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Lavorare con le famiglie negligenti: quando le fragilità diventano risorse

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

Corso di Laurea Magistrale in Sociologia e Management dei Servizi Sociali Classe LM - 87

LAVORARE CON LE FAMIGLIE NEGLIGENTI: QUANDO LE

FRAGILITA’ DIVENTANO RISORSE

Relatore: Ch.mo Prof. Gabriele Tomei

Candidato: Giulia Manganelli

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1

INDICE

Introduzione 4

PARTE PRIMA

1. Famiglia e minori: dalla vulnerabilità alla negligenza 8

1.1. Che cos’è la famiglia 8

1.1.1. Il ruolo primario della famiglia 10

1.1.2. Cambiamento della concezione di famiglia nel corso degli anni 15

1.1.3. Le nuove famiglie 17

1.2. Le vulnerabilità delle famiglie 22

1.3. Il disagio familiare e l’intervento dei Servizi Sociali 26

PARTE SECONDA

2. Quando la rete familiare non funziona più: interventi messi in atto per

cercare di riabilitarla

32

2.1. Le reti sociali 32

2.1.1. L’importanza della comunità 36

2.1.2. Il modello bio-ecologico dello sviluppo umano 38

2.1.3. Il modello della resilienza 41

2.2. Le disfunzioni della rete familiare 49

2.2.1. Maltrattamento e abuso infantile 51

2.3. I diritti dei minori e la loro tutela 59

2.3.1. I principali attori istituzionali della tutela minori 64

2.3.2. Interventi e servizi specifici per la tutela dei minori 68

2.4. Programma P.I.P.P.I.: un approccio innovativo con la famiglia 73

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2

2.4.2. Chi c’è in P.I.P.P.I.? I soggetti 90

2.4.3. Dove si realizza l’azione? I contesti 93

2.5. Dopo 6 anni di P.I.P.P.I.: punti fermi e questioni irrisolte 100

PARTE TERZA

3. Le famiglie spezzine: conoscere e agire in un territorio che cambia 111

3.1. Premessa 111

3.2. L’Osservatorio del Cambiamento Sociale come strumento di costruzione collaborativa di conoscenze e competenze

112

3.2.1. Com’è nato l’Osservatorio 116

3.2.2. Gli obiettivi dell’Osservatorio del Cambiamento Sociale 118

3.3. Le famiglie che cambiano: le ragioni per riflettere su di esse 120

3.3.1. I dati delle famiglie del Distretto Socio-Sanitario 18 120

3.3.2. La trasformazione e la crisi delle famiglie spezzine 123

3.4. Il Programma P.I.P.P.I. nel Comune della Spezia 126

3.4.1. Dispositivi di protezione dell’infanzia in P.I.P.P.I. 130

3.4.2. Inserimento di minori in strutture residenziali nel Comune della Spezia 133 Considerazioni conclusive 136 Ringraziamenti 139 Bibliografia 140 Sitografia 150

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3 "Ecco il mio segreto. È molto semplice: si vede solo con il cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi". Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry

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4

INTRODUZIONE

“Guardò fuori dalla finestra per pensare, perché senza una finestra non riusciva a riflettere. O forse era il contrario: bastava una finestra perché automaticamente

cominciasse a pensare. Poi scrisse: “Da grande diventerò felice”.

Kuijer Guus

Ho scelto di affrontare questo tema da quando ho intrapreso il tirocinio universitario presso i Servizi Sociali del Comune della Spezia, nell’Unità Organizzativa Tutela Minori e Genitorialità. Affiancata dalla responsabile dell’Unità, sono potuta entrare in contatto con una realtà che difficilmente viene celata all’esterno, eccetto per qualche caso di cronaca, in cui si prende purtroppo coscienza che il mondo non è così idilliaco come vogliono farci pensare, o come noi stessi vogliamo rappresentarcelo: il maltrattamento sui minori.

All’interno di questo servizio ogni giorno si convive con la consapevolezza che le famiglie che vi sono in carico, potrebbero costituire un potenziale pericolo per i minori che ne fanno parte, invece che rappresentare un luogo di protezione in cui essi potrebbero rifugiarsi nei momenti di difficoltà. Pertanto, il delicato e difficile compito delle Assistenti Sociali che lavorano all’interno di questa unità è proprio quello di proteggere il minore, tutelarlo da possibili pericoli. E come possono fare ciò? Ovviamente come prima cosa dovranno valutare la situazione famigliare nel suo complesso, delineandone i fattori di rischio e di protezione; nel caso in cui prevalgano i primi dovranno inviare una relazione al Tribunale dei Minori, che eventualmente emetterà un provvedimento con il quale si procederà all’allontanamento del minore dalla famiglia di origine, per un tempo limitato oppure permanente. Su questo punto, a mio avviso, è necessario fare chiarezza, poiché il ruolo dell’Assistente Sociale nell’immaginario collettivo è sempre visto negativamente, come colei o colui che “ruba i bambini”. Quante volte ho sentito pronunciare questa frase! Sia in televisione che dal vivo. Le persone molto spesso non sono a conoscenza dei procedimenti burocratici e legali che stanno dietro al lavoro dell’Assistente Sociale, per cui vedono in lei l’unica responsabile della decisione di “strappare” il bambino alla sua famiglia, alla madre in particolare. Quello che trascurano però è cercare di capire perché, il motivo che ha

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5 portato a questa decisione drastica. Innanzitutto bisogna sapere che l’Assistente Sociale che lavora nella Tutela Minori non è altro che uno “strumento” nelle mani del Tribunale dei Minori e del suo apparato giudiziario: alla Procura della Repubblica c/o il Tribunale dei Minori pervengono segnalazioni di maltrattamento, abuso o anche solo di incuria di minori da parte della sua famiglia. E’ compito del Procuratore pertanto girare tali segnalazioni al Servizio Sociale referente del territorio, delegando alle Assistenti Sociali l’incarico di indagare sulla veridicità della segnalazione e di relazionare su quanto si è visto. Dopodiché, sulla base di queste relazioni, la Procura deciderà se archiviare il tutto, oppure proseguire con l’indagine, aprendo un fascicolo e passando il caso al Tribunale dei Minori, il quale emetterà con una sentenza un provvedimento, che farà pervenire alle Assistenti Sociali del territorio che lo dovranno eseguire. Tale provvedimento può essere più o meno punitivo nei confronti della famiglia: potrebbe, ad esempio, contenere una presa in carico ed un monitoraggio costante della famiglia, affiancandola e supportandola adeguatamente, finché possa proseguire autonomamente nella cura del minore, oppure, nei casi più urgenti e critici, emettere un provvedimento di allontanamento del minore dalla famiglia e un suo conseguente collocamento in una famiglia affidataria, o in una comunità. Questo però è a discrezione solo dei magistrati del Tribunale dei Minori (TM): l’Assistente Sociale pertanto, è obbligata ad ottemperare a tali provvedimenti, non può esimersi da fare ciò.

Durante il tirocinio, ho assistito all’organizzazione di due allontanamenti: è un momento molto delicato, in cui è necessario rimanere lucidi e organizzare il tutto nei minimi dettagli, cercando di non tralasciare nulla. Le emozioni in gioco sono tante e le Assistenti Sociali devono essere in grado di saperle gestire per mantenere la calma e i nervi saldi nel momento in cui dovranno allontanare il bambino. Si tratta di una fase molto delicata in cui il minore può essere soggetto ad una devastazione emotiva e ad una concatenazione di eventi traumatici. Inoltre, la famiglia, se presente al momento dell’allontanamento, può essere di ostacolo al corretto svolgimento dell’azione, per cui è necessario prendere tutte le precauzioni possibili, affinché l’allontanamento avvenga nella maniera meno traumatica e drastica possibile. Tutto questo, come abbiamo detto, è vissuto intensamente dal bambino, ma anche dagli operatori, che comunque si portano dietro questa esperienza molto forte con la quale dovranno convivere. L’allontanamento rende ancora più difficoltoso lavorare con la famiglia per cercare di reinserire, in un secondo tempo, il minore nel nucleo (ovviamente nei casi in cui l’allontanamento sia

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6 solo temporaneo e non definitivo: in questi ultimi casi, infatti, si apre la procedura di adottabilità), perché la famiglia potrebbe dimostrarsi poco collaborativa e chiudersi nella presunzione di avere subito un torto ingiusto, non volendo capire, o non volendo ammettere, gli errori commessi che hanno portato a questo epilogo.

Partendo da questi presupposti, ho cominciato a pormi delle domande: come mai si arriva a ciò? Perché non si può cercare di prevenire (dove possibile ovviamente) il trauma dell’allontanamento? I Servizi potrebbero individuare le famiglie che potenzialmente sarebbero in grado di farcela da sole, ma che stanno attraversando un momento di difficoltà? E se sì, come poterle aiutare per evitare di allontanare, anche solo temporaneamente, il minore? Ma, soprattutto, è possibile fare ciò? Si possono effettivamente prevenire gli allontanamenti?

Non so se si riuscirà a dare una risposta esauriente a queste domande, ma sicuramente tali questioni se le sono poste anche gli Enti Locali, compreso quello in cui ho svolto il tirocinio. Questo perché, innanzitutto gli allontanamenti continuano ad aumentare, in particolare in Liguria (sede del mio tirocinio), e ciò comporta anche un aumento esponenziale dei costi che l’Ente Locale fa fatica a supportare. Per tutti questi motivi l’Ente ha incominciato ad avvicinarsi a nuove linee programmatiche Ministeriali. In particolare, al programma P.I.P.P.I. (Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione), il quale ha come obiettivo la riduzione del rischio di maltrattamento e il conseguente allontanamento dei bambini dal nucleo familiare di origine. Il Programma si focalizza fondamentalmente sulla partecipazione attiva della famiglia, operatori con le famiglie e non per le famiglie. La presa in carico multidisciplinare si orienta verso un intervento massivo di home visiting indirizzando lo sguardo verso quello che c’è e non verso quello che non c’è.

La mia tesi pertanto, ruota attorno a questo Programma, proprio perché il mio obiettivo è quello di far conoscere le nuove modalità con cui gli Enti pubblici cercano di muoversi, sia livello nazionale, ma anche a livello locale, cercando appunto di mettere in primo piano la famiglia con i suoi bisogni, limitando gli interventi putativi della genitorialità, ai soli casi in cui non vi sono le condizioni per agire diversamente.

Inizierò il mio lavoro delineando, nel primo capitolo, il ruolo della famiglia e il suo cambiamento avvenuto nel corso degli anni. Mi concentrerò poi sulle vulnerabilità che presenta, le quali possono dare luogo ad un disagio famigliare che necessita, in alcuni casi, dell’intervento dei Servizi Sociali.

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7 Nel secondo capitolo proseguirò con la descrizione delle famiglie problematiche, in cui manca una rete famigliare adeguata per il supporto dei suoi componenti, delineandone le sue disfunzioni, che possono sfociare in abuso e maltrattamento sui minori; da questo punto comincerò ad introdurre le normative che tutelano i diritti dei minori e gli attori istituzionali presenti per garantire tali tutele, arrivando proprio a descrivere il Programma P.I.P.P.I. nelle sue caratteristiche principali, illustrandolo a livello nazionale, presentando anche i suoi punti di forza e di criticità. Infine, nel terzo ed ultimo capitolo, la mia attenzione si focalizzerà sul contesto locale, delineando le caratteristiche delle famiglie che si trovano nel territorio spezzino, in cui lavorano i Servizi Sociali presso i quali ho svolto il tirocinio; analizzerò poi i dati delle famiglie che sono stati individuate per il Programma P.I.P.P.I., concludendo con un report sugli inserimenti dei minori nelle strutture residenziali in questi ultimi anni.

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PARTE PRIMA

1. Famiglia e minori: dalla vulnerabilità alla negligenza

“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”

Lev Tolstoj

“Ogni famiglia ha un segreto, e il segreto è che non è come le altre famiglie”

Alan Bennet

1.1. Che cos’è la famiglia

“Il termine famiglia nel suo significato può apparire ovvio, ma se si osserva il cambiamento delle forme familiari lungo la storia appare chiaro quanto sia complesso definire l’identità della famiglia”(Gambini, 2007, p.41).

Esiste un legame molto stretto tra famiglia e società, tanto che la prima modifica le sue strutture in conseguenza dei cambiamenti socioculturali del contesto in cui è inserita (Gambini, 2007). Nella nostra società, la famiglia è una realtà complessa, in rapida evoluzione e con molteplici sfaccettature: in sociologia da sempre sono stati condotti studi (teorie classiche, ricerche storiche e antropologiche, studi demografici) sulla famiglia, per cercare di analizzare e fornire spiegazioni su di essa (ad esempio da sociologi come Pierpaolo Donati e Chiara Saraceno).

Volendo però partire da una definizione minimale di famiglia, si può dire che essa è un insieme di persone legate da vincoli di affinità (marito e moglie), parentela (genitori e figli) e consanguineità (fratelli), che vivono sotto lo stesso tetto, intrattengono relazioni affettive coinvolgenti e gratificanti, curano e proteggono i figli, cooperano alla conduzione della casa e al reciproco sostentamento (Clemente, Danieli, 2005). Per la Saraceno (2013) invece, non è così semplice dare una definizione di famiglia: per l’autrice, infatti, la coresidenza è un semplice indicatore, in sé largamente insufficiente (Saraceno, 2013). Non tutte le persone che vivono assieme, quindi non tutte le convivenze, sono considerate e /o si autodefiniscono come famiglie (Saraceno, 2013).

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9 L’individuazione della convivenza familiare, e della famiglia come forma di convivenza, per la Saraceno (2013), richiede quindi che vengano chiarite le regole, o i criteri, che presiedono sia alla delimitazione dei confini della convivenza familiare (lo spazio fisico della convivenza), sia alla definizione dei rapporti tra le diverse persone come rapporti familiari (Saraceno, 2013). Queste regole, secondo la Saraceno (2013), differiscono nel tempo e nello spazio, mostrando come la famiglia, il modo di farla e di intenderla, lungi dall’essere un “fatto naturale”, sia un’istituzione storico-culturale, costruita dalle norme (culturali, religiose, giuridiche) e dai rapporti sociali e di potere in cui queste sono elaborate e fatte valere (Saraceno, 2013).

La famiglia, secondo Clemente (2005), è una realtà sociale universale, la cui presenza è documentata in tutte le epoche storiche e in tutti i paesi del mondo, con caratteristiche diverse in ordine alle dimensioni, all’organizzazione e ai rapporti tra i componenti. In tutte le società la famiglia è l’unità sociale di base (Clemente, Danieli, 2005).

Per l’Italia contemporanea, la definizione giuridica di famiglia è quella tratteggiata negli artt. 29-31 della Costituzione, che sottolineano i seguenti aspetti:

 è una società naturale fondata sul matrimonio;

 è democratica, perché i rapporti tra i coniugi sono importanti a reciproca uguaglianza;

 tutela e protegge i figli.

La famiglia inoltre è inserita attivamente nella società perché svolge importanti funzioni sociali, ad esempio educative in quanto partecipa all’istruzione dei figli, economiche perché sceglie come risparmiare e investire i redditi, assistenziali nei confronti di parenti anziani o in difficoltà (Clemente, Danieli, 2005).

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1.1.1. Il ruolo primario della famiglia

La famiglia svolge da sempre un ruolo fondamentale per lo sviluppo e la crescita del bambino (Clemente, Danieli, 2005): è l’agenzia primaria di socializzazione e il miglior ambiente di crescita, com’è stato riconosciuto anche dalla legislazione italiana su adozione e affidamento1.

Nel primo anno di vita, il legame di attaccamento alla madre trasmette al bambino sicurezza e fiducia (Clemente, Danieli, 2005); la figura paterna, che da sempre incarna l’autorevolezza, si è arricchita in tempi recenti di nuove sfumature affettive e i giovani padri si occupano dei figli molto più che nel passato (Clemente, Danieli, 2005).

La famiglia, secondo Gambini (2007), è anche uno spazio d’incontro delle differenze che sono alla base dell’esperienza umana: tra i sessi, tra le generazioni e tra le stirpi (Gambini, 2007). Per quanto riguarda il sesso, è necessario fare una distinzione tra il sesso inteso come termine per designare le caratteristiche fisiche e biologiche che distinguono maschi e femmine (Clemente, Danieli, 2005) e il sesso inteso come genere, cioè per indicare la differenza socialmente costituita tra i due sessi, il modo in cui maschile e femminile vengono percepiti e descritti nella società (Clemente, Danieli, 2005).

Per Gambini (2007), la famiglia, fondandosi sulla coppia, è il “luogo della scoperta della complementarietà e della distinzione tra maschile e femminile”(Gambini, 2007, p.47): i bambini e le bambine intuiscono la loro identità di genere per i rimandi ricevuti dai genitori, che sollecitano le condotte attribuite al ruolo sessuale. “Si sta nella famiglia in quanto maschi o in quanto femmine”(Gambini, 2007. p.47). Queste diversità attinenti alla sfera psicologica, biologica, sociale e culturale dell’individuo s’incontrano, interagendo tra loro, dividendosi i compiti e gli spazi del proprio agire. Alla famiglia spetta la distinzione di aspetti fondamentali, che riguardano l’identità e i vissuti profondi della persona, che ne orientano la vita (Gambini, 2007).

Di diversa opinione è invece Saraceno (2013), la quale sostiene che la definizione che si trova nella sesta edizione di Notes and Queries in Anhropology (1955) di matrimonio, ossia:

1

L. 4 maggio 1983, n.184 (art.1): “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”.

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il matrimonio è un’unione fra un uomo e una donna realizzata in modo tale che i figli partoriti dalla donna siano riconosciuti come figli legittimi dei coniugi (Notes and Queries in Anthropology, 1955)

oggi non solo è contestata e in molti paesi modificata sia per quanto riguarda il requisito che i coniugi siano di sesso diverso, sia per l’inevitabilità dell’attribuzione di paternità al marito della madre, ma è anche smentita sul piano etnografico e antropologico (Saraceno, 2013). Infatti, ci sono moltissimi esempi che mettono in dubbio la validità universale: dal caso della poliandria adelfica (dove una donna è la moglie legittima di un gruppo di fratelli), a quello dei Mayar (dove una donna ha un marito scelto da un lignaggio con cui il suo ha rapporti di stabile alleanza a questo scopo, ma non vive con lui, può avere tutti gli amanti che vuole e fornisce figli al proprio lignaggio) (Saraceno, 2013). Questi esempi mettono in luce che l’unico elemento che si ritrova in modo uniforme nelle varie culture è la differenza di genere tra i soggetti che, unendosi, danno luogo alla filiazione, cioè alla riproduzione di nuovi membri per il gruppo di appartenenza degli uni o degli altri (Saraceno, 2013). Questa differenza di genere perlopiù si sovrappone a quella di sesso (Saraceno, 2013); ma se necessario, può invece discostarsi da questo, facendo prevalere la definizione sociale (Saraceno, 2013). Il matrimonio perciò appare come il principale istituto per l’attribuzione della posizione dei singoli entro la struttura sociale di genere: sulla base della loro appartenenza sessuale, ma al limite anche a prescindere da questa (Saraceno, 2013).

Per Saraceno (2013), la costruzione sociale della differenza sessuale, cioè la costruzione dei ruoli e identità di genere, avrebbe come scopo implicito la costruzione della necessità di una complementarietà e di un’interdipendenza tra i due sessi, che riguarda sia le competenze pratiche che i bisogni affettivi e la stessa sessualità (Saraceno, 2013).

La famiglia, per Gambini (2007), permette una relazione tra le generazioni (Gambini, 2007): al suo interno, infatti, esse trovano uno spazio per incontrarsi, confrontarsi, dividersi i compiti e definire i propri ruoli. La maturazione del singolo individuo è accompagnata nell’integrazione delle diverse fasi di sviluppo nella personalità dalla famiglia, la quale permette tale distinzione e completamento, proprio perché tiene unite più generazioni (Gambini, 2007). La persona nella famiglia vive questa complementarietà dell’età quotidianamente: i coniugi sono in rapporto con i figli

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12 e i propri genitori; i figli lo sono con i genitori e i nonni; i nonni, a loro volta, sono in relazione con i propri figli e i nipoti (Gambini, 2007).

Sono i figli con la loro nascita e poi con la loro crescita, la loro emancipazione, il loro sposarsi, ecc. a rimescolare continuamente la struttura familiare, a ridefinire i confini e a segnare il passo del ciclo vitale della famiglia (Gambini, 2007, p.49).

La famiglia è sempre stata il luogo principale di questo tipo di convivenza, ma è soprattutto la società moderna ad esaltare questo suo ruolo di incontro tra generazioni (Gambini, 2007): compito che però oggi sembra più difficile a causa della frammentazione dei nuclei, dall’incapacità di comunicare a livello dei contenuti, dai distanziamenti oppure, al contrario, dalla perdita dei confini fra le stesse generazioni (Gambini, 2007). Un elemento fondamentale, sempre secondo Gambini (2007), che sta alla base dello scambio tra le generazioni è il loro reciproco riconoscimento, in particolare quello dei genitori per i propri figli, con l’assunzione delle responsabilità genitoriali (Gambini, 2007).

Per Gambini (2007), inoltre, la famiglia ha come obiettivo e progetto intrinseco la

generatività, termine con il quale l’autore intende non soltanto la procreazione in sé, ma

in senso più ampio, la creatività e la produttività in senso spirituale (Gambini, 2007): cioè, secondo Gambini (2007), la famiglia non si limita a mettere al mondo figli, ma dà forma umana a ciò che da lei nasce o a ciò che in lei si lega (Gambini, 2007).

Ciò che organizza la famiglia sono le relazioni primarie (o di parentela) fondate, appunto, proprio su un legame generativo, inteso sia nel senso del “generare” che dell’essere generati (Gambini, 2007, p.50).

Come conseguenza di questo legame, per Gambini (2007), vi è la presa in carico di responsabilità da parte delle generazioni precedenti che devono creare uno spazio, anche mentale, affinché le nuove generazioni, quando sarà il momento, si assumano le loro responsabilità verso gli altri (Gambini, 2007). Il legame generativo tiene insieme le persone con una forza speciale: la famiglia, rispetto ad altre aggregazioni, include nuovi membri con la nascita o l’adozione e il suo abbandono è possibile soltanto con la morte (Gambini, 2007). È un legame talmente stretto che quando è disfunzionale può portare a gravi psicopatologie (Gambini, 2007), come verrà illustrato in seguito.

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13 Oggigiorno, per la Saraceno (2013), con il prolungamento della durata della vita, essere genitori, così come essere figli, è una condizione che tende a durare per un arco della vita molto lungo e insieme diversificato, senza quell’alternanza tra i due ruoli che in epoche con durate della vita più ridotte erano piuttosto la norma che l’eccezione (Saraceno, 2013). Il diverso timing e intensità della fecondità, più che le differenze nelle speranze di vita, differenziano, nel mondo sviluppato, la lunghezza dei legami intergenerazionali (Saraceno, 2013). Una lunga durata della vita però implica, sempre per la Saraceno (2013), rapporti familiari diversificati nel tempo anche relativamente al significato delle posizioni generazionali (Saraceno, 2013): non è la stessa cosa, infatti, essere figli da adolescenti, giovani adulti, e da persone di mezza età, con figli, e qualche volta nipoti, a propria volta (Saraceno, 2013). Pertanto, all’interno dei rapporti familiari, generazionali le aspettative reciproche, i confini, i diritti e i doveri vanno continuamente rielaborati e rinegoziati, senza una tradizione cui rifarsi (Saraceno, 2013).

La distanza di età tra genitori e figli può costituire una risorsa o un limite diversi nel corso della vita (Saraceno, 2013): se una forte distanza di età può favorire i rapporti nella fanciullezza, perché vede genitori maturi, che più facilmente hanno superato i conflitti con i propri genitori, questa stessa distanza può divenire un problema in fasi successive, rendendo difficili adattamenti e comprensioni (Rossi, 1980).

La famiglia, secondo Dominelli (2005), gioca un ruolo di mediazione tra i singoli individui e la società, per esempio nel rapporto con vari professionisti come operatori sociali, insegnanti e operatori sanitari. La famiglia come istituzione sociale va assumendo sempre di più una molteplicità di forme, ognuna delle quali ha dei punti di forza come di debolezza, a seconda dei contesti e delle situazioni specifiche (Dominelli, 2005). La famiglia svolge la sua funzione educativa anche selezionando e rielaborando stimoli e messaggi provenienti da altri ambiti (Clemente, Danieli, 2005); proprio perché non è più l’unica agenzia di socializzazione il suo compito è delicato e difficile e la costringe a ridefinire continuamente il proprio ruolo in un mondo che cambia velocemente (Clemente, Danieli, 2005). A questo proposito, è importante la riflessione che fa la Saraceno (2013): per l’autrice, infatti, le trasformazioni sociali e politiche che hanno attraversato molte società sviluppate dalla seconda metà del secolo scorso, unitamente alle trasformazioni di tipo tecnologico con le loro conseguenze non solo sul modo di lavorare, ma di condurre la vita quotidiana, hanno modificato profondamente il

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14 contesto in cui si danno rapporti e trasmissione culturale tra le generazioni. Se è sempre più difficile che un genitore possa trasmettere direttamente il proprio mestiere e anche la propria posizione sociale a un figlio (Saraceno, 2013), senza passare attraverso la mediazione di altra agenzie (innanzitutto la scuola), e senza dover fare i conti con i desideri individuali del figlio stesso, anche il saper fare quotidiano, delle attività domestiche e dei modi di allevamento ed educazione dei figli, è stato scompigliato dalla tecnologia domestica, dai nuovi prodotti e modelli di consumo (fin dall’alimentazione), dalla “scoperta” di bisogni e capacità prima insospettate, oltre che dalla cultura degli esperti (Saraceno, 2013). La trasmissione di saperi e modi di fare non può più semplicemente avvenire in modo lineare, ma richiede una rielaborazione e selezione, un adattamento e un’invenzione maggiori di quelli sempre richiesti nel passaggio delle generazioni (Saraceno, 2013). Un’indagine abbastanza recente (Garelli, Polmonari e Sciolla, 2006) ha analizzato in profondità i modi di trasmissione delle norme tra le generazioni, mostrando il complesso modo in cui famiglia, scuola, ambiente di lavoro, gruppo dei pari interagiscono nel dare forma ai valori e alla stessa identità degli adolescenti e dei giovani nell’Italia contemporanea (Saraceno, 2013). Inoltre, da indagini ancora più recenti, (Torrioni, 2012) emerge che la socializzazione familiare è sempre meno interpretabile come una forma di trasmissione culturale unidirezionale e i modelli educativi proposti dai genitori e rimodellati dai figli contribuiscono ad una progressiva democratizzazione dei rapporti tra genitori e figli (Saraceno, 2013).

E’ necessario infine notare che la famiglia nel corso degli anni ha cambiato anche la sua struttura, modificando l’immaginario collettivo di famiglia, tant’è che non si parla più solo di famiglia, ma di famiglie.

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1.1.2. Cambiamento della concezione di famiglia nel corso degli anni

“Famiglia” o “famiglie” è una parola emotivamente molto carica, ma allo stesso tempo anche molto contestata (Dominelli, 2005). In effetti non si tratta di un’entità soltanto sociologica, ma anche di un’entità culturale politicizzata. Il termine “famiglia” significa cose diverse per persone diverse, perfino per quelle che appartengono alla stessa famiglia (Dominelli, 2005). I significati che gli individui le attribuiscono riflettono in genere la posizione che essi hanno al suo interno, così come l’intersezione con altre divisioni sociali, legate all’età, all’etnia, al genere, alla classe, alla disabilità, all’orientamento sessuale (Dominelli, 2005).

Le famiglie sono socialmente costruite e si presentano in una varietà di forme diverse (Dominelli, 2005); focalizzando il nostro interesse sulla famiglia italiana contemporanea, possiamo fare alcune considerazioni: innanzitutto, come anticipato nel paragrafo precedente, la famiglia nel tempo è cambiata. I mutamenti hanno interessato le dimensioni, la composizione, le relazioni interne tra i suoi membri, i rapporti con il resto della parentela e le funzioni sociali (Clemente, Danieli, 2005).

Dal 1965 in Italia si è cominciato ad assistere ad un fenomeno che persiste tutt’ora, ossia il calo delle nascite (Clemente, Danieli, 2005): terminata una fase di notevole incremento delle nascite (definita “baby-boom”), nel periodo 1946-1964, – da collegare alla ripresa economica verificatasi dopo la seconda guerra mondiale e al clima di fiducia e ottimismo che si diffuse in quegli anni – la natalità è calata continuamente fino ad arrivare ai livelli attuali. Oggi il nostro paese figura tra i 20 Stati del mondo a più bassa natalità (Clemente, Danieli, 2005).

Nella società contemporanea inoltre è possibile individuare una pluralità di tipi di famiglie superiore a qualunque epoca passata: a questo fenomeno però fa riscontro una riduzione del numero dei componenti rispetto al passato (Clemente, Danieli, 2005). La struttura familiare oggi più diffusa in Italia è quella nucleare (o coniugale intima), che si forma ogni volta che un uomo e una donna si sposano e stabiliscono una residenza abitativa distinta da quella dei genitori (Clemente, Danieli, 2005). L’espressione coniugale intima si riferisce ai rapporti tra i componenti e indica l’importanza che l’intesa di coppia riveste nel nuovo nucleo che si è costruito (Clemente, Danieli, 2005). Questo modello viene definito anche “familista” (Segal, 1983) e dà per scontato che tutti gli individui siano uguali, con i medesimi bisogni, e che le risorse sono distribuite uniformemente tra i membri del nucleo familiare

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16 (Morgan, 1983). In realtà le ricerche indicano che le dinamiche familiari sono differenziate al loro interno dall’età e dal genere (Pahl, 1985), oppure che “è presente una discrepanza tra l’idea che la famiglia sia una compagine unita, con obiettivi e interessi condivisi, e il fatto che i suoi singoli membri spesso abbiano invece bisogni e desideri contrastanti” (Leonard e Speakman, 1986, p.86).

L’espressione famiglia estesa si riferisce, invece, a un gruppo costituito da più nuclei familiari e più generazioni di persone che vivono insieme (Clemente, Danieli, 2005); pur non essendo del tutto scomparsa, era diffusa soprattutto in molte zone dell’Europa rurale prima dell’industrializzazione (Clemente, Danieli, 2005). Infatti, poiché generalmente assolveva i compiti di un’azienda agricola, aveva bisogno di molte braccia per mandare avanti le proprie attività economiche e rispondeva alla necessità di mantenere indiviso il patrimonio, unica possibilità di sopravvivenza della famiglia (Clemente, Danieli, 2005). Tale struttura, inoltre, era contraddistinta dal dominio degli uomini sulle donne e da una rigida divisione dei compiti tra i sessi (Clemente, Danieli, 2005).

Per quanto riguarda invece i rapporti all’interno della famiglia, la rottura con il passato appare evidente (Clemente, Danieli, 2005): l’importanza che nella famiglia contemporanea rivestono il benessere dei bambini e l’intesa dei coniugi segna la distanza rispetto alla rigidità e all’autoritarismo della famiglia patriarcale, la forma storicamente più diffusa di famiglia estesa, in cui l’uomo più anziano (denominato appunto “patriarca”) deteneva il massimo potere e dominio (Clemente, Danieli, 2005). In tale struttura familiare, donne e bambini non avevano voce in capitolo e dovevano obbedire senza discutere alla volontà del capofamiglia (Clemente, Danieli, 2005). La famiglia patriarcale era tipica della società rurale del passato, immobile e tradizionalista, che si è prolungata fin verso la metà del Novecento (Clemente, Danieli, 2005). I nonni del nostro tempo hanno ben poco in comune con le vecchie figure patriarcali: un po’ perché generalmente hanno una propria residenza, separata da quella dei figli, un po’ perché hanno perso la loro posizione di potere (Clemente, Danieli, 2005). Rispetto al passato hanno sicuramente un rapporto più intimo e confidenziale con i nipoti, di cui seguono la crescita con partecipazione affettuosa (Clemente, Danieli, 2005). In conseguenza dell’allungamento della vita media e del maggiore coinvolgimento dei nonni nella cura della prole, visto che spesso i genitori lavorano entrambi, la relazione

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17 tra nonni e nipoti non è mai stata così intensa e duratura come nella nostra società (Clemente, Danieli, 2005).

Per quanto riguarda la famiglia contemporanea, si può dire che essa è decisamente orientata sulla relazione di coppia, che ne costituisce il vero centro (Clemente, Danieli, 2005). Nella famiglia coniugale intima le relazioni tra i membri tendono ad essere paritarie e democratiche; il processo di emancipazione e la diffusione del lavoro femminile hanno ridimensionato la figura della casalinga a tempo pieno. Oggi molte famiglie sono a doppia carriera, perché entrambi i coniugi lavorano fuori casa; inoltre i ruoli non sono più rigidamente separati e marito e moglie collaborano alla conduzione della vita domestica e famigliare (Clemente, Danieli, 2005).

1.1.3. Le nuove famiglie

Come dicevamo, esistono “nuove famiglie”: tale espressione viene frequentemente usata in modo ambiguo (Saraceno, 2013), nella misura in cui serve sia ad indicare la diffusione di nuovi modi di fare famiglia dal punto di vista delle regole e dei valori (ad esempio convivere senza sposarsi, convivere da omosessuali, risposarsi solo dopo un divorzio), sia l’emergere di nuove fasi nel ciclo di vita individuale e familiare o il divenire più comune di fasi della vita un tempo meno diffuse, o accessibili (Saraceno, 2013).

L’aumento delle famiglie unipersonali, ad esempio, soprattutto in Italia, è solo in parte la conseguenza di scelte intenzionali (l’uscita dalla famiglia di origine prima di mettersi eventualmente in coppia, oppure l’uscita da un matrimonio o da una convivenza di coppia) (Saraceno, 2013): nella maggior parte dei casi è la conseguenza dell’invecchiamento della popolazione e della possibilità di rimanere vedove per un periodo più o meno lungo (Saraceno, 2013).

La famiglia monogenitoriale è composta da un solo genitore e da uno o più figli (Gambini, 2007). Tali famiglie erano molto numerose nel passato, a causa dell’elevata mortalità in tutte le età (Saraceno, 2013); ma oggi sono più spesso la scelta di conseguenze intenzionali (Saraceno, 2013). Le cause per cui si dà origine a questo tipo di struttura famigliare possono essere di vario tipo: vedovanza, procreazione al di fuori del matrimonio, separazione, divorzio (Saraceno, 2013). Laddove, come già anticipato sopra, nel passato recente, si trattava di famiglie composte da vedove/i con figli, negli ultimi anni il grosso aumento è dovuto soprattutto alla separazione e al divorzio, più che

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18 alle nascite fuori dal matrimonio (Saraceno, 2013). Viceversa, sono diminuiti i genitori soli a causa di una vedovanza. Questo cambiamento nelle cause che portano al formarsi di una famiglia con un solo genitore spiega anche perché nella stragrande maggioranza il genitore solo sia una madre (secondo i dati Istat 2011 il numero di madri sole non vedove è passato da 568.000 nel 1998 a 1.012.000 nel 2009; quello dei pardi soli non vedovi da 100.000 a 163.000): infatti, in tutti i paesi europei, parallelamente all’aumento dei tassi d’instabilità coniugale, ci sono stati due mutamenti successivi nei criteri per l’affidamento dei figli (Saraceno, 2013). Il primo mutamento ha riguardato i criteri d’individuazione di quale dei due genitori “meriti” di più (o di meno) l’affidamento. Dagli anni ’60 del Novecento tale individuazione progressivamente è stata orientata dal criterio del migliore interesse del figlio, quindi dalla valutazione del “genitore più adatto” (Barbagli 1990; Barbagli, Saraceno, 1998). Ciò di fatto ha comportato un affidamento quasi monopolistico alla madre ritenuta, appunto, più adatta ai compiti genitoriali, specie se i figli sono piccoli. Successivamente, in diversi paesi, e da ultimo (nel 2006) anche in Italia, questo criterio ha iniziato ad essere modificato e si sono istituite forme di affidamento congiunto più o meno obbligatorie (Saraceno, 2013). Anche in questo caso, tuttavia, i figli vivono prevalentemente presso uno dei due genitori (Saraceno, 2013). Peraltro, dal punto di vista dei figli che vivono in queste famiglie, la definizione di “famiglia con un solo genitore” può nascondere una varietà di situazioni possibili, in dipendenza sia della classe sociale dei genitori, sia delle modalità in cui si è sviluppato il conflitto coniugale (Saraceno, 2013): dall’effettiva interruzione dei rapporti con il genitore non convivente, per lo più il padre, a incontri quindicinali o mensili, a rapporti frequenti e un intenso coinvolgimento nella vita quotidiana (Saraceno, 2013). Il primo caso coinvolge una quota consistente ancorché minoritaria di figli, specie nelle classi sociali più basse: tra il 20% e il 35% nei primi 5 anni dopo l’interruzione della convivenza coniugale secondo dati di ricerca internazionale (Eurostat, 2013); il secondo caso è forse più diffuso (Sareceno, 2013). Ma non va sottovalutata la presenza di casi di forti continuità nei rapporti anche dopo l’interruzione della convivenza quotidiana, un fenomeno rafforzato dalle norme sull’affido condiviso o congiunto (Saraceno, 2013).

La famiglia ricostituita o ricomposta (Thery, 1995) è composta da coniugi che hanno alle spalle uno o più matrimoni finiti, dai loro figli e dai figli nati dalle precedenti unioni (Saraceno, 2013). Come nel caso delle famiglie con un solo genitore, le famiglie

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19 ricostituite esistevano anche nel passato, allorché un vedovo o una vedova si risposava (Saraceno, 2013). Oggi, come nel caso delle famiglie con un solo genitore, sono la separazione e il divorzio, piuttosto che la vedovanza, a rendere di nuovo disponibili per un nuovo matrimonio le persone (Saraceno, 2013). La complessità di tale forma familiare è dovuta al fatto che coppia coniugale e coppia genitoriale non corrisponde per tutti i figli conviventi (Saraceno, 2013). La novità di simili contesti parentali, allo stesso tempo però, induce a considerarli come dei “laboratori” di nuove forme di convivenza e solidarietà (Saraceno, 2013).

Le famiglie con coniugi senza figli possono essere composte da coppie che hanno scelto di non avere figli o che non possono averli, da giovani coppie che non ne hanno ancora oppure da anziani i cui figli se ne sono andati di casa (Gambini, 2007).

Vi è poi la famiglia adottiva, che ha al suo interno uno o più figli adottati. Tale esperienza coinvolge tutta la famiglia ed è molto delicata in quanto richiede l’adattamento dei suoi componenti rispetto ai nuovi arrivati (Gambini, 2007).

Una forma di famiglia che presenta specificità non tanto dal punto di vista della struttura (poiché potrebbe essere tranquillamente assimilata a una delle strutture standard, per lo più a quella nucleare con o senza figli), ma dal punto di vista della forma di legittimazione è la cosiddetta convivenza more uxorio (Saraceno, 2013). Qui la coppia coniugale non è legittimata dal matrimonio ma dalla scelta di vivere insieme. Il suo statuto di famiglia, dal punto di vista sia legale che culturale in molti paesi è controverso, specie quando non vi sono figli (Saraceno, 2013). E’ stato così anche per l’Italia, ma da maggio 2016 è entrata in vigore una legge che disciplina la convivenza: si tratta della L. 20 maggio 2016, n.76 «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»2. L’equiparazione dei figli legittimi e naturali, avvenuta in quasi tutti i paesi occidentali nella seconda metà del XX secolo ha rafforzato indirettamente lo statuto di famiglia delle convivenze eterosessuali, quando sono anche genitoriali, anche nei paesi che faticano a riconoscerle come coppie (Saraceno, 2013). Per quanto riguarda l’Italia, lo status dei figli è regolato dall’art. 30 della Costituzione che recita: “I figli nati fuori dal matrimonio sono considerati uguali,

2 L.20 maggio 2016, n.76, Art. 1, c.36: «Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 s’intendono

per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile».

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20 entro i limiti stabiliti dalla legge ai fini della protezione della famiglia legittima”. Quindi filiazione e matrimonio vengono in parte disgiunti e possono costituire costellazioni familiari differenti: per una parziale trasfusione di tale principio nelle leggi si è atteso fino al 1975, con la riforma del diritto di famiglia, ma una completa equiparazione dei figli nati fuori e dentro il matrimonio si è avuta soltanto nel 2012, con la L. 10 dicembre 2012, n.219 «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali»3 (Saraceno, 2013).

Ovviamente, occorre distinguere tra convivenze eterosessuali e convivenze omosessuali. Per quest’ultime è il tipo di sessualità che propongono ad essere visto come contrastante con ogni idea di famiglia (Saraceno, 2013): perché non eterosessuale e non potenzialmente generativa (Saraceno, 2013). E’ la relazione omosessuale a sfidare radicalmente l’idea della famiglia come patto di solidarietà con finialità anche riproduttiva (Saraceno, 2012). Problemi culturali e valoriali rispetto al riconoscimento delle convivenze etero e omosessuali sono stai sollevati in quasi tutti i paesi sviluppati: essi si presentano con una radicalità particolare in quelle culture in cui il linguaggio della famiglia è poco articolato (Saraceno, 2013). Non potendo distinguere linguisticamente tra i diversi modi di vivere sotto lo stesso tetto, tali culture si scontrano con la difficoltà di dare loro lo stesso nome, quando questo nome per una parte piccola o grande della popolazione, e soprattutto per importanti istituzioni (come ad esempio la Chiesa cattolica), in realtà designa un solo modo di fare famiglia (Saraceno, 2013). Fortunatamente però per quanto riguarda l’Italia, con la suddetta L. 20 maggio 2016, n.76, non solo si è disciplinata la convivenza (indipendentemente dal sesso della coppia che la forma), ma anche le unioni civili tra persone dello stesso4, riconoscendo loro la possibilità di formare una famiglia.

3 L.10 dicembre 2012, n.219, Art.1, c.1: «L’articolo 74 del codice civile è sostituito dal seguente: «Art. 74

(Parentela). - La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori d’età, di cui agli articoli 291 e seguenti».

4 L.20 maggio 2016, n.76, Art. 1, c.1: «La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso

sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto».

Art. 1, c.2: «Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni».

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21 Nel dibattito pubblico, ma talvolta anche nella letteratura sociologica (ad es. Zanatta, 2008), si parla di nuove famiglie anche in relazione alle famiglie di migranti o alle famiglie miste, ovvero quelle famiglie composte da coniugi appartenenti a due etnie diverse (Saraceno, 2013). In questo caso non si tratta di mettere l’accento né sulla struttura, né sulle regole di formazione: la “diversità” e la “novità” stanno piuttosto nel fatto che queste famiglie rendono visibili modi più o meno fortemente diversi di intendere la famiglia, i rapporti uomo-donna, genitori-figli, famiglia e parentela, rispetto a quelli prevalenti nella società di accoglienza (Saraceno, 2013). Questa enfasi sulle differenze culturali, peraltro, cela il fatto che i migranti, oggi come un tempo, in realtà vivono spesso per periodi più o meno lunghi in famiglie in cui i rapporti di coppia e generazionali sono spesso spezzati dalla migrazione e viceversa si costruiscono nel luogo di arrivo convivenze “familiari” basate sulla parentela o su un’origine territoriale comune, per condividere spese e darsi sostegno reciproco (Saraceno, 2013); oppure diventano “membri aggregati” di altre famiglie presso cui lavorano oppure, ancora, dei solitari (Saraceno, 2013).

Accanto alle famiglie di stranieri, i fenomeni migratori fanno aumentare anche le famiglie cosiddette “miste”, ovvero in cui uno dei due partner è, appunto, straniero (Saraceno, 2013). In Italia, alla fine del 2009 le famiglie in cui era presente almeno uno straniero ammontavano all’8,3% (Istat, 2011) di tutte le famiglie residenti, un fenomeno, quindi, non marginale (Saraceno, 2013). Un po’ più di un quinto – 22,6% (Istat, 2011) – di queste famiglie era mista, ovvero uno solo dei due coniugi era straniero (Saraceno, 2013). Va peraltro osservato che nelle famiglie miste il coniuge straniero è più spesso la moglie (Saraceno, 2013): le nozze con marito italiano e moglie straniera, sono il 77% di tutti i matrimoni misti (Zanatta, 2008; Istat, 2008, 2011). Le famiglie con stranieri sono mediamente più giovani di quelle tutte italiane, sia perché gli adulti che le compongono sono mediamente più giovani (o, se si vuole, sono rare le famiglie di anziani stranieri), sia perché vedono più spesso la presenza di figli minori (Saraceno, 2013).

Questa molteplicità di tipologie famigliari dal punto di vista sia della struttura, del chi vive con chi, sia delle forme di autodefinizione circa ciò che fa di una famiglia appunto una famiglia, crea imbarazzi non solo per gli studiosi, ma anche per i legislatori e i policy makers, stretti tra la necessità di individuare criteri certi e la constatazione della

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22 varietà empirica in cui una porzione della popolazione crescente ormai si muove (Saraceno, 2013). Peraltro, come osserva Therborn (2004), questi fenomeni segnalano un ritorno alla diversità dei modi di fare famiglia che ha caratterizzato il passato europeo e ancora caratterizza il panorama geoculturale a livello mondiale (Saraceno, 2013). L’omogeneità dei modelli di famiglia è infatti un fenomeno localizzato e circoscritto nel tempo e nello spazio (Saraceno, 2013).

Il quadro sopra delineato segnala non solo la variabilità e la diversa permeabilità dei confini della famiglia intesa come “vivere sotto lo stesso tetto”; segnala anche come la struttura della famiglia, le relazioni che la compongono mutano nel corso della vita della famiglia e degli individui (Saraceno, 2013). Ciò avviene non solo per l’avvicendarsi delle nascite, dei matrimoni, delle morti, quindi per il ciclo di vita famigliare (Hill 1964, 1970, 1977; Hill e Mattessich 1987; Duvall 1971): avviene anche per il mutare delle scelte relazionali, specie di coppia, che scompigliano la composizione di una famiglia modificandone anche i confini, o per l’interferenza delle vicende professionali (che, ad esempio, inducono un membro della famiglia a vivere altrove), o, ancora, per reazione a quanto avviene nella vita di altre famiglie e parenti vicini (Saraceno, 2013). Oggi, più di un tempo, è necessario guardare al modo di organizzarsi e formarsi delle famiglie in una prospettiva temporale (o longitudinale), che ne delinei le regole di formazione non solo in un punto temporale dato, ma nello snodarsi della loro storia, e sia attenta alle vicende degli individui che le compongono (Saraceno, 2013).

1.2. Le vulnerabilità delle famiglie

In Italia la tipologia familiare aderisce al modello sud-europeo della famiglia “forte” (Genova, Palazzo, 2008), che si caratterizza per la reciprocità tra le generazioni agevolata da una prossimità abitativa tra genitori e figli adulti che si riscontra su tutto il territorio nazionale (Genova, Palazzo, 2008). Quest’aspetto della famiglia, assieme alle funzioni che assolve, è legato al carattere residuale del welfare state e a politiche familiari inadeguate e frammentate (Genova, Palazzo, 2008). In Italia, infatti, le politiche sociali a favore delle famiglie sono frammentate e hanno l’assunto di base che debba essere la rete familiare a rispondere in primo luogo ai bisogni individuali e non il sostegno pubblico (Genova, Palazzo, 2008). Quindi il nostro welfare si può dire che non sia family friendly, ma piuttosto familistico, nel senso che scarica sulla famiglia, ed in

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23 particolare sulle donne, i compiti assistenziali, educativi e di fronteggiamento della crisi non sostenendola in maniera adeguata (Genova, Palazzo, 2008).

A ciò si aggiunge la debolezza delle risposte alla crisi economica attuale, che si traduce nell’obbligatorietà per le famiglie di svolgere il ruolo di ammortizzatore sociale (Ranci Ortigosa, 2011). La crisi inoltre ha delineato un aumento ed una differenziazione dei bisogni di protezione sociale delle famiglie (Ranci Ortigosa, 2011). Infatti, le famiglie sono diventate vulnerabili sotto diversi aspetti: secondo i dati Istat dell’ultimo trimestre del 2012, è aumentato il disagio economico e molte famiglie vivono in situazioni di deprivazione grave (circa 8 milioni) (Istat, 2012). In particolare, se facciamo riferimento ai dati Istat del 2016 (https://www.istat.it/it/archivio/202338), si stima che le famiglie che versano in condizioni di povertà assoluta5 siano 1 milione e 619 mila, nelle quali vivono 4 milioni e 742 mila individui (Istat, 2016). Rispetto al 2015 è stata rilevata una stabilità di povertà assoluta, sia per le famiglie sia per gli individui (Istat, 2016). L’incidenza di povertà assoluta per le famiglie è pari al 6,3%, in linea con i valori degli ultimi quattro anni (Istat, 2016); per gli individui invece l’incidenza è portata al 7,9%, con una variazione statistica non significativa rispetto al 2015, che si attestava al 7,6% (Istat, 2016). Nel 2016 però l’incidenza di povertà assoluta per le famiglie con tre o più figli minori sale dal 18,3% del 2015 al 26,8% (Istat, 2016), coinvolgendo in un anno 137 mila 771 famiglie e 814 mila 402 individui (Istat, 2016); aumenta anche fra i minori, dal 10,9% al 12,5% (Istat, 2016).

Anche la povertà relativa6 risulta stabile rispetto al 2015 (Istat, 2016). Nel 2016 riguarda il 10,6% delle famiglie contro il 10,4% del 2015, per un totale di 2 milioni e 734 mila, e 8 milioni e 465 mila individui (Istat, 2016). Come la povertà assoluta, anche la povertà relativa è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (17,1%) o 5 componenti e più (30,9%) (Istat, 2016). Un dato particolare è dato dal fatto che la povertà relativa colpisce di più le famiglie giovani: infatti raggiunge il 14,6% se la persona di riferimento è un under 35, mentre scende al 7,9% nel caso di un ultra sessantaquattrenne (Istat, 2016).

5

Per povertà assoluta o estrema si intende la non disposizione – oppure la disposizione con grande difficoltà o intermittenza – delle risorse primarie per il sostentamento umano, come l'acqua, il cibo, il vestiario e l'abitazione.

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Per povertà relativa si intende la difficoltà economica nel fruire di beni e servizi, in rapporto al livello economico medio di vita dell'ambiente o della nazione.

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24 Inoltre, richiamando i dati OCSE7, Mesini e Stea (2011) rilevano che il 7% di chi vive in famiglie con almeno un lavoratore è povero, per cui se la perdita di lavoro rappresenta sicuramente un rischio di esclusione sociale, l’occupazione di per sé non previene completamente il rischio di cadere in povertà (Mesini, Stea, 2011). Essa è certamente più connessa ad impegni saltuari e precari, a livelli d’istruzione bassi, ed interessa maggiormente alcune categorie di popolazione, ad esempio famiglie con minori, i giovani e le donne (Mesini, Stea, 2011).

La crisi ha anche acuito fenomeni di vulnerabilità sociale: oltre agli anziani, ai minori a rischio e agli stranieri con problemi d’integrazione, sono aumentate le fragilità economiche e sociali delle famiglie, in termini di disgregazione delle relazioni sociali e di maggiore vulnerabilità delle coppie (Mesini, Stea, 2011).

Le politiche familiari di welfare dovrebbero apportare interventi efficaci, di modo che il welfare stesso sia vicino alle famiglie e accessibile, orientato alla prevenzione e alla promozione e non solo alla riparazione; che sia volto a valorizzare le potenzialità e le risorse, attento ad apportare sostegno nei passaggi critici, prima che gli elementi di difficoltà e di rischio si deteriorino e divengano elementi di conclamata e grave problematicità (Ranci Ortigosa, 2011). Questo soprattutto perché le famiglie odierne, oltre a vivere una fragilità dal punto di vista economico, la vivono anche nelle relazioni sociali, sia fra i membri interni che nella rete comunitaria che le circonda (Milani, 2001); è collocata in città multiculturali, non solo per il fatto che vi abitano persone provenienti da culture e paesi diversi, ma anche perché ogni famiglia ha una sua cultura peculiare, con valori e linguaggi propri (Milani, 2001). Questo però aumenta la sua fragilità perché

tende a renderla “auto poietica”, ossia operativamente “chiusa” […] al punto da non poter essere influenzata che da sé; per dirla in maniera drastica l’educazione familiare rimane interamente affidata all’educazione familiare (Milani, 2001, pp.53-54).

Pertanto, quando sono presenti disfunzioni relazionali, mancanze di cura, difficoltà di comunicazione, esse rimangono intrappolate dentro le mura domestiche senza possibilità di variazioni o di mediazioni; anzi, vengono amplificate, facendo diventare questa distorsione “la normalità” di quella famiglia, proprio perché non c’è alcuna possibilità di confronto con altri modelli e/o diverse modalità (Milani, 2001). Inoltre,

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25 per quanto riguarda il legame familiare, esso è divenuto provvisorio e allentato: vi è una crescente pluralità di forme familiari, che destano preoccupazione non per il fatto che nascono da crisi coniugali o da filiazioni extra-matrimoniali, oppure dai diversi modi di intendere la coppia o dall’esistenza di coppie omogenitoriali (Milani, 2001), ma perché

un numero crescente di persone passa attraverso continue unioni e divisioni che creano una rete confusiva (non di rado tribale) di ex-mogli/ex mariti e di figli naturali o legali sparsi un po’ qui e un po’ là, senza che sia chiaro chi è responsabile di che cosa (Milani, 2001, p.56).

Aumentano anche le situazioni conflittuali fra genitori, derivanti da separazioni ostili, dove i figli vengono “usati” come armi contro il coniuge, costretti a schierarsi con il padre o la madre (Milani, 2001).

Ivo Lizzola (2010) dice che, in una società iperperformativa, i cambiamenti degli ultimi anni hanno prodotto nuovi disagi e causano

scivolamento silenzioso anche a motivo della vergogna vissuta da chi non osa presentare la sua fragilità nella “società del merito, della prestazione e del successo”e si convince di “meritarsi” la sua “sfortuna” (Lizzola, 2010, p.89).

Tutto questo avviene non soltanto nelle famiglie provenienti da ceti svantaggiati, ma è un disagio che si manifesta in maniera trasversale, di modo che “la zona grigia del disagio invisibile, della fatica a vivere e crescere (di bambini e ragazzi normali, di famiglie normali) si amplia” (Lizzola, 2010, p.89). I nuclei familiari quindi non possono farcela da soli, essendo esposti alla fragilità: le risorse che hanno restano solo potenziali, poiché non vengono attivate da una ricca vita sociale e da servizi sociali in grado di fare rete per sostenere i più deboli (Lizzola, 2010). Anzi, le reti sociali si disgregano facendo mancare gli aiuti informali, di buon vicinato, di partecipazioni a momenti di festa, che consolidano l’appartenenza ad una comunità (Milani, 2001). I servizi sociali dal canto loro, non riescono a fornire risposte adeguate, essendo impoveriti di risorse, soprattutto economiche, e trovandosi inoltre di fronte ad un contesto sociale che richiederebbe un rinnovamento delle metodologie di lavoro e di conseguenza anche delle modalità di risposta (Lizzola, 2010).

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1.3. Il disagio familiare e l’intervento dei Servizi Sociali

Come già ribadito nei paragrafi precedenti, la famiglia ricopre un ruolo molto importante per l’assolvimento di funzioni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico e sociale del bambino. Molte volte però essa è oppressa da un malessere tale da essere condizionata ed ostacolata in alcune delle sue mansioni. Ciò può essere provocato da una mancanza di sintonia nella coppia, isolamento sociale/culturale, assenza di reti (sia formali che informali), adozione di comportamenti antisociali, quali devianza, spaccio, furto; ma anche dalla presenza di patologie fisiche, psichiche e da dipendenze come dalla droga o dall’alcol (Fusi, 2010). Pertanto, il nucleo familiare non sempre è in grado di svolgere le sue funzioni, ma può essere addirittura disturbante e distorcente. E’ a questo proposito che si parla di “famiglia multiproblematica”.

Il termine viene coniato intorno agli anni Cinquanta, nell’ambito di ricerche psicosociologiche sulla povertà e sulla devianza, per definire una tipologia di nuclei familiari all’interno dei quali più membri manifestano problemi di comportamento e di adattamento sociale o sono portatori di patologie, e che per tali ragioni entrano frequentemente in contatto con servizi sociali e sanitari per periodi di tempo piuttosto prolungati (Cirillo, Cipolloni, 1994, p.23).

Essa presenta all’interno del suo nucleo uno o più membri portatori di una patologia che stravolge i suoi schemi, richiedendo molte volte l’intervento di diversi servizi, sociali e sanitari (Cirillo, Cipolloni, 1994). Le famiglie multiproblematiche durante il corso della vita sono incapaci di far fronte in maniera autonoma ad

eventi critici dolorosi tra cui l’isolamento dal contesto sociale ed economico e le relazioni difficili e peculiari tra genitori/partner e la loro famiglia d’origine (Fusi, 2010, p.98);

molto spesso sono il risultato di esperienze traumatiche vissute dai genitori durante la loro infanzia che si ripercuotono inevitabilmente nel rapporto che instaurano con i loro figli, influenzandolo in maniera determinante (Fusi, 2010).

Queste famiglie si trovano in una sorta di circolo vizioso (Fusi, 2010): inizialmente si adattano alla loro situazione di malessere o di degrado, lasciando assolvere agli operatori dei servizi quelli che in realtà dovrebbero essere i loro compiti; poi la situazione si cronicizza, ossia i genitori si convincono che la loro situazione non possa

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27 mutare, trascurano i minori facendo, di conseguenza, intervenire i servizi sociali della tutela minori. Infine, qualcosa scatta dentro di loro, facendogli desiderare il cambiamento, quindi si attivano, prendendo in mano la situazione (Fusi, 2010).

I servizi sociali hanno serie difficoltà ad interagire con questa utenza, poiché quest’ultima è estremamente diffidente a farsi coinvolgere in un programma di intervento; allo stesso tempo, però, necessita di aiuto, essendo esposta fortemente al rischio di esclusione e stigmatizzazione sociale (Fusi, 2010). Lavorare con queste famiglie è frustrante per gli operatori, perché sanno che ci saranno probabilità molto basse, per non dire scarse, che esse si impegnino a modificare o migliorare i loro comportamenti, soprattutto nei confronti dei loro figli (Fusi, 2010). E’ molto più probabile invece che diventino casi cronici, sviluppando dipendenza nei confronti dei servizi e continuando a vivere in tale situazione, non curandosi degli aiuti che vengono loro offerti.

I servizi sociali devono prestare molta attenzione alle famiglie multiproblematiche, poiché esse possono essere anche famiglie maltrattanti: il confine che le separa è molto spesso invisibile (Ghezzi, Valdilonga, 1996). Quest’ultima tipologia di famiglia è caratterizzata da un comportamento inadeguato dei genitori nei confronti dei figli che tende a ripresentarsi, passando da una generazione all’altra (Cirillo, Di Blasio, 1989). Solitamente il genitore maltrattante ha una scarsa considerazione di sé e tende ad essere depresso: tali disturbi sono collegati spesso ad atteggiamenti antisociali. Questi genitori sono

esseri umani sopraffatti da emozioni non più controllabili, soggetti prigionieri di pesanti e dolorose dinamiche all’interno della propria famiglia attuale o così sofferentemente connessi con le loro famiglie originarie da gestire la propria incontenibile rabbia, la propria profonda delusione e la propria attesa irrisolta scagliandola verso i propri figli, agendola su di loro (Ghezzi, Valdilonga, 1996, p.6).

Le violenze fisiche, psicologiche, sessuali, inflitte al bambino in maniera ripetitiva e costante da parte di uno o entrambi i genitori sono il “segno di una patologia che investe il funzionamento globale della famiglia” (Cirillo, Di Blasio, 1989, p.26): sono presenti in particolare all’interno di nuclei in cui ci sono difficoltà o conflitti tra coniugi. Alla base del maltrattamento solitamente c’è un genitore indifferente, insensibile e incapace

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28 di fare fronte alle esigenze del proprio figlio (fisiche, affettive e intellettive) e condizioni problematiche, come

le carenti definizioni di ruolo, la mancanza di regole educative, la presenza di conflitti tra i genitori, l’insoddisfazione personale e familiare, oppure la presenza di tossicomania, di alcolismo, di problemi psichiatrici in uno o entrambi i genitori, o ancora lo svantaggio sociale e culturale, o esperienze di violenza subite da questi genitori nella loro infanzia (Cirillo, 2005, p.10).

In particolare, la relazione disfunzionale tra i coniugi e le esperienze traumatiche che hanno vissuto nell’infanzia li porta a sfogare i sentimenti di rabbia o delusione sul proprio figlio (Cirillo, 2005). Solitamente la famiglia maltrattante viene concepita come colei che attua comportamenti che incidono in maniera negativa sulla crescita psico-fisica del bambino, come ad esempio violenza psico-fisica, psicologica, abusi sessuali, abbandono e negligenza:

in realtà la famiglia mal-trattante non è soltanto la famiglia autoritaria e dispotica che adopera “la frusta” per addestrare il “cucciolo d’uomo”, né è solo la famiglia che sfrutta in senso economico quella particolare “merce” che può essere un bambino (Cillo, 2013)

ma è anche la famiglia che rinuncia alla funzione educativa, impedisce al bambino di fare le proprie esperienze in maniera autonoma, è quindi completamente assente dalla vita del figlio.

Gli operatori pertanto quando lavorano con questo tipo di utenza devono tenere conto delle esperienze negative vissute dai genitori durante la loro infanzia e le loro situazioni familiari ritenute a rischio, ma al tempo stesso devono anche essere consapevoli del fatto che tutto ciò non comporta in maniera automatica il ripetersi e il perpetrarsi di situazioni nocive per lo sviluppo del minore (Cirillo, 2005). Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è che questi genitori spesso sono affetti da disturbi di personalità (borderline, narcisisti, antisociali) e raramente si rivolgono ai servizi di salute mentale preposti (Cirillo, 2005). E’ molto importante quindi aiutare prima di tutto il genitore maltrattante per proteggere il minore stesso; senza questa presa in carico continuativa, possono verificarsi due possibili conseguenze (Cirillo, 2005):

 peggioramento e cronicizzazione della situazione, per cui il bambino sarà costretto a crescere all’interno di strutture protette, lontano dalla famiglia di origine;

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29  rischio per il minore di acquisire le forme di violenza come comportamenti normali,

praticandole a sua volta, trasformandosi così da vittima in aggressore.

Diventa pertanto necessario lavorare con i genitori per evitare il protrarsi di situazioni nocive sia per il bambino che per loro stessi e per troncare la trasmissione intergenerazionale delle violenze (Cirillo, 2005).

Nel panorama dei servizi sociali, in particolare per la tutela minori, sta aumentando la presa in carico di una tipologia di famiglia che non può essere definita maltrattante, ma che si situa in una zona grigia, al confine con il maltrattamento: la famiglia negligente e trascurante (Milani, Ius, Serbati, Zanon, Di Masi, Tuggia, 2014). Queste famiglie hanno bisogno d’interventi di protezione non solo per il bambino, ma soprattutto per la relazione genitore-figlio. La negligenza non ha contorni ben definiti, sta a cavallo tra la normalità e la patologia, per cui non sempre è visibile e di conseguenza segnalabile (Milani, Ius, Serbati, Zanon, Di Masi, Tuggia, 2014). Il termine negligenza viene dal latino nec-ligere, che significa non scegliere, non legare e identifica quindi con nettezza qual è il problema di queste famiglie: non esercitare una forma di violenza attiva nei confronti dei loro figli come il maltrattamento, ma non essere in grado di legare, di costruire risposte adeguate ai bisogni evolutivi dei figli (Milani, Ius, Serbati, Zanon, Di Masi, Tuggia, 2014). Il termine può essere considerato con una connotazione giudicante, come avviene nell’ambito giuridico, ma in realtà è più vicino al concetto di vulnerabilità, dando speranza quindi ad una ridefinizione del legame.

Secondo Paola Milani (2014) la negligenza è

una carenza significativa o un’assenza di risposte ai bisogni di un bambino, bisogni riconosciuti come fondamentali sulla base delle conoscenze scientifiche attuali e/o dei valori sociali adottati dalla collettività di cui il bambino è parte (Milani, Ius, Serbati, Zanon, Di Masi, Tuggia, 2014, p.5).

Ci sono pertanto due fattori all’origine della negligenza: disfunzionalità, rarefazione/assenza di legami tra le famiglie con il mondo esterno (e le conseguenti relazioni) e turbamento nella relazione genitori-figli (Milani, Ius, Serbati, Zanon, Di Masi, Tuggia, 2014). Le famiglie negligenti presentano spesso problematiche e bisogni diversi. Molte di loro presentano serie difficoltà di carattere relazionale e sociale: povertà, esclusione dal mondo del lavoro, basso livello d’istruzione, instabilità

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