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"Generazione di vettori lentivirali per la produzione di cellule HUVEC funzionanti come sensori di differenziamento endoteliale"

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Tesi di Laurea Magistrale

In Biotecnologie Molecolari e Industriali

Generazione di vettori lentivirali per

la produzione di cellule HUVEC

funzionanti come sensori di

differenziamento endoteliale

 

Candidato: Relatore:

(2)

INDICE

RIASSUNTO

I

1.INTRODUZIONE

1

1.1 L’endotelio: caratteristiche cellulari e funzionali

1 1.2 La proteina CLAUDINA-5, marcatore specifico

delle cellule endoteliali 6

1.3 Aterosclerosi e angioplastica: problemi

relativi alla biocompatibilità dei materiali protesici 11

1.4 Le HUVEC come modello per lo studio

endoteliale in vitro 16

1.5 Generazione di cellule HUVEC geneticamente

modificate: la scelta dell’utilizzo di vettori lentivirali 17 1.6 Caratteristiche dei vettori lentivirali e loro

evoluzione: i vantaggi dell’utilizzo dei SIN 19

1.7 Scopo della tesi 27

2.MATERIALI E METODI

28

2.1 Clonaggi RFP in pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE 28

2.2 Clonaggi RFP-NLS in

pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE 29

2.3 Clonaggio della proteina di fusione GFPCLDN-5 30

2.4 Cellule 31

2.5 Colture cellulari 31

2.6 Produzione di particelle lentivirali 32

(3)

2.8 Immunocitochimica 33

2.9 Immagini 34

3.RISULTATI

36

3.1 Scelta dei vettori lentivirali di terza generazione basati su HIV-1 per generare HUVEC geneticamente

modificate 36

3.2 Individuazione delle sequenze promotrici

endotelio-specifiche 37

3.3 Ingegnerizzazione dei vettori di espressione lentivirali: clonaggio delle sequenze promotrici

endotelio-specifiche 38

3.4 Generazione di cellule HUVEC capaci di esprimere geni reporter fluorescenti multipli:

clonaggio della sequenza codificante per la RFP 40 3.5 Analisi morfologica in “live” di cellule HUVEC durante le fasi del differenziamento indotto dalla confluenza 41 3.6 Analisi dell’espressione della proteina CLAUDINA-5

in cellule HUVEC durante le varie fasi del differenziamento 45 3.7 Osservazione “live” dell’espressione della EGFP

in cellule HUVEC trasdotte con il pRRL.CLDN-5-GFP 47 3.8 Analisi della corrispondenza tra accensione del

reporter EGFP ed espressione della proteina

endogena CLAUDINA-5 51

3.9 Generazione di un nuovo vettore lentivirale capace di riflettere la progressione del

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di fusione GFPCLDN-5 53 3.10 Osservazione live dell’espressione della EGFP

in cellule HUVEC trasdotte con

il pRRL.CLDN-5-GFPCLDN-5 56

3.11 Analisi della corrispondenza tra espressione del reporter EGFP e proteine coinvolte nel

differenziamento verso un destino endoteliale 66

4.DISCUSSIONE

70

4.1 Scelta della strategia per l’ingegnerizzazione

di cellule HUVEC 70

4.2 Analisi della correlazione tra espressione del reporter GFP e della proteina CLDN-5 in

cellule HUVEC trasdotte con il pRRL.CLDN-5-GFP 74 4.3 Correlazione delle varie fasi del differenziamento

con la migrazione della proteina di fusione GFPCLDN-5 in cellule HUVEC trasdotte con

il pRRL.CLDN-5-GFPCLDN-5 75

5. RINGRAZIAMENTI

78

(5)

RIASSUNTO

Le cellule endoteliali derivate dalla vena interna del cordone ombelicale (HUVECs, Human Umbilical Vein Endothelial Cells) sono cellule staminali fetali ottenute dal cordone ombelicale a fresco che possono essere mantenute in laboratorio utilizzando opportune condizioni sperimentali. Una peculiarità delle cellule HUVEC consiste nella capacità che hanno a differenziare in coltura in seguito al raggiungimento del massimo contatto cellulare (confluenza) generando una struttura cellulare monostratificata che mima sia da un punto di vista strutturale sia molecolare l’endotelio che riveste la parete interna dei vasi sanguigni. Per questo motivo le HUVEC costituiscono uno dei modelli in vitro maggiormente utilizzati per studiare i meccanismi alla base del differenziamento endoteliale.

L’aterosclerosi è una malattia multifattoriale che colpisce arterie di medio e grosso calibro; la lesione caratteristica dell’aterosclerosi è la placca aterosclerotica, ossia un ispessimento dell’intima (lo strato più interno delle arterie che è rivestito dall’endotelio ed è in diretto contatto con il sangue circolante) delle arterie, dovuto principalmente all’accumulo di materiale lipidico e alla proliferazione del tessuto connettivo che riducono l’elasticità del vaso sanguigno ostacolando il flusso sanguigno e determinando il restringimento (stenosi) del vaso interessato, fino alla sua occlusione. L’impianto di stent (angioplastica) è una delle possibilità di trattamento che trova largo impiego nella risoluzione di problemi di ostruzione arteriosa e che mira a ripristinare il flusso sanguigno all’interno del vaso

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metalliche cilindriche a maglie che, una volta introdotti nel vaso sanguigno, vengono fatti espandere fino al corretto rispristino del diametro del lume. Ad oggi non è ancora possibile la realizzazione di dispositivi cardiovascolari, come gli stent, che presentino caratteristiche di completa emocompatibilità. L’interazione tra piastrine e materiale “estraneo” provoca spesso l’insorgenza di fenomeni coagulativi e i soggetti che hanno subito angioplastica vengono sottoposti a terapia con anticoagulanti a lungo termine per evitare la formazione di trombi. Al fine di prevenire tali gravi effetti collaterali sarebbe necessaria la formazione di un rivestimento di cellule endoteliali sullo stent (endotelizzazione) così da eliminare il contatto diretto con il sangue circolante. Tuttavia, il fenomeno di endotelizzazione è estremamente limitato a causa di una intrinseca difficoltà delle cellule endoteliali a crescere e differenziare su superfici piatte e rigide come quelle comunemente usate per produrre gli stent. Una strategia promettente, utilizzata allo scopo di favorire l’endotelizzazione, è rappresentata dalla realizzazione di modificazioni topografiche su scala micrometrica o submicrometrica, sui materiali utilizzati per la produzione degli stent, che possono favorire processi fondamentali per la formazione di un endotelio funzionale. È necessario, quindi, che le cellule riconoscano il materiale come un tessuto da rivestire; per verificare se ciò avvenga e per saggiare le proprietà di nuovi materiali per la generazione di stent cardiovascolari con performance migliore, sarebbe cruciale poter disporre di appropriati sistemi cellulari geneticamente modificati, con un potenziale differenziativo verso il destino endoteliale e

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contemporaneamente capaci di attivare reporter vitali fluorescenti in grado di funzionare come sensori di differenziamento endoteliale.

Un sistema efficiente per generare cellule geneticamente modificate è quello basato sulla trasduzione virale. Infatti, sfruttando la velocità e la stabilità dell’integrazione del materiale genetico esogeno nel genoma della cellula ospite da parte dei lentivirus (classe di virus a RNA), è possibile inserire costrutti di DNA esogeno contenenti il DNA codificante (cDNA) per proteine vitali fluorescenti. L’utilizzo di vettori lentivirali di terza generazione SIN (self-inactivating), inoltre, permette l’inattivazione del promotore virale contenuto nelle LTR (sequenze terminali ripetute lunghe) in modo che sia una specifica sequenza promotore/enhancer eterologa a dirigere l’espressione del transgene di interesse, in maniera tempo e tessuto specifica. Le cellule così generate possono funzionare da sensori fluorescenti per specifici destini differenziativi come, in questo specifico caso, quello endoteliale.

Durante il periodo di internato di tesi mi sono occupata della generazione di un vettore lentivirale per la produzione di cellule HUVEC modificate capaci di funzionare come sensori di differenziamento endoteliale. Inizialmente mi sono concentrata sullo studio del differenziamento endoteliale in vitro e, in particolare, sullo studio della proteina di adesione CLAUDINA-5 (CLDN-5). La CLDN-5 è una proteina integrale di membrana, costituente principale delle giunzioni strette e specificatamente espressa dalle cellule endoteliali. La sua espressione è riscontrabile a livello basale in cellule HUVEC in coltura

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seminate a bassa densità mentre, dopo che le cellule hanno raggiunto la confluenza, l’espressione della proteina aumenta di livello e cambia la sua localizzazione dal citoplasma alla membrana cellulare; proprio questo evento costituisce l’evidenza della progressione del differenziamento in senso endoteliale. Per questo, ho ingegnerizzato un vettore lentivirale ricombinante capace di riflettere in modo preciso la progressione del differenziamento. In particolare ho modificato un vettore lentivirale di espressione di terza generazione SIN (pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE) in cui ho clonato il cDNA della CLDN-5, fuso in frame al cDNA del reporter EGFP, sotto il controllo del promotore specifico della stessa CLDN-5. Una volta ottenuto il costrutto, è stato utilizzato per trasfettare cellule HEK 293T insieme ad un vettore di packaging (pCMVR8.74) ed un vettore di envelope (pMD2.G), che esprime la glicoproteina G del virus della stomatite vescicolare (VSV-G) e che ha permesso la pseudotipizzazione delle particelle virali ottenute.

Le cellule HUVEC trasdotte mostrano un profilo di espressione della EGFP simile a quello della CLDN-5: nelle cellule seminate a bassa densità la localizzazione della proteina GFP-CLDN-5 è perinucleare e citoplasmatica, mentre una volta arrivate a confluenza e differenziate la proteina di fusione è localizzata in maniera specifica sulla membrana cellulare, come componente delle giunzioni-strette. Le cellule trasdotte sono state analizzate con esperimenti di microscopia time-lapse per seguire nel tempo l’evoluzione e la progressione dell’espressione della EGFP e, soprattutto, per verificare la sua traslocazione dal citoplasma alla membrana durante le fasi del

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differenziamento indotto dalla confluenza Anche in questo caso è stato possibile osservare un aumento di espressione della proteina a livello della membrana di cellule adiacenti dovuto alla sua migrazione per andare a formare le giunzioni strette della struttura endoteliale completamente differenziata in vitro. Infine è stata verificata la corrispondenza temporale e spaziale tra l’espressione e la traslocazione del reporter in membrana e l’espressione di un marcatore endotelio specifico endogeno (ZO-1, proteina citoplasmatica che si lega alla CLDN-5), in modo da provare l’avvenuto differenziamento endoteliale. Esperimenti di immunocitochimica hanno mostrato una colocalizzazione delle proteine soprattutto a livello della membrana di cellule differenziate. Grazie a queste osservazioni le HUVEC infettate con il vettore lentivirale generato in laboratorio potranno essere usate come un sensore di differenziamento endoteliale per poter testare la biocompatibilità di nuovi materiali utilizzabili per dispositivi cardiovascolari.

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1.INTRODUZIONE

1.1 L’endotelio: caratteristiche cellulari e funzionali

L’epitelio pavimentoso semplice è costituito da un singolo strato (monostrato) di cellule piatte con un nucleo centrale ovoidale o sferico. Viste dall’alto, le cellule mostrano una forma poligonale, con limiti ben definiti tra una cellula e l’altra e sembrano disposte come le tessere di un mosaico (Fig. 1.1 A); nelle sezioni trasversali, invece, il loro spessore appare uniformemente sottile (Fig. 1.1 B).

Figura 1.1 (A) Sezione longitudinale di epitelio pavimentoso semplice (colorazione con nitrato

d’argento).

(B) Rappresentazione schematica di una sezione trasversale di epitelio pavimentoso semplice.

L’epitelio pavimentoso semplice riveste superfici che non sono sottoposte a particolari stress meccanici e, essendo un tessuto molto sottile, non è adibito a funzioni protettive ma è particolarmente adatto a regolare la filtrazione e la diffusione. Un tipo particolare di tessuto epiteliale di derivazione mesenchimale, morfologicamente simile al tessuto pavimentoso semplice, è il tessuto endoteliale. Le cellule endoteliali che lo compongono costituiscono un monostrato che riveste il lume dell’intero sistema vascolare: formano, infatti, la superficie interna di vasi di

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grosso calibro come arterie e vene, mentre rappresentano l’unico componente dei capillari (Fig. 1.2).

Figura 1.2 Rappresentazione schematica dei diversi strati cellulari che compongono la parete di

arterie, vene e capillari.

L’endotelio forma una barriera semipermeabile tra macromolecole e cellule circolanti del sangue e tessuti, ma questa non è la sua unica finalità: grazie alle sue caratteristiche strutturali, è coinvolto in numerosi altri processi fisiologici come, ad esempio, il mantenimento della corretta omeostasi vascolare (Dejana, 2004), che è in grado di assicurare grazie alla diffusione capillare di nutrienti e ossigeno e alla rimozione di cataboliti da organi e tessuti. Tutte queste funzioni sono rese possibili dalla presenza di specifiche giunzioni intercellulari il cui non corretto funzionamento può portare ad una serie di manifestazioni di tipo patologico (Lampugnani et al., 1995).

Le giunzioni intercellulari dell’endotelio sono strutture complesse che determinano uno stato di aderenza della membrana cellulare appartenente a due cellule adiacenti e sono formate da molecole adesive transmembrana connesse ad un sistema di proteine citoplasmatiche o del citoscheletro (Caveda

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attraverso il trasferimento di segnali dall’esterno della cellula al suo interno. Le giunzioni, quindi, costituiscono un sistema reversibile, tanto che la fine e rapida regolazione della loro architettura porta ad una situazione dinamica di apertura e chiusura dei contatti cellulari, capace di controllare alcune funzioni dell’endotelio come la permeabilità ai soluti del plasma e l’extravasazione leucocitaria, o diapedesi, all’interno di aree infiammate (Bazzoni et al., 2004). Nella maggior parte dei casi, l’endotelio è in grado di concertare in maniera reversibile la disorganizzazione e la riorganizzazione delle proprie giunzioni intercellulari in pochi minuti. Studi di microscopia elettronica, hanno evidenziato che le giunzioni intercellulari mostrano un diverso grado di complessità nel sistema vascolare secondo i differenti requisiti funzionali richiesti (Simionescu et al., 1991). Ad esempio, sono estremamente organizzate tra le cellule endoteliali che compongono la barriera emato-encefalica, dove il controllo della permeabilità deve essere stringente, in modo da esplicare una funzione protettiva del sistema nervoso centrale dagli eventuali elementi nocivi presenti nel sangue, pur permettendo il passaggio di sostanze necessarie alle normali funzioni metaboliche. Nei capillari, invece, laddove l’extravasazione capillare e lo scambio di costituenti cellulari del plasma deve essere particolarmente efficiente, le strutture giunzionali hanno la particolare funzione di filtrazione, riassorbimento e deflusso linfatico (Baluk et al., 2007). Le cellule endoteliali presentano quattro tipi di giunzioni, distinguibili sulla base di caratteristiche morfologiche e funzionali: giunzioni

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strette, giunzioni aderenti, giunzioni comunicanti e sindesmosomi (Fig. 1.3).

Figura 1.3 Rappresentazione schematica dei quattro tipi di giunzioni endoteliali cellula-cellula:

giunzioni strette, giunzioni aderenti, giunzioni comunicanti e sindesmosomi. (Immagine modificata da Dejana,1994).

Le giunzioni strette (o occludenti) hanno la capacità di stabilire e mantenere la saldatura tra cellule adiacenti e di impedire il passaggio di fluidi, andando a formare attorno al perimetro cellulare una struttura continua detta zonula (Gumbiner, 1993); le giunzioni aderenti (o di ancoraggio) interessano sia punti di ancoraggio intercellulari che tra cellula e matrice extracellulare, mediando il legame tra membrana cellulare, proteine citoplasmatiche e filamenti actinici (Kemler, 1993; Tsukita et al., 1992); le giunzioni comunicanti sono specializzate nel passaggio di acqua, ioni e altre piccole molecole tra una cellula e l’altra (Beyer, 1993); i sindesmosomi (o complesso adhaerentes) sono strutture simili a desmosomi ed assolvono prevalentemente funzioni meccaniche, come le giunzioni aderenti (Schmelz et al., 1993). Giunzioni aderenti e giunzioni strette sono fondamentali per il mantenimento dell’integrità del tessuto endoteliale. Recenti studi hanno

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giunzioni potrebbero trasferire segnali intracellulari che regolano inibizione da contatto, definizione della polarità cellulare, differenziamento, sopravvivenza, apoptosi, espressione genica e formazione di nuovi vasi sanguigni (Dejana et al., 2009). Le giunzioni strette hanno la funzione di impedire che molecole idrosolubili provenienti dal lume dei vasi sanguigni filtrino facilmente tra una cellula e l’altra. In altre parole, svolgono una funzione sigillante, unendo due cellule adiacenti senza lasciare interstizi; non formano, però, un sigillo continuo ma, piuttosto, una serie di fusioni focali (punti nodali) in sottili regioni dove gli strati lipidici esterni delle membrane di cellule vicine vengono in contatto, eliminando lo spazio extracellulare e rendendo la giunzione impermeabile al passaggio di liquidi extracellulari e di molecole in soluzione. La totalità delle membrane adiacenti è percorsa da ripetute serie di tali punti, dove i lembi di membrana appaiono anastomizzati tra loro. Le principali proteine transmembrana coinvolte sono la CLAUDINA-5 e l’OCCLUDINA, che sporgono sulla faccia esterna delle membrane e sono unite tra loro da legami non covalenti, formando insieme i filamenti sigillanti (Fig. 1.4).

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Figura 1.4 (A) Modello di una giunzione stretta. I filamenti sigillanti (in verde) tengono insieme

membrane plasmatiche che interagiscono tra loro. (B) Composizione molecolare delle giunzioni strette. Le claudine, che insieme alle occludine formano i filamenti sigillanti, sono i componenti fondamentali di questa tipologia di giunzioni.

1.2 La proteina CLAUDINA-5, marcatore specifico delle cellule endoteliali

La CLAUDINA-5 è una proteina di 218 amminoacidi (Strausberg R.L. et al., 2002), membro della famiglia delle claudine, espressa in maniera specifica nel tessuto endoteliale (Morita et al., 1999); è il costituente principale delle giunzioni strette e rende la parete del vaso stabile e ‘chiusa’ rispetto ad infiltrazioni di molecole dall’esterno. E’ una proteina indispensabile per la stabilità dei vasi, che risulta modificata in molte malattie come ictus, infarto, emorragia celebrale e cancro. La CLAUDINA-5 è una proteina integrale di membrana che presenta quattro domini transmembrana, topologia che la accumuna all’OCCLUDINA, altra componente specifica delle giunzioni strette (Fig. 1.5). Esperimenti di mutagenesi sito-diretta hanno evidenziato il maggior coinvolgimento del secondo loop extracellulare, nell’interazione tra claudine di cellule adiacenti, con la funzione di barriera (Piontek et al. 2008; Krause et al., 2009). Sia il dominio C-terminale che quello N-terminale sono

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intracellulari e quest’ultimo presenta un dominio PDZ (dominio strutturale di 80-90 amminoacidi conservato dai batteri all’uomo) che è stato dimostrato essere cruciale per la corretta funzionalità della proteina e per la trasduzione del segnale; proteine mancanti dell’intero dominio non mostrano una corretta migrazione alla membrana ma si accumulano a livello citoplasmatico senza svolgere quindi la loro corretta funzione di sigillo tra cellule adiacenti (Ruffer et al., 2004).

Figura 1.5 Rappresentazione schematica della struttura della proteina transmembrana

CLAUDINA-5 e delle sue interazioni con altre proteine a livello extracellulare e intracellulare.

Il dominio PDZ presente all’N-terminale della CLAUDINA-5, infatti, interagisce con proteine periferiche come ZO-1, ZO-2 e ZO-3 (Van Itallie et al., 2013), le quali, a loro volta, sono legate ai microfilamenti actinici, partecipando ai meccanismi di signaling innescati dalla formazione di giunzioni cellula-cellula. A differenza della VE-CADERINA, componente fondamentale delle giunzioni aderenti, e della proteina citoplasmatica ZO-1, che mostrano un moderato aumento di espressione correlato ad un aumento di confluenza di cellule coltivate in vitro, l’espressione

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della CLAUDINA-5 aumenta in maniera molto più significativa quando le cellule raggiungono la confluenza, il che sembra una caratteristica rilevante in relazione al controllo della formazione delle giunzioni (Fontijn et al., 2006). Allo stesso modo, anche il fattore di trascrizione endotelio-specifico SOX18, membro della famiglia dei fattori di trascrizione SOX, mostra un elevato livello di espressione in cellule confluenti. Analisi in silico del promotore della CLAUDINA-5 hanno rivelato la presenza di un sito di legame a SOX evolutivamente conservato (Fontijn et al., 2008); è proprio il legame del fattore di trascrizione SOX alla sequenza specifica presente nel promotore della CLAUDINA-5 a permettere il controllo specifico dell’espressione spazio-temporale di quest’ultima (Lefebvre et al., 2007). La CLAUDINA-5, inoltre, è regolata in maniera diretta dalla VE-CADERINA; oltre ad essere correlate funzionalmente come componenti della barriera del tessuto endoteliale, VE-CADERINA e CLAUDINA-5 hanno, infatti, anche una relazione che implica il diretto controllo dell’espressione della prima sulla seconda. La VE-CADERINA, come componente delle giunzioni, è necessaria per indurre la trascrizione della CLAUDINA-5; l’interazione omotipica tra ve-caderine di cellule adiacenti innesca un’attivazione sostenuta della fosfatidilinositolo3chinasi (PI3K) che, fosforilandola, attiva a sua volta la proteina AKT che fosforila la proteina FOXO1. La fosforilazione di quest’ultima, ne impedisce la sua costitutiva traslocazione al nucleo dove, in caso di mancata attivazione del signaling, reprime il promotore della CLAUDINA-5 agendo direttamente su due elementi responsivi di FOXO1. L’interazione con il sito di riconoscimento sul DNA è stabilizzata dalla

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formazione del complesso FOXO1 - β-CATENINA, interazione dipendente dal T-CELL-FACTOR (TCF), costitutivamente associato al promotore della CLAUDINA-5 (Gavard et al., 2008) (Fig. 1.6).

Figura 1.6. Schematizzazione delle proteine attivate in seguito all’interazione omotipica di

ve-caderine di cellule endoteliali adiacenti. La mancata traslocazione al nucleo di FOXO1 e β-CATENINA permette la trascrizione del gene della claudina-5 con il conseguente controllo dell’integrità della barriera endoteliale. (Immagine modificata da Gavard et al., 2008).

Questo meccanismo, insieme all’organizzazione di giunzioni aderenti e giunzioni strette e alla loro interazione con la proteina ZO-1, controlla quindi l’integrità della barriera endoteliale.

Altri studi in vitro, condotti allo scopo di stabilire differenze molecolari e funzionali tra cellule endoteliali senescenti e non, hanno evidenziato nelle prime una minor espressione di VE-CADERINA e ZO-1, ma soprattutto una loro differente distribuzione cellulare, molto più citoplasmatica che di membrana; l’espressione di CLAUDINA-5 e OCCLUDINA, i due costituenti delle giunzioni serrate, diviene più fortemente compromessa in seguito a fenomeni di senescenza. Tutto ciò è stato correlato con una sottoregolazione della fosfolipasi

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citosolica A2a (cPLA2a), una proteina con un ruolo cruciale per la formazione e il mantenimento delle giunzioni strette (Regan-Klapisz et al., 2009). Essa è coinvolta nel trafficking di membrana e una sua non corretta regolazione potrebbe quindi alterare la migrazione alla membrana delle proteine che formano i complessi giunzionali, con conseguenti anomalie nella loro espressione e distribuzione. L’ipotesi è, quindi, che il trasporto interrotto della VE-CADERINA alla membrana, in parte dovuto alla minore espressione di cPLA, causi una diminuzione del suo segnale di trasduzione intracellulare, portando ad una conseguente diminuzione dell’espressione della CLAUDINA-5 (Taddei et al., 2008; Krouwer et al., 2012). La VE-CADERINA e la CLAUDINA-5, quindi, oltre ad essere dei marcatori specifici del tessuto endoteliale, hanno una funzione che non è ridondante; a supporto di ciò è interessante notare come topi knock-out per la CLAUDINA-5, pur avendo un normale sviluppo embrionale, presentino una barriera emato-encefalica difettiva e muoiano subito dopo la nascita (Nitta et al., 2003). Il knock-out per la VE-CADERINA comporta letalità già a livello embrionale e severe anomalie nell’angiogenesi (Carmeliet et al., 1999), suggerendo che la VE-CADERINA non sia solo importante per l’adesione cellulare, ma abbia il ruolo di orchestrare il programma di differenziamento e maturazione in senso endoteliale.

Fenomeni di senescenza cellulare compaiono in vivo in patologie cardiovascolari come l’aterosclerosi. In arterie di grosso calibro, siti particolarmente suscettibili ad aterosclerosi sono associati con anomalie nel flusso sanguigno. L’aumento

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della permeabilità a macromolecole, caratteristica di rilievo presente nei siti sopra citati, è considerata una delle cause che contribuisce maggiormente a questo tipo di suscettibilità e, le strutture maggiormente implicate sono proprio le giunzioni strette. Studi volti a comprendere eventuali differenze di espressione genica tra regioni arteriose aterosclerosi-suscettibili e aterosclerosi-protette non hanno evidenziato differenze significative per quanto riguarda VE-CADERINA ed OCCLUDINA, a differenza dei livelli di espressione della CLAUDINA-5 che risulta fortemente sotto regolata nei siti maggiormente esposti all’insorgere di questa grave patologia (Karamanian et al., 2008).

1.3 Aterosclerosi e angioplastica: problemi relativi alla biocompatibilità dei materiali protesici

Le insufficienze cardiocircolatorie sono tra le principali cause di mortalità nella maggior parte dei paesi sviluppati. Diversi tipi di lesioni, congenite o acquisite, coinvolgono cuore e vasi sanguigni dando origine a gravi insufficienze funzionali che richiedono interventi chirurgici. Tra queste è opportuno ricordare l’aterosclerosi, una malattia multifattoriale che colpisce arterie di medio e grosso calibro causando gravi patologie come angina pectoris, infarto e ictus e che rappresenta un problema sanitario di primaria importanza legato perlopiù allo stile di vita tipico delle società industrializzate. La lesione caratteristica dell’aterosclerosi è l’ateroma, o placca aterosclerotica, ossia un ispessimento dell’intima (lo strato più interno delle arterie che è

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rivestito dall’endotelio ed è in diretto contatto con il sangue) delle arterie, dovuto principalmente all’accumulo di materiale lipidico e alla proliferazione del tessuto connettivo che, con il passare del tempo, riducono l’elasticità del vaso sanguigno e ostacolano il flusso sanguigno determinando restringimento (stenosi) del vaso interessato, fino ad arrivare alla sua completa occlusione. L’accumulo di LDL (lipoproteine a bassa densità) nell’intima della parete dei vasi è uno degli step iniziali dell’aterosclerosi (Libby et

al., 2002; Lusis, 2000), il che suggerisce che l’endotelio vada

incontro a cambiamenti che compromettono la sua funzione di barriera (Fig. 1.6). La perdita dell’integrità delle giunzioni intercellulari, cruciali per il mantenimento dell’omeostasi vascolare, incluso il mantenimento della funzione barriera, porta ad un generale aumento della permeabilità ed è associata con numerose patologie (van Hinsbergh et al., 2002).

Figura 1.6 Fasi progressive della formazione di una placca aterosclerotica. A causa di una

piccola lacerazione della parete dell’arteria, materiale grasso (in giallo) si deposita nel lume del vaso fino ad arrivare alla sua completa occlusione.

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di ostruzione arteriosa e che mira a ripristinare il flusso sanguigno all’interno del vaso ostruito entro valori prossimi alla norma. Gli stent sono strutture metalliche cilindriche a maglie, tubicini con una struttura a rete che, una volta introdotti nel vaso sanguigno, vengono fatti espandere fino al corretto rispristino del diametro del lume (Fig. 1.7).

Figura 1.7 Rappresentazione della procedura di impianto di uno stent in un vaso sanguigno

ostruito. (A) Introduzione dello stent nel punto dell’ostruzione. (B) Espansione del palloncino che dilata lo stent. (C) Ripristino delle dimensioni del lume del vaso danneggiato.

Dispositivi, come ad esempio gli stent, utilizzati allo scopo di sussidio terapeutico in caso di patologie cardiovascolari, dovrebbero avere caratteristiche di emocompatibilità, non dovrebbero cioè provocare delle reazioni di intolleranza anche in seguito ad una esposizione prolungata al flusso sanguigno, non dovrebbero rilasciare sostanze, danneggiare costituenti del sangue e dar luogo a fenomeni trombogenici. Tuttavia, nonostante i notevoli passi avanti fatti dalla ricerca in questo campo, la realizzazione di un materiale completamente emocompatibile è ancora oggi un problema irrisolto.

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Uno dei maggiori ostacoli al trattamento di patologie cardiovascolari è rappresentato dall’insorgere di risposte avverse, in particolare reazioni infiammatorie, provocate da materiali metallici o polimerici, all’interfaccia tra il dispositivo protesico, impiantato nel paziente come soluzione terapeutica, e il sangue. L’interazione tra piastrine e materiale “estraneo” provoca spesso l’insorgenza di fenomeni coagulativi; processi di emolisi e tromboembolie derivati dal mancato riconoscimento del materiale possono generare conseguenze talvolta fatali per il paziente. Allo scopo di prevenire l’attivazione della cascata di coagulazione del sangue, i soggetti sottoposti ad angioplastica sono sottoposti a terapie con farmaci anticoagulanti a lungo termine, con il rischio di incorrere in complicazioni emorragiche. Nonostante l’aumento della scelta di biomateriali per la generazione di dispositivi vascolari, fenomeni di tromboembolia sono ancora molto frequenti (Komatsu et al., 1998; Inoue et al., 2011). Per cercare di promuovere l’integrazione del materiale protesico, riducendo l’incidenza di complicazioni, la soluzione migliore sarebbe favorire la formazione di un rivestimento di cellule endoteliali, processo definito endotelizzazione (Khan et

al., 2011). Un endotelio confluente e stabile, contribuirebbe a

due tipi di protezione: eviterebbe il contatto diretto tra sangue e materiale e permetterebbe di ottenere un avvicinamento alla normalità della fisiologia del vaso, con riduzione degli stimoli protrombotici e proinfiammatori e facilitazione alla fluidificazione del sangue nel tratto interessato (Otsuka et al., 2012; Baiguera

et al., 2013). Le cellule endoteliali, però, non crescono in

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comunemente usate per produrre stent ( Garg et al., 2010); una strategia promettente e vantaggiosa, utilizzata allo scopo di favorire l’endotelizzazione e modulare attività cellulari essenziali e critiche per lo sviluppo e il mantenimento di un endotelio stabile (Guilak et al., 2009; Variola et al., 2009), è rappresentata dalla realizzazione di modificazioni di superficie di biomateriali già conosciuti ed utilizzati per dispositivi protesici come gli stent. Modificazioni topografiche su scala micrometrica o submicrometrica possono, infatti, accelerare l’inizio della proliferazione, così come favorire la polarizzazione, la migrazione (Kandere-Grzybowska et al., 2007; Kulangara et al., 2009) e il differenziamento cellulare (Brunetti et al., 2010; Dalby

et al., 2007; Gasiorowski et al., 2010), processi fondamentali per

la formazione di un endotelio funzionale. (Guilak et al., 2009; Variola et al., 2009). Questo tipo di modificazioni, inoltre, contribuisce all’endotelizzazione rinforzando l’adesione al substrato attraverso la diretta modulazione della maturazione delle adesioni focali e il reclutamento di proteine adattatrici che mediano l’interazione con l’actina del citoscheletro (Potthoff et

al., 2014).

Affinchè avvenga il processo di endotelizzazione, è necessario che le cellule riconoscano il materiale come un tessuto da rivestire; per verificare se ciò avvenga, prima di passare all’approccio in vivo, è utile poter disporre di un modello cellulare in vitro come quello delle cellule derivate dalla vena interna del cordone ombelicale umano (HUVECs, Human Umbilical Vein Endothelial Cells), in quanto ricapitolano molte delle caratteristiche del tessuto endoteliale. La disponibilità di un

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modello che permetta l’individuazione di nuovi biomateriali o la caratterizzazione di biomateriali già utilizzati, a cui sono state apportate opportune modifiche di superficie, sarebbe, infatti, di grande utilità per la fabbricazione di stent con performance migliore.

1.4 Le HUVEC come modello per lo studio endoteliale in

vitro

Le cellule endoteliali derivate dalla vena interna del cordone ombelicale (HUVECs, Human Umbilical Vein Endothelial Cells) sono cellule staminali fetali che possono essere ottenute facilmente da cordone ombelicale a fresco ed essere mantenute in laboratorio utilizzando condizioni di coltura standard. Una interessante peculiarità delle cellule HUVEC, consiste nella capacità che hanno a differenziare in coltura in seguito al raggiungimento del massimo contatto cellulare (confluenza) e di generare una struttura cellulare monostratificata che mima l’endotelio che riveste la parete interna dei vasi sanguigni (Fig.1.8).

Figura 1.8 Rappresentazione della differente morfologia assunta da cellule HUVEC seminate a

bassa densità (fenotipo fibroblastoide), fino al raggiungimento della confluenza con conseguente differenziamento ad endotelio (da destra a sinistra rispettivamente).

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Queste cellule tuttavia, dopo soli pochi passaggi in vitro perdono le loro caratteristiche morfologiche e funzionali peculiari, mostrando un crescente pleomorfismo e una diminuzione della capacità a formare una struttura cellulare monostratificata (Gimbrone et al., 1974) che mimi l’endotelio presente nella parete interna dei vasi sanguigni. Seppur presentino questo tipo si svantaggio, le HUVEC costituiscono uno dei modelli in vitro maggiormente utilizzati per studiare i meccanismi alla base del differenziamento endoteliale, sia in condizioni fisiologiche sia in seguito a danno tissutale in cui si manifestano stati infiammatori. Per questi motivi sono anche impiegate in studi tesi ad individuare nuovi materiali per la fabbricazione di protesi vascolari con caratteristiche permissive per il rivestimento endoteliale.

1.5 Generazione di cellule HUVEC geneticamente modificate: la scelta dell’utilizzo di vettori lentivirali

Allo scopo di saggiare in vitro nuovi materiali con diverse caratteristiche di biocompatibilità che portino, ad esempio, alla fabbricazione di stent con performance migliore, sarebbe utile poter disporre di appropriati sistemi cellulari geneticamente modificati; cellule HUVEC, dotate di un potenziale differenziativo verso endotelio, che siano capaci di attivare reporter fluorescenti vitali in conseguenza all’avvenuta formazione di un endotelio funzionale, potrebbero quindi fungere da veri e propri sensori di differenziamento verso un destino endoteliale. Accanto alle interessanti peculiarità che determinano il loro utilizzo come

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modello per studi in vitro sull’endotelio, le cellule HUVEC presentano, però, lo svantaggio di essere cellule staminali primarie che possono essere mantenute in coltura per un numero molto limitato di passaggi prima di perdere le loro peculiari caratteristiche morfologiche e funzionali. È per questo motivo che, per generare in laboratorio cellule HUVEC geneticamente modificate, è necessario mettere a punto un procedimento che combini insieme velocità e stabilità dell’integrazione del materiale genetico esogeno nel loro genoma. La tecnica largamente utilizzata come la trasfezione stabile sia per ottenere integrazione random nel genoma sia per ricombinazione omologa, non appare dunque applicabile per questo scopo in quanto per isolare e propagare i cloni positivi in cui sia avvenuta l’integrazione del transgene nel DNA genomico, è necessario un numero di passaggi in vitro di gran lunga superiore a quello utilizzabile per le HUVEC. Uno dei sistemi che presenta tutte le caratteristiche richieste in questo caso specifico e che recentemente sta trovando largo impiego nel campo della biologia molecolare, è quello basato sulla trasduzione virale. È infatti possibile modificare radicalmente il genoma virale in modo da eliminare i geni necessari per replicazione e patogenicità con l’introduzione, al loro posto, di geni eterologhi, continuando però a sfruttare la loro naturale abilità, evoluta per raggiungere specifiche cellule bersaglio e trasferirvi il proprio genoma all’interno; il virus diventa cioè un mero trasportatore di materiale genetico, da cui prende il nome di vettore.

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1.6 Caratteristiche dei vettori lentivirali e loro evoluzione: i vantaggi dell’utilizzo dei SIN

I virus sono parassiti endocellulari obbligati; sono costituiti da una struttura proteica detta capside che, in alcuni casi è racchiusa a sua volta in un involucro lipidico detto pericapside o envelope. All’interno di questa struttura, è contenuto il loro genoma composto da DNA o RNA, che può essere a singolo o doppio filamento. I virus non possiedono metabolismo: riescono, infatti, a duplicarsi solo dopo essersi introdotti nella cellula ospite, infettandola, e servendosi del suo apparato biosintetico sia per la loro replicazione sia per la produzione di proteine strutturali. In particolare, i virus a RNA (retrovirus), considerata la loro elevata capacità di infettare cellule di mammifero, possono essere utilizzati in laboratorio per introdurre stabilmente DNA esogeno all’interno di cellule bersaglio. I retrovirus sono virus dotati di envelope, il cui capside racchiude due copie di RNA a singolo filamento (Fig. 1.9).

Figura 1.9 Illustrazione schematica della struttura di un retrovirus. L’RNA virale e l’enzima

retrotrascrittasi sono contenuti all’interno di un capside proteico circondato da un pericapside lipidico, dove sono localizzate glicoproteine specializzate nell’interazione con promotori specifici.

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Alle due estremità del genoma virale sono presenti sequenze non codificanti, dette sequenze terminali ripetute lunghe (LTR), che agiscono come promotori e regolano l’espressione dei geni gag, pol ed env (Fig. 1.10); quest’ultimi codificano rispettivamente per le proteine strutturali del virione responsabili dell’assemblaggio del capside, per trascrittasi inversa e integrasi e per la sintesi delle glicoproteine situate sull’involucro lipidico necessarie per l’interazione con recettori specifici.

Figura 1.10 Schema generale del genoma di un retrovirus; le sequenze promotrici LTR

fiancheggiano al 5’ e al 3’ le sequenze dei geni fondamentali per la formazione delle particelle virali.

I retrovirus sono in grado di infettare o trasdurre solo cellule in attiva replicazione (Yamashita et al., 2006), in quanto non possiedono il complesso di pre-integrazione, complesso nucleoproteico in grado di interagire con le proteine dei pori nucleari ed entrare nel nucleo anche in cellule quiescenti; per questo l’integrazione avviene solo quando, durante la replicazione cellulare, la membrana nucleare è dissolta e il DNA è completamente accessibile (Suzuki et al., 2007). Durante il processo di infezione, l’RNA virale viene convertito in una molecola a doppio filamento grazie all’azione dell’enzima trascrittasi inversa. Questo enzima cruciale, capace di polimerizzare DNA su uno stampo sia di RNA che di DNA, prima fa una copia di DNA della molecola di RNA virale poi, a partire da questo, sintetizza un secondo filamento di DNA generando una copia di DNA a doppio filamento del genoma a RNA. Grazie

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all’azione catalizzata da una integrasi codificata dal virus, la doppia elica di DNA formatasi si integra nel genoma dell’ospite (Fig. 1.11).

Figura 1.11 Ciclo vitale di un retrovirus. Dopo l’ingresso nella cellula del virus e la perdita

dell’involucro, l’enzima trascrittasi inversa prima fa una copia di DNA della molecola di RNA virale e poi genera un secondo filamento di DNA, producendo una doppia elica DNA/DNA. Grazie all’integrazione di questa doppia elica di DNA nel genoma dell’ospite, catalizzata da una integrasi, è possibile la sintesi di nuove molecole di RNA virale da parte della RNA polimerasi della cellule ospite. In seguito alla sintesi delle proteine strutturali vengono, quindi, assemblate molte nuove particelle virali.

L’integrazione avviene in maniera random e preferenzialmente in regioni di eucromatina (regioni meno condensate e attivamente trascritte) (Cereseto et al., 2004), vicino a sequenze di promotori genici (Lewinski et al., 2005), con conseguente perturbazione del sito che fiancheggia il sito di integrazione, ed è permanente (Wu et al., 2004), il DNA esogeno viene cioè ereditato dalle cellule figlie. È proprio grazie a queste considerazioni che i retrovirus possono essere modificati in modo da divenire dei veri e propri vettori di materiale genetico

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all’interno di cellule di interesse. Per evitare il rischio potenziale di dare origine, in laboratorio, a una particella virale infettiva e autonomamente replicante, è necessario, però, privarla dei geni virali necessari per la replicazione. Escludendo le sequenze LTR, infatti, il rimanente genoma virale può essere eliminato e sostituito con DNA esogeno. Per questo motivo sono stati generati vettori virali in cui il genoma del virus è deleto di tutte le sequenze codificanti coinvolte attivamente nella replicazione. Tutte le sequenze necessarie per la sintesi dell’involucro proteico e lipidico vengono clonate in altri vettori indipendenti da quello di espressione, formando rispettivamente i vettori di packaging e di envelope, per minimizzare il rischio di ricombinazione e di generazione di particelle retrovirali competenti, con il vantaggio di poter modificare lo spettro di infezione del virus, cioè di pseudotipizzarlo. I vettori vengono, infine, introdotti all’interno di cellule impacchettatrici che producono e assemblano le varie componenti virali.

Alla famiglia dei retrovirus appartengono i lentivirus, di cui condividono la morfologia ed il ciclo replicativo, ma che possiedono interessanti peculiarità: sono, infatti, in grado di infettare cellule anche in non attiva fase mitotica, di integrarsi stabilmente in zone del genoma lontane da promotori cellulari, quindi in zone non altamente attive trascrizionalmente ( Ciuffi, 2008), e possiedono LTRs con una attività promotrice basale.

I vettori lentivirali, ed in particolare quelli derivati da HIV, hanno subito dei notevoli cambiamenti, volti a minimizzare la possibilità di generazione di virus replicazione competenti, tanto da poter essere distinti in tre generazioni. Si è gradualmente

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proceduti alla separazione di tutte le componenti virali in differenti costrutti che nel corso del tempo hanno subito modificazioni graduali ( Dull et al., 1998).

Figura 1.12 Rappresentazione delle sequenze dei vettori di espressione (a sinistra) , di envelope

e di packaging (a destra) utilizzati per la generazione di vettori lentivirali di prima (A), seconda (B) e terza (C) generazione. (Immagine modificata da Vannucci et. al, 2013).

Nel sistema di prima generazione, il vettore di espressione mantiene LTRs funzionali, il segnale di incapsidazione psi e l’RRE (elemento responsivo alla proteina REV) necessario per l’esportazione dell’mRNA dal nucleo al citoplasma; il costrutto di packaging mantiene tutti i geni virali, ad eccezione del segnale di incapsidazione e di env; il gene env è fornito in trans (Fig. 1.12 A; Freed, 2001). Il maggiore cambiamento apportato ai vettori di seconda generazione riguarda il costrutto di packaging, che presenta la delezione di

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tutti i geni regolatori tranne tat (necessaria per la trascrizione degli mRNA virali) e rev (Fig. 1.12 B). I vettori di terza generazione mostrano, invece, maggiori modificazioni e sono vettori definiti autoinattivanti (SIN, self-inactivating) (Fig.1.12 C). Questa tipologia di costrutti si basa sull’introduzione di una delezione della regione U3 al 3’ della LTR che la inattiva completamente. Durante la trascrizione inversa, che utilizza entrambe le copie di RNA per sintetizzare DNA a doppio filamento, questa delezione viene trasferita al 5’ della LTR del DNA provirale determinando l’impossibilità alla trascrizione completa del genoma virale pur mantenendo quella del gene oggetto di studio grazie all’azione di un promotore interno (Fig. 1.13; Ellis et al., 2005; Yi et al., 2005; Zufferey et al., 1998). Il vettore di espressione porta, inoltre, importanti domini non codificanti, come il tratto centrale poli-purinico (cPPT) e l’elemento regolatorio post-trascrizionale del virus dell’epatite della marmotta (WPRE) che, rispettivamente, aumentano l’efficienza di incapsidazione ed il processamento post-trascrizionale dell’RNA del transgene. Env, tat e rev sono deleti dal costrutto di packaging mentre env e rev sono forniti in trans;

tat non è più necessario poiché l’espressione dell’RNA del

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Figura 1.13 Struttura di un vettore SIN. Una schematica rappresentazione di un vettore HIV-1

con ingrandimento della regione 3’ LTR che mostra i siti di legame per differenti fattori di trascrizione in U3 (Immagine modificata da Zufferey et al., 1998).

Una delle caratteristiche più interessanti, dal punto di vista sperimentale, dei vettori di espressione di terza generazione SIN, consiste proprio nell’inattivazione del promotore contenuto nelle LTR; una volta avvenuta l’integrazione del costrutto, la sua espressione non è più influenzata dalle sequenze virali, ma dipende, principalmente, dall’azione esercitata da un promotore/enhancer eterologo inserito nel vettore. È possibile, quindi, far esprimere il transgene di interesse, come ad esempio un gene reporter, in maniera tempo e tessuto specifica. Va inoltre sottolineato che i lentivirus, se paragonati ai retrovirus, perturbano in maniera minima l’espressione dei geni che fiancheggiano la regione d’integrazione del gene esogeno la cui espressione, a sua volta, risente meno degli effetti della cromatina e del sito d'integrazione; in particolare, sembra non essere soggetto a ”silenziamento”, cioè all'attenuazione o estinzione dell'espressione. Dal punto di vista della sicurezza, infine, i SIN riducono ulteriormente il rischio che, a seguito di eventi di ricombinazione, possano generarsi delle particelle virali

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2012; Vannucci et al., 2013). Nei sistemi di terza generazione, grazie all’utilizzo di un vettore di envelope separato dagli altri, è possibile pseudotipizzare il virus. L’opportunità di avere a disposizione envelope omologhi o eterologhi permette di continuare a trasdurre il target naturale di infezione del virus o di modificarlo verso cellule specifiche. A questo proposito, uno degli approcci maggiormente utilizzati è la pseudotipizzazione con la glicoproteina G del virus della stomatite vescicolare (VSV-G) che interagisce con fosfolipidi di membrana altamente conservati conferendo al vettore un tropismo a largo spettro. Questo approccio viene utilizzato per trasdurre molti tipi differenti di cellule staminali primarie umane e linee cellulari continue. Tutte queste caratteristiche rendono i vettori di terza generazione largamente utilizzati in molti tipi di esperimenti e conferiscono loro un alto grado di sicurezza. Grazie al loro utilizzo, è stato possibile effettuare in laboratorio degli studi specifici riguardanti promotori di geni di interesse che guidano il gene reporter codificante per la proteina verde fluorescente (EGFP) in cellule HUVEC. In particolare, è possibile generare cellule HUVEC nelle quali inserire un costrutto di DNA esogeno contenente il cDNA codificante per la EGFP controllato dalla sequenza promotrice del gene della CLAUDINA-5. Le cellule così generate possono funzionare da sensori fluorescenti per specifici destini differenziativi come, per esempio, quello endoteliale.

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1.7 Scopo della tesi

Lo scopo di questo lavoro di tesi consiste nella generazione di cellule HUVEC in grado di attivare reporter fluorescenti vitali in seguito a differenziamento verso un destino endoteliale. Cellule HUVEC geneticamente modificate in tal senso, sarebbero quindi in grado di fungere da veri e propri sensori di differenziamento endoteliale e permetterebbero di saggiare in vitro le caratteristiche di biocompatibilità di materiali utilizzabili per la generazione di dispositivi protesici vascolari più funzionali e con sempre maggiori caratteristiche di emocompatibilità.

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2. MATERIALI E METODI

2.1 Clonaggi RFP in pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE

La sequenza del gene reporter RFP è stata amplificata mediante PCR con DNA polimerasi GoTaq (Promega) dal vettore pDsRed2-Nuc utilizzando i seguenti primer :

For: 5’-tataggatccaccatggcctcctccgagaa-3’ Rev: 5’-tatatgtcgacttacaggaacaggtggtggcggcc-3’

Il programma di PCR utilizzato prevede la seguente impostazione: denaturazione a 95 °C per 1 minuto, appaiamento a 68 °C per 90 secondi ed allungamento a 72 °C per un minuto (per 35 cicli). Il prodotto di PCR è stato inserito nel vettore p-GEM-T Easy (Promega) e sequenziato. Il vettore p-p-GEM-T Easy, in cui è stata precedentemente inserita la RFP, è stato digerito o/n a 37 °C con gli enzimi di restrizione BamHI-SalI (Promega) per excidere il reporter RFP; allo stesso modo, i vettori pRRL.CLDN-5-GFP e pRRL.E-SELE-GFP sono stati digeriti con gli stessi enzimi per effettuare l’excisione del reporter GFP. In seguito a corsa elettroforetica su gel di agarosio all’1%, la banda della RFP ed i vettori pRRL.CLDN-5 e pRRL.E-SELE sono stati eluiti utilizzando il QIAquick Gel Extraction Kit (QIAGEN). Una reazione di ligation effettuata o/n a 18 °C utlizzando la T4 DNA Ligase (Promega) ha permesso di inserire la RFP, digerita BamHI-SalI, nei vettori pRRL.CLDN-5-GFP e pRRL.E-SELE-GFP digeriti anch’essi BamHI-SalI, per excidere la pRRL.E-SELE-GFP, ottenendo i vettori pRRL.CLDN-5-RFP e pRRL.E-SELE.RFP. Il clonaggio è stato effettuato utilizzando il ceppo batterico di

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2.2 Clonaggi RFP-NLS in pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE La sequenza del gene reporter RFP-NLS è stata amplificata mediante PCR con DNA polimerasi GoTaq (Promega) dal vettore pDsRed2-Nuc utilizzando i seguenti primer :

For: 5’-tataaccggtccaccatggcctcctccgaga-3’ Rev: 5’-tatagtcgacttatctagatccggtggatcctac-3’

Il programma di PCR utilizzato prevede la seguente impostazione: denaturazione a 95 °C per 1 minuto, appaiamento a 66 °C per 90 secondi ed allungamento a 72 °C per un minuto (per 35 cicli). Il prodotto di PCR è stato inserito nel vettore p-GEM-T Easy (Promega) e sequenziato. Il vettore p-p-GEM-T Easy, in cui è stata precedentemente inserita la RFP-NLS, è stato digerito o/n a 37 °C con gli enzimi di restrizione AgeI-SalI (Promega) per excidere il reporter RFP-NLS; allo stesso modo, i vettori pRRL.CLDN-5-GFP e pRRL.E-SELE-GFP sono stati digeriti con gli stessi enzimi per effettuare l’excisione del reporter GFP. In seguito a corsa elettroforetica su gel di agarosio all’1%, la banda della RFP-NLS ed i vettori pRRL.CLDN-5 e pRRL.E-SELE sono stati eluiti utilizzando il QIAquick Gel Extraction Kit (QIAGEN). Una reazione di ligation effettuata o/n a 18 °C utlizzando la T4 DNA Ligase (Promega) ha permesso di inserire la RFP-NLS, digerita AgeI-SalI, nei vettori pRRL.CLDN-5-GFP e pRRL.E-SELE-GFP digeriti anch’essi AgeI-SalI, per excidere la GFP, ottenendo i vettori pRRL.CLDN-5-RFP-NLS e pRRL.E-SELE.RFP-NLS. Il clonaggio è stato effettuato utilizzando il ceppo batterico di cellule E. coli Stbl3 cresciuto a 37°C.

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2.3 Clonaggio della proteina di fusione GFPCLDN-5

La cds (sequenza codificante) della proteina CLDN-5 è stata amplificata dal clone IMAGE 5242567, mediante PCR, con DNA polimerasi Pfu (Promega) utilizzando i seguenti primer : For: 5’-ccgctcgagccatggggtcc-3’

Rev: 5’-cccaagcttgcgccctcagacg-3’

Il programma di PCR utilizzato prevede la seguente impostazione: denaturazione a 94 °C per 30 secondi, appaiamento a 54 °C per 30 secondi ed allungamento a 72 °C per 150 secondi (per 28 cicli). Il prodotto di PCR è stato purificato utilizzando il MinElute PCR Purification Kit (QIAGEN). È stato poi digerito o/n a 37 °C con gli enzimi di restrizione HindIII-XhoI (Promega); con le stesse modalità e gli stessi enzimi è stato digerito il plasmide pEGFPC1. In seguito a corsa elettroforetica su gel di agarosio all’1%, la banda della CLDN-5 ed il vettore pEGFPC1 sono stati eluiti utilizzando il QIAquick Gel Extraction Kit (QIAGEN). Una reazione di ligation effettuata o/n a 18 °C utlizzando la T4 DNA Ligase (Promega) ha permesso di inserire la Cds della CLDN-5 in frame con la sequenza del reporter GFP. Il clonaggio è stato effettuato utilizzando il ceppo batterico di cellule E. coli Dh5α cresciuto a 37°C.

Una volta che la CLDN-5 è stata clonata in frame con la EGFP, ho inserito il cDNA della proteina chimerica nel vettore pRRL.CLDN-5-GFP. In particolare il vettore pEGFPC1-CLDN-5 è stato digerito o/n a 37°C con gli enzimi AgeI-SalI (Promega), per excidere la banda con la sequenza del reporter e della CLDN-5 fuse insieme, e stessa procedura è stata utilizzata per il

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vettore pRRL.CLDN-5-GFP, in modo da excidere la GFP. La banda GFPCLDN-5 ed il plasmide pRRL.CLDN-5, in seguito a corsa elettroforetica su gel di agarosio all’1%, sono stati eluiti utilizzando il QIAquick Gel Extraction Kit (QIAGEN). Una reazione di ligation effettuata o/n a 18 °C utlizzando la T4 DNA Ligase (Promega) ha permesso di inserire la Cds della CLDN-5 fusa alla GFP a valle del promotore specifico della CLDN-5, ottenendo il vettore pRRL.CLDN-5-GFPCLDN-5. Il clonaggio è stato effettuato utilizzando il ceppo batterico di cellule E. coli Stbl2 cresciuto a 30°C.

2.4 Cellule

Le cellule utilizzate per gli esperimenti di differenziamento endoteliale sono: HUVEC p1-6 (Invitrogen). Mentre le cellule utilizzate per gli esperimenti di trasfezione sono le Hek 293T (ATCC-LGC Standards, Italy).

2.5 Colture cellulari

Le cellule sono mantenute in incubatore ad una temperatura di 37°C, in atmosfera umidificata con il 5% di CO2.

HUVEC

Le cellule HUVEC vengono mantenute in coltura nel Medium M200 (Gibco) completato con siero fetale bovino (FBS 2% v/v), Gentamicina/Amfotericina B (100 µg/ml), bFGF (3ng/ml), Eparina (10 µg/ml), Idrocortisone (1 µg/ml), hEGF (10

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ng/ml). Il mezzo viene cambiato completamente ogni due giorni. Per gli esperimenti di infezione le cellule vengono scongelate e seminate su gelatina allo 0,1% ad una densità di circa 4*103/cm2. Per gli esperimenti di differenziamento le cellule sono seminate a differenti densità su gelatina allo 1,5% secondo il seguente protocollo:

- 1,5% gelatina in H2O 1h RT (temperatura ambiente)

- Gluteraldeide al 2% in H2O 15 min RT

- Un lavaggio di 30-60 min in 70% EtOH - Lavaggi in PBS1x 5x5min

- Glicina 2mM in PBS1x 16 ore RT - Lavaggi in PBS1x 5x5min

HEK 293T

Le cellule 293T vengono mantenute in coltura in DMEM High Glucose (Dulbecco Modified Eagle’s Medium, SIGMA) completato con FBS (10%), Penicillina/Streptomicina (1%) ed L-Glutammina (0,6 g/l).

2.6 Produzione di particelle lentivirali

Per gli esperimenti di produzione delle particelle lentivirali sono state utilizzate le cellule HEK 293T mantenute in fiasche con una superficie di crescita di 75 cm2 (T75) con coating di gelatina allo 0,1%. La trasfezione è effettuata su cellule al 70% di confluenza utilizzando una soluzione contenente: DMEM completato con Penicillina/Streptomicina (1%) ed L-Glutammina (0,6 g/l), polietileimmina (PEI 1x, SIGMA), NaCl 150 mM, 10 µg

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di pCMVR8.74 (vettore di packaging, Addgene), 5 µg pMD2.G (vettore di envelope, Addgene) e 20 µg pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE (vettore lentivirale, Addgene) modificato per esprimere la GFP sotto il controllo trascrizionale della CLDN-5. La soluzione così ottenuta viene aggiunta alle cellule e dopo 6h eliminata effettuando un cambio completo del mezzo.

Dopo circa 72h dalla trasfezione viene recuperato il mezzo ricco di virioni dalle cellule HEK 293T, chiarificato ( 5min in centrifuga a 3000rpm) e filtrato con con filtri 0,45 µm (Sarsted). Il sopranatante viene ultracentrifugato per 2 ore e 30 minuti a 40000 rpm a 4°C (ultracentifuga Beckman, rotore Type 70 Ti). Il pellet, in cui sono concentrate le particelle virali, viene incubato con PBS1x o/n a 4°C ed il giorno dopo viene risospeso, aliquotato e mantenuto a -80°C fino al suo utilizzo.

2.7 Infezione di cellule HUVEC

L’infezione viene effettuata su cellule HUVEC seminate su gelatina allo 0,1% alla densità di circa 5*103/cm2 dopo tre giorni dalla semina. Le particelle virali vengono aggiunte ad un volume minimo di mezzo HUVEC completo senza siero con l’aggiunta di Polibrene 1x (Sigma) alla concentrazione finale di circa 10 µg/ml. Dopo 6h dall’infezione si procede al cambio mezzo completo.

2.8 Immunocitochimica

Le analisi di immunocitochimica sono state condotte su cellule HUVEC fissate, a diversi tempi dall’infezione o dalla

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semina, con una soluzione di PBS1x / PFA (paraformaldeide) 3% / Tween 0,005% per 3 min a RT, seguita da una soluzione di PBS1x / PFA 3% per 15 min RT. Dopo aver effettuato 3 lavaggi di 5 min con PBS1x, le cellule vengono lasciate per almeno un’ora a RT in una soluzione di blocking costituita da PBS1x / 10% siero di agnello. Dopo aver rimosso la soluzione di blocking, si procede all’incubazione delle cellule con anticorpo primario specifico nella soluzione di blocking con siero al 10% o/n a 4°C. Il giorno seguente vengono effettuati tre lavaggi di 10 min in PBS1x e l’anticorpo primario viene rivelato grazie ad un anticorpo secondario coniugato con un fluoroforo lasciato incubare per 2 ore a RT nella soluzione di blocking con siero al 10%.

Le diluizioni e gli anticorpi utilizzati per queste analisi sono: rabbit anti hCLDN-5 (1:100, Abcam); rabbit anti ZO-1 (1:100, Invitrogen); chicken anti GFP (1:1000, Abcam); goat-anti-rabbit 488 (1:500, Molecular Probes); goat anti-chicken 488 (1:500, Molecular probes).

2.9 Immagini

Le immagini delle cellule mostrate in questo lavoro di tesi sono state acquisite ed analizzate mediante l’utilizzo di un microscopio invertito a epifluorescenza Nikon-Eclipse Ti e digitalizzate con il software ImageJ.

Per gli esperimenti di time-lapse le cellule sono state mantenute nella camera incubatrice termostata associata al microscopio alla temperatura di 37 °C e in atmosfera umidificata

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con il 5% di CO2 per un tempo di circa 18h o 27h . Le immagini

sono state acquisite ogni 90 min utilizzando un obiettivo a secco 40x (Plan Fluor, Nikon) con il sistema di autofocus PFS.

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3. RISULTATI

3.1 Scelta dei vettori lentivirali di terza generazione basati su HIV-1 per generare HUVEC geneticamente modificate

Allo scopo di generare cellule HUVEC geneticamente modificate che esprimano geni reporter fluorescenti vitali, in conseguenza dell’avvenuto differenziamento endoteliale, è stata selezionata la strategia dell’utilizzo dei vettori lentivirali. La trasduzione virale permette, infatti, il trasferimento di materiale esogeno all’interno di cellule target, assicurando velocità e stabilità dell’integrazione, in cellule che come le HUVEC possono essere mantenute in coltura per un numero limitato di passaggi. In particolare è stato scelto l’utilizzo di un vettore lentivirale di terza generazione SIN, autoinattivante, basato sul virus dell’Immunodeficienza Umana di Tipo 1 (HIV-1) e pseudotipizzato con la glicoproteina G del virus della stomatite vescicolare (VSV-G). Questo sistema prevede la suddivisione di tutte le componenti virali in tre plasmidi, che nel caso specifico sono: pCMVR8.74 (vettore di packaging), pMD2.G (vettore di envelope) e pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE (vettore di espressione). Quest’ultimo plasmide è stato ingegnerizzato con l’introduzione di un promotore endotelio-specifico a monte della sequenza codificante per il gene reporter fluorescente EGFP, in modo che l’espressione del transgene sia sotto il controllo trascrizionale delle regioni promotrici dei geni selezionati di interesse.

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3.2 Individuazione delle sequenze promotrici endotelio-specifiche

Al fine di generare cellule HUVEC che esprimano geni reporter fluorescenti vitali in conseguenza dell’avvenuto differenziamento endoteliale, è stato necessario studiare la regione genomica di geni marcatori tessuto specifici endoteliali per individuare le potenziali regioni promotrici responsabili di promuovere una espressione selettiva in cellule endoteliali così da poter correlare la loro attivazione dell’espressione con le diverse fasi del differenziamento cellulare . È stata svolta quindi una ricerca, facendo riferimento a dati disponibili in letteratura, focalizzando l’attenzione su geni marcatori molecolari che codificassero per proteine funzionalmente rilevanti nella formazione di un endotelio maturo. È stata ottenuta una lista di geni coinvolti nella formazione delle giunzioni cellula-cellula, caratteristica funzionale specifica nel differenziamento endoteliale, e/o coinvolti nella risposta a stimoli infiammatori. In particolare, sono stati selezionati come candidati potenzialmente capaci di guidare l’espressione del gene reporter EGFP, i geni

cldn-5 (claudina-5) e cdh-5 (ve-caderina), componenti

rispettivamente delle giunzioni strette e giunzioni aderenti, ed

e-sele (e-e-selectina) e vcam1, proteine di adesione attivate

dall’azione delle citochine solo in seguito all’insorgenza di fenomeni infiammatori.

Una volta individuati i geni di interesse, è stata effettuata una dettagliata analisi in silico tesa ad individuare gli elementi minimi che presentassero regioni enhancers potenzialmente capaci di promuovere la trascrizione dei geni sopra citati; tutto

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ciò è stato reso necessario a causa delle ridotte dimensioni del transgene che è possibile inserire nei vettori lentivirali per essere poi veicolato all’interno delle particelle virali. In particolare, le sequenze genomiche dei promotori dei geni candidati sono state analizzate focalizzando l’attenzione sulla ricerca di regioni evolutivamente conservate e profili di omologia di siti di legame per fattori di trascrizione tra geni umani e murini, in modo da identificare regioni minime potenzialmente in grado di guidare l’espressione del gene reporter EGFP.

3.3 Ingegnerizzazione dei vettori di espressione lentivirali: clonaggio delle sequenze promotrici endotelio-specifiche

Una volta individuate le potenziali regioni regolative responsabili del controllo trascrizionale specifico dei quattro geni candidati, le rispettive regioni promotrici di interesse sono state ottenute grazie ad amplificazione mediante PCR da DNA genomico umano utilizzando primer specifici. Le sequenze ottenute, purificate, sono state utilizzate per l’ingegnerizzazione dei vettori virali ricombinanti grazie al loro inserimento a monte della sequenza codificante per la EGFP nel vettore pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE. In particolare, la regione promotrice del gene cldn-5 (frammento di 550bp), in seguito a doppia digestione enzimatica XhoI-BamHI, è stato inserita nel sito XhoI-BamHI del plasmide pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE per generare il vettore pRRL.CLDN-5-GFP (Fig. 3.1 A); la regione promotrice del gene cdh-5 (frammento di 3kb), in seguito a doppia digestione enzimatica XhoI-XbaI, è stato inserita nel

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sito XhoI-XbaI del plasmide pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE per generare il vettore pRRL.CDH-5-GFP (Fig. 3.1 B); la regione promotrice del gene e-sele (frammento di 680bp), in seguito a doppia digestione enzimatica XhoI-BamHI, è stato inserita nel sito XhoI-BamHI del plasmide pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE per generare il vettore pRRL.E-SELE-GFP (Fig. 3.1 C); la regione promotrice del gene vcam1 (frammento di 2,3kb), in seguito a doppia digestione enzimatica BamHI-SpeI, è stato inserita nel sito SmaI-XbaI (XbaI e SpeI hanno estremità coesive compatibili) del plasmide pRRLSIN.cPPT.PGK-GFP.WPRE per generare il vettore pRRL.VCAM1-GFP (Fig. 3.1 D).

Figura 3.1 Rappresentazione schematica dei vettori lentivirali ingegnerizzati, contenenti

rispettivamente le regioni promotrici dei geni cldn-5 XhoI-BamHI (A), cdh-5 XhoI-SpeI (B), e-sele XhoI-BamHI (C) e vcam1 BamHI-SpeI (D) a monte della sequenza codificante per la EGFP.

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3.4 Generazione di cellule HUVEC capaci di esprimere geni reporter fluorescenti multipli: clonaggio della sequenza codificante per la RFP

In seguito alla generazione di questo primo set di costrutti, in cui il reporter EGFP è posto sotto il controllo trascrizionale di specifiche regioni endotelio-specifiche, ho ingegnerizzato un secondo set di vettori lentivirali ricombinanti contenenti le regioni promotrici dei geni cldn-5 ed e-sele a monte della sequenza del gene reporter RFP; in questo modo, oltre ad aumentare la variabilità dei lentivirus a disposizione sarà possibile utilizzarli in combinazione per generare cellule HUVEC capaci di esprimere geni reporter fluorescenti multipli (EGFP e RFP) sotto il controllo di specifici promotori di interesse.

In particolare, ho amplificato la sequenza della RFP, mediante PCR, dal vettore pDsRed2-Nuc utilizzando dei primer disegnati in modo da aggiungere alla sequenza dell’amplificato delle “code” contenenti le sequenze di siti riconosciuti da specifici enzimi di restrizione. Dopo una doppia digestione, i frammenti amplificati sono stati purificati in seguito a corsa elettroforetica. Sia il vettore pRRL.CLDN-5-GFP che pRRL.E-SELE-GFP sono stati digeriti con gli stessi enzimi, con lo scopo di excidere la EGFP, e purificati. A questo punto il frammento di RFP, di 700bp, digerito BamHI-SalI, è stato inserito nel sito BamHI-SalI del pRRL.CLDN-5-GFP per generare il vettore pRRL.CLDN-5-RFP (Fig. 3.2 A) e nel sito BamHI-SalI del pRRL.E-SELE-GFP per generare il vettore pRRL.E-SELE-RFP (Fig. 3.2 B). È stata inoltre implementata la stessa procedura per

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