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L'anima più concreta dello strutturalismo

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Academic year: 2021

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PIERLUIGI PELLINI

II

C’è tutto Genette, con la sua sferzante (auto-)ironia, nel-la definizione scherzosa che ha dato, una decina d’anni fa, della narratologia, la discipli-na che più di ogni altro ha con-tribuito a fondare negli anni d’oro della teoria letteraria, in-torno al 1970: «una pseu-do-scienza perniciosa», il cui «gergo ha indotto disgusto per la letteratura in tutta una ge-nerazione di analfabeti». Dove il sarcasmo colpisce in modo equanime le pedisseque appli-cazioni scolastiche del suo me-todo di analisi strutturale del testo narrativo e i pigri pregiu-dizi di studenti di per sé poco inclini ai piaceri della lettura.

L’AUTORE DI «FIGURE III», il libro

che per almeno tre decenni è stato la bibbia di ogni matrico-la in lettere (oggi sta scompa-rendo dai programmi universi-tari), era il primo a farsi beffe del narratologically correct impo-sto dalle sue stesse opere e scia-guratamente diffuso, in Fran-cia come in Italia, nelle scuole di ogni ordine e grado: parlan-do con libertà e passione della

Recherche, l’opera su cui più

as-siduamente ha lavorato, gli ca-pitava di dire Proust e non Mar-cel, confondendo autore e nar-ratore, e lasciando di stucco in-terlocutori tanto ottusi da tra-sformare, come i manuali sco-lastici, le sue distinzioni teori-che e le sue categorie operati-ve in soggetti di un’ontologia fantasma.

Gérard Genette, scomparso a ottantasette anni lo scorso 11 maggio, è stato innanzitut-to un maestro di meinnanzitut-todo. In tutta la sua opera, altro non ha fatto che insegnare l’arte del

distinguo: proprio per questo

sapeva che è più importante evitare di confondere un sag-gio critico con una conversa-zione, o un adolescente con un dottorando, piuttosto che una sillessi con una metalessi, o un racconto eterodiegetico con uno omodiegetico. Del re-sto, il gusto del paradosso, sempre ricondotto, in un lam-po d’intelligenza, alla più lim-pida razionalità, non è peculia-re dei soli scritti della vecchia-ia: dell’impresa ciclopica che si era proposto, quella di map-pare «la totalità del virtuale let-terario», conosceva il fascino utopico ma anche la smisura-ta aleatorietà. Esattezza e iro-nia: questo il binomio, solo in apparenza ossimorico, che in-forma la scrittura, svelta e ele-gante nonostante i tecnicismi, di tutti i suoi libri. Nei quali vo-leva descrivere non solo i testi storicamente esistenti, ma an-che quelli logicamente imma-ginabili: esattamente come Claude Lévi-Strauss ambiva a censire le forme di tutte le pos-sibili società umane.

INSIEME AL GRANDE antropolo-go, Genette ha incarnato, del-lo strutturalismo, l’anima più concreta e razionale; Roland Barthes quella più inquieta e creativa. Forse c’entra il fatto che era figlio di un operaio tes-sile (l’autore dei Miti d’oggi, in-vece, di un capitano della mari-na mercantile); e se è un luogo comune, oggi, ripetere che le opere di Barthes invecchiano meglio, di certo sono gli stru-menti di laboratorio messi a punto da Genette a rimanere

indispensabili per chi è anra convinto che la critica, co-me la letteratura, sia innanzi-tutto nobile artigianato.

L’officina nomenclatoria di Genette, al tempo stesso pedante e ludica, ha lavorato senza sosta per mezzo seco-lo, producendo un’inflazio-ne terminologica che accan-to a categorie imprescindibi-li (anacronie, fenomeni di du-rata e frequenza, modi del racconto, voce narrativa: im-pensabile farne a meno), ne ha diffuse di inutili o infelici, destinate a precoce obsole-scenza: così i suoi «ipertesti», che nel 1981 indicavano testi derivati, in modo più o meno

palese, da altri testi, si sono arresi alla fortuna che il ter-mine ha avuto, in altra acce-zione, nel linguaggio del web. E tuttavia, nel momento in cui la scomparsa di Genette (si può ben dirlo senza retori-ca) chiude definitivamente la stagione più alta della teo-ria letterateo-ria novecentesca, l’onestà intellettuale dei po-steri impone di riconoscere che la voga attuale della nar-ratologia anglosassone (i ni-potini James, Forster e Bo-oth) e delle sue approssima-zioni impressioniste, o di quella austriaca (gli allievi di Stanzel) e della sua duttilità, o peggio di quella

cognitivi-sta (la cosiddetta neuronarra-tologia), risponde a esigenze prettamente accademiche di (vero o presunto) rinnova-mento dei metodi, se non di mera produzione di carta da concorsi. Chi vuole capire co-me funziona un romanzo, usa e continuerà a usare

Figu-re III (1972) e il Nuovo discorso del racconto (1983).

NON È TUTTAVIA IL TESTO, nella sua singolarità, a essere al cen-tro delle preoccupazioni di Ge-nette: che per questo non può essere considerato tout court un formalista, né semplice-mente un narratologo, anche se ha indubbiamente contri-buito a quello sbilanciamento

dei valori che oggi induce il senso comune a identificare la letteratura con i soli generi narrativi.

La disciplina cui ha dedica-to i suoi sforzi più costanti è la poetica (perciò il titolo della ri-vista fondata nel 1970 con Hélène Cixous e Tzvetan Todo-rov, «Poétique»): lo studio, cioè, dell’«insieme delle cate-gorie generali e trascendenti – tipi di discorso, modi d’enun-ciazione, generi letterari, ecc. – cui appartiene ogni singolo testo». Di qui l’interesse per la riscrittura (parodia, pastiche, imitazione) e per i «dintorni del testo», studiati rispettiva-mente in due grandi libri

co-me Palinsesti (1982) e Soglie (1987); e la costante riflessio-ne sulla natura stessa del fatto letterario, affrontata con uno scetticismo mai rinunciata-rio. Esemplare l’incipit di

Fin-zione e diFin-zione (1991): «avrei

po-tuto gratificare questo saggio di un titolo ch’è stato grosso-lanamente usato: Che cos’è la

letteratura?». Dove la stoccata

a Sartre si capovolge pronta-mente in autoironia («a do-manda sciocca, nessuna rispo-sta»), mentre il saggio impo-sta l’analisi di quei rapporti fra fiction e non fiction che di-venteranno di attualità, an-che militante, nel nuovo seco-lo. Non a caso, esaurita la sta-gione strutturalista, Genette scriverà un saggio di estetica in due volumi, L’opera dell’arte (1994 e 1997), fedele al parti-to preso di un pragmatismo razionalista che lo porta a sce-gliere come interlocutore pri-vilegiato Nelson Goodman.

È la conclusione di un per-corso – dalla letteratura alla fi-losofia analitica – per certi ver-si speculare a quello seguito dal coetaneo Jacques Derrida, che di Genette era stato colle-ga e sodale nel 1959, quando entrambi insegnavano in un oscuro liceo di provincia, a Le Mans: due ‘vite parallele’ forse solo in apparenza antitetiche (strutturalismo e post-struttu-ralismo, tecnicismo scientista e decostruzione), emblemati-che della cultura europea del secondo Novecento.

UNA PARABOLA fin troppo

esemplare dell’ascesa e del de-clino non solo dello strutturali-smo, ma della teoria letteraria

tout court, è disegnata invece

dalla ricezione dell’opera di Genette in Italia: il suo primo libro, Figure, del 1966, è stato tempestivamente tradotto tre anni dopo da Einaudi, che ha più o meno prontamente pub-blicato anche i principali volu-mi degli anni successivi, fino a

Soglie. I due libri di estetica,

in-vece, sono usciti per i tipi di un piccolo editore universita-rio (Clueb di Bologna); le ope-re successive non sono mai sta-te tradotsta-te.

Dell’ultima fase di Genette, aperta nel 2006 con Bardadrac – ancora un neologismo, che al-lude giocosamente alla confu-sione di oggetti eterocliti butta-ti alla rinfusa in un sacco –, e proseguitaacadenzequasirego-lari con Codicille (2009), Apostille (2012), Epilogue (2014) e

Po-stscript (2016), nulla è

pervenu-to al letpervenu-tore italiano: ed è un ve-ro peccato, perché

l’understate-ment dei titoli, che annunciano

null’altro che codicilli, postille, epiloghie poscritti, nasconde la ricchezza e la complessità di un moderno zibaldone, nato sotto il segno di Montaigne e misura- tissimonelmescolareconappa- rentenonchalanceriflessionifilo-sofiche, ricordi autobiografici, giudizi fulminanti sulla lettera-turaesulmondo.Perché Genet-te è stato, dagli anni Sessanta fi-no a ieri, fi-non solo un teorico, ma anche un grandissimo criti-co: la finezza di tante sue osser-vazioni – su Proust, su Flaubert, su molti altri classici non solo francesi – smentisce ogni so-spetto di arido tecnicismo; e co-me Barthes è stato, sia pure in modi diversissimi, anche uno scrittore: che in Italia quasi nes-sunoconosce.

Gérard Genette

La sua scomparsa, l’11 maggio, chiude la stagione

più alta della teoria letteraria novecentesca

Dalla narratologia alla filosofia analitica,

un percorso speculare a quello del coetaneo Derrida

GÉRARDGENETTE

L’animapiùconcreta

dello

strutturalismo

Aveva ottantasette anni, è stato innanzitutto un maestro di metodo

Una pseudo-scienza perniciosa... il cui gergo

ha indotto disgusto per la letteratura

in tutta una generazione di analfabeti

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