuova luce alla programmazione sanitaria nazionale nonché teso alla realizzazione di una piena e concreta regionalizzazione ed aziendalizzazione.

È con la suddetta riforma che si è provveduto ad una rilettura degli strumenti di interazione fra pubblico e privato nell’ambito dei servizi sanitari, sia sul piano dei rapporti con i privati intenzionati ad entrare nel mercato dei servizi sanitari o a svolgere attività per conto o a carico del servizio pubblico; sia sul piano della natura giuridica dei soggetti deputati a garantire i livelli essenziali (si pensi alle USL trasformate in Aziende sanitarie locali).

Sul punto è intervenuta anche la dottrina, secondo la quale tali forme di raccordo fra pubblico e privato danno corso ad un processo di “esternalizzazione dei servizi sanitari” sia a livello organizzativo che a livello di azione dell’attività amministrativa. Ed è proprio questa forma di esternalizzazione dei servizi sanitari che assume un ruolo di centralità grazie alla riforma del ’99, atteso che quest’ultima ha proceduto sia ad un recupero di strumenti di programmazione del numero dei soggetti erogatori e della loro attività sia ad una reinterpretazione dell’accreditamento come atto discrezionale e non più vincolato.

In altri termini, con il D.Lgs n. 229 del 1999 si è assistito alla costruzione di un nuovo modello dei rapporti fra pubblico e privato orientato non più al libero concorso bensì ad una concorrenza programmata o limitata proprio per assicurare la programmazione dei servizi sanitari.

In tempi più recenti, la tutela di tale concorrenza limitata ha trovato un valido fondamento normativo nella Legge Costituzionale n. 3 del 2001 e, più precisamente, nel principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale.

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È nel 2001 che fu approvato un nuovo intervento legislativo con specifico riguardo ai livelli essenziali di assistenza (LEA), concetto la cui introduzione risale agli interventi riformatori del 1992 e del 1999.

Il Decreto Legislativo 502/1992, all'art.1 definisce i LEA come “l'insieme delle prestazioni che vengono garantite dal SSN, a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa, perchè presentano, per specifiche condizioni cliniche, evidenze di un significativo beneficio in termini di salute individuale o collettiva, a fronte delle risorse impiegate”.

Ciò che è profondamente mutato è la natura giuridica dei LEA, laddove oggi sono qualificabili come: “una species” appartenente al genus dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 117, comma secondo, lett. m), Cost. .

Più specificatamente, la Legge 405 del 1999 all’art. 6 ha introdotto una disciplina che scorpora i LEA dalla programmazione sanitaria nazionale, attribuendo ad un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, la competenza a definirli, su proposta del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

Questo ha condotto gran parte della dottrina a ritenere che non sia possibile attribuire carattere normativo ai LEA essendo contenuti in un atto carente di tale qualità, ovvero il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Rilevante ai fini della comprensione dello statuto normativo dei LEA è la Legge Costituzionale n. 3 del 2001, laddove ha costituzionalizzato la nozione di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.

Successivamente, a circa un mese dalla suddetta riforma costituzionale, si è proceduto alla individuazione dei LEA con D.CM (DPCM 29 novembre 2001) e, con l’art. 54 della Legge 289 del 2002,

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alla legificazione dei LEA, dando copertura legislativa alle scelte già operate con il DPCM del 2001.

Negli anni successivi, inoltre, si è susseguita tutta una serie di interventi modificativi dei LEA. Si pensi, a tal proposito, al DPCM 28 novembre del 2003 recante: “Definizione dei livelli essenziali di assistenza, in materia di certificazioni” e, da ultimo, il D.L. n. 158 del 2012 il cui art. 5 dispone un aggiornamento dei LEA. Il suddetto DPCM del 29 novembre 2001 costituisce un classificatore e nomenclatore delle prestazioni sanitarie sulla base della loro erogabilità da parte del servizio sanitario nazionale (SSN).

Vengono specificate nel dettaglio le prestazioni di assistenza sanitaria garantite dal SSN e riconducibili a diversi Livelli Essenziali di Assistenza:

• assistenza sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro che comprende tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli

• assistenza distrettuale nella quale sono inserite le attività ed i servizi sanitari, sociosanitari diffusi capillarmente su tutto il territorio nazionale, dalla medicina di base all'assistenza farmaceutica, fino ad arrivare alle strutture semiresidenziali e residenziali per anziani e disabili.

• assistenza ospedaliera concernente quella in pronto soccorso, ricovero

ordinario, day hospital e day surgery in strutture per la luogodegenza e la riabilitazione.

Un aspetto cruciale della tematica riguardante i LEA è che essi rappresentano il “livello essenziale” garantito a tutti i cittadini, ma le Regioni possono utilizzare risorse proprie per garantire servizi e prestazioni ulteriori rispetto a quelle incluse nei

LEA.

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Da tale quadro normativo appare di chiara e facile deduzione l’assunto per cui la Riforma Costituzionale del 2001 abbia fornito un notevole contributo nella ridefinizione del quadro dei rapporti fra le fonti in tema di diritti costituzionalmente garantiti, soprattutto grazie all’introduzione della competenza normativa sui livelli essenziali delle prestazioni.

Ma è altrettanto vero che le vicende attuative dell’art. 32 Cost. mostrano come l’esercizio della funzione legislativa abbia rappresentato, nel modello di tutela della salute, la strada principale per la trasformazione dell’ordinamento italiano. L'aggiornamento dei LEA era atteso da tempo, in attuazione dei principi di equità, innovazione ed appropriatezza e nel rispetto degli equilibri programmati dalla finanza pubblica il nuovo Patto per la salute

2014-2016 ha ridefinito il quadro d'insieme della materia.

L'impatto economico-finanziario della revisione è stato quantificato dalla legge di stabilità 2016, che ha previsto un incremento di spesa fino ad 800 milioni di euro annui per la prima revisione, l'impatto finanziario globale dell'aggiornamento è riconducibile alla definizione della differenza tra i costi aggiuntivi generati dalla previsione di prestazioni aggiuntive nella misura in cui generano consumi aggiuntivi e le economie conseguibili nei diversi ambiti assistenziali e le maggiori entrate connesse alla partecipazione ai costi (ticket) sulla quota di consumi aggiuntivi di prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale.

L'aggiornamento dei LEA rappresenta il risultato di un lavoro condiviso tra Stato,

Regioni e Società scientifiche, il DPCM del 12 gennaio 2017 definisce le attività , i servizi e le prestazioni garantite ai cittadini con le risorse pubbliche messe a disposizione del SSN, descrive con maggior dettaglio e precisione prestazioni ed attività oggi già incluse

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nei livelli essenziali di assistenza; innova i nomenclatori della specialistica ambulatoriale e dell'assistenza protesica, ridefinisce ed aggiorna gli elenchi delle malattie rare e delle malattie croniche ed invalidanti che hanno diritto all'esenzione.

Il decreto:

aggiorna gli elenchi delle malattie rare, croniche ed invalidanti che danno diritto all'esenzione dal ticket

aggiorna la lista delle prestazioni che il SSN offre gratuitamente a coppie e donne in epoca preconcezionale

introduce lo screening neonatale per sordità congenita e contratta congenita; offre nuovi vaccini ed individua nuovi destinatari in accordo con il Nuovo piano nazionale di prevenzione vaccinale

trasferisce la celiachia dall'elenco delle malattie rare all'elenco delle

malattie croniche. Sarà così sufficiente una certificazione della malattia redatta da uno specialista del SSN per ottenere l'esenzione

inserisce l'endometriosi nell'elenco delle patologie croniche e

invalidanti

innova il nomenclatore della specialistica ambulatoriale, che risaliva al 1996 escludendo prestazioni obsolete e introducendo prestazioni tecnologicamente avanzate.

Innova il nomenclatore relativo alla fornitura di protesi, cioè il documento che stabilisce la tipologia e le modalità di fornitura di ausili per disabili a carico del SSN.

Per garantire il continuo aggiornamento su regole chiare e criteri scientificamente validi dei Livelli Essenziali di Assistenza è stata istituita la Commissione Nazionale per l'aggiornamento dei LEA e la promozione dell'appropriatezza nel SSN, presieduta dal Ministro della salute con la partecipazione delle Regioni ed il coinvolgimento dei soggetti con competenze tecnico-scientifiche disponibili a livello centrale e regionale.

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1.3 La tutela della salute: il difficile equilibrio tra i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie e gli interessi economico-finanziari.

Uno degli aspetti maggiormente problematici è rappresentato dalle procedure volte alla definizione dei criteri e dei livelli di finanziamento del servizio sanitario nazionale.

L’evoluzione della disciplina inerente il finanziamento ed i costi del servizio sanitario mostra un rafforzamento del potere esecutivo, che fa leva sulla capacità di governare i processi politici in sede di Conferenza Stato – Regioni e nelle sedi sovranazionali.

Non a caso, gli atti che disciplinano la materia hanno la forma normativa del Decreto Legge e delle Leggi Finanziarie e di stabilità (atti che, per definizione, sono prettamente adottati dall'Esecutivo).

Quanto, invece, alle misure di responsabilizzazione delle Regioni nel reperimento delle risorse finanziarie e nella distribuzione delle stesse, due sono le direttrici seguite: da un lato, il federalismo fiscale (a partire dal D. Lgs 446 del 1997) e, dall’altro, il patto di stabilità interno fra Stato e Regioni finalizzato ad assicurare il rispetto dei parametri europei di stabilità finanziaria.

È alla fine degli anni Novanta che vengono individuati nuovi interventi volti ad accertare il disavanzo a livello regionale; nel dettaglio, è prevista una procedura di valutazione dei livelli di assistenza e di gestione dei servizi, avente il fine di al fine di garantire un rientro dai deficit di gestione finanzia e, dunque, maggiore equilibrio economico – finanziario dei servizi sanitari regionali.

Tale procedura sarebbe svolta in seno alla Conferenza Stato-Regioni, attivata su proposta del Ministro della sanità e condotta sulla base di indicatori elaborati a livello statale.

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Ulteriore tappa del processo di evoluzione della disciplina del finanziamento del servizio sanitario nazionale è data dalla Legge 388 del 2000, nota come Legge finanziaria del 2001.

Tale finanziaria, all’art. 83, imponeva alle Regioni di coprire i disavanzi di gestione tramite l’imposizione fiscale, in una misura fissata nel quadro di criteri sui quali il Ministro della sanità ed il Ministro del tesoro avessero raggiunto una intesa in sede di Conferenza Stato Regioni.

L’art. 86, invece, introduceva dei meccanismi di monitoraggio: il monitoraggio della spesa dei medici di medicina generale ed il monitoraggio delle prescrizioni mediche, farmaceutiche, specialistiche ed ospedaliere.

Altro punto focale era poi rappresentato dalla spesa farmaceutica, laddove nel 2003 con D.L. n. 269 fu attuata una vera e propria riforma della gestione del mercato e delle spese per i farmaci. Passaggio di indubbio rilievo fu la costituzione dell’Agenzia Statale del farmaco, avente un ruolo preminente nell’ambito delle politiche farmaceutiche, in quanto mirante al contenimento della spesa farmaceutica.

Sempre in una ottica di contenimento dei costi, più tardi, con la Legge Finanziaria del

2005 furono introdotti nuovi interventi concernenti il sistema premiale e sanzionatorio.

Il regime premiale prevedeva l’accesso ad ulteriori risorse statali rispetto a quelle concordate fra Stato e Regioni; mentre i meccanismi sanzionatori riguardavano casi in cui le Regioni non procedevano al dovuto controllo della spesa sanitaria ovvero tutte quelle ipotesi in cui fosse accertato un disavanzo di gestione. E proprio l’accertamento del disavanzo avrebbe comportato l’applicazione della disciplina della sostituzione, che trova fondamento costituzionale nell’art. 120, secondo comma, Costituzione.

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In particolare, nell’ipotesi in cui fosse ricorso un inadempimento degli obblighi sanciti ex lege per il monitoraggio della spesa, veniva attribuita al Presidente della Regione la qualifica di Commissario ad acta per l’adozione dei conseguenti provvedimenti ritenuti necessari.

Tuttavia, tale disciplina non è rimasta esente da critiche, riguardanti soprattutto il ventaglio di poteri attribuiti al Presidente della Regione in qualità di Commissario ad acta o Commissario governativo.

Non è un caso che sulla questione si sia registrato un vero e proprio contrasto di ordine dottrinale.

Più specificatamente, la dottrina maggioritaria ha inteso negare il carattere normativo dei poteri sostitutivi ex art 120 Costituzione. Su una posizione intermedia, invece, si è posto altro orientamento che ha considerato ammissibile una sostituzione normativa, sull’assunto che essa richiami il principio di sussidiarietà, quale criterio rappresentante l’asse portante della Riforma. Tale filone, arriva ad ammettere anche una sostituzione negli inadempimenti normativi delle Regioni.

Anche la giurisprudenza costituzionale ha sempre evidenziato la problematicità di tale aspetto sottolineando il rapporto tra poteri dei Commissari ad acta e funzione legislativa regionale (sul punto, Sent. Corte Cost. n. 361 del 2010 e n. 78 del 2011). In particolare, la Corte Costituzionale ha affermato che la disciplina contenuta nel secondo comma dell’art. 120 non può essere intesa in termini riduttivi, ovvero come disciplina legittimante l’attribuzione di poteri di natura legislativa ad un soggetto nominato commissario governativo, perché ciò finirebbe col creare una violazione del principio di tipicità degli atti normativi primari.

Un simile meccanismo premiale e sanzionatorio è stato ripreso nel 2006 con la Legge 296, normativa che ha predisposto un fondo transitorio per il biennio 2007-2009 da ripartire tra regioni aventi elevati disavanzi. Ciò ha condotto alla concreta attivazione dei

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meccanismi dei c.d. piani di rientro, cui aderirono gran parte delle Regioni italiane dal 2007 al 2010.

Ma è nel 2011 che viene ad essere intrapreso il processo di attuazione delle disposizioni relative al federalismo fiscale nel settore sanitario, contenute nella Legge delega n. 42 del 2009.

Più precisamente, il D. Lgs n. 68 del 2011 delinea il quadro normativo dei rapporti fra Stato e Regioni per l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, noti come detto con la definizione di LEA.

I tratti qualificanti posti dalla suddetta normativa sono costituiti rispettivamente dal fabbisogno sanitario, nazionale e regionale, standard nonché dal costo standard regionale nel settore sanitario.

In tale prospettiva un ruolo di rilievo è occupato dall’art. 25, comma secondo, D. Lgs

n. 68 del 2011, che dispone che l’individuazione del fabbisogno nazionale standard debba avvenire in modo da assicurare la compatibilità di tale scelta con i vincoli di finanza pubblica e gli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria.

Altra norma significativa è l’art. 26, per il quale, dall’anno 2013, la determinazione del fabbisogno nazionale standard deve avvenire tramite intesa, in coerenza con il fabbisogno derivante dalla determinazione dei livelli essenziali di assistenza erogati in condizioni di efficienza ed appropriatezza.

Di certo, il Legislatore ha immaginato una disciplina graduale che garantisse un equo contemperamento tra il finanziamento della spesa sanitaria e la garanzia della stabilità finanziaria dello Stato.

Ma non sono mancate critiche. Difatti, parte della dottrina ha ritenuto che tale normativa risulti poco innovativa, in quanto non capace di eliminare le inefficienze prodotte dai diversi sistemi sanitari regionali già in deficit.

In sostanza, la motivazione di tale inefficienza risiederebbe in una circostanza ben precisa: già le precedenti riforme degli anni 90 si

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ponevano quale obiettivo primario il superamento del criterio della spesa storica nella definizione della quantità di risorse da destinare al finanziamento statale dei servizi sanitari regionali.

Ulteriore punto debole del d.lgs 68 del 2011 sarebbe rappresentato, inoltre, secondo alcuni studiosi, dalle modalità di calcolo del costo standard, che neutralizzerebbero la scelta delle Regioni di riferimento e non permetterebbero di influire sull’accesso al fabbisogno nazionale standard.

Ma tale tecnica di calcolo del costo standard, invero, non presenta carattere definitivo; difatti, a partire dal 2014, ai fini della revisione dei criteri da utilizzare per la determinazione dei fabbisogni regionali standard, sarà ritenuta necessaria una Intesa in Conferenza con cadenza biennale (sul punto, così dispone l’art. 29 del decreto legislativo 68/2011).

Di più recente introduzione, risulta essere, invece, il testo del Decreto Legge n. 95 del 6 luglio 2012, recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”, convertito nella Legge 7 agosto 2012 n. 135.

Le misure contenute in tale regolamentazione pongono quale obiettivo la c.d. spending review, ovvero la riduzione o l’eliminazione degli sprechi e delle inefficienze nella spesa pubblica, in modo da favorire una maggiore crescita economica.

In particolare, in tale prospettiva, interessa l’art. 15 che introduce disposizioni urgenti volte a garantire l’equilibrio del settore sanitario, in quanto la riduzione della spesa sanitaria deve essere effettuata al fine di garantire il rispetto degli obblighi di derivazione comunitaria nonché la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica. Gli attuali interventi normativi, dunque, giocano su due fronti: da un lato, si muovono in una ottica di continuità con l’orientamento passato (razionalizzazione del servizio sanitario e del correlato finanziamento)

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e, dall’altro, invece, sembrano propendere per un fine maggiormente garantistico in tema di sviluppo dei servizi.

Appare evidente come, nel corso degli anni, la tutela della salute abbia risentito di forti condizionamenti che lo stesso Legislatore ha incontrato nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone.

Pertanto non risulta sempre possibile il raggiungimento di un'armonizzazione tra le esigenze della finanza pubblica ed il diritto alla salute, tutelato dalla Carta Costituzionale come diritto inviolabile a garanzia della dignità umana.

Anzi il più delle volte emerge una vera e propria carenza di equilibrio tra entrambi i settori, che ha condotto la giurisprudenza amministrativa a propendere per soluzioni di non agevole e immediata comprensione.

1.4. Panorama normativo europeo

Il diritto alla salute, al pari degli altri “diritti sociali”, non trova espresso riconoscimento nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, bensì è indirettamente tutelato dal combinato disposto di altre statuizioni normative sovranazionali, in particolare gli artt. 2 e 3 della Convenzione; infatti, la Corte di Strasburgo ha progressivamente esteso la tutela convenzionale anche a questo diritto, tramite un'interpretazione evolutiva ed estensiva di tali due disposizioni della

Convenzione, rendendo, pertanto, tale tutela indiretta ma effettiva: il diritto alla salute, in altri termini, non viene tutelato in sé e per sé, ma solo se, ed in quanto, la sua lesione si traduca nella violazione di diritti espressamente riconosciuti dalla Convenzione.

Ed invero, la CEDU ha ricavato, dal divieto di tortura e pene o trattamenti inumani o degradanti (art. 3 - Proibizione della tortura: “Nessuno può esser sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumane o degradanti”), nonché dall'art. 2 - Diritto alla vita (“Il

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diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un'insurrezione”) una serie di obblighi a carico degli Stati, in modo che la salvaguardia della salute degli individui sia assicurata per il tramite di uno strumento – i suddetti articoli – originariamente pensato per altri fini.

1.5 Il Diritto alla salute tra profili costituzionali ed amministrativi

Comparando il tema in questa sede trattato (la Tutela del Diritto alla salute) con gli altri diritti dell'ordinamento giuridico, il primo confronto naturale è quello con il Diritto Costituzionale.

Essendo il nostro Ordinamento uno Stato democratico, fra i tanti diritti sociali che la Carta riconosce, il diritto alla tutela della salute emerge chiaramente per una serie di ragioni.

In primo luogo, per la sfera e l'essenza oggettiva che le disposizioni costituzionali intendono tutelare, ovvero un bene assolutamente primario tra tutti i diritti fondamentali; in secondo luogo, per le vicende istituzionali e legislative che ne hanno interessato il riconoscimento; infine, perché è forse l'unico, e comunque sicuramente il primo, ad aver ricevuto un sistema compiuto ed organizzato di attuazione nel più ampio circuito sociale dei servizi alla persona ed alla comunità. La tutela della salute viene oggi modernamente definita a livello internazionale dall'Organizzazione

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mondiale della sanità come "uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solamente l'assenza di malattia o di inabilità", ovvero una condizione di armonico equilibrio funzionale, fisico e psichico dell'organismo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale. Si tratta di una definizione dalla quale si evince che il benessere fisico non è mai solamente una condizione statica, ma estremamente mutevole a seconda dei suoi rapporti con l'ambiente naturale e sociale.

A partire dalla sentenza, che oggi possiamo definire pioniera in materia, la n. 184 del 1986 sul "danno biologico", la Corte Costituzionale fonda proprio sull'art. 32 il diritto al risarcimento del singolo che abbia subìto lesioni e/o menomazioni della propria integrità psico-fisica personale: da allora, si vedono sempre più ampiamente riconosciute le richieste di risarcimento delle persone nei confronti di ogni comportamento che arrechi una molestia al loro benessere complessivo.

Il diritto individuale alla salute, in questo senso, si presenta dunque come diritto assoluto, ossia tutelato dalla Costituzione in modo pieno ed incondizionato nei confronti di tutti.

Sulla lesione della sfera soggettiva tutelata direttamente dall'art. 32 della Costituzione, si basano le frequenti richieste risarcitorie nei confronti delle compagnie assicurative per danni derivanti da infortunistica stradale, ma anche i più singolari casi di alcune sentenze che impongono ad autorità pubbliche la cessazione di comportamenti o l'interruzione di opere che, pur se finalizzati a diversi (e notevoli) interessi della collettività generale, comportavano 1'inammissibile compressione dello stato di salute del singolo.

In second'ordine, ma è questo 1'aspetto che più interessa in questa sede, la disciplina costituzionale prevede un diritto (non già solo un interesse) alle prestazioni sanitarie, il che significa il dovere per tutti i livelli istituzionali della Repubblica di porre in essere le condizioni

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strutturali attraverso le quali assicurare un'effettiva tutela della salute nei confronti degli individui.

Se nel primo significato del diritto alla tutela della salute, non è richiesto dunque alcun intervento diretto e positivo delle Istituzioni volto a tutelare un tale bene primario, in questo secondo piano, invece, la tutela della salute implica per 1'Autorità Pubblica 1'obbligo di acquisire le risorse, predisporre i mezzi ed i beni, reclutare il personale, costruire gli ospedali ed in definitiva organizzare e rendere effettivo il servizio di assistenza e prevenzione sanitaria, intervenendo per mezzo della sua regolazione, e programmazione e con compiti amministrativi "attivi" e strumentali all'erogazione di interventi concreti.

Ciò incide, dunque, sulle risorse di bilancio disponibili che rappresentano, quindi, una variabile indipendente: il totale delle risorse economiche disponibili per un concreto sistema sociale è rappresentato da una quantità definita e non illimitata e, esattamente come tutti gli altri servizi, anche il diritto a farsi curare ha per contenuto la pretesa ad una prestazione materiale che rappresenta dei costi, a volte ingenti, per lo Stato.

In ogni sistema democratico, è presente un circuito privato dell’assistenza sanitaria. Le prestazioni sanitarie, pertanto, possono essere erogate sia dal circuito pubblico che da quello privato.

È ovvio che quelle erogate dal sistema pubblico saranno più costose per tutta la collettività e non soltanto per chi se ne avvale, a meno che non si accolli a costui l’intero costo.

Si noti peraltro come la Costituzione demandi un tale compito a tutti i livelli della Repubblica, tal ché l'assetto via via studiato dal Legislatore per l'implementazione dei servizi, che ha visto prevalere a seconda dei momenti storici questo o quell'altro soggetto istituzionale, non vale quindi in ogni caso ad escludere il diritto-dovere di

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intervento nella materia degli enti territoriali che sembrano prima facile esclusi in base alla legislazione ordinaria.

In ciò 1'articolo 32 della Costituzione si presenta quale elemento unificante del sistema, poiché esso viene a rappresentare un'ineludibile garanzia per gli utenti, che formula la necessità di interventi ai quali le Istituzioni competenti non si possono sottrarre.

Inteso come diritto sociale, ossia come pretesa positiva nei confronti del potere pubblico ad ottenere prestazioni sanitari, il diritto fondamentale e l'interesse della collettività alla tutela della salute prefigura dunque un servizio pubblico obbligatorio, prendendo le mosse dal principio di uguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, comma secondo della Costituzione, che impone alla Repubblica il compito “[...] di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e 1'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

L'interpretazione e la concreta operatività del diritto ai trattamenti sanitari ha tuttavia conosciuto un'evoluzione notevole nell'ambito della giurisprudenza, in particolare di quella costituzionale, alla quale è seguito puntualmente l'intervento del legislatore volto a disciplinare presupposti, contenuti e modalità dell'azione pubblica in campo sanitario.

Da una concezione dell'articolo 32 della Costituzione come norma meramente

"programmatica", quindi per tempo inevasa, si è passati ad un riconoscimento del diritto in termini pieni ed esaustivi, illimitati ed assoluti.

Successivamente, è emersa la necessità di inquadrare il diritto alla tutela della salute come "diritto finanziariamente condizionato" e riconoscibile nell'ambito di un ragionevole bilanciamento con altri

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interessi costituzionali rilevanti, tra i quali emerge il contenimento della spesa pubblica, implicitamente affermato dall'art. 97 della Costituzione sul buon andamento della P.A.

Secondo recenti dati, forniti dallo stesso Ministero della Salute, il sistema sanitario pubblico costa oltre 10 miliardi di euro, una notevole fetta della spesa pubblica. Oltre l'80% dei bilanci regionali.

La spesa è peraltro aumentata notevolmente negli ultimi dieci anni, arrivando a costare quasi duemila euro pro capite su media nazionale, ma è altrettanto caratterizzata da una sostanziale contrazione delle risorse che obbliga recentemente a ripensare assetti istituzionali e gestionali.

Bisogna inoltre sottolineare che nell' odierno assetto costituzionale, che deriva dai decreti restrittivi di riordino della sanità che si sono susseguiti a partire dagli anni '90, il diritto alla salute risulta essere un

diritto finanziariamente condizionato in un'ottica di forte ridimensionamento della sanità pubblica.

Il 17° Rapporto PIT salute del Tribunale del malato evidenzia che la crisi economica e i costi dei servizi sanitari portano i cittadini, in particolare della nostra area, a rinunciare alle cure "a causa delle

difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie", determinata da servizi inadeguati ed inefficienti e liste di attesa troppo lunghe.

A livello giurisprudenziale la Corte Costituzionale recupera – nonostante le imposizioni in Costituzione del pareggio di bilancio che portano verso obiettivi di equilibrio unitario della finanza pubblica – il

nucleo minimo ed essenziale del diritto alla salute affermando che sussiste comunque una soglia minima di interventi, che le Istituzioni devono garantire a prescindere dai costi, rimanendo

altrimenti alterato il disposto costituzionale che tutela il diritto alla salute (art. 32 Cost.).

Anche la Corte di Cassazione in recenti sentenze ha affermato che " Il medico deve ignorare qualsiasi impedimento che leda la sua

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autonomia professionale perché il diritto del malato è sovrano", pertanto " a nessuno è consentito anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute".

Sempre la Suprema Corte afferma che "Il medico ha il dovere di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente" ( cfr. Cass. Sent. n. 1873/2010 e n. 11493/2013).

In Germania il Bundenstag (Parlamento tedesco) non ha consentito alle politiche di austerity introdotte dalla Commissione Europea di influenzare la propria autonomia decisionale in materia, nonostante gli impegni assunti, stabilendo che le decisioni in materia di UE avvengono con il "necessario coinvolgimento del parlamento nazionale".

In Italia invece si è assistito, in linea con le politiche di austerity dell'UE, ad un forte ridimensionamento della sanità pubblica, introducendo, il Fiscal Compact, il pareggio di bilancio addirittura nella Costituzione.

Le politiche nazionali di austerity e il pareggio di bilancio da una parte, e sprechi e inefficienze dall'altro, hanno portato ad una insostenibile compressione del diritto alla salute che in molte Regioni, soprattutto del Sud Italia e nella Provincia dalla quale provengo (Crotone), hanno fatto del diritto alla salute un diritto negato.

In tempi più recenti, infine, la Corte Costituzionale è pervenuta all'affermazione per la quale la selezione e il contemperamento legislativo degli interessi comunque rilevanti non deve essere tuttavia tale da pregiudicare il "nucleo minimo ed essenziale" del diritto in questione: ciò significa, in altre parole, che non tutte le prestazioni possono essere erogate dal servizio pubblico sanitario nei confronti di tutti, ma sussiste comunque una soglia minima di interventi, che le Istituzioni devono garantire a prescindere dai costi, rimanendo

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altrimenti irrimediabilmente vulnerata la sfera giuridica soggettiva che il disposto costituzionale ha voluto tutelare in riferimento al bene salute.

La giurisprudenza della Corte Costituzionale sul nucleo minimo ed ineliminabile del diritto alle prestazioni sanitarie, che è intervenuta anche su casi particolarmente eclatanti e "sentiti" come quello relativo alla vicenda "Di Bella", non viene solo positivizzata a livello istituzionale e legislativo, ma anche sovente seguita nella giurisprudenza di merito e di legittimità, con diverse sentenze che hanno negato o viceversa più spesso riconosciuto prestazioni in ossequio ai dettami del giudice delle leggi.

E’ il caso di alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione che hanno invertito recentemente l'indirizzo giurisprudenziale sino ad allora consolidatosi, avendo modo di affermare, in tema di assistenza farmaceutica, la sussistenza dell'obbligo del Servizio sanitario nazionale di contribuire alle spese dei cittadini per 1'acquisizione di farmaci che risultino indispensabili o insostituibili per il trattamento di grave condizioni o di sindromi che richiedono cure prolungate, se necessario disapplicando - quale atto amministrativo - lo stesso Prontuario farmaceutico.

La tutela della salute può incontrare dei limiti oggettivi nell'organizzazione dei servizi sanitari, ma di fronte ad un'eventuale ed insopprimibile esigenza, rispetto alla quale le strutture del SSN non offrono alternative, il diritto fondamentale dell'individuo si impone nella sua integrità ed assolutezza senza limiti e condizionamenti di sorta.

Il bilanciamento tra diritto alla tutela della salute e criteri di economicità o, più ampiamente, risorse finanziarie, non può pertanto essere inteso in maniera assoluta, essendo evidente che il diritto fondamentale dell'individuo prevalga in determinate fattispecie a fronte delle pur ragionevoli esigenze di contenimento della spesa.

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Bibliografia capitolo primo

Per l'elaborazione e la stesura di questo capitolo ho tratto spunto dagli scritti:

M. Trapani, Evoluzione storica del diritto alla salute

Giglione, La tutela della salute

Balduzzi, Sistemi costituzionali, diritto alla salute ed organizzazione sanitaria

Balduzzi, Manuale di diritto sanitario

F.Cecconi-G.Cipriani-A.Perrone, La responsabilità civile medica dopo la Legge Balduzzi

La Tutela e la discrezionalità amministrativa dal sito web

www.portale.fnemceo.it

Elaborazione Art.32 Cost. Dal sito web www.forumcostituzionale.it

R.Giorgetti, Legislazione ed organizzazione del servizio sanitario

F.Poggi, Diritto e Bioetica.

G.Veronelli, Compendio di diritto sanitario

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C

APITOLO

S

ECONDO

L

A SICUREZZA ALIMENTARE

2.1 L'ipotesi di configurare la sicurezza alimentare come un diritto

In Enciclopedia Treccani il termine sicurezza indica «Il fatto di essere sicuro, come condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli». Secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani, la sicurezza alimentare è «l’insieme delle misure amministrative, legali, tecniche e degli

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apparati di controllo che mirano ad assicurare alla collettività il cosiddetto cibo sicuro (ovvero a minimo o nullo rischio microbiologico, chimico, radioattivo, ossia tossicologicamente accettabile)». La risoluzione del Parlamento Europeo del 18 gennaio 2011, sul riconoscimento dell’agricoltura come settore strategico nel contesto della sicurezza alimentare, al considerando n. 4 definisce la sicurezza alimentare «un diritto fondamentale, che si realizza quando tutti dispongono, in qualsiasi momento, di un accesso fisico ed economico ad un’alimentazione adeguata, sana (sotto il profilo della salute) e nutriente, per poter soddisfare il proprio fabbisogno nutrizionale e le proprie preferenze alimentari per una vita attiva e sana». Nella medesima risoluzione parlamentare si rileva che “[...] la sicurezza alimentare non comporta soltanto la disponibilità delle risorse alimentari, ma comprende anche, secondo la FAO, il diritto al cibo e l’accesso ad un’alimentazione sana per tutti, e che, diventando sempre più competitiva, l’Europa può contribuire alla sicurezza alimentare globale”.

L’espressione «sicurezza alimentare» possiede, in diritto europeo, due diversi significati che la lingua italiana non consente immediatamente di distinguere.

In lingua inglese, al contrario, per ciascun significato si utilizza un termine diverso facendo venir meno ogni possibile dubbio..

In conformità al diritto europeo, l’espressione sicurezza alimentare si riferisce innanzitutto alla salute (umana, animale) ed è strettamente collegata all’igiene dei prodotti alimentari (nonché a quella degli operatori e delle strutture che vengono a contatto con tali prodotti). Con riferimento a questo significato, la lingua inglese impiega l’espressione food safety, che identifica la sicurezza alimentare intesa come tutela collegata alla salute della persona o dell’animale.

Il secondo significato dell’espressione sicurezza alimentare ha, invece, una connotazione economica, in quanto si riferisce alla

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certezza degli approvvigionamenti alimentari, intesa come regolarità, continuità, adeguatezza e stabilità dei medesimi.

Il termine in uso in lingua inglese, in questo secondo caso, è food security. Nell'immaginario collettivo il cibo è cultura - la nostra cultura - e si configura come “un elemento decisivo all'identità umana”, espressione di una data comunità, di un dato territorio, e la scelta di un dato alimento è espressione di questa cultura, ma proprio questa scelta posta in capo a noi consumatori, bombardati ogni giorno da miliardi di slogan pubblicitari, campagne denigratorie verso alcuni prodotti e promozioni di altri spesso ingannevoli “deve” e non “dovrebbe” avvenire nella piena consapevolezza di ciò che si sta acquistando e quindi di ciò che si consuma.

Sono le informazioni dunque il veicolo per fare questa scelta nel modo più oculato possibile, guardando ai propri interessi economici, di salute, religiosi. La prima e di certo la più formalmente veritiera ci vien data dall“etichetta” che racchiude in sé menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica, o di commercio, simboli ed immagini propri di un dato prodotto alimentare, che vien talvolta da essa caratterizzato e contraddistinto. Questa rappresenta oggi più che mai oggetto di regolamentazione e di approfondita analisi, dato che è il luogo fisico in cui si materializza l'informazione sull'alimento, nonché lo strumento di comunicazione tra il produttore ed il consumatore finale. Proprio in questa direzione va il D.M. 19 gennaio 2017 recante “indicazione dell'origine in etichetta della materia prima per il latte ed i prodotti lattieri caseari” entrato in vigore dal 19 aprile di quest’anno in attuazione del Regolamento UE n.1169/2011.

L'iniziativa (adottata anche da altri Paesi UE) mira da un lato alla tutela dei consumatori che chiedono di esser informati sulla provenienza dei prodotti, dall'altro vuole tutelare gli interessi economici dell'intera filiera lattiero-casearia dato che il nostro Paese è tra i primi produttori europei, dando così maggiore trasparenza al

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mercato. Inserendo sostanzialmente l'obbligo di indicare nelle etichette in questione l'origine della materia prima (Paese di mungitura, Paese di condizionamento e Paese di trasformazione) si è dato risposta ad entrambe le esigenze di tutela sia per i produttori che per i consumatori.

Proprio pochi mesi fa (16 settembre 2017) il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera definitivo al Decreto Legislativo che ha reintrodotto l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento degli alimenti in etichetta.

Il decreto prevede per tutti i prodotti alimentari preimballati, l’obbligo dell’indicazione sull’etichetta della sede dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento, al fine di garantire, oltre ad una corretta e completa informazione al consumatore, una migliore e immediata rintracciabilità dell’alimento da parte degli organi di controllo e una più efficace tutela della salute. È inoltre previsto un rafforzamento e una semplificazione del sistema sanzionatorio e affida la competenza per sanzioni all’Ispettorato repressione frodi.

Il provvedimento prevede un periodo transitorio di 180 giorni dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale. L’obbligo di etichetta era già previsto dalla legge italiana, ma è stato abrogato in seguito al riordino della normativa europea in materia di etichettatura alimentare.

Si è cercato e si cerca costantemente di dimezzare quell'asimmetria informativa che è da sempre esistita tra i due soggetti, grazie non solo agli Stati nazionali ma anche e soprattutto al Legislatore comunitario che ha non solo imposto ai produttori precisi obblighi di informazione in etichetta ma ha anche regolamentato l'utilizzo di segni distintivi ed indicazioni facoltative del prodotto.

Sembrerebbe porsi così un vero e proprio diritto all'informazione come deduciamo implicitamente dalle Linee guida delle Nazioni Unite sulla tutela del consumatore del 1985 (Risoluzione n. 39/248) riviste

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poi nel 1999 (Risoluzione n. 54/449). Diritto all'informazione che nel senso più generico del termine troviamo sancito nella nostra Costituzione all'Articolo

21 (libertà di pensiero), e che ritroviamo nella legge 241/90 sulla trasparenza dell'azione amministrativa, come integrata dalla legge

n.15/2005 in base al quale i cittadini possono accedere ai documenti dello Stato, delle aziende autonome statali, degli enti pubblici e dei concessionari dei pubblici servizi. Infatti tra gli obiettivi che gli Stati membri son esortati a raggiungere vi sono anche quelli dell'accesso dei consumatori ad un'informazione adeguata che consenta loro di far scelte consapevoli.

L'Autorità europea per la sicurezza alimentare, è fonte scientifica per eccellenza con funzione di consulenza indipendente, d’informazione e comunicazione del rischio, fornisce pareri scientifici e informazioni sui rischi esistenti ed emergenti connessi alla catena alimentare.

Ma che cosa si deve intendere per alimento? Il già citato regolamento

(CE) n.178/2002 del Consiglio del 28 gennaio 2002 in G.U.C.E, L– 31, 1–

2–2002 e successive modifiche ci dà una definizione esaustiva sul tema, definisce alimento, o prodotto alimentare o derrata alimentare «qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, da esseri umani. Sono comprese le bevande, le gomme da masticare e qualsiasi sostanza compresa l’acqua, intenzionalmente incorporata negli alimenti nel corso della loro produzione, preparazione o trattamento…». Pericolo e rischio rappresentano insieme due componenti intrinseci alla nozione di alimento, caratterizzanti tutta la filiera alimentare, che il Legislatore deve cercare di eliminare, o, quantomeno, di ridurre al minimo.

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Il pericolo è riferito solo ed esclusivamente a ogni agente biologico, chimico o fisico contenuto in un alimento o mangime, oppure a ogni condizione in cui un alimento o un mangime si trovi, entrambi in grado di provocare un effetto nocivo sulla salute del consumatore. Il rischio, per contro, rappresenta la stima della probabilità e della gravità di un effetto nocivo per la salute, conseguente alla presenza di un pericolo.

Anche il consumatore finale di un prodotto alimentare, cioè colui che non utilizza tale prodotto nell'ambito di un'operazione o attività di un'impresa del settore alimentare, deve contribuire al sistema di sicurezza alimentare:

egli è non solo oggetto di tutela dei diritti ma anche soggetto anche di precisi doveri e, allo stato attuale, il suo ruolo, è, e non può essere altrimenti, più che mai una funzione attiva concorrente allo sforzo ingente, messo in campo, da tutte e due le altre parti (operatori del settore alimentare e autorità di controllo) per il raggiungimento di un unico obiettivo: la produzione di alimenti sicuri.

Il regolamento (CE) 178/2002 pone come obiettivo della legislazione alimentare, nel suo articolo 8), la prevenzione di pratiche fraudolente o ingannevoli e ogni altro tipo di pratica in grado di indurre in errore il consumatore ma, non per questo, il consumatore può permettersi di essere “disattento” nei propri acquisti o superficiale nelle metodiche conservative di alimenti presso la propria dimora.

Ciò emerge dall’osservazione combinata di più disposti comunitari. Non da ultimo s’inserisce il regolamento (UE) n.1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, in G.U.U.E. L–304, 22–11– 11, che trasforma l’etichetta apposta sugli alimenti in una serie di informazioni rivolte al consumatore per far sì che quest’ultimo possa compiere scelte consapevoli, in tema di protezione della sua salute e dei suoi interessi, anche economici. Precedentemente, in un dispositivo nazionale, il decreto legislativo 6

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settembre 2005 n.206, in coerenza coll’art.153 del Trattato della comunità europea, è stata avvalorata l’importanza all’educazione del consumatore (ex art.4 p.2) costituita, tra le altre, da attività dirette a rendere chiaramente percepibili i benefici e i costi conseguenti alle sue scelte. Tra le variegate categorie di consumatori, il legislatore presta particolare attenzione verso i consumatori più vulnerabili.

L’analisi dei dati oggi disponibili (vedi ut infra – cap. 3), nonostante tutti gli sforzi messi in campo, dimostra che la politica di comunicazione del rischio attuata non ha ancora abbattuto l’atteggiamento passivo nei consumatori coinvolti nel processo.

Il nocciolo della questione, secondo una ricerca recente in tema di alimentazione sicura in ambito domestico con specifica attenzione al mantenimento ininterrotto della catena del freddo, ruoterebbe attorno ad una distorta percezione del rischio. Questa è, ancora, un qualcosa di estremamente personale e dipende dalle abitudini e dalle esperienze pregresse del soggetto consumatore. L’individuo tende, per natura, a sottovalutare i rischi connessi alle abitudini domestiche in tema di conservazione e consumo di alimenti, cioè quelli che si presentano quotidianamente (esempio raffreddamento protratto di cibi a temperatura ambiente) e quelli a bassa probabilità (esempio enterite da consumo di alimenti).

È stato, anzi, più volte dimostrato, che il consumatore tende, frequentemente, ad attribuire la responsabilità degli eventi clinici connessi al consumo di alimenti non al proprio ambiente domestico, ma a luoghi esterni ad esso (luoghi di produzione, commercio, o ristorazione collettiva o commerciale che sia). Egli ha la netta sensazione di maggiore sicurezza quando è lui stesso a preparare i propri pasti. Il consumatore ha un ruolo inequivocabilmente fondamentale nel contesto della sicurezza alimentare ma, al tempo stesso è l’elemento debole di tutto il sistema a causa della sua scarsa capacità di influire direttamente sui processi di produzione degli

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alimenti e della sua insufficiente formazione in tema di sicurezza alimentare. Un punto critico ulteriore consiste nel fatto che le attività di informazione dei mass media, di cui il consumatore è indiscusso bersaglio, rientrano sempre con maggior frequenza nella sfera della comunicazione allarmistica.

Nonostante la Comunità Europea sia molto attenta alla protezione del consumatore in senso lato e in particolare del consumatore di alimenti si può con assoluta serenità affermare che, allo stato attuale, non si sono ancora raggiunti livelli minimi di sicurezza nella pratica della refrigerazione degli alimenti in ambito domestico. È ineludibile che devono essere attuate, con carattere d’urgenza, misure di prevenzione immediata per formare un moderno consumatore di alimenti in ambito domestico.

In conclusione, consumare alimenti sicuri non è solo un diritto. Nella nostra Costituzione la parola «diritto» è presente ben 43 volte, mentre la parola «dovere» è riportata soltanto in cinque 5 occasioni ma non per questo può prevalere la logica del solo diritto e si può dare per scontato ogni dovere.

Gli attori coinvolti a pieno titolo dalla legislazione alimentare (operatore del settore alimentare e responsabili del controllo ufficiale) hanno l’obbligo di assolvere doveri ben precisi in

tema di sicurezza alimentare. Ogni consumatore di alimenti non può chiamarsi fuori dalla partita.

Egli ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra a mantenere il cibo in suo possesso in quel prezioso regime ininterrotto di sicurezza che tanto impegna anche economicamente la Comunità europea. Sembrerebbe quasi andar oltre consumare alimenti è solo un diritto? No, non è solo un diritto ma anche un dovere (da parte del consumatore). Per garantire la sicurezza degli alimenti ai consumatori e salvaguardare il settore agroalimentare da crisi ricorrenti, l’Unione Europea, e l’Italia come Paese membro, hanno

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adottato la strategia globale di intervento “sicurezza dai campi alla tavola”.

In questa formula è racchiuso lo spirito dell’intervento normativo e di controllo degli ultimi anni: affrontare la sfida di garantire cibi sani e sicuri lungo tutta la filiera produttiva, predisporre un controllo integrato e abbandonare l’approccio settoriale e verticale. Essa si basa su una combinazione di requisiti elevati per i prodotti alimentari e per la salute e il benessere degli animali e delle piante, siano essi prodotti all'interno dell'UE o importati.

Le prime valutazioni sul tema risalgono all’anno 1997 con il “Libro verde della Commissione sui principi generali della legislazione in materia alimentare dell’Unione Europea” e hanno trovato la formulazione condivisa nel “Libro Bianco sulla sicurezza alimentare” del 2000. Tali documenti fondamentali hanno ispirato l’impianto normativo comunitario in materia di sicurezza alimentare a partire dal Regolamento (CE) n. 178/2002 ("General Food Law"), che introduce il principio fondamentale di un approccio integrato di filiera ed evolve fino all’entrata in vigore del cosiddetto "Pacchetto Igiene" il 1° gennaio 2006 con cui cambiano definitivamente le regole comunitarie sull'igiene e il controllo ufficiale degli alimenti.

Attraverso il pacchetto igiene tutti gli Stati Membri hanno gli stessi criteri riguardo l’igiene della produzione degli alimenti e quindi i controlli di natura sanitaria vengono effettuati secondo i medesimi standard su tutto il territorio della Comunità Europea.

Precedentemente esistevano notevoli differenze tra le legislazioni dei vari paesi riguardo ai concetti, ai principi e alle procedure in materia alimentare. Uniformando le norme sanitarie, si rende così possibile la libera circolazione di alimenti sicuri contribuendo in maniera significativa al benessere dei cittadini nonché ai loro interessi sociali ed economici. I principi generali sui quali verte la nuova legislazione comunitaria sono:

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