SCUOLA DI MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MEDICINA E CHIRURGIA
Tesi di Laurea Magistrale
LA COMBINAZIONE DI CHEMIOTERAPIA E BEVACIZUMAB NEL
TRATTAMENTO DEL CARCINOMA OVARICO AVANZATO:
ANALISI DELLE RECIDIVE E DEI FATTORI PROGNOSTICI
RELATORE:
Chiar.mo Prof. Angiolo Gadducci
CANDIDATO:
Rachele Rocchi
ANNO ACCADEMICO 2017/2018
Sommario
RIASSUNTO ... 5 INTRODUZIONE ... 8 Epidemiologia ... 8 Classificazione anatomo-patologica classica ... 9 Tumore sieroso-papillare ... 10 Tumore mucinoso ... 11 Tumore endometrioide ... 12 Carcinoma indifferenziato ... 13 Carcinoma a cellule chiare ... 13 Tumore a cellule transizionali ... 13 Carcinoma misto ... 14 Patogenesi ... 15 Ipotesi "Ovarian surface epithelium”, OSE, secondo Fathalla (1971) ... 15 Ipotesi dei residui mülleriani ... 16 Ipotesi “Tube inner surface epithelium”, TSE (2001) ... 16 Tipizzazione molecolare del carcinoma ovarico (secondo R. J. Kurman) ... 19 Carcinomi ovarici di tipo I e carcinomi ovarici di tipo II ... 19 Carcinoma ovarico di tipo I ... 20 Carcinoma ovarico di tipo II ... 22 Fattori di rischio e fattori protettivi del carcinoma ovarico ... 24 Fattori endocrini ... 25 Fattori ambientali ... 26 Fattori eredito – familiari ... 27 Clinica ... 28 Screening ... 30 Diagnosi ... 31 I markers tumorali ... 34 Stadiazione ... 36 Staging classification for cancer of the ovary, fallopian tube, and peritoneum (2014): ... 36 Storia naturale ... 38 Terapia ... 39 Trattamento chirurgico ... 39 Citoriduzione chirurgica primaria ... 40 Chirurgia d’intervallo ... 44 Second look chirurgico ... 45 Chirurgia delle recidive di malattia ... 45 Chirurgia palliativa ... 46 Trattamento medico ... 46 Chemioterapia adiuvante nella malattia in stadio iniziale (stadio I e II FIGO) ... 46 Chemioterapia della malattia in fase avanzata (stadio III e IV FIGO) ... 48 Terapia anti-angiogenetica e a bersaglio molecolare ... 48 Chemioterapia di mantenimento/consolidamento ... 51 Terapia della recidiva ... 52 PARP inibitori ... 55 Follow up ... 59 Prognosi ... 61 OBIETTIVI DELLA TESI ... 64 MATERIALI E METODI ... 64 Analisi statistica ... 66 RISULTATI ... 67DISCUSSIONE ... 83 BIBLIOGRAFIA ... 88
RIASSUNTO
Il carcinoma ovarico rappresenta la patologia maligna con il più alto tasso di mortalità nelle donne e costituisce la quinta causa di morte per tumore nella donna e la prima per patologia oncologica nella sfera ginecologica. Nella popolazione generale il rischio di sviluppare un carcinoma ovarico è dell’1,8%, ma sale al 20-60% in coloro che presentano mutazione dei geni BRCA 1 e BRCA 2.
L’attuale standard di trattamento per la malattia avanzata consiste nell’approccio chirurgico primario con intento citoriduttivo “ottimale”, inteso come l’asportazione di tutte le localizzazioni di malattia macroscopicamente apprezzabili, seguito da una chemioterapia a base di platino e di Paclitaxel; tale trattamento è capace di raggiungere una percentuale di risposta clinica completa di circa il 50%, una percentuale di risposta patologica completa del 25-50%, una sopravvivenza libera da progressione di 15,5-22 mesi e una sopravvivenza globale di 31-44 mesi. Circa il 75% delle risposte cliniche complete e il 50% delle risposte patologiche complete ricadranno dopo un intervallo mediano di 18-24 mesi. Sebbene il carcinoma ovarico epiteliale sia una malattia chemiosensibile, cloni cellulari resistenti si sviluppano nella gran parte dei casi, spiegandone la cattiva prognosi. Infatti, negli ultimi 20 anni si è ottenuto solo un modesto miglioramento della sopravvivenza globale a 5 anni, che tuttora si assesta al 30% per le neoplasie ovariche di stadio avanzato.
Obiettivi della tesi sono stati:
i. L’analisi della sopravvivenza libera da progressione (Progression-Free Survival, PFS) e della sopravvivenza globale (Overall Survival, OS) nelle pazienti con carcinoma ovarico avanzato di alto grado con i fattori prognostici clinici, patologici e biologici;
ii. Lo studio del comportamento clinico del carcinoma ovarico recidivante in funzione dell’utilizzo o meno del Bevacizumab nel trattamento di prima linea e dello stato mutazionale del BRCA germinale [gBRCA].
Dall’analisi di 171 pazienti con carcinoma ovarico in stadio avanzato di alto grado sottoposte a chirurgia citoriduttiva primaria, seguita da chemioterapia a base di Carboplatino e Taxolo e seguite con follow-up periodico presso il Servizio di Ginecologia Oncologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana tra il Gennaio
2004 e il Giugno 2018, è emerso che la PFS a 2 anni e a 5 anni era 51,3% e 19,2%, rispettivamente, e la OS a 2 anni e a 5 anni era 92,5% e 63,1%, rispettivamente. La malattia residua dopo chirurgia, la presenza di ascite alla diagnosi e la risposta clinica al trattamento di prima linea correlano significativamente sia con la PFS sia con la OS. Per quanto riguarda il Bevacizumab in prima linea, le percentuali di risposta completa al trattamento primario sono significativamente maggiori (90,3% versus 75,2%, p=0,0163) e le percentuali di ripresa di malattia nelle complete responders sono significativamente minori (48,2% versus 78,0%, p=0,0005) nelle pazienti che hanno ricevuto questo farmaco rispetto a quelle che non lo hanno ricevuto. Tuttavia analizzando le complete responders andate incontro successivamente a ripresa di malattia, abbiamo osservato un trend ad una peggior sopravvivenza dopo la recidiva nelle pazienti che avevano ricevuto il Bevacizumab in prima linea rispetto a quelle non trattate con questo farmaco (sopravvivenze mediane 35,3 mesi versus 58,3 mesi, rispettivamente).
Le pazienti che hanno ricevuto l’antiangiogenico come terapia di mantenimento hanno mostrato un trend ad una migliore PFS a 2 anni (si versus no: 66,3% vs 43,9%, p=0,074), senza alcun vantaggio in termini di OS. Ulteriori studi sono necessari per verificare se il comportamento biologico della ripresa di malattia è diverso nelle pazienti trattate con il Bevacizumab rispetto a quelle non trattate con questo anticorpo monoclonale e se questo può, almeno in parte, spiegare l’apparente assenza di beneficio in termini di OS dell’aggiunta del Bevacizumab alla chemioterapia.
Infine, da recenti studi è emerso che le pazienti affette da carcinoma ovarico che presentano una mutazione del gBRCA abbiano un comportamento clinico più favorevole. In accordo con i dati della letteratura, dall’analisi delle 96 pazienti sottoposte a test per gBRCA, è risultato che le pazienti con gBRCA mutato sviluppano una più bassa incidenza di platino-resistenza (24,3% versus 42,4%) che inoltre insorge dopo un più lungo intervallo di tempo (45,4 mesi versus 26,0 mesi, p=0,0831) rispetto a quelle con BRCA wild-type. Le percentuali di risposta completa e le percentuali di ripresa di malattia nelle complete responders non correlano con lo stato mutazionale di BRCA. Analizzando le complete responders andate incontro a ripresa di malattia, abbiamo riscontrato un trend ad una miglior sopravvivenza dopo la recidiva nelle pazienti mutate rispetto a quelle non mutate. Dal momento che il BRCA rappresenta sia un biomarker predittivo della sensibilità al trattamento con i
PARP inibitori, con il platino e con altri farmaci, sia un biomarker prognostico dell’outcome clinico, le attuali linee guida consigliano di eseguire sistematicamente un test BRCA in tutte le pazienti che presentano un carcinoma ovarico epiteliale non mucinoso e non borderline al momento della diagnosi, in modo tale che queste informazioni siano disponibili tempestivamente per essere incluse nelle decisioni sulle successive strategie di trattamento ed anche nell’approccio ad una eventuale ricaduta.
I risultati insoddisfacenti ottenuti con il trattamento standard hanno incoraggiato la ricerca verso nuovi trattamenti attraverso la sperimentazione di diverse “targeted therapies” che possano essere usate anche come terapia di mantenimento, sia in prima che in seconda linea. Sono attualmente in corso studi randomizzati che tenteranno di rispondere a questo quesito (studi: SOLO-1, PAOLA-1, Imagyn 050).
INTRODUZIONE
Epidemiologia
Il carcinoma ovarico rappresenta la patologia maligna con il più alto tasso di mortalità nelle donne. Costituisce il 3% di tutte le neoplasie femminili ed è la quinta causa più comune di morte, nelle donne, dovuta al cancro1; nel 2014 sono stati stimati 21.980 casi di cui 12.270 sono deceduti. 2 Nella popolazione generale il rischio di sviluppare un carcinoma ovarico è dell’1,8%, ma sale al 20-60% nelle donne con mutazione di BRCA 1 e BRCA 2. 3 L’80-90% dei tumori ovarici si presenta in donne in età compresa fra i 20 e i 65 anni e meno del 5% in età pediatrica. Nella grande maggioranza dei casi (80%) si tratta di tumori benigni, di cui il 60% viene diagnosticato in donne tra i 20 e i 45 anni. Il 15-20% è di natura maligna e di questi il 90% viene diagnosticato nelle donne di età più avanzata, ossia tra i 45 e i 65 anni circa. Il restante 5-10% dei tumori ovarici viene definito a malignità intermedia (borderline) ed ha un picco di incidenza nella quarta e quinta decade.
L’incidenza delle neoplasie maligne ovariche varia nelle diverse aree geografiche; è più alta nelle regioni economicamente sviluppate per diminuire nei paesi in via di sviluppo. Si passa, infatti, da un tasso di incidenza di meno di 2 nuovi casi all’anno per 100.000 donne, nei paesi africani e nel sud-est asiatico, a 15 nuovi casi all’anno per 100.000 donne, in Europa e nel Nord America. 3
Tuttavia, studi di migrazione hanno dimostrato che l’incidenza non dipende esclusivamente da differenze razziali e genetiche, dal momento che questa tende ad avvicinarsi a quella del Paese di adozione piuttosto che a quella del Paese di origine. 4 Per quanto riguarda l’Italia, secondo il registro tumori AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), una donna su 74 si ammala di carcinoma ovarico e di queste, una su 104 muore a causa di questa neoplasia. La sua prevalenza è rimasta stabile negli ultimi due decenni intorno al 2%, mentre la sopravvivenza a 5 anni, secondo l'ultimo annual report, è passata dal 38% in pazienti trattate nel periodo 1990 – 1994 al 45.6% nel 2005 – 2011 e diminuisce drasticamente dall’89% per lo stadio IA al 18.6%
per lo stadio IV. Il numero di tumori ovarici stimati per il 2020 ed il 2030 in Italia, assumendo che i tassi età specifici siano costanti nel tempo, sono rispettivamente di 5339 e di 5756. 3
I tumori dell’ovaio possono originare da qualsiasi tipo cellulare presente nell’ovaio stesso; pertanto abbiamo: i tumori epiteliali che originano dall’epitelio di superficie derivato dall’epitelio celomatico, i tumori germinali che originano dalle cellule germinali ed infine i tumori stromali e dei cordoni sessuali che originano dallo stroma dell’ovaio, che comprende i cordoni sessuali.
I tumori epiteliali costituiscono il 75% di tutte le neoplasie ovariche, i germinali costituiscono il 15-20% e gli stromali e dei cordoni sessuali il 5-10%. Il restante 5% è rappresentato da metastasi ovariche a partenza da: colon, appendice, stomaco (Krukenberg), mammella, endometrio, cervice e linfomi.
Mentre la variante epiteliale rappresenta il 90% delle neoplasie maligne dell’ovaio, il restante 10% è costituito in misura variabile dai tumori germinali (3-5%), dagli stromali e dei cordoni sessuali (2-3%).
Inoltre se la variante germinale ha un picco di incidenza in età pediatrica e giovanile, le varianti epiteliale e stromale colpiscono maggiormente le donne in età adulta 1. I tumori stromali sono i più frequenti tumori funzionanti associati a manifestazioni endocrine, in quanto sono composti da cellule dello stroma ovarico, specializzate nella produzione di ormoni steroidei (estrogeni o androgeni).
La prognosi è sfavorevole non solo per la malignità intrinseca della patologia, ma anche a causa della mancanza di tecniche di screening efficaci che ci consentano di effettuare una diagnosi precoce e a causa della frequente diagnosi in stato avanzato per l’assenza di segni e sintomi specifici (circa il 75% delle pazienti si presenta con una malattia già in stadio avanzato che richiede un intervento chirurgico e una chemioterapia adiuvante) 2.
Classificazione anatomo-patologica classica
• Tumore sieroso-papillare; • Tumore mucinoso; • Tumore endometrioide; • Carcinoma indifferenziato; • Carcinoma a cellule chiare; • Tumore a cellule transizionali; • Carcinoma misto. Ogni istotipo viene ulteriormente sottoclassificato in benigno, bordeline e maligno a seconda dell’entità della proliferazione epiteliale, della presenza o meno di atipie cellulari e della presenza o assenza di invasione stromale. Quest’ultimo aspetto è di fondamentale importanza clinica in quanto si correla con la prognosi e con l’approccio terapeutico.
Ogni singolo istotipo ricorda le caratteristiche istologiche dei tessuti di derivazione mülleriana, in particolare i tumori sierosi vengono identificati con la mucosa tubarica, quelli endometrioidi con l'epitelio endometriale e quelli mucinosi con l'epitelio della cervice uterina e del tratto GI. Queste analogie hanno suscitato notevole interesse riguardo alla reale origine dei tumori epiteliali ovarici.
Tumore sieroso-papillare
E’ la variante più rappresentata (42%), più frequentemente benigno o borderline (75%). Presenta dimensioni variabili da pochi centimetri fino addirittura a 20-25 cm di diametro. Solitamente viene diagnosticata in fase avanzata; infatti difficilmente la massa tumorale sarà confinata all’ovaio al momento della diagnosi (<10% dei casi). E’ bilaterale nel 66% dei casi. La variante benigna può presentare una crescita esofitica o endofitica. Nel primo caso avremo papillomi di superficie formati da cisti e papille con epitelio colonnare ciliato
che somiglia all’epitelio della tuba uterina. Nel secondo caso si parla di cisto-adenoma sieroso o cisto-adenofibroma sieroso, a seconda della presenza o meno di una componente fibrosa. In generale queste ultime due varianti si presentano sotto forma di una cisti di grandi dimensioni, uniloculata, a contenuto liquido-sieroso limpido, dotata di una sottile parete rivestita da un singolo strato di cellule cilindriche.
La variante maligna, il cosiddetto cisto-adenocarcinoma, si presenta come una massa solida, di consistenza friabile, con aree necrotico-emorragiche ed aree cistiche. La crescita oltre la capsula ovarica e la crescita sulla superficie della gonade sono elementi frequenti.
Dal punto di vista istologico possiamo ulteriormente sotto-classificare questa variante maligna in due forme:
• Forma a bassa malignità, che si caratterizza per la presenza di papille sottili ed esili rivestite da cellule più atipiche rispetto alla variante borderline. Possono essere presenti corpi psammomatosi, ovvero formazioni calcifiche che indicano danno ischemico e distrofico. Dal punto di vista molecolare presentano una mutazione di BRAF e KRAS (tumore di tipo I secondo Kurman); • Forma ad alto grado di malignità, che si caratterizza per una crescita solida in assenza di papille. Le cellule sono francamente atipiche. Si pensa che sia una forma ad alto grado ab inizio piuttosto che una evoluzione della precedente. Dal punto di vista molecolare presenta una mutazione di p53 (tumore di tipo II di Kurman). Dal momento che queste due forme presentano diverse caratteristiche molecolari si ritiene che siano neoplasie differenti con una patogenesi indipendente. Vi è inoltre una forma anatomo-patologica definita “micropapillare” che pur essendo invasiva presenta un grado proliferativo non così marcato come il papillare, paragonabile a quello borderline. Tale forma è definita quindi a basso grado per distinguerla dalla lesione sierosa con malignità maggiore, detta ad alto grado.
Tumore mucinoso
è benigno o borderline, nel 15-20% dei casi è maligno. E’ unilaterale nel 90% dei casi, se bilaterale più spesso si tratta di una metastasi ovarica a partire da una neoplasia localizzata nel tratto GI. Tipicamente è di grandi dimensioni (>20cm). Macroscopicamente si presenta come una cisti uni- o multi-loculare con qualche gettone solido; le cavità contengono materiale mucinoso, viscoso, talvolta emorragico e presentano fini sepimentazioni.
All'esame microscopico appare costituito da cisti irregolari e strutture ghiandolari, delimitate da cellule mucinose cilindriche atipiche, disposte su quattro o più strati, che invadono lo stroma sottostante. Facendo una colorazione specifica per la mucina si potrà evidenziare il contenuto mucoso di queste cellule (blu con il PAS, rosso con il mucicarminio). Nella variante maligna potremo notare aree di necrosi ed emorragia all’interno.
Nell'ambito di questa variante si possono identificare due ulteriori subset, uno con elementi in comune agli adenomi villosi dell'intestino, l'altro con caratteristiche tipicamente endocervicali (viene perciò detto mülleriano), tuttavia quest'ultima tipologia non ha riscontro nella patologia maligna, ma solo in quella benigna e in quella borderline.
Tumore endometrioide
Questa variante è terza in ordine di frequenza rappresentando il 15% dei casi; è così chiamata perché ricorda le caratteristiche anatomo-patologiche di un carcinoma dell'endometrio uterino. E’ più spesso maligno, anche se può essere identificato più precocemente e quindi avere una prognosi migliore.
Può essere associato al carcinoma endometriale nel 15-20% dei casi.
Macroscopicamente si caratterizza per un aspetto solido e in un 30% dei casi è bilaterale. Microscopicamente si individuano due varianti:
• Forma classica: a causa della presenza di tubuli e ghiandole rivestite da un epitelio stratificato ha una stretta somiglianza all’endometrio in fase proliferativa;
• Forma indifferenziata: è caratterizzata da aree solide circondate da stroma desmoplastico.
Carcinoma indifferenziato
Questa variante anatomo-patologica è seconda per frequenza dopo il carcinoma sieroso rappresentando il 17% dei casi.
Si caratterizza per la presenza di atipie cellulari marcate ma non mostra elementi caratteristici delle altre categorie istologiche, è costituito da cellule giganti e mitosi atipiche; proprio questa sua eterogeneità e l'indice mitotico elevato lo rendono, dal punto di vista clinico, il tumore a prognosi peggiore.
Carcinoma a cellule chiare
E’ una variante che rappresenta il 5% dei tumori epiteliali ovarici.
Ha un picco di incidenza in età avanzata, intorno ai 70-80 anni circa. E’ più spesso maligno ed è associato a una prognosi infausta a causa della scarsa risposta alla terapia (in particolare hanno una bassa risposta alla chemioterapia con platino).
Poiché si verifica in concomitanza di un’endometriosi o di un carcinoma endometrioide e poiché somiglia al carcinoma a cellule chiare dell’endometrio, si ritiene che origini da strutture Mülleriane (tube e utero) e che sia una variante del carcinoma endometrioide.
Macroscopicamente si presenta con un aspetto cistico/solido, di grossa dimensione (raggiunge anche i 15 cm di diametro) ed è monolaterale nel 60% dei casi.
Microscopicamente è caratterizzato dalla presenza di papille, costituite a loro volta da cellule chiare, così chiamate per l’abbondante presenza di glicogeno nel loro citoplasma che conferisce ad esse un aspetto otticamente vuoto. Talvolta si ritrovano cellule “hobnail” così definite per la loro forma appuntita ad un polo. Tumore a cellule transizionali E' caratterizzato da elementi che istologicamente ricordano l’urotelio e le neoplasie uroteliali. Rappresenta il 2% delle neoplasie ovariche, di solito è monolaterale e di dimensioni variabili.
• Tumori di Brenner (95%): prevalentemente benigni, colpiscono le giovani donne. Macroscopicamente sono di aspetto giallastro e regolare; microscopicamente sono caratterizzati dalla presenza di nidi solidi di cellule epiteliali, che riproducono l’aspetto delle cellule transizionali, delle vie urinarie e proliferano in uno stroma fibroso. Le cellule sono monomorfe e tipiche;
• Carcinoma transizionale (5%): è maligno e più aggressivo rispetto al precedente. Spesso si associa ad altri tumori (adenoma sieroso). Microscopicamente presenta grosse atipie citologiche, che giustificano l’alta malignità.
Uno studio del 2008 ha mostrato che, analizzando con cura i cistoadenomi mucinosi, nel 18% dei casi si potevano ritrovare focolai di tumore di Brenner.
Partendo dal presupposto che i tumori di Brenner sono di piccole dimensioni (in media 0.5 cm), mentre quelli mucinosi sono di grandi dimensioni (in media 9cm), alcuni ricercatori sostengono che quando un tumore di Brenner cresce, la componente mucinosa prende il sopravvento e diviene dominante, portando allo sviluppo di quello che viene considerato un cistoadenoma mucinoso.
Queste scoperte sono intriganti, ma vanno considerate come preliminari, e dunque sono necessari studi morfologici e molecolari per dimostrare questa teoria.
Carcinoma misto
Questa variante ha frequenza pari al 2% e in essa vengono riconosciuti almeno due degli istotipi sovracitati.
In aggiunta alla classificazione istologica della OMS si considera quella della FIGO (International Federation Of Gynecology and Obstetrics) articolata in tre gradi di architettura microscopica considerando sia la proporzione tra componente papillare/ghiandolare, sia la componente di crescita solida della neoplasia.
Ai gradi 1, 2, 3 corrispondono rispettivamente fino al 5%, tra 5 e 50%, oltre il 50% di aspetto microscopico solido. 1, 2
Patogenesi
L’eterogeneità degli istotipi del carcinoma ovarico riflette la varietà dei processi patogenetici che portano al suo sviluppo.
Ipotesi "Ovarian surface epithelium”, OSE, secondo Fathalla (1971)
Tra le teorie avanzate per spiegare l’eziopatogenesi di questa neoplasia è degna di nota quella della “incessant ovulation” di Fathalla (1971), che mette in luce la possibile relazione tra il continuo coinvolgimento dell’epitelio di rivestimento dell’ovaio nel processo di ovulazione e lo sviluppo del carcinoma ovarico 5. Secondo questa teoria il carcinoma ovarico deriverebbe, infatti, dall'epitelio di rivestimento della gonade stessa, che in realtà è un mesotelio. La soluzione di continuo della superficie ovarica, dovuta alla deiscenza follicolare, rappresenterebbe il primum movens del processo di carcinogenesi; in particolare, in seguito alla soluzione di continuo, si verificherebbe un processo di invaginazione delle cellule dell’epitelio superficiale, le quali approfondandosi nello stroma sottostante, andrebbero a formare una cisti inclusionale. L’epitelio superficiale così intrappolato nelle cisti avrebbe un rischio più elevato di trasformazione neoplastica. Le numerose rotture e riparazioni sarebbero responsabili della trasformazione dell’epitelio (da mesotelio a epitelio mülleriano), delle mutazioni genetiche a suo carico e della successiva trasformazione maligna.
Tale meccanismo consente di spiegare il motivo per cui la nulliparità, il menarca precoce e la menopausa tardiva siano associate ad un aumentato rischio di sviluppare il tumore: più alto è il numero di ovulazioni nell’arco della vita di una donna, maggiori sono le probabilità che si verifichino delle mutazioni durante il processo di riparazione della soluzione di continuo determinata dall’ovulazione stessa. Viceversa, risultano protettivi fattori quali la multiparità, la menopausa precoce, l'allattamento e l'assunzione di contraccettivi orali. Successivamente è stata anche sottolineata l’importanza dei processi infiammatori che seguono al traumatismo dell’epitelio ovarico nel periodo post-ovulatorio. Ad ogni ciclo ovulatorio si liberano, infatti, citochine pro-infiammatorie, come le Interleuchine [IL-1], [IL-6], ed il Fattore di Necrosi Tumorale [TNF] che giocano un ruolo importante nel processo di riparazione
del tessuto e possono danneggiare la cromatina promuovendo la trasformazione maligna 6
Ipotesi dei residui mülleriani
L'ipotesi OSE di Fathalla ha come limite il fatto che alcuni tra gli istotipi descritti sono affini a strutture di derivazione mülleriana (tube, endometrio, cervice) che, a differenza della superficie ovarica di origine mesoteliale, si sviluppano dall'epitelio celomatico. Per giustificare questa discordanza è stata ipotizzata l'esistenza di un sistema mülleriano secondario in sede para-ovarica e para-tubarica: si tratterebbe di residui embrionali da cui prenderebbero origine formazioni neoplastiche cistiche che si addossano agli annessi.
Tuttavia sono state mosse due principali critiche verso questa teoria. In primo luogo, seppur vengano spesso riscontrate formazioni cistiche nella corticale ovarica, non sono mai state evidenziate lesioni para-tubariche o para-ovariche di carattere precanceroso che facciano presagire lo sviluppo della neoplasia maligna. In secondo luogo, non sono state identificate cisti che, per caratteristiche istologiche, siano accostabili all'epitelio simil-intestinale tipico dei tumori mucinosi, resterebbe così inspiegata la genesi di quel 12% di tumori maligni ovarici.
Ipotesi “Tube inner surface epithelium”, TSE (2001)
Uno studio sulle lesioni precancerose svolto nel 2001 da un gruppo di ricerca olandese ha evidenziato formazioni preneoplastiche in sede tubarica in donne che erano sottoposte a salpingo-ovariectomia bilaterale profilattica per alto rischio eredo-familiare. Successive conferme su casi analoghi hanno portato alla definizione di una nuova ipotesi, ovvero che i precursori del cancro ovarico derivano da cisti di epitelio tubarico ciliato-sieroso, andate incontro a displasia e migrate per esfoliazione dalle fimbrie alla superficie ovarica 7.
Tali formazioni preneoplastiche vengono indicate come “serous tubal intraephitelial
carcinomas” (STIC).
Una caratteristica di questi precursori consiste nella positività all’immunoistochimica per la proteina p53 (“p53 signature”) dovuta alla mutazione del gene codificante. Tale
pattern di colorazione è stato evidenziato sia con le STIC sia in tube apparentemente sane.
Uno studio a conferma di questa ipotesi è stato svolto da un gruppo danese che nel 2001 ha esaminato le tube di Falloppio di donne che avevano un elevato rischio eredo-familiare; questo trial ha descritto per la prima volta delle lesioni displastiche molto simili a quelle di un carcinoma ovarico sieroso di alto grado.
Studi successivi hanno poi confermato la presenza di queste lesioni displastiche STICs all’interno delle tube di pazienti ad alto rischio, includendo così il carcinoma tubarico tra i tumori associati alle mutazioni dei geni BRCA 8. Decisivo è stato poi riscontrare le stesse STICs anche a livello della mucosa tubarica nel 70% delle donne con carcinoma sporadico dell’ovaio. Queste osservazioni hanno avvalorato la tesi secondo cui le STICs, quasi sempre rinvenute a carico delle fimbrie, potessero essere di fatto le lesioni precorritrici e di conseguenza la fonte dei carcinomi sierosi di alto grado dell’ovaio, sia in pazienti con mutazione sia in quelle prive di mutazioni dei geni BRCA (anche se sia il carcinoma tubarico che quello ovarico, con iperespressione di p53, sono più frequenti nelle portatrici della mutazione del BRCA) 9.
Sono state avanzate diverse possibili spiegazioni riguardo a quel 30% di casi in cui all’esame istopatologico non sono rinvenibili STICs 10:
• STICs di piccole dimensioni potrebbero sfuggire ad un adeguato campionamento delle tube;
• Le STICs, una volta esfoliate dalle fimbrie, potrebbero essere invaginate dal mesotelio ovarico, formando cisti inclusionali all’interno della gonade e non essere quindi reperibili sulla mucosa tubarica;
• Le neoplasie sierose possono crescere velocemente andando ad obliterare le STICs.
Un ulteriore supporto alla tesi della primitività tubarica di queste lesioni a carico dell’epitelio ovarico è fornito dagli studi condotti sul profilo di espressione genica del carcinoma secondo cui quest’ultimo sarebbe più simile a quello dell’epitelio tubarico che non a quello dell’epitelio ovarico. I carcinomi sierosi di alto grado esprimono
PAX-8, un marker mülleriano, ma non la Calretinina, un marker mesoteliale. Inoltre le STICs concomitanti ad un carcinoma ovarico condividono non solo le caratteristiche morfologiche, ma hanno le stesse identiche mutazioni a carico del gene p53, il che è fortemente suggestivo di un’origine monoclonale delle due lesioni. La connessione tra p53 signature e le STICs appare, quindi, interessante ma necessita senz'altro di ulteriori ricerche prima di essere compresa appieno. Il passo successivo in questo ambito di ricerca è stato quello di verificare il nesso tra lesioni tubariche e carcinoma ovarico anche in soggetti affetti da tumore, non geneticamente predisposti.
Diversi studi sono stati quindi condotti in questo senso: in particolare, sono state valutate attentamente le tube di pazienti sottoposte a chirurgia citoriduttiva per carcinoma ovarico in diversi stadi e, nell'ambito dei tumori sierosi di alto grado, sono state riscontrate STICs nel 59-75% dei casi.
Anche i carcinomi di basso grado sarebbero riconducibili ad una origine tubarica. Nelle tube di donne con una neoplasia di basso grado si è riscontrata una “iperplasia papillare tubarica” caratterizzata da clusters di cellule papillari associati a corpi psammomatosi. Queste cellule, una volta esfoliate dalla mucosa tubarica, tenderebbero ad impiantarsi sull’ovaio, generando poi neoplasie di basso grado con caratteristiche simili all’iperplasia papillare tubarica. Questa scoperta spiegherebbe anche l’associazione tra il carcinoma sieroso di basso grado e l’endosalpingiosi, lesione in cui ghiandole a struttura papillare, simili all’epitelio tubarico, si ritrovano sulla superficie del peritoneo pelvico, dell’omento e nei linfonodi pelvici.
Studi genetici hanno dimostrato che anche i tumori a cellule chiare e i tumori endometrioidi non nascerebbero primitivamente dall’epitelio ovarico; questi tumori, infatti, si svilupperebbero a partire da cisti endometriosiche confinate all’interno o sulla superficie dell’ovaio; questo rende ragione della frequente associazione tra questi tumori e l’endometriosi.
Analogamente a quanto accade nella endometriosi il flusso mestruale retrogrado permetterebbe l’impianto sull’ovaio del tessuto ectopico, il quale esprimendo anormalità molecolari sarebbe in grado non solo di impiantarsi ma anche di sopravvivere e invadere ovaio e peritoneo. Questi studi sarebbero ulteriormente confermati da un’evidenza epidemiologica: la legatura tubarica, impedendo il flusso
retrogrado mestruale, farebbe crollare l’incidenza solamente per quanto riguarda i carcinomi endometrioidi e quelli a cellule chiare in donne con un numero di parti inferiore a quattro, suggerendo un meccanismo ormonale alla base 11.
Anche per i tumori mucinosi e a cellule di transizione è stata ipotizzata un’origine extra-ovarica. Infatti, secondo nuove ipotesi, essi avrebbero un’origine comune. Questi tumori sono spesso associati alla presenza di “Walthard cell Nests”, aggregati di epitelio di transizione a livello della giunzione tubo-peritoneale.
Tipizzazione molecolare del carcinoma ovarico (secondo R. J. Kurman)
In modo parallelo allo studio dei precursori, esiste una linea di ricerca che si concentra sulla patogenesi molecolare dei carcinomi ovarici, il cui scopo è quello di trovare nuovi possibili obiettivi per la terapia a bersaglio molecolare.
Carcinomi ovarici di tipo I e carcinomi ovarici di tipo II
Il carcinoma ovarico, nelle sue diverse forme istologiche e nei suoi diversi gradi di invasività, costituisce una patologia di difficile classificazione. Tuttavia, gli studi condotti fino al 2004 hanno portato Robert Kurman a proporre un modello di progressione del tumore. In questo modello i tumori sono divisi in due categorie, tumori di tipo I e tipo II, che hanno una diversa incidenza, patogenesi molecolare, caratterizzazione istopatologica, aggressività biologica e prognosi.
Dalla proposta della classificazione in tipo I e tipo II, sono stati pubblicati numerosi studi che conducono in diverse direzioni. Da un lato vi è la tendenza a confermare, con metodi sempre più accurati, la dicotomia, concentrandosi sui marcatori primariamente individuati ovvero KRAS, BRAF, ERBB2 e P53, dall'altro si cerca di indagare sul ruolo patogenetico di mutazioni in altri geni; sono state trovate inattivazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 (ipermetilazioni del promotore di BRCA e altri meccanismi) che determinano un deficit nei meccanismi di ricombinazione omologa, essenziali per la riparazione del DNA.
Questo modello dualistico non è di esclusivo interesse accademico, ma ha anche delle importanti implicazioni cliniche. La distinzione in tipo I e tipo II è da tenere in
considerazione nell’affrontare queste patologie, dal momento che permette un approccio più razionale alla diagnosi precoce e al trattamento.
Riguardo alla diagnosi precoce, la distinzione dei tumori in tipo I e II, molto diversi tra loro per storia naturale e aggressività, ci suggerisce come sia poco proficuo utilizzare le stesse tecniche diagnostiche indistintamente per tutti i tumori ovarici. Le neoplasie di tipo I, unilaterali e a crescita lenta, potrebbero essere diagnosticate in fase precoce con una visita ginecologica e una ecografia pelvica; alcune evidenze, infatti, sottolineano una progressione di questi carcinomi a partire da tumori cistici benigni passando poi attraverso stadi intermedi. Invece, le neoplasie di tipo II, molto più aggressive e subdole, non derivano da un precursore morfologico, ma insorgono direttamente, come carcinomi maligni ab inizio, su tube sane.
Per tale motivo, una diagnosi precoce nei tumori di tipo II potrebbe ottenersi teoricamente attraverso la ricerca di un gruppo di biomarcatori sensibili e specifici espressi precocemente durante la carcinogenesi ovarica ma, allo stato delle conoscenze attuali, non sono ancora stati identificati.
Carcinoma ovarico di tipo I
Comprende quelle neoplasie che si sviluppano da una lesione preesistente di tipo borderline, pertanto progrediscono al fenotipo aggressivo e maligno in modo graduale, dopo diversi anni di decorso indolente. Dal punto di vista istologico, hanno questo comportamento la forma mucinosa, quella endometrioide di basso grado, quella a cellule chiare e la forma sierosa micropapillare invasiva detta anche di basso grado. Tra i carcinomi ovarici, quelli di tipo 1 vengono definiti “a buona prognosi” in quanto la sopravvivenza a 5 anni, negli stadi superiori al primo, è del 40–50%. Da un punto di vista molecolare, il tipo I è caratterizzato dalla eterogeneità dei geni coinvolti, che possono essere RAS , RAF, CTNNB1, PTEN , PIK3CA, PI3K e ARID1A. In particolare, nel 60% dei carcinomi sierosi di basso grado si ritrovano mutazioni a carico dei proto-oncogeni KRAS e BRAF; è infatti sufficiente che uno dei due geni sia mutato per attivare via delle MAPK. La sequenza enzimatica è la seguente: RAS / RAF
/ MEK / ERK / MAP, che termina con l'attivazione della mitosi per passaggio dalla fase G1 alla fase S del ciclo cellulare, con attivazione della duplicazione di DNA.
Analizzando nel dettaglio i due geni KRAS e BRAF:
• KRAS. Utilizzando la Polymerase Chain Reaction (PCR) è stato osservato che i tumori con mutazioni di questo recettore sono le forme sierose borderline e le lesioni micropapillari sierose invasive, in percentuale del 30-50%; in misura minore sono interessati anche i carcinomi mucinosi. Le forme sierose alto grado di malignità, ossia i cisto-adenocarcinomi sierosi, non presentano questa mutazione. La presenza di mutazioni di KRAS in tumori sierosi borderline e in tumori maligni di basso grado micropapillari fa supporre l'esistenza di una continuità patogenetica tra le due forme. Al contrario, la forma sierosa ad alto grado risulta essere esclusa da questa progressione;
• BRAF. La mutazione di questo recettore interessa il 28-30% dei tumori sierosi borderline e dei carcinomi di basso grado micropapillari. Attraverso studi attuati con metodiche ultrasensibili, come la valutazione di Single Nucleotide Polymorphism, (SNP) per marcatori mutanti di BRAF, si arriva a definire la frequenza della forma mutata di BRAF per l'istotipo sieroso. La differenza è statisticamente significativa solo se si considera la stadiazione FIGO: negli stadi più avanzati la mutazione è significativamente meno frequente. Non viene rilevata, al contrario, una differenza significativa sul piano istologico tra i carcinomi sierosi di basso grado e quelli di alto grado. Riguardo ai tumori a cellule chiare e quelli endometrioidi, i dati sono discordanti: le percentuali di mutazioni oscillano tra il 10 e il 40%. I risultati sulle forme mucinose sono discordanti, l'unico dato costante indipendentemente dalle altre caratteristiche, è la mutua esclusività delle mutazioni di KRAS e BRAF.
Nei tumori endometrioidi di basso grado si possono trovare mutazioni a carico di CTNNB1, PTEN e PIK3CA. Il primo gene, che codifica per la β-catenina, in genere subisce mutazioni attivanti con conseguente alterazione della via di segnale Wnt/β- catenina, coinvolta nella proliferazione e nella motilità cellulare. Gli altri due geni coinvolti (PTEN, PIK3CA) regolano, invece, la chinasi PI3K, implicata nell’attivazione di vie di trasduzione del segnale. PTEN è un gene oncosoppressore che regola la
produzione di una fosfatasi Pten (“phosphatase and tensinhomolog”) la quale defosforila il substrato PI3 bloccando in questo modo la via della Akt. Dal punto di vista clinico, l'alterazione di questo gene dà origine alla Sindrome di Cowden, caratterizzata dalla compresenza di tumori ovarici e neoplasie cerebrali.
Nei tumori mucinosi si ritrovano mutazioni a carico di KRAS in più del 50% dei casi, mentre in quelli a cellule chiare sono presenti mutazioni a carico di PIK3CA e a livello di un oncosoppressore, ARID1A, gene che codifica per una proteina coinvolta nel rimodellamento della cromatina.
Mutazioni aggiuntive nell'ambito del carcinoma ovarico di tipo 1 sono quelle a carico di: ERBB2 / HER2 / neu.
Il gene ERBB2, detto anche Neu o HER2 (“Human EGF Receptor”) rientra nella famiglia ERB dei recettori per l'Epidermal growth factor receptor (EGFR). E' situato all'origine di una catena di trasduzione del segnale che coinvolge anche i geni KRAS e BRAF, nell'ambito della via delle MAPK. Per queste sue caratteristiche è stato studiato come oggetto di possibile mutazione nella patogenesi dei carcinomi ovarici di tipo I, in alternativa rispetto alle mutazioni dei geni caratterizzanti. Studi attraverso microarray mettono in evidenza l'espressione di HER2/ERBB2 in carcinomi sierosi di basso grado (9%). L'assenza di questa mutazione in tumori di alto grado e la mutua esclusività con le mutazioni di KRAS e BRAF lasciano supporre che questa sia una via rilevante per l'attivazione delle MAPK nei tumori di tipo I. Carcinoma ovarico di tipo II
Questo gruppo di neoplasie è caratterizzato da una rapida progressione, da una elevata aggressività, da una genetica instabile e da un'incidenza di diffusione alla diagnosi molto elevata, infatti il 75% di esse si presentano alla diagnosi già in stadio avanzato. Inoltre, sono tumori subdoli dal momento che non sono associati a lesioni riconoscibili morfologicamente come precursori tumorali, ma insorgono “de novo”. Le caratteristiche di questa tipologia di carcinoma fanno precipitare la sopravvivenza a 5 anni, negli stadi superiori al primo, al 9 – 34 %. La mutazione associata a questo profilo clinico è stata (fin dalla prima classificazione
del 2004) quella del gene P53. La proteina da esso codificata, p53, funge da oncosoppressore ed è un fattore fondamentale nella regolazione del ciclo cellulare, definito “guardiano del genoma” per la sua attività di prevenzione dalle mutazioni: in relazione alla presenza di danni al DNA, può indurre l'arresto del ciclo cellulare al checkpoint tra la fase G1 e la fase S, innescando l'apoptosi cellulare.
La mutazione del gene P53 e l’iperespressione della proteina p53 sono state riscontrate in percentuale variabile, dal 20 al 79%, nei carcinomi ovarici epiteliali, con frequenza maggiore nelle varianti ad alto grado 12. Studi immunoistochimici di P53 sul tumore ovarico sono numerosi, a titolo di esempio possiamo considerare una metanalisi del 2003 dalla quale emerge che mutazioni di questo oncosoppressore sono presenti nel 45% dei tumori ovarici maligni. Tra questi, le patologie maggiormente rappresentate da mutazioni di P53 sono i carcinomi di alto grado e in particolare: i sierosi di alto grado, i carcinomi endometrioidi di alto grado, i carcinomi indifferenziati e i carcinosarcomi ovvero quei tumori mesodermici maligni misti, con componente epiteliale identica a quella degli istotipi appena citati. Considerando questi tumori nel loro insieme, la frequenza di mutazioni di P53 è del 45-50%, tuttavia, con metodiche più accurate basate sulla purificazione dei campioni e sullo studio mediante PCR delle mutazioni, si può identificare una frequenza dell'80% di forme anomale di P53 nei tumori sierosi di alto grado, altresì, i tumori sierosi di basso grado si presentano in percentuale minore (7,7%).
Anche se non è riportata la significatività statistica di tale differenza, i dati sono sufficientemente diversificati da poter supportare la dicotomia tra tipo I e tipo II. 13, 14 In aggiunta alla mutazione del gene P53, grazie all'analisi degli SNP, è stato possibile identificare altri geni mutanti:
• CCNE1 gene codificante la ciclina E1, questa si lega alla chinasi ciclina-dipendente 2 (CDK2), la quale fosforila pRb (proteina del retinoblastoma), di conseguenza l'elongation factor 2 (E2F), che è costitutivamente inibito da pRb, è libero di attivare la duplicazione di DNA a livello nucleare. Il gene CCNE1 è amplificato per un numero maggiore di 3 volte nel 33% dei carcinomi sierosi di alto grado; • AKT2 e PIK3CA. AKT2 codifica per una serina/ treonina kinasi contenente un
dominio SH2-like (Srchomology 2 - like). E’ implicata in diverse vie di trasduzione del segnale tra cui quella di m-Tor; risulta amplificata nel 28% dei carcinomi ovarici sierosi di alto grado. 15 Anche PIK3CA codifica per una chinasi implicata nella via di m-TOR situata immediatamente a monte di Akt, tuttavia la sua frequenza di amplificazione è modesta, del 9%;
• PARP. Il gene PARP codifica per la poli (ADP-ribosio) polimerasi, un enzima che è implicato nella riparazione dei danni a singola elica (SSB, single stranded break) ma interviene anche nella riparazione dei danni a doppia elica (DSB, double stranded break) attraverso la ricombinazione non omologa. In caso di mutazioni di BRCA 1-2 nella linea germinale, questo meccanismo di riparazione rimane l'unico in grado di ovviare ai danni al DNA. Quando si verificano anche alterazioni del gene PARP, i danni genomici non possono essere riparati e la cellula innesca l'apoptosi, l'utilizzo di PARP-inibitori pertanto è indicata per il trattamento delle pazienti portatrici della mutazione germinale del gene BRCA 1-2. Tuttavia è stato evidenziato che lo stesso ragionamento può essere fatto per quei tumori sporadici con mutazioni somatiche di BRCA 16 (11-35% dei carcinomi epiteliali ovarici). Non necessariamente si tratta di un danno diretto ai codoni dei BRCA, ci sono diversi meccanismi epigenetici di silenziamento di queste sequenze, quale per esempio la metilazione del promotore. A questo si associano mutazioni di p53 e PTEN. Nel complesso questo profilo viene definito BRCAness e una caratteristica tipica di questo gruppo è la sensibilità a tutti i farmaci che agiscono alterando il DNA, come i composti di coordinazione del platino (cisplatino e carboplatino).
Fattori di rischio e fattori protettivi del carcinoma ovarico
L’eziologia del carcinoma ovarico è ancora oggi sconosciuta.
Prendiamo in considerazione fattori di rischio di carattere: endocrino, ambientale, familiare e genetico.
Fattori endocrini
Il rischio di carcinoma ovarico è direttamente proporzionale all’età ovulatoria della donna. È stata dimostrata una riduzione del rischio del carcinoma ovarico in seguito all’uso di contraccettivi orali, indipendentemente dalla combinazione ormonale. Il meccanismo biologico con il quale i contraccettivi orali agiscono è quello di ridurre il numero delle ovulazioni. La protezione totale conferisce una riduzione del rischio del 40% e aumenta al 50% in coloro che sono in trattamento con contraccettivi da almeno cinque anni, con un effetto favorevole che persiste fino a 10-15 anni dalla sospensione della terapia. 17 Uno studio ha riportato come le pillole con progestinici ad alta potenza conferiscano una maggiore riduzione del rischio rispetto alle formulazioni con progestinici a bassa potenza. 18
È stato visto che durante la gravidanza e durante l’uso dei contraccettivi orali c’è un basso livello basale di gonadotropine; tale evento riduce ulteriormente l’incidenza del carcinoma ovarico. Partendo dal presupposto che il carcinoma ovarico si sviluppa con maggiore frequenza nel periodo menopausale, caratterizzato da un elevato livello di gonadotropine, è stato ipotizzato che farmaci come il clomifene citrato e le gonadotropine, utilizzati in donne affette da infertilità e sottoposte a tecniche di fecondazione assistita, quali la FIVET, costituiscono un fattore di rischio per lo sviluppo di carcinomi ovarici. 19 Questi farmaci infatti stimolano la secrezione di GNRH da parte dei nuclei ipotalamici con conseguente secrezione di FSH e LH dall’ipofisi. Confrontando le donne nullipare trattate con questi farmaci e le nullipare non trattate con questi farmaci non sono state osservate differenze significative in termini di incidenza, mettendo in risalto come sia l’infertilità ad aumentare il rischio di carcinoma e non i farmaci che inducono l’ovulazione. 20
Nel 2002 uno studio di Rodriguez dimostrò l’importanza del ruolo pro-apoptotico che i contraccettivi orali estroprogestinici avevano sull’epitelio ovarico. Lo studio fu condotto su quattro gruppi di Macacus Reshus sottoposti a differente alimentazione per 35 mesi. L’alimentazione del primo gruppo veniva integrata con solo progesterone, quella del secondo con soli estrogeni, quella del terzo sia con progesterone che con estrogeni, e quella del quarto non veniva integrata con alcun tipo di ormone. Dopo questo periodo, analizzando le ovaie delle scimmie, fu scoperto
che quelle appartenenti al gruppo alimentato con integrazione di progesterone mostravano cellule dell’epitelio ovarico con indici apoptotici più elevati rispetto a quelle dei gruppi alimentati solo con estrogeni o senza nessun supplemento ormonale; suggerendo così un probabile ruolo chemiopreventivo dei progestinici o di qualsiasi altro agente che agisse inducendo l’apoptosi dell’epitelio di superficie dell’ovaio, analogamente ad essi. 21 L’aumentato indice apoptotico si dimostrò essere correlato al decremento dell’espressione del transforming growth factor - beta [TGF-β1] e all’aumento dell’espressione del TGF-β2/3. Gli estrogeni, al contrario, non influenzavano l’espressione delle varie isoforme del TGF- β, e determinavano, invece, una riduzione dell’indice apoptotico. Diciotto altri studi contribuirono a dimostrare l’effetto pro-apoptotico del progesterone, svolto non solo attraverso la modulazione delle varie isoforme del TGF-β, ma anche attraverso l’attivazione del sistema Fast/FastL. Al contrario, gli estrogeni ridurrebbero l’apoptosi stimolando la produzione di fattori anti-apoptotici, come Bcl-2.
Fattori ambientali
La più alta incidenza di questo carcinoma si verifica nei paesi industrializzati ad eccezione del Giappone. 22 Una correlazione accertata con l’insorgenza del carcinoma ovarico è l’alimentazione; in particolare è stato messo in evidenza che l’incidenza aumenta nelle donne che consumano grandi quantità di carni rosse. Al contrario, il basso contenuto di carni rosse ed una dieta di ricca di acidi grassi polinsaturi omega 3 e omega 6 svolgerebbe un ruolo protettivo. 23
È stato suggerito che l’uso di talco nella regione perineale potrebbe aumentare il rischio di questa neoplasia. 24
Fumo di sigaretta e consumo di alcool, caffè decaffeinato e tè non sembrano avere evidenti relazioni con un aumento del rischio di sviluppare un carcinoma ovarico. Per contro, nel corso degli anni si sono raccolti dati non del tutto chiari sul consumo di caffè; alcuni studi hanno riportato che il consumo abituale di caffè (fino a 4-5 al giorno per 40 anni) aumenterebbe, seppur in maniera minima, il rischio di sviluppare il carcinoma ovarico. 24-26 Altri studi, in particolare quelli condotti ad Atene tra il 1989 e il 1991, hanno riportato che il consumo di caffè non ha alcuna influenza sullo sviluppo del cancro ovarico, escludendolo così dai fattori di rischio. 27
Fattori eredito – familiari
E’ possibile riscontrare una componente familiare nel 4-5% dei carcinomi ovarici.28 Nonostante questa percentuale sia bassa, la storia familiare costituisce il più importante fattore di rischio per questo tipo di tumore. Esistono tre manifestazioni cliniche del carcinoma ovarico ereditario: • Sindrome del cancro ovarico sito-specifico; • Sindrome familiare del carcinoma dell’ovaio e della mammella (Breast ovarian cancer syndrome); • Sindrome di Lynch tipo 2.
Le prime due sono associate alla mutazione dei geni onco-soppressori BRCA1 e BRCA2, mentre la sindrome di Lynch è associata alla mutazione dei geni mismatch – repair system.
Nella sindrome familiare del carcinoma della mammella-ovaio le donne hanno il rischio di sviluppare tumori alla mammella, oltre a quelli dell’ovaio. Le donne portatrici della mutazione BRCA1 hanno un rischio del 51% di sviluppare un tumore della mammella entro i 50 anni e dell’85% entro i 70 anni di età. Per il tumore dell’ovaio c’è un rischio del 30% e del 66% rispettivamente entro i 60 e i 70 anni. In caso di mutazione BRCA2, l’insorgenza del tumore sarà più tardiva e il rischio è più basso per la mammella e per l’ovaio (11-30%) rispetto alla mutazione di BRCA1, ma vi è un maggior rischio di sviluppare un carcinoma mammario nel sesso maschile, un carcinoma pancreatico e il sottotipo B dell’anemia di Fanconi.
Esiste un’altra sindrome legata alla mutazione dei geni BRCA1 e 2, la site specific
ovarian cancer, che però è molto meno frequente rispetto alla precedente. In questa
sindrome le pazienti hanno il rischio di sviluppare esclusivamente un tumore ovarico. La maggior parte di queste neoplasie vengono diagnosticate in giovane età, sono di alto grado e con stadio FIGO avanzato. L’istotipo più frequente è quello sieroso. Il carcinoma ereditario ha un decorso migliore con sopravvivenza totale maggiore e un più lungo intervallo libero da malattie rispetto al tumore sporadico.
La sindrome di Lynch include il carcinoma del colon non associato a poliposi, il carcinoma dell’endometrio, il carcinoma dell’ovaio (2-4% dei tumori ovarici), il
carcinoma gastrico ed il tumore della mammella. E’ legata alla trasmissione autosomica dominante di mutazioni a carico di geni del Mismatch Repair System, implicati nella riparazione del DNA. 16
Un esiguo numero di carcinomi ovarici fa parte dello spettro di neoplasie che si possono sviluppare nella sindrome di Li - Fraumeni. Questa sindrome è caratterizzata da una mutazione del gene p53 (17p13), gene oncosoppressore essenziale nella protezione nei confronti di eventuali danni arrecati al DNA. Gli individui portatori di questa mutazione hanno un rischio aumentato di sviluppare diverse neoplasie, quali tumori del seno e dell’ovaio, sarcomi, leucemie acute, tumori cerebrali e carcinomi adrenocorticali. 29
Altre manifestazioni del carcinoma ovarico nel contesto di una sindrome eredito-familiare, ma con un’incidenza minore rispetto alle precedenti, sono: la Sindrome di Cowden, legata a una mutazione di PTEN, con associazione tra tumori ovarici e tumori cerebrali e la Sindrome di Gorlin, legata a una mutazione di PTC, con associazione tra tumori ovarici e nevi multipli. 3
Clinica
Il carcinoma ovarico è una malattia che per gran parte della sua storia biologica resta asintomatica e per questo molto insidiosa, a tal punto da essere definito da molti “killer silenzioso”.
La distinzione del carcinoma ovarico secondo la classificazione di Kurman risulta di notevole importanza anche per quanto riguarda la presentazione clinica della malattia, infatti vi è notevole differenza di presentazione tra tumori di tipo 1 e quelli di tipo 2. 30 I carcinomi di tipo 1 hanno un volume neoplastico maggiore e possono dare precocemente una sintomatologia da compressione sulle strutture adiacenti; in questo modo danno segno di sé, permettendo al ginecologo una diagnosi precoce che avrà un’incidenza notevole sulla prognosi di queste pazienti. I carcinomi di tipo 2, invece, hanno tipicamente un volume minore e questo implica minori disturbi ginecologici, tuttavia risultano biologicamente più aggressivi; questo connubio fa sì
che la prognosi di questo gruppo sia infausta. All’interno della pelvi femminile può crescere, infatti, senza creare una sintomatologia compressiva, tanto che in oltre il 70% dei casi la diagnosi avviene in uno stadio tardivo. I sintomi, quando presenti, sono del tutto aspecifici; le pazienti riferiscono astenia, dolore e gonfiore addominale oppure possono riferire sintomi di natura gastrointestinale come nausea, vomito, sazietà precoce, dispepsia e costipazione oppure sintomi inquadrabili nella sfera urinaria, come urgenza minzionale.
In fase avanzata la sintomatologia diventa, in ogni caso, sempre più conclamata. Oltre alla classica sintomatologia da malattia oncologica che si manifesta con astenia, cachessia, anoressia e decadimento fisico-psichico si aggiunge la distensione addominale, dovuta alla presenza di ascite legata alla produzione ingente di vascular endothelial growth factor [VEGF] da parte del tumore stesso; tale fattore, aumentando la permeabilità dei vasi determina un’abbondante trasudazione all’interno del cavo peritoneale. Il versamento addominale, qualora sia cospicuo, può causare, a sua volta, una diminuita escursione del diaframma promuovendo quadri dispnoici. Oltre all’ascite il tumore può dare segno della sua presenza con fenomeni di tipo sub-occlusivo o francamente occlusivo a carico dell’intestino o una compressione a livello delle vie urinarie. Altri sintomi frequenti quanto aspecifici sono: senso di pesantezza/tensione addominale, nonché una vaga e mal delimitabile dolenzia lombare/addominale. Uno studio prospettico caso-controllo ha analizzato i sintomi del carcinoma ovarico in 1709 donne. Il sintomo più comune è stato il dolore lombare (45%), seguito da astenia (34%), gonfiore addominale secondario ad ascite (27%), stipsi (24%), dolore addominale dovuto alle complicanze cui il tumore può andare incontro come emorragia, rottura o torsione del peduncolo (22%) e sintomi urinari quali stipsi, pollachiuria e disuria, dispareunia (16%). Tale studio mette in evidenza come questi sintomi siano più frequenti e di entità maggiore in donne affette dalla forma maligna del tumore rispetto a coloro che hanno una variante benigna. Una manifestazione tardiva è l’occlusione intestinale; questa può essere legata a una condizione di carcinosi peritoneale che provoca la compressione e l’occlusione di tratti di intestino o la loro paralisi. 31
Screening
La diagnosi precoce resta senza dubbio lo strumento più efficace per ridurre la mortalità di questo tumore. 32 Tuttavia, nonostante i molteplici sforzi compiuti nel cercare un metodo affidabile, ad oggi non esiste ancora un sistema di screening della popolazione generale che possa portare ad una diagnosi precoce di questa malattia in quanto non sono state trovate metodiche adeguatamente sensibili tantomeno dotate di un’alta specificità. Un test di screening valido, infatti, dovrebbe avere una valore predittivo positivo almeno del 10% dei casi e una specificità almeno del 99.6%; solamente in questo modo si può evitare di sottoporre inutilmente donne sane a procedure chirurgiche invasive con le conseguenti complicanze, vanificando i vantaggi di una possibile diagnosi precoce. 33 Uno dei primi studi a riguardo è stato un trial multicentrico americano che tra il 1993 ed il 2001 ha arruolato 78.232 donne, di età compresa tra i 55 e i 74 anni, dividendo le pazienti in due diversi gruppi. Un gruppo non veniva sottoposto a nessun controllo routinario e l’altro, invece, veniva sottoposto ad una ecografia transvaginale per 4 anni e al dosaggio del Ca125 per 6 anni. I risultati furono deludenti visto che questi strumenti non solo non riuscivano a ridurre la mortalità ma si associavano ad una incidenza non trascurabile di morbilità iatrogena per interventi chirurgici non necessari nell'ambito di patologia ovarica benigna. 34 Uno studio successivo inglese, lo United Kingdom Collaborative Trial of
Ovarian Cancer screening (UKCTOCS), condotto tra il 2001 ed il 2005 mirava a
dimostrare come, nello screening del carcinoma ovarico, misurazioni seriate del Ca125 potessero essere più affidabili ed attendibili del mero riscontro di un singolo valore dell’antigene al di sopra di un cut-off. 35 Questo studio aveva arruolato circa 202.360 donne in post menopausa divise in tre gruppi: le pazienti del primo braccio erano di controllo e quindi non sottoposte a nessuna indagine, quelle del secondo gruppo invece venivano sottoposte ad una ecografia trans-vaginale annuale; il terzo gruppo infine veniva sottoposto ad uno screening multimodale, ossia veniva dosato il Ca125 annualmente e la sua interpretazione era valutata attraverso l’utilizzo dell’algoritmo ROC (Risk Ovarian Cancer algorithm, un particolare algoritmo ottenuto dalla valutazione della retta di regressione, riportando il valore esponenziale del Ca 125 in scala logaritmica) al quale si aggiungeva, qualora il dato ottenuto fosse risultato anomalo, una ecografia trans-vaginale come esame di secondo livello. I dati
ottenuti sono stati molto incoraggianti avendo ottenuto una specificità ed una sensibilità rispettivamente del 99,8% e dell’89,0% nel gruppo sottoposto a screening multimodale rispetto al gruppo sottoposto solamente ad ecografia, tuttavia è necessario attendere i dati relativi alla mortalità prima di definire l’effettiva efficacia di questo programma di screening. E' stato evidenziato un nuovo marcatore per il carcinoma ovarico, l'HE4 (Human epididymis protein 4), analizzato per la prima volta nel secreto prostatico; questo marker ha una maggiore specificità del Ca125 in quanto, a differenza di quest’ultimo, non si positivizza in caso di endometriosi ed endometriomi. 36
Diverso invece il discorso resta per lo screening di quelle pazienti che presentano una familiarità positiva per carcinoma ovarico o che sono portatrici di mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2 o appartenenti a famiglie con sindrome di Lynch; in questi casi le linee guida della “National Comprehensive Cancer Network” (NCCN) raccomandano una ecografia trans-vaginale ed il dosaggio del Ca125 ogni 6 mesi a partire dai 35 anni. In questa categoria di pazienti ad alto rischio, è stato suggerito come test di screening l’OVALiFE, test più completo e complesso del semplice dosaggio del Ca125, dal momento che avrebbe una sensibilità del 95,3% e una specificità del 99%. L’OVALiFE consiste nel dosaggio sierico di sei diversi marcatori: leptina, prolattina, osteopontina, IGF2, Ca125 ed il fattore inibitorio dei macrofagi (MIF). Tuttavia non si dispone ancora di dati attendibili sulla validità di questo metodo.
Diagnosi
Il processo diagnostico è complesso e articolato in varie fasi; il sospetto clinico nei confronti di una massa pelvica di incerta natura si basa sull’integrazione di dati che provengono dall’anamnesi, dall’età della paziente, dai rilievi clinici, dai risultati dell’ecografia transvaginale e/o di altre metodiche di imaging (TC e RMN) e dal dosaggio di markers tumorali. In ogni caso, comunque, la diagnosi di certezza è affidata alla chirurgia che permette l’asportazione della massa tumorale e di conseguenza ci consente di ottenere la diagnosi istologica definitiva e la stadiazione di malattia. In caso di sospetto di neoplasia ovarica, il primo passo da fare è
un’accurata raccolta dei dati anamnestici; l’età della paziente è un dato molto importante, in quanto il rischio di malignità di una neoformazione ovarica va dal 13% in pre-menopausa al 45% in post-menopausa. Dobbiamo poi indagare sulla storia clinica e sull'anamnesi ostetrica - ginecologica.
La visita ginecologica permette di identificare la massa pelvica mediante palpazione bimanuale retto-vaginale e verificare l'eventuale infiltrazione del cavo del Douglas o dello spazio vescico-vaginale, valutare la sede e le dimensioni della massa ma anche la sua consistenza, i rapporti che essa contrae con gli organi pelvici e la mobilità. L’identificazione di una massa in sede annessiale, con diametro superiore a 5 cm, fissa, a superficie irregolare, di consistenza aumentata, spesso bilaterale può porre il sospetto di neoplasia, specie se associata a disturbi compressivi a carico delle vie urinarie o del colon, a rigonfiamento addominale o ad algie. Bisogna sempre associare l’esame obiettivo generale alla visita ginecologica; questo permette una valutazione dell’eventuale diffusione del tumore tramite metastasi linfonodali superficiali, di ascite, di versamento pleurico e di edema agli arti inferiori.
Di fronte a un sospetto clinico, a questo punto, si ricorre agli esami strumentali. La principale indagine strumentale utilizzata è l’ecografia pelvica e transvaginale (per la sua bassa invasività, l’elevata disponibilità e i bassi costi) associata al color Doppler. Lo studio multicentrico IOTA (International Ovarian Tumor Analysis Group) ha ottenuto importanti risultati nella diagnostica delle neoplasie ovariche, permettendo la standardizzazione della metodologia da seguire per la valutazione ecografica di una massa annessiale e la definizione di tutti i parametri ecografici da rilevare nel corso dell’esame stesso. 37 La raccolta standardizzata dei dati ecografici di più di 1000 pazienti con massa pelvica ha consentito la realizzazione di un vasto database che ha permesso lo sviluppo di nuovi modelli matematici. In questo studio sono state analizzate circa 50 variabili cliniche ed ecografiche: le neoplasie ovariche maligne hanno mostrato una maggiore percentuale di bilateralità, presenza di ascite, di papille irregolari con all’interno flusso ematico, e di irregolarità di parete cistica interna. Nelle lesioni benigne, altresì, è stata riscontrata una più elevata percentuale di dolore pelvico, di setti incompleti, di cono d’ombra e di flusso sanguigno solo venoso. Le variabili indipendenti risultate significative all’analisi multivariata sono state
l’anamnesi personale di carcinoma ovarico, la terapia ormonale, l’età, il diametro massimo della lesione, il dolore, l’ascite, la presenza di flusso all’interno di una papilla, la presenza di una neoplasia interamente solida, il diametro della componente solida, l’irregolarità della parete cistica interna, il cono d’ombra ecografico e la valutazione semi-quantitativa della vascolarizzazione all’interno della lesione. Con i dati raccolti nel database è stato possibile sviluppare un modello di regressione logistica che ha mostrato un’elevata accuratezza diagnostica. 38
In base ai riscontri ecografici le masse ovariche vengono classificate in tre classi:
• Massa probabilmente benigna: caratterizzata da dimensioni inferiori ai 5 cm, pareti sottili, assenza di setti all’interno, contenuto anecogeno, assenza di liquido nel cavo del Douglas;
• Massa dubbia: caratterizzata da diametro tra 5 e 10 cm, contenuto liquido ipoecogeno e solido-omogeneo, parete liscia, regolare e spessa, assenza di vegetazioni all’interno della cisti e presenza di più di tre setti, assenza di liquido ascitico a livello peritoneale;
• Massa probabilmente maligna: non viene osservata nessuna delle suddette caratteristiche.
Ovviamente l’intera valutazione clinica deve essere supportata dall’anamnesi della paziente e quindi degli eventuali fattori di rischio come: età, dieta, familiarità e anamnesi ginecologica.
TC e RMN non vengono utilizzate di routine ma permettono di definire dettagliatamente le caratteristiche della lesione, la sua estensione e l’eventuale presenza di metastasi endo-addominali o linfonodali. Queste informazioni sono importanti per la stadiazione della malattia e la programmazione dell’intervento chirurgico.
La PET è attualmente utilizzata nella valutazione della recidiva di malattia. L’associazione PET/TAC ha dimostrato una elevata sensibilità ed un valore predittivo positivo nelle pazienti con recidiva biochimica di carcinoma ovarico, ma senza evidenze cliniche o alla TAC.
infiltrazione degli organi contigui o di secondarietà della lesione ovarica (tumore di Krukenberg). I markers tumorali Un altro elemento imprescindibile per la diagnosi dei tumori ovarici è il dosaggio dei marcatori tumorali, che non solo ci aiuta a compiere una prima distinzione fra i vari istotipi dei tumori ovarici ma è anche utile nel follow-up post trattamento.
Ca125. L’antigene carboidratico 125 è il marcatore sierico più attendibile per il carcinoma ovarico. È una glicoproteina umana delle famiglia delle mucine che viene prodotta dalle sierose; è conosciuta anche come Mucina 16 (o MUC16). Dal momento che viene prodotta dalle sierose, una certa reattività per il Ca 125 è stata trovata anche nelle cellule mesoteliali della pleura, del pericardio e del peritoneo. E’ normalmente espresso anche nel tessuto endometriale, per cui elevati livelli possono essere evidenziati durante la fase mestruale e nella gravidanza iniziale. Fu scoperta nel 1981 da Bast e colleghi grazie all’utilizzo dell’anticorpo monoclonale OC125, ottenuto per immunizzazione di animali da laboratorio con una linea cellulare di tumore ovarico; essi videro che OC125 era in grado di reagire con ognuna delle sei varianti di carcinoma epiteliale ovarico, ma non reagiva con alcune delle forme benigne. 39 Tutti gli istotipi di carcinoma ovarico esprimono questo antigene, ad eccezione di quello mucinoso; esiste inoltre una correlazione positiva tra i livelli sierici di Ca125 e la dimensione dei tumori. Di notevole importanza nell’accuratezza diagnostica è l’associazione del dosaggio del Ca125 con i risultati dell’indagine ecografica. Un incremento del Ca 125 oltre le 35 U/ml si verifica in circa l’80% dei carcinomi ovarici di istotipo non mucinoso; in particolare la percentuale di positività al test è alta nelle fasi avanzate di malattia (> 90%) e bassa negli stadi iniziali (circa 50%). Il Ca 125 è inoltre molto utile per monitorare il cancro ovarico nel tempo; la diminuzione dei valori di Ca 125, rispetto ai valori iniziali, nel corso del primo ciclo di chemioterapia costituiscono un importante indice prognostico. Valori persistentemente elevati al “second look” chirurgico indicano la presenza di residui tumorali con una specificità superiore al 95%. Livelli di Ca 125 maggiori di 35 U/ml sono presenti, anche, nel 20-30% delle donne con masse annessiali benigne; tuttavia in questi casi il livello dell’antigene raramente supera 80- 100 U/ml. Valori elevati