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Alle origini della preposizione institoria

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CAPITOLO PRIMO

1.1. Quadro storico del periodo imprenditoriale romano

Il periodo tra il II secolo a.C. e metà del III secolo d.C. è caratterizzato dalla emersione e dalla progressiva estensione di una fitta rete di negotiationes, e cioè di attività imprenditoriali basate su un sistema di scambi sempre più globalizzati, che fecero di Roma un centro economico mondiale. Nasce il diritto romano “dell’età commerciale”, definizione da preferire al sintagma “diritto commerciale romano”, in quanto non esiste una disciplina unitariamente intesa, ma una “storia della disciplina romana del commercio”, individuata sulla base di diversi periodi di riferimento, dipendenti dai diversi assetti economico-sociali e dai diversi sistemi giuridici che si sono susseguiti nel corso dei secoli di storia romana.

Riprendendo una nota classificazione dei principali momenta del diritto commerciale romano elaborata in dottrina1, assume rilievo, ai nostri fini, il periodo imprenditoriale, corrispondente all’ “età commerciale” per eccellenza. Il fulcro dell’assetto economico di questo periodo fu l’exercitio negotiationum da intendersi, in generale, come attività economica compiuta per i bisogni del mercato, comprensiva tanto di attività commerciali in senso stretto (scambio e circolazione dei beni), quanto di altre attività di intermediazione (produzione beni o servizi, attività di trasporto, attività bancaria); il capitale commerciale è in continua crescita; l’azienda agricola familiare che produceva per il consumo diretto si avvale, ora, degli schiavi e produce per il mercato “mondiale”. Va sempre più ampliandosi una complessa rete di comunicazioni terrestri, fluviali e marittime su cui si snodano le attività commerciali; oltre alla classe economica tradizionale, la nobilitas patrizio-plebea, emerge dal III secolo a.C. in poi, la nuova classe sociale degli uomini d’affari per eccellenza: gli equites. Si tratta di armatori, produttori, grandi commercianti ed accanto a loro schiere sempre più ampie di liberti. La città di Roma, che costituisce il motore di questa nuova formazione economico-sociale e nello stesso tempo è il centro del potere politico di un impero mondiale, va sempre più adeguando le proprie strutture urbanistiche al ruolo che riveste: da una parte, vengono costruiti strade, acquedotti e splendidi monumenti, dall’altra, nascono interi quartieri popolari, in cui si affolla una popolazione con alte percentuali di schiavi, liberti e stranieri. Il progressivo cambiamento del sistema economico fece sì che alla tradizionale

1 Cerami classifica l’esperienza romana in campo commerciale in tre periodi: il periodo

pre-imprenditoriale, il periodo imprenditoriale vero e proprio ed il periodo post-imprenditoriale. Per approfondimenti vedi Cerami, Di Porto, Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico, Torino 2004, 19 ss.

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famiglia patriarcale, fondata sul mero godimento e sulla conservazione dei beni, si sostituisse la famiglia mercantile-imprenditoriale incentrata sempre più sull’ accumulazione e sul profitto: la trasformazione incise soprattutto sulla natura della famiglia romana nel senso che al pater vertice potestativo della famiglia patriarcale subentrò gradualmente un pater con un ruolo di vertice economico-giuridico di una rete più o meno vasta di negotiationes.2 Il commercio era ormai uscito dalla sua fase elementare ed aveva avuto inizio l’estensione dell’ impresa oltre i limiti ristretti della

famiglia: si era passati dall’economia domestica ad una economia mercantile3. Anche la letteratura si dimostra sensibile al fenomeno: Catone, intorno al 160 a.C., nel

“De agri cultura” (Praef. 1-4) ci parla di pius quaestus, “il giusto guadagno” tipico dell’ attività agricola che si contrappone al commercio, più esposto a rischi e profitti meno onesti; Cicerone nel “De officiis”, del 44 a.C. (I,42,150-151), definisce il grande commercio onorevole per il buon cittadino, purchè venga svolto con assoluta correttezza (sine vanitate impertiens); ancora, Giovenale nelle sue “Satire”- siamo ai primi decenni del II secolo d.C.- dichiara “lucri bonus est odor ex re qualibet”, “l’odore del guadagno è sempre buono, ovunque provenga”4; con la nuova economia appare del tutto superata la concezione catoniana, il profitto ha ormai raggiunto una oggettiva positività a prescindere dalla fonte e dalle modalità di formazione, diventando il “credo ideologico” dei nuovi imprenditori.

Alle esigenze di questa nuova comunità provvedono, con i loro editti, i pretori della giurisdizione. Così, mentre gli antichi istituti giuridici si trasformano e assumono nuove valenze, sorgono forme giuridiche nuove in cui si rispecchia la società dell’epoca ed il nuovo diritto si affina raggiungendo un livello altissimo di perfezione che ha disegnato tutto il sistema giuridico d’impresa5.

Sono proprio i pretori a costituire, con i loro editti, gli organi fondamentali per la creazione di tutte queste forme giuridiche necessarie alle esigenze della nuova economia-globale. In questo nuovo contesto l’esercizio dell’impresa romana era caratterizzato da persone sui iuris, giuridicamente autonome, che preponevano propri sottoposti, filii o schiavi in potestà, all’esercizio di un’impresa marittima (magistri ) o commerciale terrestre (institores), oppure permettevano loro di operare quali autonomi gestori di un capitale imprenditoriale, separato dal patrimonio familiare (negotiatores cum peculio)6. Inizialmente i modelli organizzativi furono l’impresa individuale esercitata in modo

2 Cerami,Di Porto,Petrucci, Diritto commerciale romano. cit.,30 ss. 3 De Martino, Storia economica di Roma antica I, Firenze, 1980.133. 4 Satyrae 14, 204-209.

5 F.Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989,18.

6 Esse costituivano le varie categorie di imprenditori e di impresa, i cd. genera negotiationum .

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personale e l’impresa a gestione familiare: nella prima, l’imprenditore gestiva direttamente l’attività e su di lui gravavano profitti e perdite; nella seconda, sviluppatasi dopo le guerre puniche (III-II sec.a.C.), la famiglia gestiva l’attività sulla base di una struttura potestativa: vi era il pater o dominus, capo incontrastato cui si riconducevano gli effetti patrimoniali, ed un soggetto filius o servus, al quale l’imprenditore-capo famiglia affidava la conduzione dell’impresa.

In particolare, nel far riuscire questo secondo modello organizzativo, ha rivestito una influenza determinante una antica regola di ius civile -apparentemente contraddittoria, ma certamente funzionale alle logiche dell’economia familiare - che prevedeva l’automatico acquisto per il pater familias o dominus di tutti i diritti e gli acquisti derivanti dai negozi conclusi dai propri sottoposti, mentre non consentiva che quest’ultimi, con la loro attività, potessero obbligare l’avente potestà, così che i profitti rientravano nel patrimonio familiare, ma non i debiti. Pertanto, al dominus o al pater poteva solo derivare un arricchimento dall’attività dei suoi sottoposti; a seguito dello siluppo economico, tuttavia, questa regola venne ritenuta contraria all’aequitas, perchè realizzava un vero e proprio squilibrio per i terzi creditori, che rimanevano privi di tutela, in quanto non avevano modo di far valere gli inadempimenti dei sottoposti, mentre il dominus, imprenditore avente potestà, non era responsabile per i loro debiti.

Fu il pretore peregrino ad introdurre, nel proprio editto, talune actiones contro il dominus, le actiones cd. adiecticiae qualitatis, le “azioni adiettizie”7 con le quali si faceva valere la responsabilità “aggiunta” dell’avente potestà per i contratti conclusi da filii o più spesso da servi nell’esercizio dell’attività commerciale, una responsabilità che si “aggiungeva” a quella diretta (naturale o civile) dei sottoposti; il preponente era responsabile non solo in virtù del rapporto potestativo che lo legava al filius o schiavo, e dunque per il fatto di essere dominus o pater di colui che aveva posto in essere l’attività negoziale, ma principalmente per il fatto di aver affidato a tale soggetto lo svolgimento di un’attività commerciale nell’ambito della quale rientrava il negozio o i negozi compiuti. Generalizzando ciò che il giurista Paolo aveva formulato in ordine all’actio exercitoria, utilizzata nell’ambito di un’impresa di navigazione (exercitio navis) : hoc enim edicto non trasfertur actio, sed adicitur [ infatti in questo editto l’azione non è trasferita, ma è aggiunta ], D.14.1.5.1; l’azione pretoria non comporta il trasferimento della responsabilità dall’effettivo contraente sottoposto al dominus negotii, ma determina una responsabilità aggiuntiva di quest’ultimo alla responsabilità diretta del contraente.

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La dizione a.a.q è da attribuire alla tradizione giuridica successiva, con molta probabilità intorno al XVII secolo, infatti nell’assetto delle fonti preclassiche e classiche non fu mai elaborata una definizione unitaria per le azioni in questione. M.Miceli, Sulla struttura delle actiones adiecticiae

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Fin dall’inizio questa responsabilità non aveva unicamente una connotazione soggettiva – data dal legame potestativo- ma anche una connotazione oggettiva che ne caratterizzava pienamente la natura e riguardava l’attività concretamente svolta e le modalità di svolgimento della stessa; non tutti gli atti negoziali compiuti da servi o filii familias determinavano responsabilità in capo al dominus o pater, ma solo quelli che fossero stati realizzati nell’ ambito di una praepositio o di un peculio. Nel tempo questa connotazione oggettiva tende a divenire prevalente su quella soggettiva sulla base di un criterio evolutivo fondamentale, per cui il pater o dominus vengono chiamati a rispondere dell’attività dei loro schiavi o filii, prima in quanto vertici della struttura potestativa familia e, in seguito, principalmente in qualità di titolari dell’attività svolta in maniera continuativa ed organizzata.

Queste actiones adiecticiae furono: l’actio exercitoria, l’actio institoria per le imprese commerciali terrestri in senso lato, l’actio tributoria ed il cd triplex edictum (D.15.1.1.1) con le tre azioni quod iussu, de peculio e de in rem verso8 per i vari tipi di imprese commerciali con peculio o una parte di peculio specificamente destinata a ciò (cd merx peculiaris). Attorno a queste azioni si va costruendo- questa è la loro più grande importanza- tutta l’organizzazione imprenditoriale romana, disegnando il sistema giuridico dell’impresa che sarà poi continuamente arricchito e perfezionato dalla giurisprudenza.

1.2. Il pretore peregrino

Il pretore peregrino, (praetor qui inter peregrinos ius dicebat), istituito nel 242 a.C., si occupava di dicere ius tra cittadini romani e stranieri (peregrini) oppure tra stranieri, che svolgessero i propri affari a Roma. Ebbe pari dignità e imperium rispetto al pretore urbano, di più antica istituzione. Questa magistratura fu creata allo scopo di soddisfare le esigenze di tutela giuridica nascenti dall’incremento dei rapporti economici e commerciali con gli stranieri, a seguito della sempre maggiore espansione della presenza romana nel Mediterraneo. Fu proprio la giurisdizione “evolutiva” del praetor peregrinus a consentire, ad esempio, l’affermazione e la diffusione di contratti quali compravendita (emptio-venditio), locazione (locatio-conductio), società (societas) e mandato (mandatum), accessibili sia ai Romani che agli stranieri. Il magistrato risolveva le questioni di volta in volta sottopostegli attraverso una procedura molto rapida (per concepta verba), introducendo una serie indefinita di formule, ciascuna adatta al caso concreto. Il nuovo procedimento risultava molto diverso da quello che si svolgeva innanzi al pretore urbano tra i cittadini, che era invece spiccatamente formalistico. Egli molto spesso dava rilevanza

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a principi comuni a tutti i popoli attraverso un sistema quanto mai agile e duttile, privo

di forme solenni e dunque rispondente alla necessaria speditezza degli affari. Il pretore peregrino è titolare dell’imperium auspiciumque9 e particolare importanza come

fonte di diritto privato è l’editto che ciascun pretore emette al momento dell’entrata in carica, in quanto in esso indica gli strumenti giurisdizionali per la soluzione delle controversie. L’efficacia dello stesso valeva un anno, coincidendo con la durata della carica; durante l’esercizio della magistratura i pretori potevano integrare il contenuto dell’editto mediante provvedimenti presi per fattispecie concrete, i cd. edicta repentina10,

nell’applicazione pratica, da un pretore all’altro, tutte le norme che avevano dato buona prova di sé, erano normalmente confermate e mantenute in vita; a seguito di questa prassi, una parte dell’editto va poco a poco stabilizzandosi facilitando la nascita, nel 130 d.C., di un Edictum perpetuum ad opera del giurista Salvo Giuliano per incarico dell’imperatore Adriano. Questo non ci è pervenuto direttamente ma, possiamo ricostruire il contenuto grazie ai tantissimi testi dei commentari di Ulpiano e Paolo riportati nel Digesto giustinianeo. Quello che ci interessa è il contenuto dell’editto che esprime le nuove strutture economico-sociali che operano tra il III secolo a.C. e la prima metà del III secolo d.C., esattamente l’arco di tempo in cui nasce e si sviluppa l’impresa

romana.11 Tale figura decade

durante il II secolo d.C. e scompare con la constitutio Antoniniana de civitate che, nel 212 d.C., estese la cittadinanza romana a tutti i cittadini.12

1.3. I motivi alla base della nascita dell’ actio institoria

L’actio institoria opera per tutti i tipi di impresa diversa da quella di navigazione, ovvero “terrestri”, fondate sulla preposizione di un institor. Questa azione, come già ricordato, nasce ad opera del pretore peregrino ed è motivata dalla necessità di tutelare l’affidamento dei contraenti con gli institores, figli in potestà o schiavi, e garantire così

9

Questo concetto , nato nella monarchia etrusca, rappresentava il potere supremo, sia civile che militare cui si aggiunge anche il potere di trarre auspici interpretando il volere degli Dei. Petrucci,

Lezioni di diritto pubblico romano, Pisa, 2008, 24. 10

Erano “editti creati per l’occasione”, infatti, con il termine editto si indicava, non solo, il documento nel suo complesso, ma anche le singole parti di cui esso si componeva. Petrucci,

Lezioni di diritto pubblico romano, cit.,143. 11

Petrucci, ibidem, cit.,145.

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Sulle attività e funzioni del pretore peregrino resta ancora fondamentale lo studio di sessanta anni fa di F. Serrao, La iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954.

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una uguaglianza proporzionale degli interessi tra le parti: l’imprenditore preponente, da una parte, ed i terzi, cd contraenti deboli, dall’ altra, così da moderare le conseguenze inique derivanti da una rigida applicazione della regola dell’ antico ius civile, il quale, in caso di inadempimento dei soggetti preposti alla attività di impresa dall’imprenditore, non permetteva ai terzi di potersi soddisfare sul suo patrimonio. La ratio che aveva portato il pretore a creare questa azione la si ritrova nelle Istituzioni di Gaio, scritte poco dopo la metà del II secolo d.C.:

…Cum enim ea quoque res ex voluntate patris dominive contrahi videatur, aequissimum esse visum est in solidum actionem dari…(4.71)

[…infatti, poiché anche questa attività contrattuale si considera conclusa per volontà del padre o del padrone, è sembrato essere molto equo che fosse data un’azione per l’ intero -contro il padre o padrone -…].

I contratti conclusi con i sottoposti si dovevano ritenere compiuti per volontà del titolare della potestà imprenditoriale (cum enim-contrahi videatur) ed è in conformità dell’aequitas che il pretore aveva previsto una sua responsabilità per l’intero, che il contraente poteva far valere attraverso questa azione (aequissimum-actionem dari). Il regime della responsabilità illimitata a carico del preponente, come si vede dal testo, discende dall’imputabilità diretta alla voluntas patris aut domini dell’attività contrattuale, perchè l’esistenza stessa della praepositio induceva i terzi a far affidamento sulla fides del pater o dominus, che autorizzava l’attività economica. Le attività commerciali infatti richiedevano, allora come oggi, particolari garanzie per i terzi, i quali dovevano poter confidare sul “volume d’affari” e sulla solvibilità: il preponente è il soggetto titolare dell’attività ed in quanto tale si pone come effettivo ed unico domius negotii, colui che percepiva i proventi delle attività esercitate che deve essere chiamato a rispondere dei

debiti assunti dai soggetti preposti all’esercizio dell’attività commerciale. È ancora l’aequitas, secondo Ulpiano (che opera nei primi decenni del III secolo d.C.), il

criterio che muove il pretore a predisporre questa azione.

Aequum praetori visum est, sicut commoda sentimus ex actu institorum, ita etiam obligari nos ex contractibus ipso rum et conveniri. Sed non idem facit circa eum qui institorem praeposuit, ut experiri possit: sed si quidem servum proprium institorem habuit, potest esse securus adquisitis sibi actionibus… (D.14.3.1)

[è sembrato equo al pretore che, come percepiamo i vantaggi dall’attività degli institori, così anche siamo obbligati dai loro contratti e possiamo essere convenuti in giudizio. Ma -il pretore- non fa lo stesso con riguardo a colui che ha preposto un institore così da

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poter esperire l’azione; ma, se certamente ha avuto come institore uno schiavo proprio, può essere sicuro delle azioni acquisite per sé… .

Al pretore era apparso dunque equo riequilibrare commoda (vantaggi) ed obligari (obbligazioni) derivanti dalle attività contrattuali svolte dagli institori preposti: il preponente, il quale fa propri i benefici derivanti dall’attività dei propri institores, è equo che sia anche obligatus per i debiti nascenti dai negozi da loro conclusi e possa essere convenuto per l’adempimento degli stessi.13 Ulpiano ci dimostra poi come l’interesse alla base di questa azione fosse, prevalentemente se non esclusivamente, rivolto alla responsabilità del preponente, che configurandola come un’azione cd “unidirezionale”, Watson nel descrivere l’actio exercitoria utilizzava, propriamente, l'espressione “one way”14, esercitabile solo dai terzi verso l’imprenditore e non viceversa: infatti, egli non poteva agire contro di loro con tale azione (Sed non idem- ut experiri possit), poiché, in virtù del vincolo potestativo (e della proprietà) sullo schiavo institore, acquisiva già le azioni derivanti dal rapporto contrattuale tra costui ed i terzi, per far valere i propri diritti. Accanto alla necessità di superare quell’antica regola di ius civile, il pretore trova un altro elemento che giustifica il suo intervento: il periculum; letteralmente “rischio”, relativo alle attività economiche, si configura come “rischio di impresa”; le azioni predisposte dal pretore mirano, infatti, a sancire una sorta di “responsabilità imprenditoriale” che grava su un determinato soggetto, colui che effettivamente percepiva i proventi dell’attività, non per il fatto in sé di aver compiuto un singolo atto negoziale, ma per l’esercizio di un’attività commerciale svolta in forma organizzata, e in modo continuativo. Il pretore ritenne, quindi, giusto ed equo che fosse l’imprenditore a sopportare tale periculum insito nella natura stessa dell’attività commerciale intrapresa, consistente nella “responsabilità imprenditoriale” in senso lato connessa alle scelte dell'imprenditore quando nomina un suo rappresentante: il soggetto preposto agisce in nome e per conto dell’impresa e l’imprenditore, nominandolo, assume il rischio di aver scelto un soggetto potenzialmente inaffidabile laddove questo non avesse adempiuto agli obblighi contratti; si configura quella che viene oggi qualificata culpa in habendo o culpa in eligendo, vale a dire “colpa nella scelta”, disciplinata all’art. 2049 c.c. (“responsabilità dei padroni e dei committenti”), la cui ratio è fondata sulla responsabilità a carico dei datori di lavoro per il fatto di non aver curato con la dovuta accortezza la scelta dei propri collaboratori.

I richiami all’aequitas, all’utilitas, alla fides ed al periculum sono determinanti nell’identificare le motivazioni che portano ad introdurre l’actio institoria (come le altre

13 Miceli, Sulla struttura formulare delle a.a.q. cit.,190. 14

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azioni adiettizie) e ne fissano la struttura ed il regime, aspetti differenti di un fenomeno poliedrico quale è quello relativo all’attività commerciale svolta tramite preposti di cui il pretore si fa interprete attraverso i suoi editti nell’ottica della protezione dell’ affidamento dei terzi.

1.4. La formula dell’actio institoria ed i concetti fondamentali ad essa sottesi.

A titolo di esempio riporto la formula dell’actio institoria, nella ricostruzione comunemente accolta15:

G.Aquilius iudex esto. Quod A.Agerius de L.Titio, cum is a N.Negidio tabernae instrcuctae praepositus esset, eius rei nomine decem pondo olei emit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem L.Titium A.Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius iudex N.Negidium A.Agerio condemnato si non paret absolvito.

[Sia giudice G.Aquilio. Poiché A.Agerio ha comperato da L.Tizio, nell’esercizio manageriale dell’azienda commerciale, cui era stato preposto da N.Negidio, dieci libre d’olio, materia del contendere, con riguardo a tutto ciò che, per tale causa, L.Tizio deve dare o fare a favore di A.Agerio, secondo buona fede, il giudice G.Aquilio condanni N.Negidio nei confronti di A.Agerio; se non risulta, lo assolva].

Occorre precisare che tale formula processuale, azione institoria di compravendita, costituisce una variante della formula di base prevista nell’editto per i diversi tipi di contratto posti in essere dalle parti, in questa fattispecie infatti il contratto di compravendita contemplato si inseriva nella gestione di una taberna instructa. Da tale formula emergono i due fondamentali concetti di taberna instructa e negotiatio ai quali rivolgiamo ora la nostra attenzione.

1.4.1. La taberna instructa e la negotiatio

La formula dell’actio institoria riportata al punto precedente sottintende una fattispecie di compravendita ed è qualificabile come actio empti institoria che in origine costitutiva la principale attività commerciale ove veniva utilizzata la figura dell’institore. Essa rappresenta una variante della comune actio empti per il fatto che il contratto di compravendita in essa contemplato si innestava nella gestione di una taberna instructa

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ed il rapporto contrattuale intercorre tra negotiatores (imprenditori) e terzi. È il diritto onorario che, elaborando i termini utilizzati nelle clausole e nelle relative formule edittali, riconosce, per primo, le nozioni di impresa (negotiatio) e azienda (taberna instructa), concetti e categorie fondamentali del diritto romano delle imprese. Ulpiano 28 ad ed. in D.50.16.185, nel commento alla formula dell’ actio institoria, dice testualmente:

Instructam autem tabernam sic accipiemus quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat

[Consideremo invero l’azienda come un complesso di beni ed uomini organizzati per l’ esercizio dell’ impresa commerciale]16.

Il contratto di compravendita si innestava nella gestione di una taberna instructa ed Ulpiano precisa il significato del termine taberna per poi risalire al profilo

tecnico-giuridico che lo stesso termine, associato all’aggettivo instructa, assumeva nel contesto. Circa il significato del primo termine, Ulpiano in D.50.16.183 sostiene:

Tabernae appellatio declarat omne utile, ad habitandum aedificium, non ex eo quod tabulis cluditur

[Il termine taberna denota qualsiasi edificio idoneo ad essere abitato, non già un luogo chiuso con tavole].

Ulpiano osserva che il termine - la cui etimologia deriverebbe, secondo alcuni autori antichi da trabs, secondo altri da tabula17- ha ormai perduto il significato originario di “luogo delimitato da tavole” o di “luogo destinato all’abitazione” ed era ormai divenuto, nel contesto della formula edittale, edificio idoneo ad essere sede di particolari attività economiche o professionali; taberna instructa, letteralmente “locale chiuso attrezzato”. Sulla scia di un consolidato indirizzo giurisprudenziale18, insito nell’ espressione sic

16 Questo brano risulta la sola definizione pervenuta ed è, quasi certamente, il risultato di un

lungo percorso di elaborazione giurisprudenziale. Approfondimento nel successivo § 1.5..

17

Per i primi: Cassiodoro ed Elio Donato, per i secondi: Isidoro, Festo e Diomede. In A.Campanella,

Profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa, Palermo 2009.

www.dirittoestoria.it.

18

Un’ipotesi è svolta da M.A.Ligios, Taberna, negotiatio nella riflessione giurisprudenziale classica,

in Antecessori oblata. Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro, Padova 2001,107 e ss. L’autrice

accoglie la ricostruzione leneliana secondo la quale la locuzione taberna instructa sarebbe stata presente anche nel testo della formula dell’actio institoria contenuta nell’albo pretorio e ritiene tale circostanza rafforzata dall’utilizzo della locuzione da parte di Cicerone in un passo della Pro

Cluentio 63.178; questo dato costituisce indizio del fatto che la nozione suddetta fosse già

delineata nell’ambito della riflessione giurisprudenziale dell’ultima età repubblicana. Ulteriore contributo, utile alla ricostruzione della elaborazione giurisprudenziale sarebbe ricavabile da un responso di Papiniano riportato da Ulpiano in D.33.7.12.43 (20 ad. Sab). Il responso presupporrebbe una nozione di taberna instructa assimilabile a quella che risulta in D. 50.16.185.

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accipiemus adottata nel primo passo, emerge anche il concetto di “attività economica destinata all’esercizio commerciale” grazie all’aggiungersi del termine negotiatio che qualifica il particolare scopo per cui quel complesso viene organizzato identificando in senso commerciale l’attività che si andava a compiere in quel luogo; quindi, con negotiatio si indica l’impresa commerciale, con taberna instructa l’azienda commerciale, ne è prova la definizione di navis instructa, ovvero la nave equipaggiata per lo svolgimento dell’impresa che si differenzia dall’exercitio navis in senso stretto, cioè l’esercizio

dell’impresa di navigazione. La definizione di taberna instructa così come formulata da Ulpiano risulta perfettamente

speculare al significato ormai assunto in piena età classica dal binomio institor-negotiatio: la definizione di taberna instructa tramandataci in D. 50.16.185 è tale da poter essere riferita perfettamente a qualunque tipologia di negotiatio, il cui esercizio

rientrava, per i profili di responsabilità, nel campo di applicazione dell’actio institoria. In dottrina è stata sottolineata la notevole affinità tra il concetto di taberna instructa

romana e la nozione odierna di azienda: “L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, articolo 2555 del nostro Codice Civile. Al di là delle comparazioni, è significativo che tra imprenditore e impresa, già nel diritto romano di quest’epoca, esistesse l’azienda, elemento intermedio tra il profilo soggettivo ed il profilo oggettivo con l’unica differenza dell’assenza degli homines nell’enunciato codicistico, assenza ovvia perché l’azienda romana era fondata essenzialmente sul lavoro degli schiavi, mentre quella odierna implica piuttosto un fascio di rapporti di lavoro; in realtà Ulpiano parlando di “homines ad negotiationem parati” intende sottolineare che l’azienda implica per sua natura una sinergia di beni e forze lavoro: infatti al suo tempo il lavoro servile, in campo imprenditoriale, era ancora prevalente, ma non più esclusivo; aspetto che avvicina ancora di più la nozione antica di azienda con l’attuale, da intendersi come pluralità di beni eterogenei tra loro, alla luce delle cd. teorie “atomistiche” sostenute da ampia dottrina19. Particolare rilievo offre una sentenza della Cassazione, sez. lav., 5 aprile 1990, n.2831, nella quale si precisa – in sede di cessazione di attività produttiva di una società che costituisca un’ampia articolazione di attività di gruppo - con espresso richiamo ad Ulpiano, che, secondo la nostra stessa tradizione giuridica, “noi concepiamo l’impresa come strutturazione sinergica di uomini e cose per l’esercizio dell’attività negoziale”20. Quest’ultimo argomento, sull’odierno inquadramento giuridico della taberna instructa necessiterebbe, per la complessità e le rilevanti

19 G.F.Campobasso, diritto commerciale 1,7°edizione, Napoli 2006.

20 Sul significato della sentenza si rinvia a Cerami, Di Porto, Petrucci, Diritto commerciale romano,

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implicazioni di ordine metodologico, una specifica trattazione, la quale non è possibile né opportuna in questa sede.

1.4.2. Il negotiator-preponente

Il negotiator, definito nelle fonti is qui praeponit, is qui praeposuit, letteralmente “colui che prepone/ prepose”, è il titolare della negotiatio, l’attività di impresa, ne rappresenta il vertice economico-giuridico nei rapporti con i terzi contraenti ed il suo ruolo giustifica la responsabilità correlata al periculum (rischio imprenditoriale). Il negotiator si distingue da altri operatori economici del tempo per la professionalità dell’esercizio di uno specifico ramo del settore commerciale e, soprattutto, dalla gestione della taberna instructa (azienda) sopra citata21. Il ruolo e la funzione corrispondono nella sostanza a quelli insiti nella moderna nozione di imprenditore, accolta nel Codice Civile all’art.2082: “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi”22.

1.4.3. Lo schiavo come strumento dell’imprenditore: l’institore e la sua evoluzione

A Roma, nel periodo che corre fra il II secolo a.C. ed il II secolo d.C., lo schiavo costituisce uno strumento generale della società: per lavorare i campi, per condurre un’azienda agricola, per esercitare un’officina, per remare sulle navi, per gestire importanti imprese di navigazione, per soddisfare i bisogni del padrone, per concludere un singolo contratto o qualsivoglia negotiatio. In questo suo essere strumento generale sta forse l’originalità della schiavitù romana, che la differenzia sia dalle forme di schiavitù precedenti sia dall’altro grande fenomeno di schiavitù moderna, che si è storicamente sviluppato nel vecchio Sud americano.

All’interno di un simile fenomeno si colloca quello, particolarissimo, dello schiavo strumento dell’imprenditore romano, che i giuristi indicano con l’espressione exercere negotiationes per servos. Il fenomeno imprenditoriale romano poteva infatti svilupparsi attraverso l’impresa individuale o collettiva tramite schiavi, in proprietà individuale, o in comproprietà (exercere negotiationes per servos o per servos communes). I modi di impiego “manageriale” dello schiavo da parte dell’imprenditore furono due: come praepositus (institor o magister) e come organo del peculio, ciascuno caratterizzato per il diverso regime di responsabilità del dominus. Il primo è a responsabilità illimitata, il secondo, per la presenza del peculio, a responsabilità limitata. Il tipo a responsabilità

21 Cerami, Di Porto, Petrucci, Diritto commerciale romano, cit.,17-19. 22 Cerami, Di Porto, Petrucci , ibidem, cit.,50.

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illimitata si presenta nelle forme proprie del vasto settore dell’impresa commerciale e dell’impresa di navigazione: il servus, perno dell’organizzazione, svolge, in qualità di institor o magister, la sua attività manageriale entro l’ambito fissato dal dominus con la praepositio (atto di preposizione). Il patrimonio impiegato dal dominus nella negotiatio non è giuridicamente separato dal suo patrimonio personale e la sua responsabilità è illimitata23.

Giova ricordare che gli schiavi, dal punto di vista giuridico, erano soggetti alieni iuris, cioè soggetti ad altrui potestà: quella del proprietario dominus. Egli esercitava su di essi, come su ogni cosa propria, un potere assoluto: anche il diritto di vita o morte (ius vitae ac necis). I servi non sono giuridicamente capaci, quindi non esercitano alcun diritto soggettivo o potestà, né assumono obbligazioni. Sebbene privi di tali capacità, ben presto, si riconobbe loro una sorta di capacità di agire: dando rilevanza giuridica a certi loro comportamenti volontari, essi fungevano da strumento di acquisto del dominus con la particolarità che, ad acquistare ogni volta la proprietà, il credito o qualsivoglia diritto, non era il servo parte del negozio, ma il suo proprietario. Il criterio originario del ius civile alla base di tutti gli atti conclusi con il servo, era che questi poteva solo migliorare e non peggiorare la posizione giuridico- familiare del dominus. Fu proprio per correggere tale criterio che il pretore individuò nelle a.a.q gli strumenti giudiziari idonei a garantire l’adempimento dei negozi conclusi con lo schiavo.

Per quanto riguarda la capacità per essere un institor, non ci sono requisiti speciali: l’institor può essere, come vedremo più avanti, uno schiavo, un figlio, una donna e perfino un pupillo.

In base alla definizione di Ulpiano in D.14.3.5 pr, cuicumque igitur negotio praepositus sit, institor recte appellabitur, l’institor è, in sostanza, l’amministratore dell’impresa.

Secondo quanto attestano le fonti giurisprudenziali, il termine institor subisce una vera e propria evoluzione: alla originaria e ristretta accezione di “preposto ad un esercizio commerciale”, intesa come intermediazione nello scambio dei beni, subentra gradualmente il significato ampio e generale di “preposto a qualsiasi attività imprenditoriale”, con il conseguente ampliamento del campo di applicazione dell’actio.

Agli inizi la possibilità di esperire tale azione era limitata alle imprese commerciali in senso stretto, quelle cioè dirette allo scambio di beni attraverso contratti di compravendita, in seguito, durante il I sec.a.C. e l’età augustea (31 a.C.-14 d.C.), il campo si ampia notevolmente. Così le fonti rispecchiano tale evoluzione: per la prima accezione, Gaio, in Istituzioni 4.71, sottolinea che è institor colui che è preposto ad una

23

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taberna (quia qui tabernae praeponitur institor appellatur) e Paolo, lib.sing.de var.lect. in D.14.3.18 identifica l’institore come colui che veniva preposto a vendere merci tanto in un locale commerciale quanto fuori:

Institor est , qui tabernae locove ad emendum vendendumve praeponitur quique sine loco ad eundem actum praeponitur

[è institore colui che è preposto a comprare e vendere in un locale o un luogo fisso e colui che è preposto alla stessa attività senza luogo fisso].

Della progressiva estensione del termine institor si ha notizia grazie ad un ampio excursus di Ulpiano in D.14.3.3, il cui inizio enuncia:

Institor appellatus est ex eo quod negotio gerendo instet nec multum facit tabernae sit praepositus an cuilibet alii negotiationi. Cuicumque igitur negotio praepositus sit institor recte appellabitur

[L’ institore è così denominato perché è preposto alla gestione di un’impresa, né ha alcuna importanza che sia preposto ad un’azienda commerciale o a qualsiasi altra attività imprenditoriale. Pertanto, chi sia preposto ad una qualunque attività imprenditoriale, sarà denominato, a buon diritto, institore]24.

Ulpiano nel prosieguo di D.14.3.5.1-10 elenca poi, a titolo esemplificativo, una serie di attività imprenditoriali dove i contraenti con lui avrebbero potuto esercitare l’azione institoria: a) gestione di immobili urbani, praepositus aedificio o insularius, b) credito e banche, praepositus pecuniis dandis in mensa, c) trasporto terrestre, come quello con i muli (muliones) e prestazioni di servizi collegati, come le locande con annesse stazioni di cambio (stabularii); d) pulizia, riparazione di abiti e tessuti. A questi settori altri testi aggiungono quelli dei bagni termali (negotiatio balnearia) e della produzione (anfore, lucerne, ceramiche), con l’esclusione della impresa di navigazione. L’institore, quindi, figura originariamente legata alla familia romana, aveva una necessaria connotazione oggettiva in riferimento all’attività concretamente svolta ed alle modalità di svolgimento della stessa; così il preponente viene chiamato a rispondere dell’attività dei suoi preposti, prima principalmente come vertice potestativo della famiglia e, successivamente, soprattutto in quanto vertice dell’attività svolta in maniera continuativa ed organizzata. Le fonti indicano con certezza che la responsabilità del dominus-preponente era condizionata da

24 Non dissimile dalla odierna definizione di institore accolta nell’ art. 2203 c. 1, c.c. “ è institore

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due presupposti: uno di carattere “soggettivo”, l’atto di preposizione che permetteva di individuare le persone legittimate a svolgere l’attività commerciale, ed uno di carattere “oggettivo”, in riferimento al tipo di attività ed alle modalità di esercizio della stessa. Durante il I sec.a.C. e l’età augustea l’ampliamento appena descritto del campo di applicazione dell’actio institoria si era avuto grazie soprattutto all’interpretazione di giuristi come Servio Sulpicio Rufo e Labeone; l’institor non era più il solo preposto alla taberna per una negotiatio consistente nell’ emptio-venditio di merces, ma un soggetto preposto a qualsivoglia negotiatio esercitata in una sede diversa dalla taberna o addirittura senza sede alcuna, con la conseguenza che la dilatazione della nozione di institor permette la dilatazione dell’impiego dell’azione stessa; le preposizioni erano effettuate non solo nelle tabernae, ma anche in edifici come le insulae25, gli horrea26, le

officinae27 e perfino nelle attività che si praticavano all’aperto. Tutto questo dimostra

come lo schiavo rappresentasse uno strumento perfettamente adeguato alle esigenze di accumulazione della ricchezza e di ricerca del profitto28.

25 La insula Romana, letteralmente edificio a più piani (da cui deriva oggi il termine isolato), e' il

tipico esempio di casa popolare, dove viveva la grande massa della popolazione. Le insulae erano sorte nel IV sec. a.C., in stridente contrasto con le splendide abitazioni signorili (Domus), dall'esigenza di offrire alloggio, entro il ristretto territorio dell'Urbe (Urbs), ad una popolazione in continuo aumento; esse, come gli attuali condomini, spaziando in altezza arrivavano a raggiungere, nel periodo imperiale, il sesto piano (e oltre), quasi come antichi grattacieli. Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Torelli, L'arte dell'antichità classica, Etruria-Roma, Utet, Torino 1976.

26

Gli horrea erano magazzini utilizzati per il deposito merci, assolvevano funzioni di primissimo piano nell’economia romana tardo repubblicana ed imperiale, i loro titolari gli horreari erano imprenditori dotati di un personale la cui attività principale consisteva nel concludere contratti con i terzi aventi ad oggetto la locazione dei vari magazzini e fornire un servizio di sorveglianza dello stesso. A. Petrucci, Per una storia della protezione dei contraenti con l’imprenditore I, Torino, 2007. 239.

27

Le officinae sono generalmente stabilimenti industriali, laboratori per la produzione artigianale, le fonti ci parlano di officinae textoriae, fabbriche tessili e officinae ferrariae, fabbriche metallurgiche. Per un approfondimento vedi Cerami, Di Porto, Petrucci, Diritto commerciale

romano, cit.,18, 71 s.

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CAPITOLO SECONDO

2.1. La preposizione institoria

L’azione institoria, dunque, consentiva ai terzi, che avessero contrattato con l’institore nell’ambito della preposizione (praepositio), di far valere una responsabilità per l’intero (in solidum) del preponente per le obbligazioni contrattuali rimaste inadempiute; presupposto per tale tipo di azione era quindi che l’impresa non fosse esercitata direttamente dall’imprenditore, ma ne fosse affidata la conduzione, tramite praepositio institoria, ad un suo rappresentante in potestà. La praepositio quale atto di conferimento dei poteri di gestione, con cui si autorizzava il compimento di tutta l’attività contrattuale inerente all’esercizio dell’impresa, era, al contempo, fondamento e limite della responsabilità del preponente. In quest’ottica la praepositio:

a) stabilisce l’ambito dell’attività negoziale del preposto, e quindi della responsabilità del preponente;

b) fissa in un certo senso, le condizioni generali alle quali debbono essere improntati i rapporti contrattuali fra preposto e terzi: infatti, la responsabilità dell’imprenditore sussiste, se il contratto concluso rientra nella praepositio, è questo il senso dell’affermazione ulpianea: certa legem dat contraentibus,29 proprio

perché la sua funzione è quella di fissare l’ambito, le condizioni ed i limiti del contrahere fra preposto e terzi.

2.2. Il contenuto della praepositio

Vediamo ora che cosa può fare l’institore in base alla praepositio. Ulpiano in D.14.3.5.11 afferma:

Non tamen omne, quod cum institore geritur, obligat eum qui praeposuit, sed ita, si eius rei gratia, cui praepositus fuerit, contractum est, id est dumtaxat id ad quod eum praeposuit [Tuttavia non tutto ciò, che si conclude con un institore, obbliga chi lo ha preposto, ma è così, se si è contratto nell’ambito di ciò per cui è stato preposto, vale a dire solo per quanto lo ha preposto].

29

D.14.1.1.12. Miceli, Institor e procurator nelle fonti romane dell’età preclassica e classica in IURA 53, 2002 (edito 2005).

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ed ancora nelle Istituzioni di Gaio 4.71si osserva:

Institoria vero formula tum locum habet…et quid cum eo eius rei gratia cui praepositus est contractum fuerit

[L’ azione institoria poi si applica… quando si sia concluso un contratto con lui -institore- nell’ambito di ciò per cui è stato preposto.

È proprio questo un altro aspetto importante, il contenuto dell’atto di preposizione: quale atto interno tra imprenditore ed il suo rappresentante contiene tutti i poteri a lui conferiti per l’esercizio dell’impresa, una vera e propria autorizzazione al compimento di tutta l’attività contrattuale inerente l’esercizio della stessa. Ad esempio: se un imprenditore prepone un institore conferendogli il potere di gestione di una banca, il terzo che effettua un deposito conclude un contratto rientrante nei poteri di un’amministrazione “bancaria”; lo stesso non si potrebbe dire se il terzo effettuasse una locazione, mancando la corrispondenza con l’atto di preposizione.

Secondo quanto spiega Miceli30 la praepositio costituiva solo l’atto di legittimazione iniziale del preposto nei confronti dei terzi, individuando solo genericamente l’attività che era chiamato a svolgere; al fine di stabilire la responsabilità del preponente l’oggetto della verifica doveva essere l’attività effettivamente e concretamente svolta dal preposto e non solo quella inizialmente identificata dalla praepositio.

Un testo descrittivo della possibile articolazione interna dell’atto di preposizione è quello di Ulpiano 28 ad.ed. in D.14.3.11.5:

Condicio autem praepositionis servanda est: quid enim si certa lege vel interventu cuiusdam personae vel sub pignore voluit cum eo contrahi vel ad certam rem? Aequissimum erit id servari, in quo praepositus est. Item si qui plures habuit institores vel cum omnibus simul contrahi voluit vel cum uno solo. Sed et si denuntiavit cui, ne cum eo contraheret, non debet institoria teneri: nam et certam personam possumus prohibere contrahere vel certum genus hominum vel negotiatorum, vel certis hominibus permittere. [Si devono poi osservare le condizioni della preposizione: che succede infatti se - il preponente- ha voluto che si contraesse con lui - l’institore- inserendo una determinata clausola o con l’intervento di una qualche persona o mediante pegno o con riferimento ad una determinata cosa? Sarà molto equo che sia osservato ciò per il quale è stato preposto. Parimenti, se qualcuno ha avuto più institori ad ha voluto che si contraesse con tutti insieme o con uno solo. Ma, anche se ha intimato a qualcuno di non contrarre

30

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con lui- l’institore- - il preponente- non deve essere tenuto in base all’azione institoria: infatti, possiamo proibire di contrarre ad una determinata persona o ad un certo genere di uomini o di imprenditori, oppure permetterlo a determinate persone].

I terzi, nell’attività contrattuale con l’institore, erano vincolati a quanto stabilito nella praepositio dall’imprenditore preponente (Condicio autem praepositionis servanda est), il quale poteva anche non limitarsi ad individuare genericamente le attività da svolgere, ma prevederle in modo dettagliato e preciso, indicando una o più clausole da includere nei singoli contratti relativi all’esercizio dell’impresa. Ulpiano prevede una serie di tipologie di esse:

a) l’inserimento di una certa lex: quid enim si certa lege;

b) l’intervento di garanti personali o l’assunzione di garanzie reali: quid enim-interventu cuiusdam personae vel sub pignore voluit cum eo contrahi;

c) la limitazione ad un certo oggetto: quid enim- ad certam rem.

La loro osservanza è imposta ai contraenti in quanto ritenuta conforme ad equità (Aequissimum erit id servari, in quo praepositus est) e pienamente ammessa.

Le clausole a),b),c) potevano essere più o meno ampie ed è il preponente che, ne definiva i confini, potendo anche escluderle del tutto.

Nel testo ulpianeo si avanzano, poi, due ipotesi di come poteva articolarsi, in concreto, il contenuto della preposizione:

d) la nomina di più institori con compiti diversi, che potevano contrarre congiuntamente (tutti insieme) oppure disgiuntamente;

e) il divieto di concludere contratti con l’institore a carico di certe persone o categorie di persone o negotiatores oppure, al contrario, il permesso di farlo solo per determinate persone: ad esempio, nel primo caso si sarebbero potuti comprendere soggetti dichiarati insolventi, mentre, nel secondo, i soli membri dell’ordine equestre, una categoria che dava una maggiore “garanzia” per l’imprenditore-preponente. Costui aveva, quindi, piena libertà nello stabilire e modificare le condizioni contrattuali e l’esercizio dei poteri, che riguardava la gestione dell’impresa: infatti, laddove dette clausole non fossero state rispettate dai terzi contraenti, essi vedevano venir meno la tutela della actio institoria nei confronti dell’imprenditore.

2.3. Limite alla libertà del preponente

Tale libertà incontra però un limite invalicabile espresso nella parte conclusiva del brano di D.14.3.11.5, la buona fede oggettiva dei contraenti:

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Sed si alias cum alio contrahi vetuit continua variatione, danda est omnibus adversus eum actio: neque enim decipi debent contrahentes

[Ma se, con una continua variazione si vieta di contrarre alcune volte con uno, altre volte con l’ altro, si deve dare a tutti- i contraenti- l’azione contro di lui- il preponente-: non si devono, infatti, ingannare i contraenti].

Qualora una continua variazione di divieti e permessi di concludere contratti con l’institore avesse creato una situazione di incertezza circa i suoi poteri, i contraenti avrebbero ugualmente trovato tutela attraverso l’azione institoria contro il preponente, in quanto non andavano ingannati i contraenti e la situazione di confusione circa i poteri conferiti all’institore avrebbe potuto proprio configurarsi come lesione del loro affidamento, che prevaleva sul potere dell’imprenditore di predisporre unilateralmente le clausole contrattuali ed in generale la praepositio. Si tratta di un’ulteriore prova della sensibilità dei giuristi dell’epoca verso la posizione, nettamente inferiore, dei contraenti cd. contraenti deboli.

2.4. Criteri di pubblicità: dovere di correttezza ed informazione a carico dell’imprenditore

La preposizione pur essendo atto interno tra le parti (imprenditore-institore), ai fini della tutela dei terzi, richiedeva forme di pubblicità affinché i suoi contenuti fossero conoscibili all’esterno ed i contraenti avessero la possibilità di esserne informati. Esistevano dei veri e propri criteri di pubblicità cui l’imprenditore doveva attenersi: si effettuava un’affissione in pubblico, la proscriptio (pro-scribere: scrivere davanti) a chiare lettere (claris litteris), in modo da potersi leggere, davanti al locale commerciale o nel luogo dove si esercitava l’impresa (unde de plano recte legi possit, ante tabernam scilicet vel ante eum locum in quo negotiatio exercetur) o comunque in un luogo ove tutti lo avrebbero potuto vedere (non in loco remoto, sed in evidenti); così Ulpiano, 28 ad ed. in D.14.3.11.3, specifica chiaramente l’onere che incombe sull’esercente di un’attività commerciale di provvedere all’adeguata pubblicizzazione di una eventuale praepositio:

Proscribere palam sic accipimus claris litteris, unde de plano recte legi possit, ante tabernam scilicet vel ante eum locum in quo negotiatio exercetur, non in loco remoto, sed in evidenti. Litteris utrum Graeci an Latinis? Puto secundum loci condicionem, ne quis causari possit ignorantiam litterarum. Certe si quis dicat ignorasse se litteras vel non observasse quod propositum erat, cum multi legerent cumque palam esset propositum, non audietur. [Affiggere in pubblico lo intendiamo così: a chiare lettere, in modo che subito si possa leggere correttamente, certo davanti al locale commerciale o quel luogo nel quale si

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esercita l’impresa, non in un luogo nascosto, ma evidente. In lingua greca o latina? Reputo secondo la condizione del luogo, affinchè nessuno possa addurre come pretesto l’ignoranza della lingua. Certamente, se qualcuno dica di non saper leggere o di non aver osservato ciò che era stato affisso, mentre molti lo leggevano o era stato affisso in pubblico, non sarà ascoltato].

L’esigenza di pubblicità è tale che si pone il problema della lingua da utilizzare, se greca o latina. La lingua del luogo avrebbe consentito a tutti gli abitanti di comprenderla (questo riferimento rivela, ancora una volta, la sensibilità per la tutela dei contraenti che dovevano essere messi in grado di comprendere i poteri gestionali dell’institore. Di conseguenza, rispettati tali requisiti, non avrebbero trovato ascolto eventuali doglianze di chi avesse sostenuto di non saper leggere oppure non avesse osservato il contenuto di quanto affisso. Ancora Ulpiano nel paragrafo successivo afferma:

Proscriptum autem perpetuo esse oportet: ceterum si per id temporis, quo propositum non erat, vel obscurata proscriptione contractum sit, institoria locum habebit. Proinde si dominus quidem mercis proscripsisset, alius autem sustulit aut vetustate vel pluvia vel quo simili contingit, ne proscriptum esset vel non pareret, dicendum eum praeposuit teneri. Sed si ipse institor decipiendi mei causa detraxit, dolus ipsius praeponenti nocere debet, nisi partecieps doli fuerit qui contraxit. D.14.3.11.4

[è necessario che quanto affisso pubblicamente lo sia in modo permanente: d’altra parte, se si sia concluso il contratto durante quel tempo, in cui non era affisso o l’affissione era stata oscurata, si applicherà l’azione institoria. Perciò, se il titolare dell’impresa avesse compiuto l’affissione ed un altro l’ha tolta, oppure accade che per vetustà o per pioggia o per qualcosa di simile -quanto scritto- non sia più affisso o non appaia più, si deve dire che chi ha preposto è tenuto. Ma, se lo stesso institore lo ha sottratto per ingannarmi, il suo dolo deve nuocere al preponente, a meno che chi ha concluso il contratto-terzo contraente-non sia stato partecipe del dolo].

La pubblicità della proscriptio doveva essere permanente (proscriptum autem perpetuo esse oportet), non destinata a durare per poche ore o giorni, per cui, ove i terzi avessero contratto con l’institore in un momento in cui questa non era affissa o era oscurata (ceterum si per id temporis- contractum sit), ad essi era comunque concessa l’actio institoria contro il preponente (institoria locum habebit). E se quest’ultimo, in quanto titolare del capitale commerciale, avesse effettuato l’affissione, ma un altro l’avesse tolta (si dominus - alius autem sustulit) oppure per pioggia, vetustà o altre cause simili l’affissione non vi fosse più o non si vedesse (aut vetustade vel pluvia- non pareret), anche

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in tali evenienze si poteva far ricorso all’actio institoria contro di lui (dicendum eum praeposuit teneri). Inoltre, nel caso in cui fosse stato lo stesso institore a sottrarre l’affissione per ingannare un contraente (Sed si ipse institor decipiendi mei causa detraxit) il suo dolo nuoceva al preponente, a meno che il contraente medesimo non ne fosse stato partecipe (dolus ipsius-qui contraxit)31. L’analisi di questi paragrafi ci permette di individuare i requisiti pubblicitari agli inizi del III secolo d.C.: l’affissione doveva essere chiara e leggibile, in un idioma conosciuto dagli abitanti del luogo dove era esercitata l’impresa e la collocazione ben visibile a tutti i possibili contraenti; l’osservanza di questi requisiti era l’unica maniera con cui l’imprenditore preponente riusciva ad esonerarsi da responsabilità, senza che fossero adducibili quali cause di giustificazione il proprio analfabetismo o ignoranza della lingua oppure non aver prestato attenzione all’affissione ed al suo contenuto. Le conseguenze del mancato adempimento di detti requisiti erano alquanto gravi: veniva concessa l’azione institoria ai terzi contraenti tutte le volte che fossero stati impossibilitati a prendere visione del contenuto della proscriptio, anche in via temporanea, per cause imputabili al preponente oppure all’institore: tra le prime si fanno rientrare l’assenza o l’oscuramento dell’ affissione, la sua illeggibilità per il trascorrere del tempo, agenti atmosferici ed altre cause simili ed anche la sottrazione da parte di un terzo; tra le seconde la sottrazione intenzionale dell’avviso con il fine di ingannare la controparte, a meno che essa non fosse stata partecipe del dolo32. In presenza di tutti questi eventi, era possibile far valere la responsabilità in solidum dell’imprenditore per le obbligazioni contrattuali non adempiute.

Citando l’orientamento di Petrucci, ribadita in vari scritti33, queste fonti ci permettono di affermare con sicurezza che la responsabilità del preponente discende dalla semplice mancanza di conoscibilità da parte dei terzi contraenti del contenuto della preposizione, a prescindere che ciò dipenda dal preponente stesso (per suo atteggiamento doloso o colposo oppure da un fatto altrui, come è il caso della sottrazione della proscriptio) o dal suo institore (nel caso di dolo dello stesso, salvo collusione tra quest’ultimo ed il terzo) o addirittura a prescindere dal conferimento di poteri relativi alla stessa, cioè anche quando il contratto avesse esulato dalla preposizione; si profila così una responsabilità di tipo “oggettivo” a carico dell’imprenditore preponente, che discende da un “rischio di impresa” inteso come rischio collegato all’esercizio di un’attività imprenditoriale, per il

31 La possibile alterazione formale di quest’ultima frase, rilevata in dottrina, non incide sulla

genuinità sostanziale del contenuto. Petrucci, Per una storia, cit., 29.

32 Questa ipotesi si avvicina alla cd. culpa in eligendo tipica dell’imprenditore che si assume il

rischio di impresa avendo scelto una persona inidonea alla gestione di impresa.

33

Petrucci, Per una storia, cit. 21s, e, Ulteriori osservazioni sulla protezione dei contraenti con gli

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solo fatto di aver concluso un contratto con l’institore. La violazione del dovere di informazione e la conseguente ignoranza del terzo contraente, qualificando una responsabilità “oggettiva” dell’imprenditore configurano, alla luce del diritto moderno, una forma di responsabilità precontrattuale in riferimento ai contratti che si sarebbero potuti concludere con l’institore; la responsabilità precontrattuale indica, infatti, la responsabilità per la lesione dell'altrui libertà negoziale realizzata mediante un comportamento doloso o colposo o più in generale, a seguito della violazione del principio di buona fede34. Obblighi tipici di quest’ultima, nella fase precontrattuale, sono, sotto il profilo della lealtà, gli obblighi di informazione, chiarezza e riservatezza e, sotto il profilo della tutela degli interessi dell'altra parte, l'obbligo del compimento degli atti necessari per garantire la validità ed efficacia del contratto.

2.4.1. Un’ipotesi di non preposizione

Un ultimo caso, in riferimento alla funzione della pubblicità della praepositio, ci è descritto nuovamente da Ulpiano 28 ad ed. in D.14.3.11.2:

De quo palam proscriptum fuerit, ne cum eo contrahatur, is praepositi loco non habetur: non enim permittendum erit cum institore contrahere, sed si quis nolit contrahi, prohibeat:ceterum qui praeposuit tenebitur ipsa praepositione

[Colui, nei confronti del quale sia stato affisso in pubblico di non contrarre, non si considera nella situazione di preposto: con l’institore non dovrà essere permesso di concludere contratti, ma, se qualcuno non vuole che si contragga con lui, glielo deve proibire; in caso contrario, chi ha preposto sarà tenuto in base alla stessa preposizione]. La domanda che si sono posti i giuristi dell’epoca è: se fuori dall’impresa l’imprenditore affigge un avviso con scritto che non è possibile concludere attività con chi lavora al suo interno, si è presenza di una preposizione institoria? Ulpiano ci risponde chiaramente di no, in quanto, questo tipo di avviso non significa preporre qualcuno, che non assume, quindi, il ruolo di institore. La preposizione institoria non è infatti diretta ad autorizzare i terzi a contrarre con l’institore, bensì eventualmente a vietare a certe persone di farlo, qualora il preponente non lo voglia (non enim permittendum- prohibeat); in altre parole, la

34

Il Codice civile, all’art. 1337 disciplina tale responsabilità stabilendo l'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. Il legislatore prevede, inoltre, la responsabilità della parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte, in tal caso il responsabile è tenuto a risarcire il danno che l'altra parte ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto. Commentario al Codice Civile di G.Cian e A.Trabucchi, CEDAM, Padova, 2010.

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preposizione legittima automaticamente il preposto a compiere le attività contrattuali inerenti alla stessa: il compimento della preposizione implica infatti come conseguenza che i terzi possano concludere singoli contratti per le prestazioni fornite dall’impresa, senza necessità di espliciti permessi da parte dell’ imprenditore medesimo; l’unico elemento, che poteva caratterizzare la preposizione era una possibile limitazione della stessa: cioè la preposizione, vincolando di per se stessa l’imprenditore ed il suo institore, poteva solo prevedere dei limiti all’esercizio delle funzioni institorie e le relative disposizioni sono da porre nelle “clausole della preposizione”, come ci dimostra il testo di Ulpiano precedentemente analizzato (28 ad ed. in D.14.3.11.5) con riferimento alla clausola indicata e). Importante l’ultimo inciso, che sottolinea nuovamente la funzione di fondamento e limite della praepositio per chi ha preposto: mancando una espressa proibizione, il preponente è tenuto in forza della preposizione stessa.

L’elaborazione di tali disposizioni in tema di pubblicità della preposizione institoria appare chiaramente ed indubbiamente ispirata a principi che, con terminologia moderna, potremmo definire di trasparenza, informazione, correttezza, posti alla base di ampi settori della legislazione moderna in tema di contrattazione di massa con le imprese35. 2.4.2. Un altro caso di dovere di informazione: l’imprenditore preponente

venaliciarius, il commercio di schiavi

In un’età dominata da una struttura economica prevalentemente schiavistica, il commercio di servi regolava l’intero mercato delle forze lavoro in qualunque settore dell’economia36. In una società di questo tipo, chiunque intendeva procurarsi la manodopera adatta alle proprie esigenze, doveva rivolgersi ai venaliciarii: i commercianti di schiavi. Da numerose fonti apprendiamo che il commercio di schiavi configurava un’attività imprenditoriale a tutti gli effetti, la negotiatio venaliciaria disponeva di una propria azienda che poteva organizzarsi sulla base della pluralità di modelli: nella forma collettiva, o nella forma individuale attraverso la gestione diretta o con la praepositio di un institore; in questo secondo modello, come è ovvio ogni qual volta si parla di praepositio institoria, il rimedio giuridico utilizzato fu l’actio institoria, che si affianca alle azioni introdotte dagli edili curuli nella propria iurisdictio: i pubblici mercati ove si svolgevano le compravendite di schiavi.

Anche in questo settore si configura quella responsabilità oggettiva precontrattuale data dal dovere di informazione che obbliga l’imprenditore verso i terzi, in questo caso gli

35 Petrucci, Per una storia, cit.,31.

36 Si è calcolato, in base a dati epigrafici, sia pure in termini approssimativi, che in età imperiale

schiavi e liberti dovevano costituire circa 2/3 di tutte le forze lavorative della penisola italica. Cerami, Di Porto, Petrucci, Diritto commerciale, cit.,63.

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acquirenti del servus, Ulpiano, in D.21.1.1.1, nel commento all’editto degli edili curuli, afferma:

Aiunt aediles: “Qui mancipia vendunt certiores faciant emptores, quid morbi vitiive cuique sit, quis fugitivus errove sit noxave solutus non sit, eademque omnia palam recte pronuntianto…”

[Affermano gli edili: “Coloro che vendono schiavi informino i compratori su quale morbo o vizio ciascuno abbia, quale sia fuggitivo, vagabondo o non libero da una responsabilità nossale”].

Il venaliciarius doveva dunque informare i clienti delle caratteristiche degli schiavi venduti, comunicando la presenza di elementi pregiudizievoli, vitia, morbi e la loro eventuale condizione di fugitivi, errones o autori di un delitto (i cd. vitia animi), assicurando a livello oggettivo una loro condizione di media bontà37. In mancanza l’acquirente era protetto dall’actio redhibitoria ed in seguito anche dall’actio quanti minoris38.

* * * * *

L’intera disciplina della praepositio ci consente di giungere ad alcune conclusioni:

La praepositivo, quale atto di conferimento dei poteri di gestione, con cui si autorizzava il compimento di tutta l’attività contrattuale inerente all’esercizio dell’impresa era, al contempo, fondamento e limite della responsabilità del preponente.

 L’imprenditore preponente era libero di predisporre unilateralmente eventuali condizioni generali cui andava uniformata la contrattazione svolta con i terzi.  L’esistenza di tali condizioni doveva essere resa conoscibile a questi ultimi

attraverso un regime di pubblicità.

37 Donadio, La tutela del compratore tra actiones aediliciae e actio empti, Milano, 1994. 163.

38Rimedi tipici da esperire contro il venaliciarius: la prima permette la risoluzione del contratto di

vendita attraverso la restituzione dello schiavo e relativa restituzione del prezzo pagato. La seconda, non risolve il contratto, ma permette di ottenere la restituzione di una differenza di prezzo pari al difetto, alla diminuzione del valore.

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 L’imprenditore preponente poteva in seguito modificarle, a meno che la loro continua variazione non si risolvesse in un inganno per i terzi contraenti, perché in questo caso era esperibile contro di lui l’azione institoria, che comportava a suo carico una responsabilità illimitata (in solidum).

La praepositio individua solo genericamente l’ambito dell’attività svolta dal preposto, che invece si concretizza e specifica durante l’esercizio dell’incarico e in base alle concrete e, spesso, imprevedibili, esigenze dell’attività stessa.

Perché possa configurarsi tecnicamente una praepositio non basta che ricorrano tali singoli elementi, ma devono ricorrere tutti contestualmente.

2.5. Il luogo dove esercitare le attività insite nella preposizione institoria

Per completare il quadro degli effetti della preposizione institoria nei confronti dei terzi, Ulpiano in D.5.1.19.3 ci fa vedere l’importanza del luogo dove esercitava l’impresa ai fini della tutela approntata dall’actio institoria:

Apud Labeonem quaeritur, si homo provincialis servum institorem vendendarum mercium gratia Romae habeat: quod cum eo servo contractum est, ita habendum atque si cum domino contractum sit: quare ibi se debebit defendere

[In Labeone si pone la questione del luogo dove esercitare l’azione institoria, se un provinciale abbia uno schiavo come institore a Roma per vendere merci, ciò che si è contratto con quello schiavo va inteso come se si fosse contratto con il padrone, e pertanto quest’ultimo dovrà difendersi lì].

Labeone affronta il caso di un preponente provinciale che aveva uno schiavo institore a Roma incaricato di gestire un’impresa commerciale di vendita di merci (Apud Labeonem- Romae habeat); laddove l’institore fosse inadempiente, il terzo potrà esercitare l’azione institoria contro il provinciale preponente a Roma e lì il preponente stesso dovrà difendersi (quare ibi se debebit defendere); la soluzione è quella di considerare come concluso con il preponente il contratto posto in essere con l’institore (quod cum eo servo contractum est- cum domino contractum sit), riconoscendo in quest’ultimo un vero rappresentante diretto dell’imprenditore. Questo passo esprime la regola per cui questa azione andava intentata nel luogo di esercizio dell’impresa, salvo diversa pattuizione, per cui, qualora il contraente lo avesse preferito, avrebbe potuto rivolgersi contro l’imprenditore dove questi risiedeva (questa regola vale per qualsiasi tipo di impresa: banche, magazzini, officine).

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