PARTE SECONDA
2. Quando la rete familiare non funziona più: interventi messi in atto per cercare di riabilitarla
2.2. Le disfunzioni della rete familiare
2.2.1. Maltrattamento e abuso infantile
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2002, “l’abuso o maltrattamento all’infanzia è costituito da tutte le forme di maltrattamento fisico e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o sfruttamento commerciale o di altro tipo, che ha come conseguenza un danno reale o potenziale alla salute del bambino, alla sua sopravvivenza, sviluppo o dignità, nel contesto di una relazione di responsabilità, fiducia e potere”.
In Italia però, quando si parla di abuso, si fa riferimento quasi esclusivamente a quello sessuale: è talmente sottinteso che neppure viene aggiunto l’aggettivo “sessuale”, come se si cercasse di affermare che solo l’abuso sessuale è abuso, mentre tutte le altre forme di aggressione a cui i bambini vengono sottoposti quotidianamente non lo siano (D’Ambrosio, 2010). Ovviamente obbligare o stimolare il bambino ad accedere alla sessualità in maniera anticipata è traumatico, ma lo sono anche altre esperienze. L’assenza di evidenze traumatiche di tipo fisico non esclude l’ipotesi di maltrattamento: i bambini possono essere trascurati fisicamente quando non vengono soddisfatte le loro necessità in termini di cibo, vestiario e alloggio; divengono vittime di abbandono morale; possono anche essere trascurati emozionalmente (quando il loro equilibrio psichico è minacciato dalla mancanza di attenzioni necessarie per lo sviluppo equilibrato della personalità), oltre che dal punto di vista educativo (se non viene impartita loro l’istruzione obbligatoria), e possono essere abbandonati terapeuticamente quando non ricevono l’assistenza medica e le cure di cui necessitano (D’Ambrosio, 2010).
Più in generale, quando il bambino, nel suo sviluppo, non ha potuto beneficiare del diritto di essere rispettato nella sua integrità psicofisica, su di lui cadono le stigmate dell’abuso (Finkelhor, 1979; Finkelhor e Browne, 1985).
Secondo D’Ambrosio (2010), il maltrattamento, dal punto di vista tecnico, può concretizzarsi in diversi tipi, sintetizzabili in:
Condotte attive, dove la violenza è agita attraverso diverse forme di aggressioni (es: calci, pugni, ustioni, scuotimento, graffi, strappo di capelli,ecc.) alle quali si aggiungono atti sessuali e ipercura;
52 Il maltrattamento dei bambini è universale: basterebbe operare una lettura diacronica della nostra storia sociale per cogliere la molteplicità di situazioni e di modalità con cui sono stati e sono traumatizzati, terrorizzati, minacciati, aggrediti fisicamente, sfruttati, abbandonati, venduti, incatenati e uccisi (DeMause, 1983; Marchi, 1990).
L’abbandono dei figli era una tradizione romana che ha segnato molti secoli di storia: infatti, fino alla fine dell’Ottocento è stato un fenomeno non solo drammaticamente diffuso, ma anche moralmente accettato (Lué, 1907). Però non tutti i bambini indesiderati erano esposti: molti purtroppo venivano venduti o donati ai ricchi come servi, altri erano uccisi; in altri casi ancora i bambini erano consegnati come ostaggi politici o come pegno per debiti contratti. La più estrema e antica forma di abbandono era la vendita in blocco dei bambini, così comune nell’antichità che neppure i tentativi dei legislatori o della Chiesa di limitarne la diffusione ebbe incidenza (Boswell, 1991).
Purtroppo non si può che concordare con quanto espresso da Everett e Gallop (2001):
Nella nostra cultura la visione dell’infanzia è costruita su immagini di bambini dolci e profumati, dalle mani paffute, che trascinano il loro orsacchiotto, o cavalcano il loro pony, fanno lezioni di piano e partecipano alle cerimonie di laurea. Sfortunatamente, per molti bambini, la lista dovrebbe essere più meticolosa e includere ossa rotte, denti scheggiati, occhi neri, bruciature, inspiegabili infezioni vaginali o anali, terrore notturno, stomaco vuoto, e solitudine (Everett, Gallop, 2001, p.3).
Come già ribadito sopra, esistono varie forme di abuso, oltre a quello sessuale, che possono provocare comunque seri traumi nello sviluppo psicofisico e affettivo del bambino. Vediamo quali sono.
L’abuso fisico o la violenza subita
La violenza fisica è una forma di violenza evidente che produce sul corpo del bambino lesioni che difficilmente possono essere imputabili ad eventi accidentali. La lesione può essere l’esito di uno o più episodi di maltrattamento e può presentarsi in forma più o meno grave (Campanini, 1993).
La violenza all’interno delle mura domestiche è una delle situazioni più frequenti a cui i bambini sono sottoposti: l’ambiente e le relazioni di vicinanza diventano spesso le più
53 pericolose. Tra i presunti responsabili dell’azione vengono indicati le madri (46,8%), i padri (37,6%), i nonni (2,2%), il convivente del padre o della madre (3,2%), insegnanti/educatori o vicini di casa (4,8%), estranei (3,2%). Il luogo in cui si verificano gli abusi (segnalati al numero telefonico 114) è la propria casa (57,8%) e la scuola (7,1%). La violenza può manifestarsi nei modi più diversi: dei 3.203 casi denunciati, il 13,9% riguarda casi di abuso fisico, il 4% abuso sessuale, l’8,3% abuso psicologico, il 4,3% la trascuratezza, l8,2% l’accattonaggio, ecc. (www.hotl114.it).
Il ricorso alla violenza è l’arma più potente per distruggere una relazione affettiva: il genitore che, per qualsiasi motivo, ricorra alla violenza abdica, anche se momentaneamente, al suo potere reale, che è quello di capire ciò che sta succedendo offrendo al bambino una lettura emancipante. I bambini hanno bisogno di apprendere ad auto concentrarsi, di capire ed elaborare i propri sentimenti: non devono proteggersi dai propri genitori (D’Ambrosio, 2010).
La violenza assistita
Come già anticipato sopra, la violenza all’interno delle mura domestiche è una delle situazioni più traumatizzanti e frequenti vissute dai bambini (D’Ambrosio, 2004; Marchi, 1990; Straus, 1994). Il minore in casa può assistere ad aggressioni di vario tipo sia su oggetti che su animali o persone: può ad esempio vedere un genitore aggredire o picchiare l’altro.
Il fenomeno della violenza assistita è una forma di maltrattamento ancora misconosciuta e/o minimizzata. La cultura sociale è fortemente incidente; il sommerso è elevatissimo, la maggior parte delle donne non parla con nessuno delle violenze subite e nemmeno denuncia. L’omertà però non è operata solo dalle vittime: anche gli operatori sanitari, che per legge hanno l’obbligo di segnalazione, stentano ad assumersene la responsabilità.
Se le vittime possono tacere a lungo sulle cause delle lesioni adducendo incidenti domestici e improbabili cadute, frequenti sono tuttavia i referti medici rilasciati dal pronto soccorso, dove non è riportato il nome dell’aggressore, neppure nei casi in cui la vittima espressamente lo dice. Spesso ciò che viene rilasciato è un referto, ove è scritto che la vittima dichiara di essere stata percossa da persona conosciuta. L’attenzione alla complessità di queste situazioni va differenziata da incapacità, connivenze, pregiudizi,
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stereotipi che portano a non rilevare i casi, a sottovalutare gli indicatori di pericolosità/letalità e di rischio di recidiva (Luberti, 2006, p.135).
Secondo l’ONU l’aggressività maschile è la prima causa di morte e di invalidità permanente per le donne di tutto il mondo: un dato allarmante, che non conosce differenze di classe, cultura, etnia, religione e appartenenza politica (Lacangellera, 2008). E’ necessario riconoscere l’esistenza del problema ed essere disposti a prendere in considerazione il danno che ne deriva alle vittime e ai loro figli, e quindi vedere, informarsi, formarsi, decidere di attivarsi ai fini della protezione e della cura.
Le relazioni violente e conflittuali nei contesti primari di crescita assumono una valenza fortemente pericolosa per lo sviluppo e il mantenimento delle relazioni affettive tra genitori e figli, con esiti disadattavi conseguenti (Camisasca, 2009). Il bambino costretto ad assistere a scene violente sperimenta angoscia, paura della catastrofe, dolore per la persona che subisce, impotenza e rabbia per l’aggressore. Assistere alla rabbia degli adulti, ai loro accessi d’ira è una situazione disorientante, devastante e sconfortante: il bambino vede le figure di attaccamento da un lato terrorizzate, impotenti e disperate, e dall’altro minacciose e pericolose (Camisasca, 2009).
La violenza assistita genera gravi e duraturi danni sullo sviluppo psicoemotivo dei bambini: possono diventare aggressivi o remissivi, iperattivi, chiusi e diffidenti, sviluppare difficoltà nel chiedere aiuto e vergognarsi di rappresentare o comunicare all’esterno la propria situazione familiare (Biancardi e Soavi, 2009; D’Ambrosio 2004; De Zulueta, 1999).
La violenza nella relazione educativo-affettiva è considerata una patologia relazionale grave, che ha precise caratteristiche: è cronica, degenerativa (cioè si diffonde in modo sempre più ampio all’interno delle relazioni), si trasmette in linea transgenerazionale (cioè una coppia violenta può generare figli violenti) ed è contagiosa, nel senso che un comportamento violento suscita risposte violente (Perry, 1996). In queste situazioni la dinamica familiare può sviluppare altre distorsioni: ad esempio il bambino può essere “usato” dalla madre a scopo ripartivo e consolatorio; il padre può, al contrario, incoraggiarlo o costringerlo a insultare, controllare, spiare, picchiare la madre o i fratelli. Anche quando non c’è costrizione o incoraggiamento a mettere in atto tali comportamenti, nella violenza assistita è insita la corruzione del minore (Monteleone, 1999).
55 I bambini, a questo punto, possono assumere comportamenti compiacenti e dire bugie, ma anche imparare a dare ragione ad uno dei genitori a seconda delle circostanze; infine, possono sviluppare comportamenti adultizzati di accudimento verso uno o entrambi i genitori e i fratelli, diventando protettori della vittima. I figli possono generare pensieri ricorrenti su come impedire le violenze e su come riuscire a calmare il maltrattante. L’inversione dei ruoli così attuata rappresenta uno degli schemi più dannosi (D’Ambrosio, 2010).
Il maltrattamento psicologico ed emotivo
La violenza emotiva, nelle relazioni interpersonali tra adulto e bambino, venne definita nel 1983 dall’International Conference on Psychological Abuse of Children
and Youth: «Atti omessi o commessi da individui che sono in una posizione di potere
differenziale che rende il bambino vulnerabile. […] le tipologie di maltrattamento comprendono il rifiutare, l’isolare, l’intimorire, il corrompere, lo sfruttare, il non riconoscere la sensibilità psicologica.»9
Le opportunità di maltrattamento emozionale sono innumerevoli e giocano un ruolo fondamentale in tutti gli abusi. Più gli adulti sono immaturi e/o disturbati emotivamente, maggiori saranno questi atti. Saper proteggere e aiutare il minore a crescere significa anche saperne rispettare i confini, mettendosi dal suo punto di vista, rispettandolo e non implicandolo in situazioni dolorose. Il bambino a cui sono state negate alcune tappe fondamentali per la costruzione del sé si presenta fragile e contradditorio sul piano emotivo, oppure adultizzato precocemente (Campanini, 1993; Montecchi, 1994; Paoli, 1998).
La trascuratezza fisica e affettiva
La trascuratezza fisica e affettiva consiste nell’incapacità dei genitori di tutelare la salute, il benessere e la sicurezza del figlio. Al bambino possono venire negati cibo, assistenza medica, protezione nei confronti di agenti esterni sociali o fisici (D’Ambrosio, 2010). La trascuratezza affettiva è una forma di abuso molto subdola, poiché è difficile da riconoscere in quanto ha confini molto sfumati, ma provoca effetti devastanti nello sviluppo del bambino (D’Ambrosio, 2010).
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56 I genitori trascuranti non sono intenzionalmente cattivi o mal disposti verso i propri figli: le cause della trascuratezza possono essere molteplici. Ci sono, ad esempio, periodi di trascuratezza momentanea, in cui i genitori stanno attraversando una fase particolarmente difficile, generatrice di stress; se come coppia non sono in grado di sostenersi a vicenda, devono farvi fronte singolarmente, utilizzando tutte le sue energie a disposizione. Perciò in questi casi l’attenzione e la cura per il figlio vengono meno e il bambino viene trascurato. Solo dopo aver superato l’evento, i genitori ritrovano l’energia per accudirlo (D’Ambrosio, 2010).
Nei casi in cui, invece, la trascuratezza sia duratura, la causa è da imputare all’incapacità strutturale del genitore di ascoltare e identificarsi con il bambino.
L’abuso istituzionale
Sono considerati abusi istituzionali, tutte quelle forme di omissioni e inadempienza delle istituzioni preposte alla tutela e alla protezione del bambino, vittima di violenza, che determinano la cronicizzazione del trauma (Arcidiacono e Palombo, 2000). Anche la mancata segnalazione da parte di un pubblico ufficiale alle autorità giudiziarie dovrebbe essere considerata una forma di abuso istituzionale, poiché impedisce la necessaria ridefinizione terapeutica del contesto abusante e violento, in cui il minore continua ad essere intrappolato (Bertotti, 1996).
L’abuso sessuale
L’abuso sessuale è distinto tra abuso sessuale extrafamigliare, compiuto da sconosciuti o di persone conosciute, ma senza legame di parentela con la vittima, e abuso sessuale intrafamigliare, agito da padri, madri, nonni, zii, padri affidatari o adottivi. D’Ambrosio (2010), riporta dati elaborati dal Censis (ricavati dai procedimenti penali del Tribunale di Roma) che dimostrano che il pedofilo nella maggior parte dei casi non è un estraneo, ma una persona conosciuta e amata dal bambino:
nel 90% dei casi l’abuso avviene in famiglia da parte del padre, del patrigno, o più raramente, dalla madre/matrigna;
nell’8% dei casi l’abuso avviene in ambiti extrafamigliari frequentati dai bambini, come la scuola, l’oratorio, la palestra, da parte di persone conosciute dal bambino, come l’insegnante, l’allenatore o altre figure professionali vicine al bambino;
57 solo nel 2% dei casi l’abuso viene compiuto da persone del tutto sconosciute al
minore.
Inoltre, in un recente rapporto dell’ONU, si pone in evidenza il dato che ogni anno vengono stuprate 150 milioni di bambine, pari al 14% delle bambine esistenti nel mondo. Gli stupri a danno di bambini (maschi), sono invece pari a 73 milioni (Lacangellera, 2008); per cui un bambino su quattro e una bambina su tre sono vittime di abuso sessuale.
Accettare che l’abuso esiste e che sia estremamente diffuso, altera talmente tanto la nostra fiducia di base che riponiamo nella società, che tendiamo a ricorrere ad una logica semplificante e lineare, cercando in tutti i modi di circoscriverlo per poterlo contenere e limitare. Questo tentativo però non viene sostituito dai dati, i quali ci informano che le variabili etnia, età, religione, educazione, professione, istruzione, livello economico e orientamento sessuale non sono variabili discriminanti: l’abusante non appartiene ad un gruppo sociale specifico (D’Ambrosio, 2010).
Dal punto di vista dinamico, l’abusante approfitta della relazione asimmetrica che stabilisce con la vittima, sfrutta il suo potere e la sua influenza per costringerla, sollecitarla, indurla, manipolarla e implicarla in attività sessuali; non necessariamente ricorre alla violenza per realizzare il suo intento (D’Ambrosio, 2010).
Il bambino è in una posizione d’inferiorità rispetto all’adulto, sia per la dimensione fisica, che per quella cognitiva e relazionale: può non rendersi conto o non capire perfettamente ciò che sta succedendo, può non essere in grado di comprendere ciò che gli viene proposto e non avere la capacità di scegliere o la possibilità di rifiutarsi. I bambini molto piccoli, addirittura non hanno la capacità di affrontare la situazione e nemmeno il “vocabolario” per descriverla. A volte infatti i loro racconti sono così al di fuori della “realtà” da sembrare inventati e provenire dal mondo delle favole, dove vivono streghe, uomini mascherati e orchi (D’Ambrosio, 2010). E’ questa inferiorità che pone il bambino nella condizione di non essere in grado di fornire il suo consenso: iniziativa, autonomia e fiducia sono aspetti che emergono solo quando il bambino ha completato il suo sviluppo (D’Ambrosio, 2010).
58 La definizione di abuso sessuale redatta dal Coordinamento nazionale italiano dei
Centri e dei Servizi di prevenzione e trattamento dell’abuso in danno ai minori
evidenzia alcune caratterisctiche:
è il coinvolgimento di un minore in attività sessuali anche non caratterizzate da violenza esplicita;
è un fenomeno diffuso;
si configura come un attacco che destabilizza la personalità del minore e il suo percorso evolutivo;
l’intensità e la qualità degli esiti dannosi derivano dal bilancio tra le caratteristiche dell’evento (precocità, frequenza, durata, gravità degli atti sessuali) e gli eventi protettivi e riparativi esterni, che si attivano in relazione all’abuso.
Finkelhor (1994) evidenzia che le modalità con cui i bambini vengono abusati solitamente assumono tre forme:
1. esplorazione sessuale del bambino per la gratificazione del bisogno fisico dell’adulto;
2. eccessiva erotizzazione del bambino attraverso stimolazioni inappropriate; 3. mortificazione del bambino.
L’abuso sessuale si esplicita in un continuum di comportamenti, che possono essere raggruppati in tre categorie (D’Ambrosio, 2010):
1. atti sessuali che implicano un contatto fisico violento; 2. atti sessuali che implicano un contatto fisico non violento; 3. atti sessuali in cui manca il contatto fisico.
Molestare i bambini non è espressione di bisogni sessuali, il desiderio sessuale o la passione non appaiono come le determinanti primarie di questo comportamento. Può sembrare un paradosso, ma non lo è se si comprende che la motivazione primaria sottesa non è di tipo sessuale (Dawn Haden, 1986). Attraverso l’implicazione sessuale del bambino, l’abusante cerca di far fronte a bisogni psicologici profondi, quali sentirsi riconosciuto, accettato e confermato, quali dominare e controllare.
59 Come chiarisce la giudice Di Cagno (2006):
Il pedofilo ricerca, nell’abuso sul minore, un rapporto semplificato, che eviti le difficoltà dei rapporti interpersonali tra adulti. Tale difficoltà, nei casi estremi, può divenire insostenibile e sfocia nell’insana ricerca di un rapporto pedofilo che non ha rischi, non ha rifiuti, né resistenze. Il bambino, nella sua ingenuità, non riesce a dare significato a determinati gesti, è arrendevole e purtroppo è proprio questa docilità a far sì che il pedofilo prosegua alla ricerca di altre piccole vittime (Di Cagno, 2006, p.19).
I tipi di abuso descritti sopra, nella realtà non si verificano mai separatamente, per cui il minore solitamente non ne subisce mai soltanto un tipo. Le situazioni si sviluppano in un divenire, in un crescendo di implicazioni. Ogni abuso è formato da costellazioni di atti, da un susseguirsi di eventi ed elementi aggressivi che feriscono e lasciano il segno (D’Ambrosio, 2010). Ad esempio, un bambino che viene picchiato è colpito oltreché nel fisico, anche nell’animo, nella mente, nell’immagine di sé.
Tutte le esperienze traumatiche sia croniche (come abuso fisico o incesto) che temporanee (incidente o disastro naturale), hanno un notevole peso sullo sviluppo: tali esperienze trasformano il mondo del bambino in un miasma confuso e colmo di terrore che altera il processo di crescita (D’Ambrosio, 2010).
Una delle sindromi più studiate negli ultimi anni (poiché massicciamente osservata in diverse popolazioni di soggetti maltrattati e traumatizzati) è il disturbo post-traumatico da stress. Tale disturbo può essere sviluppato da persone vittime di eventi traumatici gravi, come disastri, incidenti, terremoti, ma anche maltrattamenti fisici e psicologici, abusi sessuali. I bambini abusati sessualmente, inoltre, vengono spesso paragonati in letteratura, per i sintomi che possono sviluppare, ai reduci di guerra (Briere, 1992b).