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Academic year: 2021

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1.

Alba G. A. Naccari (a cura di)

Pedagogia al limite.

Corpo, movimento, danza nella relazione d’aiuto

Anicia, Roma, 2019, pp. 228 ____________________ Il volume, curato da Alba Naccari, parte dalla constatazione di come la processualità del divenire umano sia connotata dalla limitatezza dell’es-sere persona ‘corporea’, la quale porta con sé, nella sua dimensione del-l’essere ‘incarnata’, le situazioni di sofferenza, malattia, e la morte stessa. Sullo sfondo di tale considerazione, i diversi contributi intercettano la positività dell’azione pedagogica del prendersi cura degli altri nell’assun-zione della categoria del limite, che può divenire, in tal modo, un ele-mento di gestione, cambiaele-mento e crescita della persona, capace di leg-gersi e interpretarsi in maniera più completa e complessa, in termini pie-namente umani e spirituali.

Il tutto si sviluppa sempre nell’interessante ricerca di un dialogo inter-disciplinare tra saperi e pratiche differenti, che vede coinvolte cioè, ac-canto alla pedagogia, la medicina, la psicologia, le scienze del movimen-to. Esse contribuiscono a dare senso alla visione olistica e non frammen-tata dell’essere umano e del suo corso di vita.

La possibilità di prendersi cura di sé e dell’altro, per ritrovare se stessi e le diverse condizioni di cambiamento evolutivo, avviene mediante l’ascolto profondo favorito dall’approccio e dalle pratiche della danza e del movimento. Esse costituiscono una “rinnovata therapeia, ovvero ser-vizio alla persona nella sua totalità fisica, psichica, sociale e spirituale, nel-l’interazione vitale con l’ambiente umano e naturale” (Introd., p. 10).

Seguendo il paradigma pedagogico-simbolico-antropologico, esplici-tato nel primo capitolo da Alba Naccari, nel secondo – ancora ad opera della curatrice del testo – ci si addentra nelle strategie che la Danzamovi-mentoterapia, la cui efficacia educativa è da tempo dimostrata, utilizza per la presa in cura delle situazioni ‘al limite’ delle persone. In particolare, emerge l’attenzione metodologica di rispetto verso la persona nella sua totalità, che conduce a interpretare le diverse situazioni, malattie, disagi e sofferenze, con sguardi diversi, cioè con quello della percezione fisico-biologico, ma anche con quello emotivo, personale e sociale. Viene così

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confermata l’importanza dell’intreccio – in una costante ermeneutica del simbolico, del sintomo che è anche simbolo – fra le diverse discipline e i possibili saperi, medici, fisiologici, psicologici, pedagogici, per ricostitui-re il processo di diveniricostitui-re del soggetto in crisi e ridaricostitui-re speranza al suo per-corso di autodirezionamento.

Ciò che appare particolarmente degno di nota è che l’assetto teorico-pedagogico identificato nella pedagogia del limite trova effettive possibi-lità di riscontri ‘in azione’ nei diversi progetti e casi presentati, in cui i lin-guaggi diversi, della parola, dei gesti, delle emozioni, della pittura, della musica, pongono il loro focus nel paziente-educando-persona. Ne rap-presenta un esempio quanto riportato in appendice, cioè Un’esperienza di Danzamovimentoterapia con un ragazzo con trauma cranico-cerebrale, di Ylenia D’Aniello.

Nel testo si segnala inoltre giustamente come in un tale percorso oli-stico, dialogico e interdisciplinare, la stessa équipe di professionisti della cura necessiti di integrare visioni, impliciti pedagogici e finalità educative contestualizzandoli nello spazio in cui opera, in considerazione dell’età della vita del/i soggetto/soggetti nonché in relazione alla biografia di cui ciascun utente è portatore.

Ne deriva la proposta di percorsi progettuali-metodologici che preve-dono il rispetto di uno schema diacronico nella successione di tre fasi: di riscaldamento-attivazione; di esplorazione e di integrazione, da leggersi come proposte fluide, utili ad “agevolare l’immersione emotiva di chi vi partecipa” (p. 57). Coerentemente con l’impianto epistemologico di fon-do, anche le attività proposte – di cui il testo è particolarmente ricco – “sono open skills, ovvero consegne aperte che possono essere interpretate e realizzate in base alle proprie possibilità e diversità, per cui ogni parte-cipante può trovare il proprio modo di starci dentro, qualunque sia il li-mite o le difficoltà presenti” (p. 62).

È importante anche che il setting della messa in atto della Danzamovi-mentoterapia assuma caratteri ludici per lasciare spazio all’azione libera, im-maginifica, liberatoria capace di intendere e, conseguentemente, di mettere in atto spazi creativi di risignificazione di sé, che assumono il deficit, la ma-lattia, la disabilità in un’ottica diversa da quella finora elaborata.

In relazione al setting il contributo di Francesca Brancaleoni – Il set-ting individuale – chiarisce un’altra variabile inerente le coordinate da as-sumere quando si consideri il setting di gruppo o quello individuale.

Nel-lo specifico, vengono approfondite le caratteristiche del setting indivi-

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duale e domiciliare, che rappresenta un’opportunità originale ancora po-co sperimentata tra i po-contesti della danzamovimentoterapia, ma che ri-sponde a bisogni specifici, ampiamente descritti nel testo e problematiz-zati in comparazione a quanto accade nel setting di gruppo. Ancora Fran-cesca Brancaleoni, nel capitolo quarto, descrive appunto un’esperienza di danzamovimentoterapia domiciliare, offrendo una saldatura particolar-mente interessante fra analisi teorica-metodologica del percorso evoluti-vo e operato concreto della danzamovimentoterapia.

Il capitolo quinto, ad opera di Alba Naccari, affronta il tema delicato ma ineludibile della valutazione dei percorsi di danza-movimento, data la loro valenza soggettivo-biografica e la declinazione personale che cia-scuno assume. Viene proposto un approccio integrato per la valutazione, che mette a punto un nuovo strumento di valutazione quali-quantitativa per le intelligenze multiple, appunto la Scheda per l’Osservazione delle Intelligenze Multiple (SOIM), sperimentato nell’ambito delle attività della Scuola di formazione in danzamovimentoterapia Eurinome di Peru-gia. Apprezzabile il fatto che la sperimentazione dello strumento sia de-scritta nel sesto capitolo, la cui autrice è Chiara Abeille, che prende in esame “un’esperienza educativo-terapeutica fatta con un gruppo di adulti con disabilità a cui è stato proposto un laboratorio di danzamovimento-terapia ad indirizzo Simbolico Antropologico” (p. 173).

Il testo rappresenta dunque un’interessante testimonianza di come si possano connettere i diversi saperi e i diversi approcci all’umano per identificare un percorso di cura – come formazione e autoformazione – coerente, unitario, originale e attento al divenire di ogni persona come identità corporea. I numerosi esempi di messa in atto di tali costrutti teo-rici contribuiscono a farne uno strumento per avvicinare i vari specialisti del corpo ad un approccio olistico che coadiuva la crescita nella lifelong education della persona integrale.

Mirca Benetton

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Elena Luciano

Immagini d’infanzia.

Prospettive di ricerca nei contesti educativi

FrancoAngeli, Milano, 2017, pp. 202 ____________________

Immagini d’infanzia, di Elena Luciano, richiama nella sua titolazione i contributi di De Lauwe (che definisce il bambino personnage symbolique) e Coveny, che parla di image of Childwood. Ciò indica che la titolazione scelta dall’Autrice si colloca nello spazio che raccorda le folk pedagogy (le pedagogie latenti o invisibili, i curricoli nascosti) e le rappresentazioni d’infanzia più colte, oggi sviluppate dalle scienze nel loro complesso, non solo dell’educazione e della formazione, che ci dicono chi sia il bambino e quali le prerogative che gli si ascrivano in un determinato contesto so-ciale e culturale.

Tra folk pedagogy e rappresentazioni tecnicizzate esiste una dinamica continua contaminazione, come rilevava già a suo tempo Egle Becchi. Tale forma di transazione simbolica tra le differenti rappresentazione d’infanzia elaborata dai diversi stakeholder che si occupano del bambino costituisce il presupposto per quel processo di elaborazione primaria che è alla base della continuità educativa, un processo importante che segna la predisposizione di un disegno formativo congruente tra le aspettative tanto dei servizi quanto delle famiglie e che consente al bambino, l’inter-locutore dei diversi discorsi sull’educazione, di sperimentare quella ‘con-tinuità dell’io’ già teorizzata da Dewey indispensabile per una felice for-mazione iniziale.

Le immagini d’infanzia che Luciano riscontra nell’attuale panorama culturale ed educativo, tanto afferenti ai servizi che alla più vasta comu-nità sociale, che poi sono volti, ritratti, profili, biografie di bambini e di bambine, più che meri asettici identikit, sono raffigurazioni che hanno una qualche attinenza con differenti dispositivi epistemologici elaborati dalla pedagogia teorica: le rappresentazioni (Moscovici); i costrutti e i mo-delli. Le prime costituiscono sistemi cognitivi dotati di una loro logica in-terna e di un linguaggio propri, che si fanno teorie condivise all’interno di un determinato contesto sociale mentre i secondi sono

rappresentazio-ni stratificate entro cui sono presenti più conceziorappresentazio-ni aggregate in modo

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sincretico (ovvero incoerente e discontinuo), sufficientemente organizza-te, però, per orientare il comportamento sociale in modo convergente. Bambini, sogni furori (Feltrinelli, 2001), il testo di Rossi ripreso dallo stu-dio della Luciano, mostra proprio come nel costrutto d’infanzia siano presenti immagini giustapposte che alternano la loro influenza culturale nelle diverse epoche storiche: innocenza, bontà, grazia ma anche capricci, irrazionalità, irrequietezza, immaturità.

La scelta del titolo del volume in questione è di qualche interesse per-ché paradigmatico della situazione dell’infanzia contemporanea: com-plessa nella sua fenomenologia di base ma bisognosa anche di sintesi e ri-composizioni per recuperare una prospettiva unificante in vista obiettivi educativi di vasta portata quali la cittadinanza, l’identità ed il bene comu-ne. La titolazione Immagini d’infanzia palesa la scelta di giustapporre a una pluralità di immagini un’infanzia al singolare. Poteva essere anche al-trimenti, raccordando al plurale anche il termine infanzia: Immagini d’in-fanzie. Nel sottotitolo, infatti, si parla di contesti (educativi), declinati al plurale come, analogamente, è declinata al plurale la collana di Franco-Angeli in cui è inserito il volume: Infanzie. Ciò potrebbe indurci a pen-sare che a una pluralità d’immagini debba e possa corrispondere anche una pluralità d’infanzie: infanzie che abitano a loro volta una pluralità di contesti educativi e che si moltiplicano nel loro manifestarsi fenomenico all’interno di ambienti che ne alterano alcune qualità originarie operando rifrazioni multiple (es. la bambina-che proviene da altrove-con una fami-glia di un determinato livello socio-economico-in una specifica scuola a contatto con altri soggetti, adulti e bambini, diversamente da Lei carat-terizzati, con la quale trafficano, negoziano, ibridano le loro identità). C’è quindi una questione che giace irrisolta all’interno della cultura con-temporanea e che il titolo del volume della Luciano esemplifica plastica-mente: esiste o no un’inseità dell’infanzia, una caratterizzazione che resi-ste alle resi-stereotipizzazioni divaricanti spesso presenti nella nostra tradizio-ne pedagogica? Bambino creativo/vs bambino della ragiotradizio-ne; bambino at-tivo e autonomo/vs bambino fragile e indifeso; bambino tutto fantasia e sentimento/vs bambino della ragione; bambino egocentrico/vs bambino competente? L’infanzia è un mito, un non luogo pedagogico per prefigu-rare un soggetto talmente plastico da giustificare ogni sorta d’intervento da parte di un adulto demiurgo/formatore? Altro quesito: la storicizzazio-ne dei modelli d’infanzia, la loro apertura a modelli plurali e non codifi-cati a priori fino a che punto è in grado di conservare un elemento

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ficante dell’idea di bambino, un paradigma universale che ne fissi taluni a-priori che servono per proteggerne la specificità rispetto all’adulto?

Il taglio critico del volume della Luciano riemerge anche a partire da un riferimento ad un saggio da Lei pubblicato in Avventure sull’educazio-ne. Studi in onore di Enver Bardulla, nel quale, riferendosi al Reggio Ap-proach, parla di un’immagine d’infanzia, qui esplicitamente reclamata a fondamento di una specifica metodologia, che si fa mantra, diventa corpo ben assemblato di parole politicamente corrette, pressate a tal punto da risul-tare indistinte. Siamo qui alla soglia dello slogan educativo, tema caro a chi si è occupato della critica del linguaggio pedagogico (da Reboul a De Giacinto a Metelli di Lallo), siamo dinnanzi al simulacro vuoto di un fan-toccio chiamato infanzia (pensiamo ad espressioni quali: mettere il bam-bino al centro; nuovo protagonismo dell’infanzia; a misura di bambam-bino). Il bambino competente, che negozia teorie sulla realtà, le costruisce e le decostruisce, interlocutore attivo nei confronti del contesto sociale più ampio (come descritto anche dai più recenti sviluppi della sociologia dell’infanzia) diventa così il passe-partout per azioni educative che, pre-supponendo l’infanzia competente, la rendono tale attraverso un adegua-mento spontaneo del reale all’ideale, come se bastasse nominare una re-altà per attualizzarla.

L’ultimo grande capitolo esplorato dalla Luciano è quello dei diritti. E qui incappiamo in un’ulteriore difficoltà: siamo sicuri che il diritto alla diversità possa essere postulato e difeso senza che una robusta caratteriz-zazione d’infanzia, non del tutto contesto-dipendente (ma non per que-sto eccessivamente ontologicizzata) possa attestarne il fondamento?

Il testo della Luciano in definitiva, costituisce uno dei prodotti di punta della pedagogia dell’infanzia: moderno perché intesse un dialogo fattivo con sociologia, sociologia dell’infanzia, antropologia, psicologia sociale; moderno perché raccorda la storia delle istituzioni educative alla letteratura ed alle nuove vicende internazionali, confluite in quella ECEC che tanto va disambiguata dai tecnicismi e dalle paludate banaliz-zazioni celate negli acronimi alla moda. E questo, la Luciano, lo fa nel li-bro con una sapiente, graffiante maestria.

Andrea Bobbio

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Andrea Bobbio e Donatella Savio

Bambini, famiglie e servizi

Mondadori, Milano, 2019, pp. 276 ____________________ Da qualche tempo, anche per via dell’avvio del “sistema integrato 0-6” che promuove, a vari livelli, la continuità tra servizi per l’infanzia (0-3) e scuola dell’infanzia (3-6), si nota, almeno in ambito nazionale, un interesse cre-scente per la pedagogia dell’infanzia, sia nei suoi aspetti storico-teorici, sia in quelli applicativi ai contesti educativi per i più piccoli. Non a caso, dal-l’emanazione dell’articolo 181, comma 1 della Legge 107, cosiddetta della “buona scuola” si sono moltiplicati testi che assumono come focus centrale l’educazione dei bambini prima del loro ingresso nella scuola primaria.

Bambini, famiglie e servizi, di recente pubblicazione nella collana “I saperi dell’educazione” della casa editrice Mondadori, si colloca in questo filone presentando aspetti di notevole originalità.

Innanzitutto la struttura. Tre tematiche, che in parte si intersecano, costituiscono la trama del testo come evidenziato dal titolo: bambini, fa-miglie e servizi. Si tratta dei tre principali protagonisti della trasformazio-ne auspicata trasformazio-nei contesti educativi per l’infanzia, che va sotto il nome di “sistema integrato 0-6”, innovazione che gli autori ritengono significativa non solo dal punto di vista tecnico-amministrativo ma anche, e soprat-tutto, pedagogico. Da quest’ultimo punto di vista, diverse sono le do-mande che, a questo proposito, fanno da trama alla trattazione: quale pe-dagogia per quale bambino? Quale il ruolo educativo della famiglia? Co-me costruire, a partire dai servizi esistenti, un sistema integrato 0-6? Su quali basi, con quali strumenti?

A queste questioni di fondo il volume, nei suoi tre ampi capitoli, offre suggestioni e proposte sia sul piano teorico-valoriale sia su quello più pro-priamente operativo facendo leva su di un’estesa ed aggiornata letteratura psico-pedagogica ed abbracciando un approccio storico-sociale-educati-vo che consente di mostrare l’estorico-sociale-educati-voluzione nel tempo delle problematiche affrontate e delle soluzioni via via individuate e di collocarle nel presente attraverso analisi interpretative dei fenomeni attinenti dell’attualità.

Diversamente che nel titolo, ove si propone il bambino come primo

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nucleo tematico, la trattazione si apre con un capitolo dedicato alle fami-glie. Una scelta, questa, di non poco conto, che sottolinea e ribadisce quanto evidenziato sia nei documenti programmatici relativi ai contesti educativi 0-6 sia dalla stessa pedagogia dell’infanzia circa il ruolo sostan-ziale giocato dalla famiglia nell’educazione infantile.

Si parte dalla presentazione dei cambiamenti avvenuti nella percezione del ruolo educativo della famiglia dal dopoguerra ad oggi mettendo in evi-denza le dinamiche demografiche e le trasformazioni famigliari per poi af-frontare, anche in chiave psico-dinamica, il ruolo della famiglia come luo-go di formazione della personalità e dell’identità che si gioca sulla relazione genitori-figli in una prospettiva anche transgenerazionale che vede i nonni assumere una nuova centralità. Nel testo si rimanda alla proposta di Mel-tzer ed Harris secondo cui le principali funzioni di una famiglia che svolge al meglio la sua missione sono quelle di “generare amore, infondere la spe-ranza, contenere la sofferenza”, compiti che richiedono da parte dei caregi-vers una sensibilità e una resilienza, ed anche delle competenze, che posso-no essere – e vanposso-no – consolidate, affinate e coltivate poiché, come si affer-ma nel testo ”la genitorialità contemporanea […] appare progressivamente allontanata da quei caratteri di spontaneità e di naturalezza che ne contras-segnavano i tratti ancora non molte decadi fa”. Ma la famiglia non è un’iso-la. La “generatività” che viene considerata come cifra sostanziale dell’essere famiglia, nelle sue più svariate fenomenologie, richiede non solo il conso-lidamento dei legami al suo interno ma anche quell’apertura verso l’ester-no, generativa appunto di scambi, supporto, confronto.

Quanto al secondo tema, che ha come focus l’educazione del bambi-no nei servizi extradomestici deputati, viene presentata quella idea di bambino “competente” che emerge dalla svolta della ricerca psicopeda-gogica della prima metà del secolo scorso ad opera soprattutto di Piaget e Vygotsky e dalla quale scaturisce l’esigenza di una pedagogia socio-co-struttivista, secondo cui l’apprendimento è una questione di costruzione condivisa di significati tra adulto e bambino attraverso l’allestimento di spazi pensati, tempi dilatati, routine e attività a misura di bambino. Idea di bambino e di sua educazione fatta propria dalle Indicazioni nazionali del 2012 per quanto riguarda la parte relativa alla scuola dell’infanzia.

Chiude la trattazione un capitolo ricco di informazioni preziose sulla prospettiva 0-6 che scuole e servizi educativi per l’infanzia sono chiamati a delineare e a costruire seguendo i dettami delle nuove normative.

Cor-nice importante per la delineazione di percorsi continui e coerenti 0-6 è il

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documento della Commissione europea del 2014 Un quadro europeo per la qualità dei servizi educativi e di cura per l’infanzia: proposta di principi chiave (trad. it. Lazzari, 2016), che colloca la problematica entro un qua-dro europeo e la supporta tramite “evidenze”, tratte da un’ampia lettera-tura di ricerca sui servizi per l’infanzia, relativamente a temi quali l’acces-sibilità, il personale, il curricolo, la valutazione, la governance. A partire dall’idea, ampiamente condivisa, che solo servizi per l’infanzia di qualità possono produrre i risultati attesi, tra i quali va menzionato in particolare quello di ridurre le diseguaglianze sociali, il documento presenta linee gui-da e strumenti operativi per realizzare contesti educativi di valore. A par-tire dunque da questo quadro di riferimento il tema della qualità viene de-clinato in relazione agli strumenti di valutazione che gli operatori del set-tore possono impiegare per riflettere sui loro convincimenti e le loro pra-tiche al fine di acquisirne maggiore consapevolezza e la possibilità di in-trodurre modificazioni migliorative. Emerge allora con chiarezza come la formazione, iniziale e in servizio, degli operatori – educatori, insegnanti, coordinatori pedagogici – sia un tema chiave attualmente dibattuto nel nostro Paese anche alla luce di nuove proposte e soluzioni normative.

All’interesse della trattazione vanno aggiunte considerazioni positive relative alle modalità di presentazione dei contenuti.

In primo luogo la leggibilità, che si manifesta nell’impegno a una trat-tazione densa ma limpida, alla paragrafatura chiara e all’uso di parole chiave a bordo del testo che evidenziano aspetti salienti della trattazione rendendo più semplice, anche a posteriori, il ritrovamento di informazio-ni e l’individuazione dei nuclei tematici più siginformazio-nificativi.

In secondo la presenza di box che arricchiscono il testo con espansioni o approfondimenti delle tematiche trattate utilizzando stralci da fonti au-torevoli.

Ogni capitolo del volume presenta inoltre, alla fine, una antologia di brani più corposi, scelti con cura, in modo da costituire, da un punto di vista teorico, informativo o applicativo, un invito ad allargare lo sguardo verso temi e autori significativi della letteratura psicopedagogica sugli argomenti trattati.

Per la accuratezza delle informazioni presentate, per l’approccio peda-gogico proposto, di ampio respiro e autorevolmente supportato, per la ricchezza e l’articolazione delle tematiche affrontate, il testo si configura come un indispensabile guida nel viaggio verso il sistema integrato 0-6. Anna Bondioli

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Vincenzo Schirripa

L'Ottocento dell'alfabeto italiano. Maestri, scuole e saperi

ELS La Scuola, Brescia, 2017 ____________________

L'Ottocento è stato indubbiamente il secolo della modernizzazione, quello di cui la nostra società, per come la intendiamo, è direttamente de-bitrice ed è perciò che esso ci risulta per tanti aspetti familiare. Eppure, nota Vincenzo Schirripa nell'introduzione al suo ultimo libro – la cui let-tura consigliamo con convinzione -, esso ci appare per tanti altri versi as-sai lontano dal nostro senso comune, avulso dall'idea di contemporaneità che ci siamo fatti: dalla storia ottocentesca sarebbe infatti potuta discen-dere una società ben diversa da quella che oggi conosciamo.

È nelle aporie della storia “ufficiale” del Risorgimento che s'inserisce L'Ottocento dell'alfabeto italiano. Maestri, scuole, saperi (ELS La Scuola, Brescia 2017), libro insieme erudito ed essenziale, mai ridondante sebbe-ne prodigo di riferimenti. Di queste aporie, di questi elementi discordan-ti di modernità e retaggi arcaici, di progresso e resistenza contadina è te-stimone il tortuoso processo di alfabetizzazione degli italiani che Schirri-pa ricostruisce e interpreta attingendo a un'amplissima bibliografia an-che internazionale non ristretta all'ambito delle discipline storico-educa-tive. Ed è proprio l'ampiezza degli apparati critici il principale punto di forza di questo libro, ciò che lo rende particolarmente utile agli studiosi: si compongono, nelle note a piè di pagina del volume di Schirripa, tanti altri possibili percorsi di ricerca che testimoniano della complessità dei temi e delle loro molteplici interconnessioni e rimandano ad altre ulte-riori piste. Sicché questo piccolo volume, che riflette su un tema certo non nuovo né particolarmente originale, costituisce davvero una lettura preziosa e un necessario strumento di lavoro, una bussola per orientare gli studi futuri nelle discipline storico-educative. La scrittura di Schirripa rifugge l'aneddotica e il “colore”, convergendo invece verso un'interpre-tazione d'ampio respiro di un elemento fondamentale per la nostra storia nazionale quale fu la diffusione delle scuole e il loro apostolato laico. E lo fa però con grande sensibilità per le storie di vita, per l'umanità di cui

parla, pur senza nominarla direttamente: si avverte infatti una profonda

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affettuosa partecipazione alle vicende delle popolazioni oggetto dell'ope-ra educatrice, specie per le plebi meridionali, e ciò senza mai scadere nel manierismo dei buoni sentimenti, ma mantenendo la prosa entro il regi-stro rigoroso del saggio scientifico.

Quattro sono i capitoli di cui il libro si compone. Il primo presenta la questione di che cosa s'intenda per alfabetizzazione, quali ne siano le mo-tivazioni sociali e le finalità, disegnando però «una dinamica non lineare» (p. 27). Il riconoscimento delle capacità di leggere e scrivere quali «soglia di umanizzazione» (p. 17), necessarie alla vita in società, qualifiche che oggi tendiamo a dare per scontate, è invece, come si sa, conquista relati-vamente recente, un fatto prettamente novecentesco: il che contribuisce a fare dell'Ottocento, su cui si concentra Schirripa, quella terra incognita di cui si diceva, un'epoca di transizione tra l'Italia contadina e arcaica e quella della modernizzazione.

Il secondo capitolo tratta invece, statistiche alla mano, della diffusio-ne, nel tempo e nello spazio, delle capacità di leggere e scrivere in Italia, regione per regione. Il nostro Paese è un caso esemplare di come la diffu-sione dell'albabetizzazione sia direttamente dipesa dall'affermarsi della scolarizzazione di massa, a sua volta causata dai bisogni politici e ammi-nistrativi del nuovo Stato unitario – il famoso imperativo di d'Azeglio e Cavour di dover “fare gli Italiani” –, ma l'autentico punto di svolta è in-dividuato dall'autore nell'età giolittiana, e quindi già al di là delle soglie dell'Ottocento. Sicché la trama del libro, che Schirripa ha tessuto minu-ziosamente frugando nelle pieghe profonde delle nostre campagne, si scopre ancora sfilacciata e irrisolta, ancora non definita a ben quarant'an-ni dal 17 marzo 1861: le Italie dell'alfabeto rimangono «due o più», dal Nord Ovest, «già in transizione verso un modello di società alfabetizzata» al Sud «percepito e rappresentato come indistinto» (p. 49).

I maestri, chi essi erano, le responsabilità sociali di cui furono caricati, le metodologie didattiche che adottarono, come essi conquistarono una coscienza di classe anche al di là delle attese della politica, è l'argomento del terzo capitolo. Proprio nel corso dell'Ottocento andarono infatti im-ponendosi tecniche più razionali d'insegnamento, che permisero d'istruire simultaneamente decine e anche centinaia di allievi, secondo orari rigidi e programmati per tempo, superando così la frammentazione e l'improvvisazione che avevano caratterizzato le epoche precedenti. Gli effetti ebbero un impatto decisivo non solo su maestri e allievi, ma anche sulle loro famiglie e sulle comunità.

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Sono interessanti soprattutto le considerazioni che Schirripa fa riguar-do ai maestri, insieme oggetto di una modernizzazione della didattica pensata al di sopra delle loro teste, nei ministeri e nelle accademie, ma poi anche, inevitabilmente, sempre più soggetti e quindi collaboratori con-sapevoli, che da quelle tecniche furono plasmati e chiamati – anche al di là delle iniziali intenzioni delle classi dirigenti - a una maggiore respon-sabilizzazione: «Ogni didattica finisce per dover chiarire quanta parte è disposta a riconosceree al ruolo del docente che se ne fa intermediario e garante» (p. 71). Essi, originariamente sembrano essere stati poco consi-derati, essendo le nuove strategie didattiche predisposte per funzionare indipendentemente dalle peculiari caratteristiche dei loro esecutori; ma infine essi operarono una «mediazione agita». Ma l'analisi di Schirripa è più ampia e comprende anche l'evoluzione degli spazi scolastici e dei ma-teriali didattici e la diversificazione tra l'istruzione maschile e quella fem-minile e la non necessaria coincidenza tra la capacità di leggere e quella di scrivere; egli illustra poi come furono provati e si diffusero metodi di-versi, da quello monitoriale a quello normale, da regione a regione, per l'interessamento dei monarchi più illuminati e di personaggi come Jo-hann Ignaz Felbiger, Francesco Soave, Giovanni Agostino De Cosmi.

L'ultimo capitolo estende la riflessione alla prima metà del Novecento durante il quale in gran parte si compì il progetto di alfabetizzare gli ita-liani, anche se gli esiti più massicci sono successivi alla seconda guerra mondiale. Ma a questo punto l'analisi trascende la storia delle istituzioni scolastiche per investire quello della storia sociale: per abbattere quel re-siduo persistente tasso di analfabeti che le scuole non erano state capaci di aggredire, sorgono altri soggetti come l'Animi (Associazione nazionale per gli interessi dell'Italia meridionale), la Società umanitaria, e poi an-cora, nel secondo dopoguerra, l'Unla (Unione nazionale per la lotta al-l'analfabetismo) e iniziative come quella di don Milani. Il tema allora non sarà più tanto quello dell'alfabetizzazione, ma quello dell'emancipa-zione, della conquista della piena cittadinanza.

Andrea Dessardo

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Lucio Cottini

Didattica speciale e inclusione scolastica

Carocci, Roma, 2017, pp. 435 ____________________ In quel crocevia in rapida evoluzione, prolifico e denso di contributi, che si sta rivelando l’ambito della ricerca sull’inclusione sociale nella pedago-gia speciale, questo testo di Lucio Cottini si impone all’attenzione per la particolare ricchezza di idee e di proposte operative. Esso viene così a rap-presentare un punto di riferimento nel settore in chiave sia teorica sia em-pirica, nonché metodologica.

Nella prospettiva di Cottini l’inclusione scolastica si configura in re-lazione a un modello e a un parterre di linee guida compositi e complessi. Questo modello condensa e miscela diverse impostazioni teoriche e pra-tiche, con una predilezione per gli approcci comportamentali e cognitivi al tema dell’inclusione scolastica. Ne scaturisce una prospettiva solida e convincente, coadiuvata da evidenze scientifiche, che non sostituisce, co-me Cottini spiega a conclusione del libro, la prospettiva della didattica speciale per l’alunno disabile, ma la integra in una visione globale estesa alle esigenze di tutti gli allievi.

Il volume si apre chiarendo una caratteristica precipua della didattica per l’inclusione: una didattica particolarmente attenta alle differenze, in modo da aiutare tutti gli allievi nelle loro possibilità di accrescere il loro apprendimento e la loro partecipazione; una didattica per tutti e per cia-scuno.

Si parte, nell’introduzione, da un chiarimento preliminare dei princi-pi che caratterizzano l’Inclusive Education, un modello teorico, per non dire una disciplina, che si è venuto delineando a partire dagli anni No-vanta, che si è consolidato attraverso una serie di atti d’indirizzo, tra i quali spicca la Convenzione sui diritti delle persone disabili (2006), e che pone al centro i bisogni diversificati di tutti gli allievi nel contesto scola-stico. Come sostiene Cottini, siamo di fronte a un salto di prospettiva. L’allievo disabile non è più considerato una sorta di ospite nel contesto scolastico, a cui si chiede un adattamento a un’organizzazione strutturata in funzione degli alunni tipici, ma un protagonista come tutti gli altri,

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all’interno di un progetto che ha l’obiettivo di promuovere una scuola delle differenze.

In tale prospettiva, una particolare attenzione deve essere riservata alla delineazione del curricolo, che senza scivolare in forme di differenziazio-ne estreme per ogni allievo, deve costituire un insieme di contenuti suf-ficientemente aperti e flessibili. Cottini richiama espressamente approcci come l’Universal Design e il Design for All, per abbracciare un’idea di pro-grammazione del curricolo che già a priori deve essere tale da favorire la piena potenzialità di tutti gli allievi, e non un canovaccio previsto solo per gli allievi tipici, per poi estendersi al caso specifico dell’allievo proble-matico.

Nel capitolo dedicato ai punti di contatto tra programmazione curri-colare e programmazione individualizzata, Cottini prende posizione per un approccio il più possibile flessibile, sostenendo l’importanza di una programmazione congiunta tra insegnanti curricolari e di sostegno, di un avvicinamento degli obiettivi, di una partecipazione alla cultura del com-pito. Tutto ciò richiede un’azione sui contenuti didattici, i quali possono essere parzialmente modificati per essere resi compatibili con le esigenze dell’alunno in condizioni di disabilità. In altri casi appare più saggio un lavoro sull’allievo con deficit fuori dalla classe, o al limite dentro la classe, laddove anche la partecipazione alla cultura del compito risulta impor-tante ai fini dell’apprendimento globale, della socializzazione, del morale e della formazione globale dell’allievo.

A questo capitolo ne segue un altro specifico dedicato al docente in-clusivo e alla formazione degli insegnanti di sostegno. Vengono ribaditi il significato e il valore di una formazione alta e specifica che deve riguar-dare tutti gli insegnanti. Tutto ciò non sminuisce tuttavia il ruolo dell’in-segnante specializzato, che viene a porsi in una posizione pivotale, di ful-cro di un processo, quello dell’inclusione, che tuttavia non può essere sol-tanto a lui delegato.

Addentrandosi nella parte centrale e nella seconda parte del volume, Cottini riserva una insolita attenzione al campo della socialità e dell’af-fettività ai fini del pieno espletamento di una didattica autenticamente inclusiva. Sulla scorta di altri suoi contributi e di una tendenza oggi in voga nella pedagogia speciale italiana, Cottini in questa sezione metodo-logico-didattica del volume dedica ampio spazio alla classe come conte-sto relazionale per tutti gli allievi, all’attivazione della risorsa compagni,

all’educazione alla socialità, alle strategie cooperative e soprattutto meta-

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cognitive. Ne scaturisce un nucleo di proposte di rilievo, all’avanguardia negli studi del settore, riproposti con opportuni aggiustamenti, mai ba-nali, per un intervento realmente integrato.

Nella parte conclusiva del volume Cottini affronta un tema fonda-mentale quanto inedito, che risponde alle domande: l’inclusione funzio-na? Quali ricerche empiriche abbiamo finora su questo argomento, e co-me operazionalizzare tale costrutto.

Consapevole della complessità e dell’articolazione del costrutto di educazione inclusiva, la posizione di Cottini innanzitutto si rivolge alla costruzione, elaborazione e validazione di una scala di valutazione dei processi inclusivi. Il punto di riferimento obbligato è in questa luce l’In-dex per l’inclusione, quale strumento comprovato a livello internazionale per lo sviluppo della progettazione inclusiva nelle scuole. Attraverso un grande sforzo di revisione da parte di Cottini e dei suoi collaboratori, l’Index è stato alleggerito nella sua struttura, al fine di pervenire a uno strumento più agile e più funzionale alla ricerca empirica. I dati emersi da parte degli insegnanti, a cui lo strumento è stato somministrato, con-fermano le difficoltà della nostra scuola nel procedere verso una cultura inclusiva, ma anche indicano piste di approfondimento percorribili per favorire processi di crescita nella prospettiva dell’inclusione.

Nell’ultimo capitolo del volume, l’attenzione si sposta su una rassegna della letteratura esistente sull’efficacia degli interventi di integrazione e di inclusione nelle scuole. La complessità del costrutto di efficacia richiede una valutazione separata per i vari elementi che lo compongono. Da que-sto punto di vista, l’analisi delle ricerche esaminate dimostra nel comples-so una buona efficacia per tutti gli elementi presi in considerazione, dalle storiche ricerche sull’integrazione scolastica in Italia, a quelle specialisti-che e settoriali sul Peer Tutoring e sull’apprendimento cooperativo, con una predilezione per gli interventi specifici di tipo cognitivo-comporta-mentale. È presto, ma siamo su una buona strada, per rispondere positi-vamente alle domande cruciali: l’inclusione migliora le capacità di ap-prendimento per gli allievi nelle scuole? Nelle classi maggiormente inclu-sive si apprende per davvero meglio?

Tommaso Fratini

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6.

Laura Cerrocchi e Liliana Dozza (a cura di)

Contesti educativi per il sociale.

Progettualità, professioni e setting per il benessere

individuale e di comunità

FrancoAngeli, Milano, 2018, pp. 471 ____________________

La prima osservazione che ci sentiamo di fare è che si tratta di un libro coraggioso, dato che, nella vastità del malessere che ci circonda, trova la forza di prospettare azioni rivolte al benessere dell’individuo e della comu-nità. Ciò significa che quanti hanno collaborato alla stesura del testo, am-pio e articolato, sono animati da una “fede” solida, la chiamiamo così perché riteniamo che nel mondo dell’educazione sia ancor oggi necessa-ria: fede nel proprio lavoro e nei soggetti cui esso è rivolto. Non vorrem-mo scovorrem-modare il “divino”, ma il termine greco pistis, così caro al cristia-nesimo delle origini, ci risulta prezioso nel chiarire il credito che si rico-nosce a Dio e, al tempo stesso, il credito che il credente si attende di con-seguire presso di Lui. Nel nostro caso chi opera, ai più diversi livelli nel mondo della formazione, è opportuno che riconosca un credito ai sog-getti in fase di crescita e di apprendimento, ma deve poter contare di ave-re una cave-redibilità ai loro occhi.

Se questo scambio di fiducia con l’altro non avviene, siamo a rischio di disgregazione del tessuto culturale della comunità. È facile constatare che in tutti i grandi romanzi distopici del Novecento lo stravolgimento educativo svolge un ruolo fondamentale. Il rischio di una progressiva di-sumanizzazione non è un fatto casuale, ma si realizza attraverso una pre-cisa strategia del dominio. L’esatto opposto di ciò che è stata la complessa evoluzione della formazione umana prende spazio, si afferma seguendo le tracce di una semplificazione ottimistica, per la quale lo studio non ha molta importanza e, soprattutto, non deve esserci sforzo, sacrificio. Sen-tiamo, e vediamo di continuo, pubblicità che assicurano i vantaggi di co-modi strumenti innovativi: si possono imparare le lingue in poche setti-mane o diventare esperti delle più svariate tecnologie. Proprio per fron-teggiare l’equivoco è di fondamentale importanza ribadire il significato

di una mission “multidimensionale” e “integrale”, pensarne la portata

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strategica affinché possa farsi percorso di emancipazione rispetto alla plu-ralità degli svantaggi, delle subalternità, del perdurare di forme di vita alienanti e, talvolta, non degne di un essere umano. Ciò viene denunciato con forza nel volume, tramite la riflessione sulle forme di caporalato, ad esempio, rivolte allo sfruttamento in agricoltura di una manodopera ex-tracomunitaria mantenuta in uno stato di asservimento insopportabile, che la rende “invisibile” con buona pace della coscienza di molti.

Si accennava all’ampiezza e alla articolazione del lavoro, che vorrem-mo sottolineare come ulteriore merito di un atto di fede. In un’epoca do-ve tutto viene ridotto a didascalia o a manualetto pratico per dare risposte immediate, questo libro riconosce la necessità del ricercare, dell’appro-fondire, del riconoscere problematiche oscure che rischierebbero di rima-nere inesplorate o, comunque, estranee all’indagine formativa. Forse non è inutile sottolineare che, nella tecnocrazia dominante, vi è la pretesa di dare risposte efficaci tramite la parcellizzazione specialistica delle cono-scenze e degli interventi; qui, al contrario, si ritiene che lo specialismo sia inefficace quando si colloca in una prospettiva gerarchica dei saperi e non accetta di confrontarsi, entrare in relazione con altri approcci per miglio-rare la qualità stessa dei propri interventi.

Per questo è fondamentale muoversi nel mondo della formazione con quell’ampiezza di contributi e di professionalità che caratterizzano l’ope-ra di cui ci stiamo occupando. Non a caso, Progettualità, responsabilità e cura educativa recita il titolo della prima parte, dove la nozione di ri-pen-samento riguarda sia il soggetto-persona, sia il contesto dove esso si col-loca, in una prospettiva di intervento etico-ecologica. Più di un saggio af-fronta con schiettezza la difficoltà operativa, non esclude affatto il peso del conflitto e, tuttavia, ritiene che pure in un clima conflittuale si possa operare per includere. Anche quando si entra nel merito delle Professioni educative per il sociale, non ci si rifugia in un tecnicismo di maniera, ma si verifica l’opportunità per abbracciare questioni di più ampio profilo, come la funzione dell’intellettuale che non è certo risolvibile in una co-mune prassi deontologica, incapace di rendere conto del senso etico che dovrebbe assumere ogni lavoro inerente gli esseri umani.

La terza parte, Setting educativi, non avrebbe senso renderla oggetto di recensione; essa merita, infatti, una lettura integrale attenta da parte di coloro che operano nel settore, o pensano di farlo, per rendersi conto del-la vastità e problematicità dei temi in oggetto: dalle questioni inerenti del-la famiglia, il sostegno alla genitorialità, l’affido e l’adozione, la comunità

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per minori, ai sevizi per infanzia e adolescenza; dalle questioni del lavoro in senso formativo alle strutture relative al disagio psicosociale; dalle si-tuazioni di strada e di emergenza ai servizi per la vecchiaia, fino alle dif-ficoltà d’inserimento lavorativo per soggetti differenti. Ci scusiamo per l’elenco, ma è l’unico modo per consentire di cogliere, almeno entro certi termini, la vastità dei processi che richiedono l’ampliamento qualificato della sfera formativa. Ad esempio, oggi bisogna accettare criticamente che non si può fare educazione trascurando le tecnologie informatiche, e non solo. Ma non se ne può fare un uso banale, nell’ottica di una necessità priva di ogni virtù, per adattare un vecchio proverbio a nuovi scopi. A chi opera nel mondo della formazione crediamo debba risultare evidente co-me il processo educativo non si esaurisca nella quotidianità, non si iden-tifichi con la vita nel suo manifestarsi qui ed ora. Essa consiste, allora, nel sapersi distanziare dalla vita, per farvi ritorno arricchiti da un’ermeneuti-ca dell’apprendimento, da una presa di coscienza che consente di sottrarsi all’alienazione e alla subordinazione verso un tecnologismo fine a sé stes-so. La qualità “mediativa” della formazione, per noi, risiede nella messa a punto di una progettualità, dove chi apprende sente che la sua è un’espe-rienza viva e densa di valore: con il testo oggetto della nostra analisi sen-tiamo di aver trovato forti elementi di sintonia in proposito.

Anita Gramigna

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7.

M. Gecchele, P. Dal Toso (a cura di)

Educare alle diversità. Una prospettiva storica

ETS, Pisa, 2019, pp. 273 ____________________ L’indubbio merito di questa collettanea a cura di M. Gecchele e P. Dal Toso è quello di mostrare tutta la ricchezza e la forza che lo sguardo al passato può dare per aprire nuove prospettive per leggere l’oggi e pensare al futuro. Attraverso una pluralità di interventi l’intento del volume è quello di im-postare una riflessione sulla diversità partendo da un approccio storico. Sembra infatti di primaria importanza evidenziare quanto sia importante, per chi si occupa di educazione e ha presente tutta la complessità dell’edu-care e del contesto odierno, riuscire a leggere le evoluzioni, i corsi e i ricorsi che la storia ci mostra e quanto lo sguardo al passato possa facilitare una let-tura più consapevole delle dinamiche che attraversano l’oggi.

Il volume è diviso in due momenti. Nella prima parte, L’identità del di-verso nella storia, M. Gecchele orienta e guida il lettore, coniugando grade-volezza nella lettura a indubbia precisione e puntualità storica, ad affronta-re l’immagine del diverso. «I percepiti, per un qualsiasi motivo, come di-versi sono sempre stati degli emarginati, degli esclusi dalla società, in con-seguenza anche di un’immagine metaforica che suppone la società come un corpo coerente e consistente, un universo sociale in cui i ruoli sono distri-buiti secondo modalità precise e per il fatto che l’ideologia dominante ren-de partecipi i membri ren-della società in un comune ordine di valori. Chi non si adegua a tale modello, chi non produce, chi non sopporta la società così come essa si è venuta nei secoli strutturando e codificando è considerato in-feriore, pericoloso, portatore di discredito morale e sociale, comunicatore di disordine e dell’eresia: un diverso, appunto» (p. 21).

Attraverso questa chiave di lettura l’autore mostra come soprattutto tra il Settecento e l’Ottocento e con l’Illuminismo, si incominciarono ad elaborare delle risposte diverse rispetto all’emarginazione o alla ghettizza-zione, di fronte alla presenza di chi per varie ragioni indossava, suo mal-grado, lo stigma della diversità. Dalla prima curiosità intellettuale su que-ste persone all’occuparsene e prendersene cura, il passo non è stato né semplice né così immediato e Gecchele non manca di mostrare, attraver-so un itinerario cosparattraver-so di filoattraver-sofi, pedagogisti, medici e pensatori,

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quanto questo percorso abbia chiamato in causa il mondo dell’educazio-ne che proprio grazie agli studi e all’osservaziodell’educazio-ne sulla diversità, si è strut-turata come disciplina scientifica.

Dai bambini ai vecchi, tra risposte caritative o assistenziali, fino ad ar-rivare ai modelli educativi femminili fra emancipazione e sottomissione, l’autore guida il lettore ad interrogarsi e ad orientarsi, attraverso la storia, sulle posizioni che si possono prendere di fronte all’altro che interroga nella sua diversità, nel suo essere altro.

Nella seconda parte di questa collettanea si affrontano invece i luoghi in cui si approccia l’esperienza educativa dei diversi affrontando e analiz-zando realtà educative che iniziano la loro opera in tempi remoti. Dal-l’Educazione dei ciechi di T. Zappaterra e Dal-l’Educazione dei sordomuti di M. C. Morandini, l’analisi punta a evidenziare come si sia gradualmente pas-sati dall’immaginario sulla cecità alla rappresentazione scientifica grazie anche a figure quali Braille e Romagnoli per quanto riguarda i ciechi e il lungo e tortuoso percorso dall’esclusione all’inclusione dei sordomuti. I contributi proseguono poi con un interessante spunto sulla realtà del col-legio, sempre a cura di M. Gecchele che, attraverso un accurato percorso storico, tratteggia l’evoluzione della realtà del collegio anche attraverso esperienze e testimonianze.

Il volume conduce poi, attraverso il solido studio di A. Debè, ad ana-lizzare L’accoglienza dei minori fuori famiglia: alle origini della comunità educativa partendo dal contesto assistenziale del secondo dopoguerra fi-no ad arrivare alle comunità per mifi-nori oggi. Di assoluto interesse e ri-lievo per l’attualità dei fatti è lo studio di R. Cima, Migrazioni: la doman-da educativa dell’incontro. Perché «le migrazioni sono movimenti che mettono alla prova le democrazie, i diritti umani, evidenziano le ipocrisie dei discorsi e ci spingono a cercare una maggiore giustizia» (p. 203) e in-terrogano anche tutte le certezze dei saperi dogmatici e strutturati per aprire lo spazio ad una vera e propria pedagogia dell’incontro e ad un pensiero pedagogico decoloniale che «aprono un dialogo con ermeneuti-che ‘disobbedienti’ ermeneuti-che ‘disturbano le gerarchie della conoscenza’ e inter-rogano radicalmente i saperi disciplinari» (pp. 213-214).

La collettanea prosegue con l’interessante sguardo di L. Pasqualotto sui Servizi socio-sanitari per le persone adulte con disabilità intellettive, che parte dalla prima comparsa della categoria nosografica della disabilità in-tellettiva negli studi di Pinel, proseguendo con le intuizioni di Itard fino ad arrivare ad indagare il quadro normativo di integrazione

socio-sanita-ria attuale e la maturazione di una prospettiva bio-psico-sociale.

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Non poteva mancare la robusta panoramica di P. Dal Toso che analiz-za puntualmente I centri per recupero di persone dipendenti da sostanze, partendo dall’esperienza di don Luigi Ciotti del Gruppo Abele, don Gi-no Riboldi con l’esperienza di Comunità Nuova e altre diverse esperienze nella lotta alla tossicodipendenza, fino a mostrare la complessità del pro-blema droga e ad arrivare al tentativo di creare organizzazioni e reti na-zionali di rappresentanza delle strutture terapeutiche presenti in Italia. Il tutto con la finalità di mostrare come i diversi modelli terapeutico-riabi-litativi stiano convergendo verso la proposta di un approccio integrato che coinvolge molteplici attori della rete territoriale.

Come ricorda S. Polenghi nella presentazione, lo sviluppo di un pen-siero critico, storicamente fondato, è una delle competenze raccomanda-te dal Council of Europe «per l’acquisizione di una mentalità aperta all’in-clusione, ovvero al rispetto della dignità delle persone, quale che sia la lo-ro differenza da noi» (p. 11). Il volume, curato da M. Gecchele e P. dal Toso va esattamente in questa direzione e, attraverso un caleidoscopico percorso assolutamente gradevole e ricco di spunti di assoluto interesse, conduce allo «stare nella ricerca incessante di un umanesimo aperto al-l’incontro, alle nuove istanze educative, politiche e culturali» (p. 221) perché è solo «quando si è in grado di vedere il proprio sguardo che osserva, di dare un peso relativo (e non universale) alle proprie categorie interpre-tative [che] si apre un pensiero critico» (p. 222).

Luca Odini

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8.

Mario Gecchele

Mario Mazza (1882-1959). Un esploratore dell’educazione

Pensa MultiMedia, Lecce-Brescia, 2018, pp. 490 ____________________

Il volume di M. Gecchele su Mario Mazza ripercorre in maniera puntua-le e profonda puntua-le varie tappe della sua esistenza: dall’infanzia a Genova alpuntua-le prime esperienze di insegnamento; dall’organizzazione di Gioiose all’in-contro con lo scautismo, da maestro maturo nel periodo del fascismo a scrittore per i ragazzi negli anni Quaranta. Ne emerge la figura di un uo-mo sempre entusiasta della vita che si è lasciato guidare dalla passione per l’educazione e da una vibrante spiritualità.

L’infanzia di Mario Mazza non fu sicuramente tra le più semplici: i pro-blemi economici, le difficoltà di relazione con i familiari e la volubilità del carattere paterno non resero facile la sua giovinezza, e probabilmente una spiccata propensione verso l’esplorazione, la scoperta e la fantasia costitui-rono una sorta di rifugio per lui: «Il mio territorio di caccia: Genova. La mia caverna, una vecchia casa sugli archi di pietra. Le finestre, coi ramponi di ferro gigliati per i remi delle galee, aperte a picco sulla strada degli orefi-ci» (p. 41). Questa sua curiosità e questa sua volontà di esplorazione, di contatto con la natura, di scoperta degli altri, furono tratti che non lo ab-bandonarono mai, rimanendo costanti in tutta la sua vita.

Anche nelle prime esperienze d’insegnamento porterà con sé questi aspetti che diventeranno caratteristiche e punti di forza del suo approccio educativo. La sua aula scolastica ne è un esempio paradigmatico, costitui-sce infatti un vero e proprio esempio di scuola-laboratorio dove il mae-stro può compiere la sua missione. Nel testo si racconta come alla fine di ogni giornata la sua aula fosse piena di carte ritagliate, rami, fogli, sassi, terra; e la loggia della scuola piena di cassette di terra che i ragazzi chia-mavano il giardino misterioso. Dagli scritti, che l’autore fa abilmente ri-vivere, si evince come per il maestro ligure l’insegnamento sia molto più di un semplice lavoro. Arriva a fondersi con la vita e, attraverso questa, recupera un senso e un valore più elevato, spirituale, tanto che affermerà di non aver mai imparato soltanto per sé, ma anche per i suoi fratelli. Questo semplicissimo concetto e quello dell’apprendimento naturale

hanno in sé la forza di una rivoluzione.

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Il suo entusiasmo e il suo desiderio di mettersi al servizio dei più gio-vani, per suscitare un vero e proprio cambiamento sociale, lo portarono a fondare le Gioiose e ad essere uno dei primi a vestire la divisa scout in Italia e a diffondere e sviluppare questo movimento in tutto il paese. «La Gioiosa era una specie di doposcuola per allievi di scuole secondarie as-sistiti da studenti universitari che svolgevano un programma di giuochi, escursioni, visite a musei e monumenti, raggruppando i ragazzi in Squa-driglie di cinque, con criteri già molto affini elaborati poi dallo scautismo di Baden Powell» (p. 105). L’approccio era sempre il medesimo: attraver-so il gioco, l’esplorazione e l’attività fisica si può istruire, educare e tenere i più giovani lontano dalle strade.

Con lo stesso stato d’animo e le medesime modalità didattiche si de-dicherà all’insegnamento, sfruttando in modo particolare l’autoappren-dimento: «Far trovare da loro stessi tutto questo, e scuoterli questi piccini che naturalmente si adagiano di già nella loro miseria, scuoterli aprendo loro gli occhi con tutti gli stimoli, con tutte le violenze dell’amore verso il maestro e la vita del maestro» (p. 71). Per questo il gioco diventa lo strumento privilegiato attraverso il quale, nel rapporto e nell’esplorazio-ne con la natura e con gli altri, si può compiere il miracolo dell’educazio-ne: «Il giuoco, liberato dal pregiudizio che sia puro divertimento, è il la-voro tipico di conquista. Per il bambino tutto è giuoco, ma è il più serio di tutti» (p. 116). Il gioco quindi, come mezzo di insegnamento-appren-dimento, consente di svegliare e liberare lo spirito: «Nel giuoco c’è quindi la creazione di un fatto nuovo, la cui caratteristica segreta interiore miste-riosa sta nello sforzo-lotta: per liberarsi dalle due schiavitù materiali dello spazio e del tempo; per esaltare l’individuo in conquiste sempre nuove; per fondere l’individuo nel tutto sociale umano della coordinazione col-laborazione coorganizzazione. Tutti questi tre valori del giuoco hanno co-me forma la combattività buona» (p. 117).

Per questo il maestro genovese porrà una particolare attenzione a quella che lui chiama l’educazione alla volontà, che non è altro se non la risposta a quella tendenza alla perfezione e quella vocazione alla felicità che sono il pregio sostanziale dell’animo cristiano. Tali aspetti si possono conquistare e raggiungere attraverso la gioia, caratteristica propria del-l’uomo che lo contraddistingue rispetto agli animali.

È difficile individuare in Mazza dove si fermi l’uomo e incominci il maestro, o dove inizi l’educatore scout e cessi l’istinto del docente o dello scrittore. D’altronde la sua vita ha racchiuso in sé tutti i tópoi

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