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L'evoluzione del lavoro parasubordinato dopo il decreto legislativo numero 81 del 2015

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

L’evoluzione del lavoro parasubordinato dopo il decreto legislativo numero 81 del 2015

Il Candidato: Il Relatore:

Giacomo Elia Toschi Prof. Michele Mariani

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INDICE

INTRODUZIONE ... 7

CAPITOLO I

LE ORIGINI DELLA PARASUBORDINAZIONE

1.1. La genesi della parasubordinazione ... 11 1.2. La legge Vigorelli ... 13 1.3. La tutela processuale, legge n. 533 del 1973 ... 15 1.4. I requisiti di coordinazione, continuità e prevalentemente

personalità della prestazione ... 16 1.5. L’ulteriore estensione della tutela processuale, legge numero 128 del 1992 ... 19 1.6. La tutela previdenziale obbligatoria, legge n. 335 del 1995;

l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie, il d.lgs. n. 38 del 2000…………. ... 22 1.7. Il problema di qualificazione del rapporto tra autonomia e

subordinazione ... 24 1.8. Gli indici di subordinazione ... 28 1.9. L’evoluzione del metodo di qualificazione ... 30 1.10. L’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative per finalità elusive ... 33 1.11. Le possibili soluzioni proposte dalla dottrina ... 35

CAPITOLO II

L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA PARASUBORDINAZIONE

2.1. Il disegno di legge Smuraglia………40 2.2. Lo “Statuto dei Lavori” ... 43

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2.3. Il Libro Bianco... 45

2.4. Il decreto legislativo n. 276 del 2003 ... 47

2.5. Le problematiche relative al lavoro a progetto ... 50

2.6. La riforma Monti ... 54

CAPITOLO III LA NUOVA DISCIPLINA DEL LAVORO PARASUBORDINATO DOPO IL D.LGS. 81 DEL 2015 3.1. I motivi di una nuova riforma ... 61

3.2. La teoria della “flexicurity” ... 63

3.3. Le difficoltà interpretative ... 65

3.4. I propositi della legge delega e il superamento del lavoro a progetto ... 66

3.5. Il decreto legislativo n. 81/2015 ... 68

3.6. I casi di disapplicazione del comma 1: l’articolo 2, comma 2, decreto legislativo n. 81/2015 ... 69

3.7. Le diverse teorie sulla disciplina da applicare alle collaborazioni organizzate dal committente ... 74

3.8. I requisiti delle collaborazioni organizzate dal committente: art 2, co. 1, d.lgs. n. 81/2015 ... 78

3.9. Le modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro ... 80

3.10. Il riferimento “ai tempi e al luogo di lavoro” nell’organizzazione delle modalità di esecuzione da parte del committente ... 84

3.11. La differenza tra prestazione di lavoro autonomo e prestazione di lavoro etero-organizzato ... 86

3.12. La differenza tra prestazione di lavoro subordinato e prestazione di lavoro etero-organizzato ... 90

3.13. L’applicazione in concreto della disciplina della subordinazione ai rapporti di collaborazione organizzati dal committente ... 95

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3.14. La certificazione dell’assenza delle caratteristiche previste dal comma 1: l’articolo 2, comma 3, d.lgs. n. 81/2015 ... 98 3.15. La disciplina prevista per la Pubblica Amministrazione: articolo 2, comma 4, decreto legislativo n. 81/2015 ... 101 3.16. Il mancato superamento delle collaborazioni coordinate e continuative previste dall’art. 409, n. 3, c. p. c.: art. 52, co. 2, d.lgs. n. 81/2015… ... 105 3.17. Il lavoro autonomo economicamente dipendente ... 110 3.18. La stabilizzazione dei titolari di partita IVA e dei collaboratori a carattere coordinato e continuativo: art. 54, d.lgs. n. 81/2015 ... 114 3.19. Considerazioni finali ... 117

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INTRODUZIONE

La figura della parasubordinazione è, da sempre, un’ambigua forma di lavoro posta in una sorta di “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, più volte oggetto di attenzione da parte del legislatore come accaduto, di recente, con il d.lgs. n. 81/2015, emanato in ossequio alla l. n. 183/2014 rubricata “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché' in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”, che si colloca nell’area delle riforme in ambito lavoristico volute dal Governo Renzi.

La seguente tesi si sviluppa partendo dalle origini del lavoro parasubordinato, procedendo poi nell’analisi dei diversi tentativi legislativi di regolamentare tale figura fino ad arrivare al suddetto decreto legislativo numero 81/2015. Con tale intervento il legislatore ha infatti tentato di razionalizzare la disciplina di questi rapporti di lavoro al fine di reprimerne, una volta per tutte, l’eventuale utilizzo elusivo della disciplina della subordinazione.

A partire dai primi provvedimenti di riforma il legislatore ha dimostrato l’intenzione, come vedremo, sia di fare chiarezza sulla natura e sull’ambito di applicazione di questa fattispecie, sia di limitare un suo possibile utilizzo fraudolento, introducendo spesso una disciplina troppo restrittiva, che pregiudica gli interessi delle parti senza tuttavia raggiungere gli obiettivi proclamati. Diventa inoltre sempre più evidente che, con il diffondersi di tale modalità di

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organizzazione del lavoro, i rapporti riconducibili alla categoria della parasubordinazione hanno bisogno di tutele specifiche, volte a proteggere tutti quei soggetti che, per la natura della loro prestazione, vengono esclusi dall’area di applicazione delle salvaguardie previste, in origine, per le categorie tradizionali di autonomia e subordinazione.

I lavoratori parasubordinati si trovavano dunque a far parte di un rapporto di lavoro caratterizzato sì da un certo grado di autonomia, ma anche da una dipendenza economica dal committente/datore di lavoro a cui non corrispondeva, però, una qualificazione formale del rapporto come subordinato. Si tratta, infatti, di un particolare tipo di lavoro autonomo, caratterizzato dalla collaborazione tra prestatore e committente, nonché dalla coordinazione con quest’ultimo, dalla continuità e dalla prevalente personalità nell’eseguire la prestazione dovuta.

Il legislatore intervenne in merito alle suddette caratteristiche che contraddistinguono il lavoro parasubordinato con la riforma del processo del lavoro del 1973, specificando all’art. 409, n. 3, c. p. c. che veniva esteso il rito del lavoro anche ai “rapporti di agenzia, di

rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. È

necessario sottolineare, tuttavia, che tale norma causò, sin da subito, diversi problemi, soprattutto a causa della mancanza di una definizione chiara e precisa della fattispecie e dei rapporti a questa riconducibile.

Gli iniziali provvedimenti legislativi, a partire dalla Legge Vigorelli che per la prima volta riconosce l’esistenza di “rapporti di

collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata”, passando dalla già menzionata riforma del processo del

lavoro, fino ad arrivare al crescente utilizzo elusivo del lavoro parasubordinato e alla questione legata al metodo di qualificazione del

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rapporto, saranno oggetto di analisi nel primo capitolo del presente elaborato. In esso verranno trattati, oltre agli altri interventi legislativi antecedenti gli anni 2000 e volti ad estendere alcune tutele minime a questi lavoratori, anche gli elementi caratterizzanti le collaborazioni coordinate e continuative e le varie soluzioni proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza per distinguere queste ultime dai rapporti di lavoro subordinato.

L’analisi dei successivi interventi che hanno come obiettivo quello di estendere ulteriormente le tutele minime e quello di fornire una disciplina chiara in grado di scongiurare utilizzi fraudolenti del lavoro parasubordinato saranno, invece, oggetto del secondo capitolo, che tratterà anche dell’esperienza del lavoro a progetto, sia nella sua formulazione originaria, fornita dal d.lgs. n. 276/2003, sia nella forma riveduta e corretta dalla l. n. 92/2012. Questa nuova fattispecie, risultante dal tentativo del legislatore di controllare i rapporti in oggetto, ha la peculiarità di rendere legittimamente utilizzabili le prestazioni di lavoro a carattere coordinato, continuativo e prevalentemente personale solo ove queste possano essere ricondotte ad uno specifico progetto, programma e fase. Tale disciplina non risolve, tuttavia, le problematiche fin qui riscontrate dagli studiosi ma, anzi, ne crea di nuove, dimostrando così gli scarsi risultati di una normativa troppo orientata non alla tutela delle parti del rapporto e al riequilibrio delle forze contrattuali, bensì verso la sola finalità antielusiva.

Queste problematiche, inizialmente colte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sono poi state affrontate anche dal legislatore che, per evitare gli errori sulla regolamentazione della materia commessi in passato e cogliendo i nuovi orientamenti sviluppatisi in ambito europeo, è nuovamente intervenuto, con il d.lgs. numero 81 del 2015, sul lavoro parasubordinato al fine di introdurre una disciplina che si auspicava

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portasse, progressivamente, al superamento delle collaborazioni coordinate e continuative.

Il terzo capitolo si occuperà, dunque, della nuova riforma e dei motivi che hanno portato a questo intervento, esaminando le disposizioni maggiormente attinenti alla parasubordinazione e alle nuove collaborazioni organizzate dal committente. Si passeranno ad esaminare, in seguito, i tratti distintivi che tali collaborazioni, caratterizzate dalla etero-organizzazione, devono possedere affinché possa essergli applicata la disciplina della subordinazione, ponendo particolare attenzione sulla differenza che intercorre tra queste, le fattispecie di lavoro autonomo, dove è presente la coordinazione tra prestatore e committente, ed i rapporti di lavoro subordinato, il cui tratto distintivo è, invece, l’etero-direzione del datore di lavoro.

Saranno trattati, inoltre, i casi di disapplicazione della normativa e del mancato superamento delle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409, n. 3, c. p. c., analizzando la disciplina ad essi applicabile e concludendo poi con l’auspicio che il legislatore, nonostante l’ennesimo tentativo di riforma fallito, possa virare verso una regolamentazione che tuteli il lavoro autonomo economicamente dipendente nel suo complesso, senza quindi che sia necessario andare ad analizzare ogni sua singola caratteristica prima di concedergli il trattamento che merita.

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CAPITOLO I

LE ORIGINI DELLA PARASUBORDINAZIONE

1.1. La genesi della parasubordinazione

Agli albori del nostro ordinamento sono essenzialmente due le figure di prestatore di lavoro disciplinate dal codice civile attorno cui si concentra l’attenzione degli studiosi e dei giudici, il prestatore di lavoro subordinato ex art. 2094 - “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.” – ed il lavoratore autonomo, le

cui caratteristiche si evincono dalla lettura dell’ art. 2222, riguardante il contratto d’opera – “Quando una persona si obbliga a compiere

verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV.”

Nel corso del tempo, in particolare a partire dagli anni ’70, si è tuttavia assistito ad un progressivo mutamento dell’organizzazione produttiva imprenditoriale, in cui trova una sempre maggior applicazione il meccanismo dell’esternalizzazione – ossia la pratica di ricorrere ad

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altre imprese per lo svolgimento di alcune fasi del proprio processo produttivo – portando come conseguenza il diffondersi dell’utilizzo di rapporti di lavoro situati nella zona intermedia tra l’autonomia (inizialmente collegata al “lavoro prevalentemente proprio” di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori e poi estesa, con l’evoluzione tecnologica, alle nuove professioni intellettuali al di fuori di quelle rientranti nell’alveo di ordini e collegi professionali) e la subordinazione (quella tipicamente intesa e regolata dagli artt. 2094 c.c. e ss.).

Si veniva così a creare una fattispecie di lavoro autonomo caratterizzato dalla nozione di collaborazione autonoma ma coordinata e continuativa, restando ferma tuttavia l’assenza del vincolo di subordinazione.1

La dottrina e la giurisprudenza si trovarono quindi alle prese con tipologie di prestatori di lavoro allora ignote in quanto non riconducibili alle categorie conosciute e che, privi di alcun tipo di protezione, necessitavano quanto prima di una disciplina a loro tutela.

Proprio al fine di risolvere tale problema, la dottrina ha coniato il termine “parasubordinazione”, tentando, in questo modo, di trovare dei tratti distintivi comuni ai suddetti rapporti allo scopo di fornire loro una disciplina che potesse essere estesa ad ogni prestatore di lavoro appartenente a questa nuova categoria.

1 F. Giammaria, Le “nuove” collaborazioni coordinate e continuative, Massimario di

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13 1.2. La legge Vigorelli

Introducendo il percorso normativo che ha portato ad una regolamentazione di tali rapporti, è doveroso ricordare che, sebbene l’espressione “parasubordinazione” non trovi riferimenti in nessuna norma, una figura simile era già stata oggetto di attenzione da parte del legislatore.

L’antesignano del lavoro parasubordinato, infatti, è costituito dal

contratto di agenzia, disciplinato in modo analitico dagli articoli 1792

e seguenti del codice civile il cui primo comma recita: “Col contratto

di agenzia una parte assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata”2. In questo caso vi è quindi un soggetto, detto “agente”, che si impegna a collaborare con il preponente in modo stabile e senza vincolo di subordinazione al fine di concludere contratti in una determinata zona.

Nonostante la considerazione del legislatore per il suddetto contratto, il più risalente riferimento alla figura della parasubordinazione è da ricercare nella legge numero 741 del 1959, la cosiddetta Legge

Vigorelli, con la quale il Governo riceveva delega dal Parlamento allo

scopo di “emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di

assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria.” A

tal fine l’articolo 1 secondo comma della suddetta legge, stabiliva che il Governo dovesse “uniformarsi a tutte le clausole dei singoli accordi

economici e contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge.

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La Legge Vigorelli mirava quindi a fornire una tutela minima non solo a tutti i lavoratori appartenenti ad una stessa categoria attraverso la positivizzazione dei contratti collettivi, ma estendendo la portata di applicazione della norma anche a coloro che, facendo parte di quella “zona grigia” tra subordinazione ed autonomia, sarebbero altrimenti risultati privi di protezione. Dispone infatti l’articolo 2 della summenzionata legge che “Le norme di cui all’art. 1 dovranno essere

emanate per tutte le categorie per le quali risultino stipulati accordi economici e contratti collettivi riguardanti una o più categorie per la disciplina dei rapporti di lavoro, dei rapporti di associazione agraria, di affitto a coltivatore diretto e dei rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata.”

Il legislatore, così facendo, fornisce un riconoscimento a quei rapporti che in precedenza la dottrina aveva ricondotto sotto la nozione di parasubordinazione e per i quali aveva più volte espresso preoccupazione criticandone la mancanza di tutele minime. Ma non si limita a questo.

Andando a leggere il disposto dell’articolo 2, nell’ultimo periodo vengono forniti dalla legge i criteri che permettono di individuare questa nuova fattispecie. Vengono qui infatti indicate le caratteristiche che vanno ad accomunare il lavoratore autonomo con prestazione coordinata e continuativa al lavoratore subordinato in entrambe le figure, infatti, permane la dipendenza economica dall’imprenditore dimostrata dalla continuità dell’opera svolta nell’interesse del datore e che rendevano perciò evidente, secondo la dottrina, una disparità contrattuale tale da far sorgere il bisogno di un minimo trattamento economico e normativo non derogabile.

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1.3. La tutela processuale, legge n. 533 del 1973

Uno dei più rilevanti interventi volti a estendere tutele minime anche a questi rapporti di lavoro, si ha con la legge n. 533 del 1973 riguardante la riforma del processo del lavoro, che ha posto l’attenzione sulla categoria dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

A seguito di questa riforma, infatti, l'art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ. ha esteso la disciplina del rito del lavoro ai “rapporti di agenzia, di

rappresentanza commerciale ed agli altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. 3 Così facendo, oltre ad estendere l’applicabilità dell’articolo 2113 c.c. – in materia di annullabilità di rinunzie e transazioni4 - il legislatore andava a garantire una tutela processuale minima ai lavoratori parasubordinati, che, altrimenti, ne sarebbero stati privi, e al contempo forniva un’indicazione circa le caratteristiche che una collaborazione dovesse possedere affinché potesse accedere al rito del lavoro.

3 G. Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, cod. proc. Civ., Argomenti

Dir. Lav., 2015, 6, 1133 (commento alla normativa).

4 Art 2113, co. 1, c. c. : “Le rinunzie [1236] e le transazioni , che hanno per oggetto

diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide.”

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1.4. I requisiti di coordinazione, continuità e prevalentemente personalità della prestazione

In particolare, perché i suddetti rapporti siano assoggettati al rito del lavoro, devono avere le caratteristiche della coordinazione, continuità e prevalente personalità della prestazione:

a) La coordinazione consiste nel fatto che la prestazione d’opera è eseguita sulla base delle direttive del preponente senza però che tali direttive abbiano la caratteristica del potere gerarchico.5 C’è quindi un inserimento del lavoratore parasubordinato nell’organizzazione aziendale secondo le scelte del preponente, ma l’attività del collaboratore deve essere dotata di autonoma rilevanza6 senza che questi sia assoggettato al potere gerarchico del datore di lavoro. Il lavoratore coordinato si obbliga quindi a eseguire la prestazione convenuta su richiesta del committente, secondo modalità di luogo e di tempo pattuite nel contratto o concordate di volta in volta con il committente ed è per questo che si distingue dal lavoratore autonomo. Quest’ultimo, infatti, nei limiti di quanto pattuito nel contratto, può determinare da solo le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro.7

b) Per continuità si intende il fatto che la prestazione non deve essere occasionale ed episodica, ma stabile e permanente. L’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale deve rispondere perciò ad esigenze continuative del preponente8 e quindi il rapporto tra le parti non si deve esaurire con il compimento di una sola prestazione. Quando si parla di

5 F. P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, Ottava Edizione, Giuffrè Editore, p.9.

6Cass., 1 settembre 1990, n. 9067.

7 G. Santoro Passarelli, Il lavoro parasubordinato, p. 66.

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"continuità" riferito alla parola “opera”, infatti, si deve attribuire a quest’ultimo termine non soltanto il significato latino e quindi romanistico di opus, ossia di risultato, ma anche quello di operae, e quindi di prestazione di attività o di comportamento. Per “prestazione di opera continuativa”, perciò, si intende sia l'esecuzione di un'attività, sia il raggiungimento di risultati collegati da un nesso di continuità. 9

Tale requisito si considera soddisfatto non solo quando viene previsto dal contratto, ma anche nei casi in cui il rapporto abbia un carattere di continuità all’esito pratico.10Va specificato

inoltre che “La norma non richiede ripetizione ma continuità” e che “non è sufficiente il semplice protrarsi nel tempo della

esecuzione della prestazione”, si ritiene perciò presente il

sopracitato requisito nei casi in cui una prestazione, anche se unica, richieda sia un’attività ripetuta nel tempo, sia una interazione tra le parti che si protragga per tutta la durata del rapporto e non “limitata ai momenti dell'accettazione

dell'opera e del versamento del corrispettivo.”11 Per singoli

incarichi svolti in un periodo esteso su più anni, perciò, è da ritenere mancante il requisito della continuità; tali prestazioni, difatti, vengono considerate solamente come periodiche, proprio in relazione al lasso di tempo in cui esse sono portate a compimento.12

c) Prevalente personalità della prestazione significa che da un punto di vista qualitativo il risultato finale dell’attività del collaboratore non deve essere conseguito con la prevalente

9 G. Santoro Passarelli, i rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ., Argomenti

Dir. Lav., 2015, 6, 1133 (commento alla normativa).

10Cass. , 23 dicembre 2004, n. 23897. 11Cass. , 15 ottobre 1986, n. 6052.

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opera altrui.13 Ciò non toglie che questi possa utilizzare mezzi tecnici o avvalersi di collaboratori, purché la sua opera resti prevalente.14 In particolare si deve tenere conto non solo del numero di collaboratori, ma anche della tipologia puramente esecutiva e secondaria delle prestazioni svolte da questi ultimi.15 Secondo la giurisprudenza, inoltre, anche in questo caso, il requisito della prevalente personalità della prestazione può considerarsi soddisfatto non solo quando previsto dal contratto, ma anche nel caso in cui si rilevi dalle concrete modalità di svolgimento della prestazione.16

Si nota così che il rapporto di lavoro parasubordinato non costituisce per il legislatore una fattispecie tipica, ma individua essenzialmente un modo di organizzazione dell’impresa diverso da quello caratteristico del lavoro subordinato 17 dove il collaboratore è svincolato dall’inserimento strutturale nell’organizzazione gerarchica dell'impresa. Questa, pertanto, è destinataria di un'opera o di un servizio predeterminato per la cui realizzazione il soggetto in questione deve godere di libertà circa le modalità, il tempo ed il luogo di adempimento.

Nonostante lo sforzo legislativo e la significativa espansione delle tutele minime previste a favore dei lavoratori parasubordinati, continuava tuttavia ad essere lasciato alla dottrina e alla giurisprudenza l’impegnativo compito di individuare una disciplina applicabile alle suddette fattispecie. La riforma, infatti, andava a regolare questi rapporti solo dal punto di vista processuale senza fornire una norma di diritto sostanziale in grado di indicare con precisione una categoria che ricomprendesse tutte quelle fattispecie desumibili dall’art. 409, n. 3 del

13 F. P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, Ottava Edizione, Giuffrè Editore, p.9. 14 Cass., 19 aprile 2002, n. 5698.

15 G. Santoro Passarelli, i rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le

collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ., Argomenti

Dir. Lav., 2015, 6, 1133 (commento alla normativa).

16Cass., 26 ottobre 1990, n. 10382, Mass. Giur. Lav., 1991.

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codice di procedura civile, e che la dottrina riteneva trovarsi in una situazione di sottoprotezione sociale tale da doversi applicare, in mancanza di apposita regolamentazione, una parte delle tutele previste per il lavoro subordinato18.

1.5. L’ulteriore estensione della tutela processuale, legge numero 128 del 1992

Continuando ad analizzare la riforma del processo del lavoro, si rende necessario puntualizzare che non esiste nessuna disciplina specifica della giurisdizione da applicare a questi processi, perciò per le controversie di lavoro dobbiamo utilizzare gli ordinari criteri di giurisdizione previsti dal nostro ordinamento.

L’articolo che consente di individuare l’ufficio giudiziario competente in concreto è il numero 413 c. p. c., modificato dalla legge numero 128 del 1992 la quale, all’articolo 1 ha previsto l’inserimento del nuovo comma quarto secondo cui “Competente per territorio per le controversie previste dal numero 3) dell'articolo 409 è il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell'agente, del rappresentante di commercio ovvero del titolare degli altri rapporti di collaborazione di cui al predetto numero 3) dell'articolo 409 ”.Con la summenzionata

modifica la norma ha fornito al lavoratore parasubordinato un vantaggio rispetto al datore di lavoro che non è stato previsto nemmeno per il lavoratore dipendente (categoria considerata la più

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tutelata e a cui il legislatore storicamente riserva un trattamento più favorevole).

In precedenza, infatti, gli unici fori normativamente previsti per i rapporti di parasubordinazione erano quello del luogo di perfezionamento del contratto e quello del luogo dove aveva la sede principale l’impresa del datore di lavoro, anche se nella pratica solitamente veniva utilizzato solo quest’ultimo; così facendo, però, il collaboratore era costretto a trattare le sue controversie in un luogo anche molto distante da quello di effettivo svolgimento dell’attività. Ai lavoratori parasubordinati, infatti, non può essere applicato il disposto del secondo comma dell’articolo 413, c. p. c., che nei casi di lavoro dipendente individua come territorialmente competente il giudice del luogo dove “si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è

addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto”.

Il lavoratore parasubordinato è un lavoratore autonomo e, dunque, non può essere “addetto” come nei casi di subordinazione e, conseguentemente, non può usufruire della disciplina prevista a favore dei lavoratori dipendenti.19

La legge 128 del 1992, per ovviare alla sopracitata questione, ha introdotto come criterio di competenza per territorio il domicilio del lavoratore parasubordinato, dove per domicilio si intende il luogo nel quale il collaboratore ha il centro dei propri affari ed interessi, comprendendo non solo quelli materiali ed economici, ma anche quelli affettivi e spirituali.

Il foro così individuato è sia esclusivo, perciò non concorrente né alternativo con gli altri fori previsti nel medesimo articolo, che

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inderogabile ex art. 413, ultimo comma, c. p. c., secondo cui “sono

nulle le clausole derogative della competenza per territorio”.

Tale interpretazione, secondo parte della dottrina, è da ricondurre alla volontà del legislatore di impedire la stipulazione di clausole in deroga alla competenza per territorio che siano pregiudizievoli per il prestatore di lavoro, ciò perché la volontà espressa da quest’ultimo potrebbe non essere libera ma condizionata dalla posizione predominante del datore di lavoro. Seguendo questa impostazione, quindi, la norma non renderebbe assolutamente inderogabile la competenza per territorio, bensì renderebbe invalide solo le clausole relative alla competenza territoriale stipulate prima del processo da parte del prestatore di lavoro.20

Nonostante l’appena menzionata interpretazione appaia più ragionevole, rimane tuttavia minoritaria sia in giurisprudenza che in dottrina. L’orientamento maggioritario, infatti, tende a leggere in modo estensivo l’art. 413, ritenendo inderogabile la competenza territoriale ai sensi dell’art. 28, c. p. c.21, secondo cui la competenza per territorio

di solito può essere derogata per accordo delle parti, salvo che nei casi in cui “l’inderogabilità sia disposta espressamente dalle legge.”

Al fine di scongiurare un utilizzo distorto di questa norma, che come

abbiamo visto avvantaggia particolarmente il lavoratore

parasubordinato, qualora il rapporto di collaborazione (o d’agenzia) sia

cessato anteriormente all’instaurazione del giudizio e il prestatore d’opera durante lo svolgimento della prestazione abbia avuto più domicili, dovrà ritenersi competente per territorio il giudice del luogo dell’ultimo domicilio avuto prima della cessazione del rapporto.

20 F. P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, Ottava Edizione, Giuffrè Editore, p. 17. 21 Art. 28 c. p. c. : “ La competenza per territorio può essere derogata per accordo

delle parti, salvo che per le cause previste nei numeri 1, 2, 3 e 5 dell’articolo 70, per i casi di esecuzione forzata, di opposizione alla stessa, di procedimenti cautelari e possessori, di procedimenti in camera di consiglio e per ogni altro caso in cui l’inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge.”

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Questo per evitare che il collaboratore eluda le finalità della norma scegliendo il giudice in maniera preventiva attraverso il ripetuto trasferimento del proprio domicilio.

1.6. La tutela previdenziale obbligatoria, legge n. 335 del 1995; l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie, il d.lgs. n. 38 del 2000

Proseguendo nella sua opera di estensione di tutele minime anche ai lavoratori parasubordinati, il legislatore interviene successivamente solo nel 1993, con la legge numero 537 in materia di “Interventi

correttivi di finanza pubblica” , alla quale fa seguito la legge numero

335 del 1995, chiamata anche legge Dini, riguardante la “Riforma del

sistema pensionistico obbligatorio e complementare”, che si propone

come obiettivo quello della razionalizzazione ed armonizzazione del sistema contributivo sulla scia degli interventi riformatori degli anni precedenti.

Quest’ultima, in particolare, all’articolo 2 comma 26, stabilisce che “sono tenuti all’iscrizione presso un’apposita Gestione Separata,

presso l’INPS, e finalizzata all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità e la vecchiaia” non solo i lavoratori

autonomi ma anche i “titolari di rapporti di collaborazione coordinata

e continuativa”, prevedendo inizialmente una contribuzione pari al 10% del reddito. Detta aliquota contributiva è stata oggetto di successivi incrementi in forza di vari provvedimenti legislativi, ed ha raggiunto il 27,72% nel 2016 salvo poi scendere al 25,72% con

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l’entrata in vigore della legge n. 232/2016 (così detta Legge di Stabilità 2017).

Viene estesa perciò anche ai lavoratori parasubordinati una forma di tutela previdenziale obbligatoria acquisendo così il diritto, secondo specifici requisiti previsti dalla legge, alle prestazioni pensionistiche previste per la gestione previdenziale degli esercenti le attività commerciali ed artigianali, come ad esempio la pensione di vecchiaia, l’assegno di invalidità e la pensione di inabilità. Appare così evidente il progressivo sforzo compiuto dal nostro ordinamento che sembra proiettato verso una generale estensione della tutela previdenziale a tutti i produttori di reddito da lavoro.

Sul versante INAIL invece, con il decreto legislativo 38 del 2000 rubricato “Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni

sul lavoro e le malattie Professionali”, il legislatore ha inteso estendere

anche alla categoria dei lavoratori parasubordinati la tutela contro gli infortuni sul lavoro e contro le malattie professionali; in particolare l’assicurazione provvede alla tutela economica dei lavoratori che subiscono la riduzione della propria attitudine psicofisica al lavoro a causa di infortunio o malattia professionale (come disciplinato dal testo unico approvato con d. p. r. n.1124 del 1965).

Peculiarità del decreto legislativo sopra citato è quella di introdurre, a carico dell’assicurazione, anche l’indennizzo del danno biologico e di aver modificato la disciplina dell’infortunio “in itinere”, che tutela tutti gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro.22

22 M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Decima edizione, 2012, Giappichelli

(24)

24

1.7. Il problema di qualificazione del rapporto tra autonomia e subordinazione

Come già analizzato in precedenza all’interno di questa trattazione, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa sono da ricomprendere nella sfera del lavoro autonomo in quanto privi di quel “vincolo di subordinazione” necessario a ricondurli sotto il campo del lavoro subordinato. Tuttavia, per certi aspetti – si pensi per esempio al requisito della coordinazione, secondo cui l’opera del lavoratore parasubordinato deve essere eseguita seguendo le direttive del preponente, o ancora al requisito della continuità, secondo cui la prestazione del lavoratore parasubordinato non deve essere occasionale ed episodica, ma stabile e permanente – tali rapporti si pongono al limite con la sfera della subordinazione.

Questo limite, con la costante evoluzione della società ed il conseguente mutamento dei rapporti di lavoro, viene a farsi sempre meno chiaro ed il dibattito sul concetto di lavoro parasubordinato contribuisce a modificare i principi che regolano il confine tra subordinazione ed autonomia e ne approfondisce le nozioni, donandogli sempre nuove sfumature.

Come precedentemente illustrato, nel nostro codice sono disciplinati in maniera puntuale il lavoro subordinato – all’articolo 2094 del codice civile – e il lavoro autonomo – art. 2222 c. c. – e da queste definizioni è possibile ricavare gli indici che caratterizzano tali rapporti. In particolare è considerato dal nostro codice civile prestatore di lavoro subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare

nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore.”

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25

Queste indicazioni risultano tuttavia troppo generali così come fornite dalla norma e sembrano perciò rinviare alla realtà sociale23 per

individuare con più precisione come interpretare, in concreto, i requisiti di onerosità della prestazione, collaborazione nell’impresa ed etero-direzione dell’attività lavorativa:

a) Il primo di questi requisiti è, dunque, quello dell’onerosità della prestazione lavorativa (“chi si obbliga mediante

retribuzione...”). Tale elemento è comune a tutti i rapporti di

lavoro che, infatti, trovano la loro origine in un contratto oneroso a prestazioni corrispettive, avente la propria causa nello scambio fra prestazione e relativo compenso. Ne consegue che, qualora una prestazione fosse resa nell'interesse di terzi ma senza la previsione di un corrispettivo e, quindi, a titolo gratuito, tale prestazione non potrebbe in alcun modo essere definita come "lavoro".

b) Con la nozione di collaborazione (“chi si obbliga...a

collaborare nell’impresa”) si intende la partecipazione di un

soggetto all’attività lavorativa di un altro, che secondo la giurisprudenza dominante si concretizza nel “collegamento

funzionale della prestazione lavorativa con la struttura organizzativa aziendale, che si realizza mediante l’inserzione organica, continuativa e sistematica del lavoratore nell’organizzazione tecnica, economica ed amministrativa dell’impresa, di cui diviene parte operante.”24 Si nota subito che questo elemento, così come già anticipato, è del tutto generico in quanto è possibile collaborare con altri soggetti sia in forma autonoma che subordinata; tale requisito, quindi, non costituisce una peculiarità del lavoro dipendente e perciò ogni caso deve

23 O. Mazzotta, Diritto del Lavoro, Giuffrè editore, 2014. 24 Cass. Civ. , 1980, n. 5921.

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26

essere analizzato singolarmente per verificare che la collaborazione in esame sia propria della subordinazione.

c) Per etero-direzione si intende l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro – “…alle dipendenze e sotto la direzione

dell’imprenditore” – che si sostanzia in un obbligo

continuativo di obbedienza da parte del lavoratore ed in un contestuale potere di interferenza del datore sulle modalità di svolgimento della prestazione, consentendo a quest'ultimo di stabilire non solo le caratteristiche dell'opera o del servizio da realizzare, ma anche di dettare le modalità con le quali la prestazione di lavoro deve essere fornita, avendo riguardo, ad esempio, agli strumenti e alle tecniche da utilizzare, ai tempi e ai luoghi di lavorazione e, in generale, al comportamento da osservare durante il lavoro. La giurisprudenza, inoltre, ha ritenuto esistente “un rapporto di lavoro subordinato anche nel caso in cui ci sia una certa autonomia, iniziativa, discrezionalità del lavoratore con riguardo allo svolgimento della prestazione”25, in questi casi,

quindi, assume importanza “la continua dedizione funzionale

dell’energia lavorativa al risultato produttivo perseguito dall’imprenditore, di per se in grado di dimostrare l’esistenza di un potere discrezionale e gerarchico.”26

Gli elementi caratterizzanti il lavoro subordinato forniti dall’articolo 2094, c. c., appaiono, però, privi della capacità di definire chiaramente la subordinazione o perché comuni anche ad altre tipologie di lavoro, o perché, per essere definiti in modo opportuno, richiedono dati che devono essere ricavati direttamente dalla realtà sociale. Tali incertezze,

25 Cass. Civ. , 1976, n. 1885. 26 Cass. Civ. , 1985, n. 5024.

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27

come vedremo, contribuiscono a rendere ancora più problematica la qualificazione dei rapporti di lavoro da parte della giurisprudenza.

Prima degli anni ’70, infatti, la subordinazione era la tipologia di lavoro più diffusa e al contempo più tutelata, tanto che anche i prestatori di lavoro non appartenenti espressamente a questa categoria tentavano di esservi ricompresi chiedendo al giudice di qualificare il loro rapporto come un rapporto di lavoro subordinato.

Alla giurisprudenza, quindi, spettava l’arduo compito di classificare fattispecie contrattuali sempre diverse e che di frequente, come nel caso delle collaborazioni coordinate e continuative, non potevano essere collocate nella categoria del lavoro subordinato o del lavoro autonomo.

Almeno fino agli anni ’80 la giurisprudenza maggioritaria, nel suo compito di qualificazione, tendeva a privilegiare la fase attuativa del rapporto di lavoro piuttosto che attribuire importanza al contratto e alla volontà negoziale delle parti, seguendo così quanto già espresso dalla dottrina. Secondo quest’ultima infatti, qualora il rapporto si fosse configurato in concreto (in contrapposizione al “nomen juris”) quale rapporto di lavoro subordinato, il giudice avrebbe dovuto configurarlo come tale.27

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28 1.8. Gli indici di subordinazione

Come già anticipato, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sulla qualificazione del contratto di lavoro è collegato al problema della nozione di subordinazione così come prevista dall'articolo 2094 c. c.; è proprio utilizzando il metodo dell’estensione di questa nozione, infatti, che si cercano di inquadrare i diversi rapporti di lavoro. La giurisprudenza ritiene, così, che alla presenza di alcuni “indici essenziali”, si debba presupporre che il rapporto di lavoro sia di tipo subordinato.

A tal fine, quindi, risulta determinante, nel rapporto di lavoro, l'accertamento della sussistenza dell’inserimento del collaboratore nell’organizzazione gerarchica dell’impresa o del vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro che corrisponde, in concreto, al potere di emanare ordini specifici oltre che all'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative.28

Nei casi in cui i suddetti elementi non siano sufficienti a qualificare il rapporto di lavoro come subordinato, ecco che la giurisprudenza ricorre ad altri indici, detti “indici secondari”, la cui presenza può far presumere al giudice la presenza della subordinazione. Come esempio di detti indici possiamo citare la predeterminazione dell’orario di lavoro, la forma della retribuzione, l’esclusività della prestazione, la continuità della prestazione, l’estraneità al rischio del lavoratore, l’oggetto della prestazione, la proprietà degli strumenti di lavoro.

Con riguardo all’oggetto della prestazione, da tempo la dottrina individua il discriminante tra rapporto di lavoro autonomo (meglio

28 G. Saracino, Gli indici della subordinazione di lavoro nelle indicazioni della

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29

noto come locatio operis) ed il rapporto di lavoro subordinato (o anche locatio operarum), nell’oggetto della prestazione; mentre infatti nel lavoro autonomo tale oggetto si sostanzia nell’opera, ossia nel risultato della propria attività che il lavoratore si obbliga a fornire con organizzazione propria e a proprio rischio, nel caso del lavoro subordinato, oggetto della prestazione è l’energia lavorativa che il lavoratore impiega per perseguire finalità da cui trae vantaggio il datore di lavoro, il quale assume il rischio dell’attività e mette a disposizione la propria organizzazione aziendale.29

Per quanto riguarda l’esclusività della prestazione, la giurisprudenza ha confermato che il lavoratore può essere parte anche di altri rapporti di lavoro subordinato o autonomo, poiché ciò dipende dalla natura delle mansioni richieste in concreto, ed infatti il principio della continuità non presuppone la prestazione dell’opera senza interruzioni così che il lavoratore, durante queste, può svolgere anche altre attività.

Con l’utilizzo dei suddetti indici in combinazioni sempre diverse, si accresce tuttavia il potere discrezionale del giudice, il quale, in mancanza di regole rigide e precise su come valutare correttamente questi elementi, arriva ad estendere eccessivamente la nozione di lavoro subordinato ex art. 2094 c. c.

Il problema della qualificazione e dei criteri da utilizzare affronta una nuova fase intorno alla metà degli anni ’80. In questo momento storico viene rivalutato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza un elemento che in precedenza era stato bollato come poco rilevante, ovvero la volontà negoziale delle parti.

Con la rivalutazione di questo elemento, si va così a ricercare l’intento effettivo delle parti valutando il momento in cui si è data esecuzione al rapporto alla luce dell’intento originario espresso nel contratto,

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30

applicando così l’articolo 1362 c. c., in materia di interpretazione dei contratti, secondo cui “Nell'interpretare il contratto si deve indagare

quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

In questo modo la volontà negoziale delle parti viene presa in considerazione soprattutto nel momento in cui le caratteristiche del rapporto non siano facilmente riconducibili all’autonomia o alla subordinazione; viene altresì presa in considerazione la volontà negoziale delle parti nel caso in cui nel contratto siano presenti degli elementi riconducibili sia alla subordinazione che all’autonomia, ed è perciò difficoltoso ricondurre quest’ultimo sotto una delle due categorie.

1.9. L’evoluzione del metodo di qualificazione

Con il prosieguo del dibattito in merito all’utilizzo più o meno corretto degli indici e alla rilevanza assunta dalla volontà delle parti, intorno alla fine degli anni ’80 acquista rilevanza una teoria secondo cui affinché vi sia un contratto di lavoro subordinato, non è più necessaria la presenza dei vari indici fin qui analizzati, ma è sufficiente che il prestatore di lavoro sia soggetto al potere direttivo del datore di lavoro.

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La nozione di etero-direzione viene così interpretata in una chiave più restrittiva, richiedendo che la prestazione di lavoro sia soggetta ad un potere direttivo del datore di lavoro costituito da ordini specifici. In questo modo si configura una situazione in cui gli indici, che in precedenza erano ritenuti “essenziali”, assumono rilievo solo quando nella fattispecie concreta non si individuino elementi tali da convincere in modo inequivocabile il giudice circa l’autonomia o la subordinazione del rapporto.

Per quanto riguarda l’utilizzo degli “indici secondari”, secondo la suddetta teoria, non si ritiene sufficiente la presenza di uno solo di essi, ma è necessario che ve ne siano un numero tale da poter formare, a seguito di una loro valutazione complessiva, una evidente appartenenza della fattispecie in esame alla subordinazione o all’autonomia.30 Si inverte così la tendenza mostrata negli anni

precedenti dalla giurisprudenza secondo cui, qualora dall’analisi degli elementi della fattispecie risultasse dubbia la qualifica da dare al rapporto di lavoro, si opterebbe una presunzione di subordinazione.

L’orientamento giurisprudenziale relativo agli indici di qualificazione, dopo svariati anni di dibattiti riguardanti l’ampiezza da dare alla nozione di subordinazione e la rilevanza da attribuire alla volontà negoziale delle parti, subì una profonda modifica a partire dai primi anni del 2000.

30 Cass. Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 379: “ai fini della distinzione tra lavoro

autonomo e lavoro subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni [...] e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro,

dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione”.

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In particolare la Cassazione prese atto dell’evoluzione dei rapporti di lavoro nella società precisando che “il potere direttivo

dell'imprenditore, generalmente ritenuto il criterio tipicizzante il lavoro subordinato, con l'evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro, sempre più caratterizzati dalla tendenza alla esteriorizzazione o terziarizzazione di interi settori del ciclo produttivo o di una serie di professionalità specifiche, ove si riferisca a questi processi, diviene sempre meno significativo della subordinazione, per la impossibilità di un controllo pieno e diretto delle diverse fasi della attività lavorativa prestata.”31

Si andava così a formare un concetto di subordinazione cosiddetta “attenuata”, poiché con l’evoluzione della società e dell’organizzazione imprenditoriale non era più concepibile una così rigorosa configurazione di lavoro dipendente; andavano perciò ricercati altrove gli elementi che distinguevano tale rapporto, e non poteva quindi essere considerato sufficiente come indice di subordinazione il “vincolo di soggezione del lavoratore al potere

direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, estrinsecantesi in ordini specifici, oltre che in una vigilanza e un controllo assiduo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative. ”32

La Suprema Corte dimostra tutta la sua accortezza affermando così che “in tali nuove realtà assume carattere indicativo della subordinazione

l'obbligazione di porre a disposizione del datare di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle, con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione per il perseguimento dei fini propri dell'impresa datrice di lavoro.”33

31 Cass. civ. Sez. lavoro, 6 luglio 2001, n. 9167. 32 Cass. civ. Sez. lavoro, 27 novembre 2002, n. 16805. 33 Ibidem.

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Nonostante le precisazioni fin qui effettuate dalla giurisprudenza e nonostante sia chiaro che nel lavoro autonomo, differentemente dal lavoro subordinato, il prestatore esegue la prestazione seguendo tempistiche e modalità di esecuzione dell’opera non imposte dal datore di lavoro, nella pratica continua a rimanere difficoltosa l’analisi dei casi in cui tale confine risulti meno marcato. Proprio su questi casi più ambigui si porrà successivamente l’attenzione degli studiosi in quanto, sotto l’apparente autonomia di un rapporto, possono sempre nascondersi condotte fraudolente volte ad eludere la disciplina più rigorosa prevista per le altre tipologie di lavoro.

1.10. L’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative per finalità elusive

Come è stato già sottolineato, con il cambiamento dell’organizzazione imprenditoriale e la diffusione sempre più massiccia del metodo dell’esternalizzazione – la pratica di ricorrere ad altre imprese per lo svolgimento di alcune fasi del proprio processo produttivo – si accresce anche il numero dei datori di lavoro che si avvalgono di collaboratori a carattere coordinato e continuativo per il compimento di determinate prestazioni.

Di pari passo con il diffondersi di queste tipologie di contratti, tuttavia, iniziarono a comparire anche i primi casi di abusi e di utilizzo fraudolento delle suddette fattispecie, tanto da portare Perulli ad affermare, più tardi, che le collaborazioni coordinate e continuative “hanno rappresentato un fenomeno sostanzialmente patologico e sono

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state utilizzate in modo improprio, con finalità elusive della disciplina giuslavoristica.” 34

Non passò molto tempo, infatti, prima che i datori di lavoro si rendessero conto che l’utilizzo di tali collaborazioni, in via alternativa rispetto all’impiego di dipendenti, permetteva una maggiore flessibilità temporale e gestionale dell’impresa, anche sotto il profilo delle mansioni, ma soprattutto comportava un abbattimento dei costi di produzione visto il minore onere delle risorse umane non subordinate. Iniziò perciò a prendere piede la pratica di qualificare formalmente, come prestatori d’opera a carattere coordinato e continuativo, lavoratori che invece erano, a tutti gli effetti, subordinati.

I lavoratori parasubordinati, per ottenere maggiori tutele, iniziarono in questo periodo a chiedere la qualificazione dei loro rapporti e il riconoscimento della subordinazione in via giudiziale, il che risultava tutt’altro che semplice. La giurisprudenza, infatti, si trovava a dover analizzare ogni caso singolarmente poiché priva di criteri chiari ed univoci da applicare per qualificare con sicurezza i rapporti di lavoro come autonomi o subordinati.

A complicare ulteriormente la situazione, di per se già incerta, su coloro che agivano in giudizio incombeva il principio dell’onere della prova, in base al quale era il lavoratore a dover presentare al giudice le prove della sussistenza di indici essenziali e secondari tali da far presupporre un rapporto di subordinazione. Tali difficoltà, unite a strategie difensive dei datori di lavoro sempre più efficaci, fecero si che i giudici respingessero con una certa frequenza le richieste di qualificazione presentategli non perché ravvisassero i caratteri del lavoro autonomo, ma semplicemente perché non ritenevano dimostrata la subordinazione in modo inequivocabile.

34 A. Perulli, Lavoro a progetto tra problema e sistema, in Lavoro e diritto, 2004,

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35

Si diffuse così progressivamente l’idea che vi fosse un “tertium genus” collocato tra autonomia e subordinazione, in quella “zona grigia” che abbiamo visto essere priva di tutele efficaci per i prestatori di lavoro. Come già analizzato in precedenza, infatti, da un lato si trovavano i lavoratori autonomi, dotati di sufficiente forza contrattuale da potersi tutelare attraverso la negoziazione delle proprie prestazioni, mentre dall’altro lato vi erano i lavoratori subordinati, che essendo ritenuti dal legislatore una categoria debole, erano da questo tutelati puntualmente e in modo specifico. Al centro rispetto a questi due “poli” si venivano a trovare i lavoratori parasubordinati, formalmente autonomi ma effettivamente subordinati se privi di qualificazione giudiziale.

1.11. Le possibili soluzioni proposte dalla dottrina

Per far fronte alle crescenti difficoltà nella qualificazione dei rapporti di lavoro riscontrate dalla giurisprudenza – con la sempre maggiore richiesta in via giudiziale di garanzie da parte dei lavoratori parasubordinati da un lato e con l’alternarsi delle diverse correnti riguardanti il significato da attribuire agli indici di subordinazione e alla volontà negoziale delle parti dall’altro – e per garantire un diritto, quello alla tutela del lavoro in ogni sua forma chiaramente stabilito dalla Costituzione all’articolo 35, comma 1 – “La Repubblica tutela il

lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” – la dottrina cerca di

trovare una soluzione a questa situazione di incertezza con diverse proposte volte a riorganizzare le tutele previste a favore dei lavoratori.

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Era necessario, infatti, sia provvedere all’introduzione di un meccanismo che certificasse formalmente ed in sede amministrativa la qualificazione assegnata dalle parti al rapporto di lavoro (così da ridurre i contenziosi in sede giudiziale), sia che venisse attenuato uno dei motivi dell’elevato numero di richieste di qualificazione, ovvero l’eccesiva differenza di trattamento e di tutela tra lavoro parasubordinato e lavoro subordinato.

Le proposte indubbiamente più interessanti sono quelle di Piergiovanni Alleva e Massimo D’Antona secondo cui sarebbe opportuno fornire un nucleo di tutele minime al lavoro personale, individuando così la categoria del “lavoro senza aggettivi” nella quale confluirebbero sia i lavoratori autonomi coordinati che i lavoratori subordinati dotati di un ampio margine di autorganizzazione della prestazione. Al di sopra di questa prima categoria ve ne sarebbero altre dotate di tutele via via crescenti, fino ad arrivare all’ultima, coincidente con la subordinazione nella sua accezione più intensa. Punto di partenza per l’elaborazione di queste teorie è il presupposto che esistono “dei diritti fondamentali nel

mercato del lavoro che devono riguardare il lavoratore, non in quanto parte attuale di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro come proprio programma di vita e che si aspetta dal lavoro (che può essere autonomo, che può essere subordinato, che può cambiare in un certo arco di tempo) l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità.”35

Le due proposte risultano tuttavia avere una diversa impostazione. Secondo Alleva36 sarebbero da ricomprendere nel diritto del lavoro

35M. D’Antona, La grande sfida delle trasformazioni del lavoro: ricentrare le tutele sulle esigenze del lavoratore come soggetto, in AMATO (a cura di), I destini del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1998.

36 P. Alleva, Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro. Prima proposta di

legge, in Ghezzi (a cura di), La disciplina del mercato del lavoro, proposte per un testo unico, Roma, 1996, p. 195.

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tutti i rapporti simili alla subordinazione che presentino, cioè, una connessione funzionale di qualsiasi genere con l’impresa ed il criterio per l’applicazione delle tutele più forti previste dall’ordinamento consisterebbe nell’inserimento o meno del lavoratore “nell’organico dell’impresa”. Si andrebbe a formare, così, un sistema che si strutturerebbe in “due cerchi concentrici” in cui quello più interno sarebbe stato quello maggiormente tutelato e avrebbe rappresentato il vero e proprio lavoro subordinato.

Per D’Antona37, invece, vi sarebbero una pluralità di tipologie

contrattuali tutte accomunate dal “coordinamento economico

organizzativo di una prestazione lavorativa personale nel ciclo della produzione” al fine di dotarle di una disciplina protettiva, quale tutela

minima, che veniva gradualmente potenziato nei rapporti sempre più caratterizzati da elementi tipologici della subordinazione. Non si sarebbe formata, così, una struttura “a cerchi concentrici” come ipotizzato da Alleva, bensì una linea retta sulla quale si sarebbero inseriti, in un “continuum”, più tipi di attività al fine ultimo di operare una redistribuzione delle tutele fra tutte le tipologie contrattuali che fanno parte dell’asse.

Una diversa ipotesi percorribile potrebbe essere quella di superare la dicotomia tra subordinazione e autonomia tipizzando un tertium

genus38 che andrebbe ad assorbire una variegata serie di fattispecie

contrattuali poste al confine con le due tradizionali categorie, facendo ritornare queste ultime al rigore della loro vocazione originaria. Secondo questa impostazione, inoltre, tutte i rapporti di lavoro riconducibili a questo tertium genus non dovrebbero avere una disciplina omogenea, ma sarebbero previste dal legislatore solo una

37 M. D’Antona, Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro. Seconda

proposta di legge, (a cura di G. Ghezzi), La disciplina del mercato del lavoro, proposte per un testo unico, Roma, 1996, p. 195.

38 R. De Luca Tamajo, R. Flammia, M. Persiani, Nuove forme di lavoro: documenti

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38

serie di tutele minime, lasciando poi all’autonomia collettiva il compito di differenziarle a seconda delle esigenze della singola fattispecie.39

Si può desumere, così, dalle proposte di Alleva e D’Antona, una variazione di orientamento degli studiosi. Si pone sempre più l’attenzione, infatti, non su una qualificazione da attribuire alla fattispecie contrattuale che serva da discriminante per la concessione o meno di garanzie, ma sull’idea che si debba tutelare il lavoratore in quanto tale, al di là del fatto che i rapporti di lavoro siano da ricondurre alla categoria della subordinazione, dell’autonomia o ad un eventuale

tertium genus.

39R. De Luca Tamajo, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT - 9/2003.

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40

CAPITOLO II

L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA

PARASUBORDINAZIONE

2.1. Il disegno di legge Smuraglia

Un ampio dibattito si ebbe, successivamente, a seguito della discussione, nel febbraio 1999, del disegno di legge n.5651 – cosiddetto “d. d. l. Smuraglia” – recante il titolo: “Norme di tutela dei

lavori atipici”. Tale proposta unificava sotto l’aggettivo “atipico” tutti

i rapporti di collaborazione “di carattere non occasionale, coordinato

con l’attività del committente, svolto senza vincolo di subordinazione, in modo personale e senza impiego di mezzi organizzati e a fronte di un corrispettivo”, estendendo a questi una parte delle tutele previste a

favore dei lavoratori subordinati e alcune norme dello Statuto dei Lavoratori sulla libertà di pensiero, sul conseguente divieto di indagine sulle opinioni, sulla libertà sindacale, nonché le norme in materia di sicurezza del lavoro.40

L’impressione suscitata dalla rigidità della proposta, tuttavia, è che si volesse disincentivare l’utilizzo delle collaborazioni coordinate e

40 R. De Luca Tamajo, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, WP

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41

continuative, sempre più diffuse, predisponendo una disciplina più tenue rispetto a quella del lavoro dipendente e riducendo così le differenze di tutela.

Tale orientamento può essere rinvenuto, in primo luogo, nella previsione di una limitazione della libertà organizzativa del committente, tramite l’introduzione del divieto di trasformare un contratto di lavoro subordinato in contratto di lavoro coordinato, e nella previsione di un diritto di preferenza del prestatore di lavoro, rispetto ad altri aspiranti, nei casi in cui il committente intendesse procedere alla stipulazione di un contratto di tipo analogo. Un’ulteriore restrizione dell’autonomia del committente sarebbe stata prodotta dall’art. 3 del d.d.l. che ammetteva unicamente contratti di collaborazione a tempo determinato non tenendo conto che i rapporti di collaborazione, proprio in quanto continuativi, sono incompatibili con l'individuazione di una durata massima.41

Ugualmente rigido si dimostrava l’apparato sanzionatorio in quanto, oltre ad una sanzione amministrativa, il d.d.l. prevedeva che qualora venisse “accertato dagli organi competenti con provvedimento

esecutivo che il rapporto costituito ai sensi dell’art. 1 è in realtà di lavoro subordinato, esso si converte automaticamente in rapporto a tempo indeterminato, con tutti gli effetti conseguenti”.42 A sanzioni

così dure non corrispondeva, però, una chiara definizione della fattispecie.

La formula utilizzata nel progetto di legge, infatti, implicava la delimitazione dei confini della nozione di subordinazione, ma di fronte alle nuove tipologie di lavoro e ad un diverso modo di organizzare le

41 R. De Luca Tamajo, Dal lavoro parasubordinato al lavoro “a progetto”, WP

C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT - 9/2003.

42 Disegno di legge n. 2049 del 29 gennaio 1997 recante “Norme di tutela dei lavori

atipici”, Senatore Smuraglia, in AA. VV., Subordinazione e autonomia: vecchi e nuovi

modelli, Quaderni di diritto del lavoro e relazioni industriali, Utet, Torino, 1998,

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42

vecchie, tali confini risultavano comunque sfumati, con la conseguenza che la loro individuazione diveniva sempre più difficile. Si diffuse così l’opinione secondo cui si stessero “mettendo in circolo norme le quali,

sotto l’apparenza del riconoscimento di istituti flessibili, sembrano nascondere trappole avvelenate, per via della contemporanea presenza di formulazioni ambigue e di un apparato sanzionatorio rigido e micidiale.”43

Il disegno di legge Smuraglia, tuttavia, non riuscì a superare l’iter parlamentare necessario alla sua approvazione. Ciò è da imputare a più fattori, primo tra tutti la diversità di orientamenti dottrinali di quegli anni – ognuno di essi, infatti, era portatore di una propria idea di riforma che non trovava la condivisione necessaria per prevalere sulle altre – espressione di obiettivi di politica del diritto e di politica legislativa che auspicavano interventi diversi e che erano la manifestazione di schieramenti politici fortemente contrapposti e non dialoganti, così da rendere quasi impossibile l’emanazione di una legge che prendesse in esame la tutela dei lavoratori in quanto tali, e non in quanto appartenenti ad una categoria privilegiata o meno rispetto alle altre.

Le proposte dottrinali e i progetti di riforma auspicati in questo periodo non sono stati, però, del tutto inutili. In particolare il progetto di legge appena analizzato, nonostante la sua rigidità e gli interrogativi che solleva, ha il pregio di porre l’attenzione sulla specificazione in termini giuridici delle caratteristiche di questa nuova tipologia di prestazione lavorativa – “carattere non occasionale, coordinato con l’attività del

committente, svolto senza vincolo di subordinazione, in modo personale e senza impiego di mezzi organizzati e a fronte di un corrispettivo” – così da arginare il fenomeno dell’utilizzo delle

43 F. Liso, Note a proposito dell’iniziativa legislativa in materia di lavori atipici, in

Accornero, Liso e Maresca (a cura di), I cosiddetti “lavori atipici”. Aspetti sociologici, giuridici ed esigenze dell’impresa, Roma, 2000, p. 44.

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