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Proteine salivari nella valutazione dell'efficacia terapeutica del Dekavil nell'artrite reumatoide

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Specialistica in

Chimica e Tecnologia Farmaceutiche

Tesi di Laurea:

PROTEINE SALIVARI NELLA VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA DEL DEKAVIL NELL’ARTRITE REUMATOIDE

Relatori:

Prof. Gino Giannaccini Prof.ssa Laura Bazzichi

Correlatore:

Dott.ssa Laura Giusti

Candidata:

Annalisa Corradin

SSD: BIO/10

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Definizione ed epidemiologia ... 4

Infiammazione ed autoimmunità ... 5

Eziologia ... 6

Istologia e Patogenesi ... 12

Angiogenesi ... 20

Autoanticorpi ... 23

Diagnosi ... 26

Terapia ... 29

Dekavil ... 35

Sezione seconda: Parte sperimentale

Capitolo 1: Introduzione alla parte sperimentale ... 37

1.1 - La proteomica salivare ... 37

La proteomica ... 37

La saliva ... 38

1.2 - Western blot ... 40

1.3 - Elettroforesi bidimensionale ... 42

Capitolo 2: Scopo della tesi ... 45

Capitolo 3: Materiali e metodi ... 46

3.1 - Materiali e strumentazioni ... 46

3.2 - Reclutamento dei pazienti ... 47

3.3 - Preparazione del campione ... 48

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3.5 - Western blot ... 51

3.5.1 - Preparazione dei campioni ... 51

3.5.2 - Elettroforesi su gel di poliacrillammide ... 51

3.5.3 - Trasferimento su nitrocellulosa ... 52

3.5.4 - Fase di blocking ... 52

3.5.5 - Incubazione con l’anticorpo primario ... 53

3.5.6 - Incubazione con l’anticorpo secondario ... 53

3.5.7 - Incubazione con luminolo ... 54

3.5.8 - Acquisizione delle immagini ... 54

3.6 - Elettroforesi bidimensionale ... 55

3.6.1 - Isoelettrofocusing ... 55

3.6.2 - Equilibratura delle strips ... 57

3.6.3 - Multicasting ... 58

3.6.4 - SDS-PAGE ... 59

3.6.5 - Colorazione e acquisizione delle immagini ... 60

Capitolo 4: Risultati e discussione ... 62

Capitolo 5: Conclusioni ... 70

Indice delle abbreviazioni ... 71

Bibliografia ... 73

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Le malattie reumatiche sono un gruppo di patologie eterogenee che determinano disturbi a carico dell’apparato locomotore. Sono di notevole rilevanza dal punto di vista clinico e sociale, sia per la loro marcata incidenza nella popolazione sia per il loro potenziale invalidante ed infine per i notevoli costi sociali. L’artrite reumatoide è una malattia cronica, infiammatoria ed autoimmune, che colpisce prevalentemente le diartrosi. E’ caratterizzata da un’infiammazione del tessuto sinoviale ed una progressiva erosione e distruzione delle componenti articolari, che può condurre a disabilità, compromissioni extrarticolari e comorbidità. Sebbene le prime testimonianze riconducibili all’artrite reumatoide risalgono a 3000-4000 anni fa come indicato da studi di paleopatologia su scheletri di nativi d’America, storicamente, la prima descrizione della malattia risale al XIX secolo ad opera del francese Landré-Beauvais mentre il termine “artrite reumatoide” fu coniato nel 1876 da Sir Alfred Garrod e figlio che riconobbero questa patologia come distinta da altre affezioni a carico delle articolazioni. La designazione ufficiale fu definitivamente adottata nel 1922 dal Ministero della Salute britannico e nel 1941 dall’American Rheumatism Association (oggi American College of Rheumatology).[1] La prevalenza è dello 0,5-1% nella popolazione mondiale ma si registrano differenze di diffusione in diverse aree geografiche che potrebbero suggerire influenze sia genetiche che ambientali. Gli studi sui gemelli rappresentano un importante modello indicativo della componente ereditaria di una malattia. Essi condividono lo stesso background familiare ed ambientale nonché lo stesso patrimonio genetico, quindi una maggiore concordanza nei monozigoti rispetto ai dizigoti suggerisce un forte contributo dei fattori genetici. Nei gemelli monozigoti è stata infatti stimata una concordanza del 30% mentre nei dizigoti si riscontra appena un 5% che fa supporre un’influenza dei fattori genetici pari al 50-60%.[2, 3]

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Infiammazione ed autoimmunutà

L’infiammazione è una risposta adattiva ed autolimitata ad uno stimolo percepito come dannoso per l’organismo; ha la funzione di regolare l’omeostasi e garantire la sopravvivenza. Nell’individuo sano, l’infiammazione neutralizza l’agente lesivo e, una volta che il danno è stato riparato, l’omeostasi viene ripristinata. Quando però la risposta risulta eccessiva e/o non si esaurisce una volta che lo stimolo nocivo è stato rimosso, l’infiammazione diventa dannosa e potenzialmente distruttiva.

L’infiammazione coinvolge diversi tipi cellulari ed è costituita da una serie di eventi, sia vascolari sia tissutali che sono regolati, in maniera complessa ed integrata, da mediatori chimici dell’infiammazione: citochine e fattori di crescita, proteasi, derivati dell’acido arachidonico, sistema del complemento, neuropeptidi, radicali liberi e specie reattive dell’ossigeno. L’infiammazione può essere acuta o cronica:

o Infiammazione acuta: di breve durata, caratterizzata da modificazioni vascolari, formazione di un essudato e migrazione nel tessuto infiammato di leucociti, soprattutto granulociti neutrofili.

o Infiammazione cronica: di lunga durata, caratterizzata da una risposta prolungata e persistente allo stimolo, distruzione tissutale e tentativi di guarigione per sostituzione del tessuto danneggiato con tessuto connettivo, angiogenesi e fibrosi. Prevalgono macrofagi, linfociti e plasmacellule nell’infiltrato.

L’infiammazione cronica è tipica di patologie invalidanti quali l’artrite reumatoide.[4] La caratteristica, nell’AR, è la presenza di autoimmunità che si sviluppa quando la reazione immunitaria avviene nei confronti di autoantigeni danneggiando i tessuti stessi dell’ospite. In condizioni normali un individuo possiede una tolleranza immunologia che si esplica mediante la rimozione dal repertorio linfocitario di tutte quelle cellule che risultano affini ad antigeni self; il fallimento di questi meccanismi porta alla rottura della tolleranza ed alla perdita della capacità discriminante tra self e non-self.[5]

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Lo sviluppo dell’artrite reumatoide è probabilmente

risultato di una combinazione di fattori genetici ed ambientali, molti dei quali ancora sconosciuti. E’ stata documentata la presenza di varie condizioni di predisposizione genetica e sono state studiate variazioni geniche come fattori di rischio per l malattia.

Numerosi sono i geni che

implicati nei meccanismi della risposta immunitaria.

E’ appurato che esiste un’associazione statisticamente significativa tra alcune malattie autoimmuni e la presenza di determinati alleli del

(Human Leukocyte Antigen), un sistema di istocompatibilità codificato da un complesso di geni strettamen

localizzati nella banda 6p21 corto del cromosoma 6

complesso maggiore di istocompatibilità (MHC).[6] Tali geni codificano proteine situate sulla superficie di numerose cellule e aventi un ruolo fondamentale meccanismi di presentazion antigeni.

Mutazioni a carico di geni chiave

coinvolte in processi rilevanti nella risposta immunitaria. Notevole importanza hanno in proposito i polimorfismi che intere

istocompatibilità.

Lo sviluppo dell’artrite reumatoide è probabilmente multifattoriale, ovvero risultato di una combinazione di fattori genetici ed ambientali, molti dei quali ancora sconosciuti. E’ stata documentata la presenza di varie condizioni di predisposizione genetica e sono state studiate variazioni geniche come fattori di rischio per l

che si ritiene siano implicati nei meccanismi della risposta E’ appurato che esiste un’associazione statisticamente significativa tra alcune malattie autoimmuni e la presenza di determinati alleli del sistema HLA Antigen), un sistema odificato da un geni strettamente associati, nella banda 6p21.31 del braccio del cromosoma 6, chiamato complesso maggiore di istocompatibilità Tali geni codificano proteine di numerose cellule fondamentale nei meccanismi di presentazione degli

a carico di geni chiave conducono ad alterazioni funzionali di proteine coinvolte in processi rilevanti nella risposta immunitaria. Notevole importanza hanno in proposito i polimorfismi che interessano il sistema maggiore di

Figura 1 Cromosoma 6 umano. In evidenza il sistema HLA localizzato nella regione 6p21.31 del braccio corto.

multifattoriale, ovvero il risultato di una combinazione di fattori genetici ed ambientali, molti dei quali ancora sconosciuti. E’ stata documentata la presenza di varie condizioni di predisposizione genetica e sono state studiate variazioni geniche come fattori di rischio per la

conducono ad alterazioni funzionali di proteine coinvolte in processi rilevanti nella risposta immunitaria. Notevole importanza ssano il sistema maggiore di

umano. In evidenza il sistema HLA localizzato nella regione 6p21.31

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In base alla loro struttura e funzionalità, le molecole HLA vengono suddivise in tre classi:

- di classe I: sono espresse sulla membrana di tutte le cellule nucleate. Si tratta di polipeptidi eterodimerici costituiti da una catena α, polimorfica, legata ad una molecola di β2-microglobulna che è identica in tutti gli individui appartenenti ad una stessa specie. Si distinguono tre domini extracellulari (α1, α2, α3), uno transmembrana ed uno intracitoplasmatico. Tra le subunità α1 e α2 si viene a creare una tasca recettoriale in cui si distinugono una porzione esterna responsabile del contatto con il recettore dei linfociti T ed una porzione interna che lega peptidi della lunghezza di 9-11 amminoacidi. La variabilità dei domini α1 e α2 è fondamentale per permettere l’alloggiamento di un elevato numero di peptidi diversi e per l’interazione con il recettore dei linfociti T. La regione α3 non è polimorfica cioè non varia tra le molecole HLA-I, qui si lega la glicoproteina CD8 presente su alcuni linfociti T.

- di classe II: sono espresse sulla membrana delle cellule presentanti l’antigene, linfociti B, linfociti T attivati, cellule dendritiche. Sono costituite da due catene polipeptidiche α e β ed in esse si distinguono due porzioni extracellulari, una transmembrana ed una regione intracitoplasmatica. Tra le regioni α1 e β1 si viene a creare una tasca recettoriale che alloggia peptidi di 13-25 amminoacidi. La regione β2 non è polimorfica, cioè non varia tra le molecole HLA-II, e costituisce il sito di legame della glicoproteina CD4 presente su alcuni linfociti T.[7]

- di classe III: sono anch’esse coinvolte nelle risposte immunitarie ma non fanno parte del sistema maggiore di istocompatibilità.

La catena α di classe I è codificata dai loci HLA-A, HLA-B e HLA-C mentre le catene polipetidiche di classe II sono entrambe codificate da HLA-D. Questa regione è ulteriormente suddivisa in famiglie di geni (DR, DQ, HLA-DP) codificanti le catene α e quella β.

HLA-DRB1 è il locus, contenente più di 1700 alleli, che codifica per la catena β di classe II la quale si lega alla catena α, a sua volta codificata da HLA-DRA, unico gene della regione HLA-DR. Dal legame di queste due subunità si forma un

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ligando per il recettore delle cellule T (TCR). Alterazioni a carico di HLA-DBR1 sono state correlate ad un aumentato rischio di sviluppo dell’artrite reumatoide. Queste modificazioni si traducono in un’anormalità della proteina in una regione prossima a quella del sito di legame per l’antigene. Sebbene non sia chiaro il meccanismo che dall’alterazione conduce ad un aumentato fattore di rischio per la malattia, si ipotizza che esso sia correlato ad una modifica del legame ligando-recettore che porta ad un’abnorme stimolazione immunitaria.[8, 9]

Il contributo delle variazioni genetiche a carico di HLA è stato riconosciuto per la prima volta nel 1978 da Stastny[10], il quale ha riportato un aumento della frequenza di HLA-DR4 tra i pazienti con artrite reumatoide grave. Questa associazione è stata poi raffinata con l’avvento dell’ipotesi “Shared Epitope” (SE) nel 1987 quando è stata per la prima volta documentata l’associazione tra artrite reumatoide ed una sequenza chiave di cinque amminoacidi in posizione 70-74 della terza regione ipervariabile (HVR3) della catena β1, codificata dai geni del locus HLA-DRB1.[11] I principali alleli HLA-DRB1 sono:

• DRB1*0101, DRB1*0401 e DRB1*0404 nella popolazione caucasica; • DRB1*0405 nella popolazione asiatica;

• DRB1*0408, DRB1*1001 e DRB1*1402 meno comuni.

Questi residui amminoacidici sono importanti nel legame con il ligando e ad essi è stata associata un’elevata suscettibilità di sviluppo di artrite reumatoide. Di questa sequenza amminoacidica, che prende il nome di epitopo condiviso esistono tre varianti: 70QKRAA74, codificato dall’allele HLA-DRB1*0401; 70QRRAA74 codificato

principalmente dagli alleli HLA-DRB1*0404, HLA-DRB1*0101, HLA-DRB1*0405;

70RRRAA74 più raro e codificato dall’allele HLA-DRB1*1001.[12]

La regione dello shared epitope corrisponde al dominio α-elica che costituisce parte del sito di legame del complesso molecolare HLA-DR e sembra favorire la presentazione di antigeni con carica elettrica negativa, come le proteine citrullinate, esaltando la risposta immunitaria contro di esse con conseguente aumento della produzione di anticorpi anti-peptidi citrullinati (ACPA).

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Questi ultimi rappresentano specifici biomarkers per l’artrite reumatoide, in particolare nei pazienti che mostrano le sequenze shared epitope, rendendo evidente il loro coinvolgimento nella patogenesi della malattia.[13]

Si stima che i geni localizzati nel MHC rappresentino circa un terzo del contributo totale alla patologia apportato dalla genetica.[14] Più recentemente sono stati identificati altri loci genici, non appartenenti al sistema MHC, che hanno aiutato a comprendere meglio, anche se in maniera non definitiva, i complessi fenomeni genetici che stanno alla base della patogenesi dell’AR.

E’ stato identificato un polimorfismo nel gene PTPN22, localizzato sul braccio corto del cromosoma 1, che codifica per la protein-tirosin-fosfatasi non recettoriale 22. E’ una proteina coinvolta nei meccanismi di trasduzione dei segnali che promuovono la crescita, la maturazione e l’attività delle cellule T. A livello del gene si verifica la sostituzione C→T alla posizione 1858: si tratta di una mutazione non senso che porta alla sostituzione di un’arginina con un triptofano (R620W). In condizioni normali la proteina forma un complesso con la chinasi intracellulare Csk, la quale regola negativamente il segnale attraverso il recettore delle cellule T. Come conseguenza della mutazione si ha un’alterazione del legame che forma il complesso aumentando la soglia di attivazione dei linfociti T e rendendo più difficile il controllo del processo infiammatorio. Studi hanno associato questa variazione con un aumento del rischio di sviluppo di numerose malattie autoimmuni, tra cui l’artrite reumatoide.[15, 16]

CTLA4 è un recettore co-stimolatorio localizzato sulla superficie cellulare dei linfociti T CD4+ e CD8+ attivati. Si lega ai ligandi CD80 e CD86 espressi sulle cellule APC e inibisce l’attività dei linfociti T: è quindi un regolatore negativo della risposta autoimmune. La proteina è codificata dal gene CTLA4 localizzato nel cromosoma 2 ed un polimorfismo a singolo nucleotide C→T nella posizione 60 è associato all’artrite reumatoide esclusivamente nei pazienti ACPA+.[17, 18]

PADI4 appartiene ad una famiglia di geni che codificano per enzimi i quali convertono l’amminoacido arginina in citrullina. E’ localizzato sul braccio corto del cromosoma 1, in vicinanza del telomero. Una mutazione a singolo nucleotide di

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Variazioni genetiche possono spiegare solo il 50-60% della suscettibilità alla malattia. Negli ultimi anni sono stati identificati altri fattori di rischio non correlati agli alleli HLA: dieta, consumo di alcol, fumo di sigaretta, inquinamento.[19]

Il maggiore fattore di rischio è identificato nel fumo di sigaretta. I fumatori uomini mostrano una suscettibilità a sviluppare la malattia due volte maggiore rispetto ai non fumatori mentre nelle donne fumatrici il fattore di rischio risulta essere 1,3 volte maggiore. Inoltre appare ridotta anche la risposta alla terapia che necessita essere più aggressiva. Il consumo di tabacco provoca una sovraespressione di enzimi PAD e di conseguenza una maggiore citrullinazione di proteine in pazienti portatori degli alleli HLA-DRB1 SE. Numerosi studi volti ad investigare il ruolo patogenetico di questi alleli e del fumo di sigaretta, considerati individualmente od in combinazione, hanno progressivamente delineato una marcata correlazione tra fattori ambientali e genetici. Tale correlazione risulta essere particolarmente forte nei pazienti ACPA+.[20]

Anche l’inquinamento atmosferico può costituire un fattore di rischio sebbene non sia ancora chiarito né il meccanismo né l’impatto che esso abbia sullo sviluppo della malattia. Si ipotizza che siano coinvolte specie reattive dell’ossigeno in grado di attivare il fattore trascrizionale NF-kB che stimola i linfociti Th1 a secernere citochine proinfiammatorie quali TNF-α, IL-1, IL-8. Queste agiscono sui monociti che stimolano la maturazione delle cellule dendritiche ed attivano i linfotici T autoreattivi, con un aumento dell’espressione di autoantigeni ed infiammazione articolare.[21]

Nonostante il fumo di sigaretta sia ad oggi l’unico fattore di rischio accettato, numerosi studi si sono focalizzati sull’ipotesi di vari agenti esogeni infettivi come potenziali agenti eziologici. I virus dell’Epatite B, della varicella, della rosolia, della parotite, gli adenovirus sono alcuni degli agenti virali presi in considerazione. Ampiamente studiato è il virus di Epstein-Barr (EBV), appartenente alla famiglia degli Herpesviridae. Alte concentrazioni di anticorpi diretti contro EBNA (Epstein-Barr virus nuclear antigen)-1 sono stati rilevati nei pazienti con artrite reumatoide ed

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è stata suggerita un’associazione tra elevati livelli di questi ultimi e gli autoanticorpi caratteristici della malattia (FR e ACPA). EBNA-1 contiene, nella regione amminoterminale, una sequenza ripetuta di Arg-Gly che viene riconosciuta dall’enzima PAD e citrullinata, rendendola così identificabile dagli anticorpi endogeni diretti contro le proteine che contengono un residuo di citrullina. E’ ormai noto che l’infezione da EBV promuove la produzione di ACPA, i quali possono essere rilevati utilizzando come substrato il peptide virale deimminato EBNA-1.[22] In accordo con una recente meta-analisi pubblicata sulla rivista Arthritis Research &

Therapy non esisterebbe un’associazione causale tra EBV e artrite reumatoide anche se, come precisato dagli autori, ciò non preclude un ruolo del virus nella malattia.[23] Gli studi si sono concentrati anche su agenti batterici e tra questi si è ipotizzato un coinvolgimento di batteri quali lo streptococco, alcune specie di clostridi, l’Escherichia Coli, i micobatteri. Recentemente l’attenzione si è focalizzata su Porphyromonas gingivalis che, annidandosi nel cavo orale, è responsabile della genesi e della progressione di parodontiti. Si tratta dell’unico organismo procariotico che esprime l’enzima PAD e risulta in grado di citrullinare, in vitro, proteine sia batteriche sia umane contenenti arginina. La capacità di convertire qualsiasi residuo di arginina nell’amminoacido atipico citrullina, ha condotto all’ipotesi che l’infezione da P. gingivalis possa avere un notevole impatto sulla progressione dell’artrite reumatoide.[24, 25]

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Le articolazioni sono strutture anatomiche che uniscono le varie ossa fra loro permettendo la mobilità reciproca ed il sostegno dello scheletro. Quelle interessate dalle malattie reumatiche sono le diartrosi, ovvero articolazioni che consentono ampi movimenti e che per questo motivo sono anche definite “mobili”. La diartrosi si costituisce di varie parti fondamentali e costanti: le superfici articolari, la capsula articolare e la cavità articolare occupata dal liquido sinoviale.[26]

La capsula articolare è un manicotto di tessuto connettivo fibroso con abbondanti fibre collagene a disposizione parallela e scarsi fibroblasti. Tra i fasci di fibre sono disposti piccoli vasi, fibre elastiche e rare terminazioni nervose. Riveste interamente le due superfici articolari e si compone di due strati: uno esterno, di natura fibrosa ed in continuità con il periostio, che prende il nome di capsula fibrosa; uno interno, più sottile ed elastico, che prende il nome di membrana sinoviale e che tappezza la cavità articolare. La capsula articolare è rinforzata da legamenti, cioè cordoni di tessuto fibroso o fibroelastico che hanno il compito di stabilizzare l’articolazione e renderla meno soggetta a lesioni traumatiche. I legamenti possono essere intracapsulari se si trovano all’interno della cavità capsulare o extracapsulari. I legamenti si inseriscono sul capi ossei mediante una giunzione osteotendinea (entesi), frequentemente sede di patologie reumatiche.

La membrana sinoviale è una sottile membrana di tessuto connettivo di derivazione mesenchimale che riveste la superficie luminale delle capsule articolari e la parte articolare dell’osso. Ricopre tutte le strutture dell’articolazione ad eccezione della cartilagine, della porzione centrale dei menischi e delle cosiddette aree nude dell’osso subcondrale, ove la membrana sinoviale poggia sull’osso che a questo livello non è protetto da cartilagine. La si trova a rivestire anche i legamenti articolari ed i tendini. La membrana sinoviale è una lamina posta tra il sistema vascolare della capsula articolare e la cavità articolare dove può sollevarsi formando estroflessioni definite villi sinoviali. Talvolta si solleva in pieghe e creste festonate chiamate frange sinoviali. La membrana sinoviale si compone di uno strato più interno (intima o lining sinoviale) di spessore variabile e generalmente discontinuo, costituito da una

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serie di strati (da 1 a 4) di cellule proprie del tessuto: i sinoviciti. Essi hanno caratteristiche morfologiche diverse e si distinguono in sinoviciti di tipo A e di tipo B. L’intima poggia su uno strato subintimale (o sublining) riccamente vascolarizzato e costituito da tessuto connettivo lasso mentre è del tutto assente una membrana basale. Il lining sinoviale rappresenta la barriera tra il plasma ed il liquido sinoviale e attraverso essa avviene lo scambio dei soluti.

I sinoviciti sono cellule delle dimensioni di 6-12 µm di diametro, hanno la funzione di produrre i costituenti proteici del liquido sinoviale e di rimuovere detriti. Si distinguono in sinoviciti macrofago-simili (di tipo A) e sinoviciti fibroblasto-simili (di tipo B), in virtù delle loro peculiarità cellulari che li rendono, rispettivamente, idealmente somiglianti ai macrofagi ed ai fibroblasti. La loro identificazione, distinzione e caratterizzazione è stata resta possibile mediante microscopia elettronica.

I sinoviciti macrofago-simili (di tipo A) hanno una localizzazione preferenziale sul versante luminale del lining sinoviale. Possiedono lisosomi, vacuoli, vescicole pinocitotiche ed un apparato di Golgi ben sviluppato e la loro superficie è ricoperta da microvilli. Tutte queste caratteristiche li accomunano ai macrofagi e rendono conto della loro attività fagocitaria. Fisiologicamente hanno il compito di rimuovere dalla cavità articolare materiali come detriti cellulari, componenti extracellulari, antigeni e microrganismi. Inoltre sulla loro superficie cellulare sono espressi recettori per il frammento Fc delle IgG e tipici markers macrofagici come CD14 e CD11b. I sinoviciti fibroblasto-simili (di tipo B) possiedono un nucleo voluminoso circondato da poco citoplasma e numerosi nucleoli. La caratteristica ultrastrutturale principale di queste cellule è la presenza di un abbondante reticolo endoplasmatico rugoso e numerose vescicole di secrezione che rendono conto di una cospicua attività sintetica e secretoria. A differenza dei sinoviciti di tipo A, contengono vacuoli in numero ridotto e non esprimono alcun recettore per il dominio Fc delle IgG. Secernono numerose sostanze come glicoproteine di matrice (laminina e fibronectina) probabilmente responsabili dell’ancoraggio delle cellule alla matrice, acido ialuronico, fibre collagene di tipo I e II, proteoglicani, proteasi, citochine e

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All’interno della cavità articolare è contenuto il liquido sinoviale elaborato dagli elementi cellulari della membrana sinoviale. Esso ha la funzione di lubrificale le superfici articolari favorendo il movimento e fornire nutrienti per la cartilagine. È un dialisato del plasma che passa dalle fenestrature dell’endotelio dei capillari e attraversa il tessuto connettivo lasso della membrana sinoviale per raggiungere la cavità articolare.

La superficie articolare, rivestita da cartilagine ialina, è liscia, traslucida, di colore madreperlaceo e possiede uno spessore variabile in relazione al carico articolare a cui è sottoposta. Ha la funzione di favorire lo scorrimento delle superfici articolari. È costituita da due strati: uno strato profondo, mineralizzato ed impermeabile, a contatto con l’osso subcondrale ed uno strato superficiale rivolto verso la cavità articolare. Il nutrimento della cartilagine avviene tramite diffusione dal liquido sinoviale; ne consegue che alterazioni nella composizione di quest’ultimo si traducono in una variazione dell’apporto metabolico alla cartilagine. Le uniche cellule presenti, intersperse all’interno di lacune tra le fibre collagene, sono i condrociti. Sono cellule metabolicamente attive responsabili della produzione della matrice.

All’omeostasi della cartilagine provvede un complesso equilibrio che mette in gioco citochine anaboliche (fattori di crescita) e cataboliche (metalloproteasi di matrice). La perdita di questo equilibrio, con una prevalenza dei fenomeni di degradazione, porta a lesioni cartilaginee ed ossee. Le MMPs agiscono a pH neutro, degradano i componenti della matrice extracellulare della cartilagine e richiedono la presenza dello ione metallico Zn2+ come cofattore. Pertanto, oltre ad essere coinvolte nel

normale turnover della cartilagine, nel rimodellamento e nei processi fisiologici di sviluppo, sono implicate anche in meccanismi patologici che stanno alla base di malattie come l’artrite reumatoide. La famiglia delle MMPs comprende vari tipi di enzimi classificati sulla base della composizione dei loro domini. Si distinguono pertanto collagenasi (MMP-1, MMP-8 e MMP-13), gelatinasi (MMP-2 e MMP-9),

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stromelisine (MMP-3, MMP-10, MMP-12) e metalloproteasi di membrana (MT1-MMP, MT2-(MT1-MMP, MT3-(MT1-MMP, MT4-MMP). Le collagenasi degradano il collagene, soprattutto di tipo II, rompendo la struttura a tripla elica in un sito vicino all’estremità amminoterminale. L’espressione di questi enzimi è regolata da fattori di trascrizione espressi dalle cellule del tessuto sinoviale ed in particolare la sintesi di MMP-13 è up-regolata dal TNF e da IL-1. Questo enzima rappresenta un target terapeutico per la protezione della cartilagine. Le stromelisine degradano i proteoglicani, la fibronectina e la laminina. Così come per MMP-13 anche MMP-3, espressa abbondantemente nell’artrite reumatoide, è stimolata da TNF e IL-1.[28, 29] E’ stato dimostrato che elevati livelli sierici di MMP-3 sono significativi indicatori predittivi di progressione radiografica del danno articolare, suggerendo un loro utilizzo come nuovi markers biologici.[30]

La membrana sinoviale è il bersaglio dell’infiammazione che caratterizza l’artrite reumatoide, sebbene le modificazioni patologiche a carico di questo tessuto non siano esclusive di questa malattia ma si possano riscontrare anche in altre forme reumatiche. È nello stadio precoce della malattia che avvengono alterazioni istopatologiche a carico della membrana sinoviale; queste includono iperplasia del lining, ipertrofia delle cellule costituenti, infiltrazione di cellule infiammatorie nel sublining e neoangiogenesi.

L’artrite reumatoide origina dalla risposta immunitaria sviluppata nei confronti di un peptide artrogenico, sia esso un antigene esogeno oppure un autoantigene. L’antigene viene fagocitato e processato da cellule presentanti l’antigene (cellule dendritiche, macrofagi e linfociti B attivati) per essere poi esposto sulla superficie cellulare associato a molecole HLA di classe II. Il peptide antigenico viene così presentato ai linfociti T CD4+ ma il solo legame con il recettore localizzato sulla membrana del recettore non è sufficiente per l’attivazione cellulare; è necessario un meccanismo di co-stimolazione attraverso il quale la proteina CD28 espressa sulla superficie del linfocita si lega alle proteine CD80 e CD86 della cellula presentante l’antigene. L’attivazione dei linfociti T stimola il fattore di trascrizione per l’IL-2, un fattore di crescita che promuove l’espansione clonale ed il differenziamento in sottopopolazioni linfocitarie: Th1, Th2, Th17 e Treg. Queste secernono una grande

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sono stimolati a produrre autoanticorpi come il fattore reumatoide, diretto contro la porzione Fc delle immunoglobuline. Particolare importanza riveste l’equilibrio tra linfociti Th17, capaci di supportare la risposta immunitaria attraverso la produzione di un gran numero di mediatori, e Treg, aventi funzione soppressoria e coinvolti nel mantenimento della tolleranza. Nell’artrite reumatoide si assiste ad uno squilibrio tra questi due subset linfocitari con predominanza dei meccanismi proinfiammatori e perdita, da parte dei linfociti Treg, della capacità di controllo sulla risposta immunitaria.[31] Le citochine proinfiammatorie, con le loro azioni spesso ridondanti e pleiotropiche, mediano la comunicazione intercellulare nella risposta immunitaria innata o acquisita. Uno squilibrio tra citochine proinfiammatorie e antinfiammatorie, con predominanza di quest’ultime, porta ad uno stato flogistico in grado di compromettere la funzionalità dell’articolazione: la sinovite.[32] Essa è caratterizzata dall’infiltrazione di un gran numero di cellule all’interno dell’articolazione, promossa da fattori chemotattici e dall’espressione di molecole di adesione presenti sulle cellule endoteliali. I linfociti T rappresentano circa il 30-50% dell’infiltrato e la restante parte è costituita dagli altri tipi cellulari. Altre alterazioni istologiche peculiari sono l’iperplasia del lining sinoviale che porta ad uno stato di ipossia e conseguente formazione di nuovi vasi sanguigni allo scopo di compensare la bassa pO2 tissutale. Questa complessa cascata di fenomeni ed il coinvolgimento di

molteplici elementi cellulari che agiscono in sinergia tra loro attraverso il contatto diretto oppure mediato da proteine solubili, porta al danno articolare. Si assiste dunque alla distruzione della cartilagine ad opera delle metalloproteasi prodotte dai sinoviciti fibroblasto-simili e da altri enzimi di matrice mentre il numero dei condrociti si riduce probabilmente a causa della stimolazione di fenomeni apoptotici a loro carico. A livello dell’osso subcondrale, i mediatori solubili dell’infiammazione promuovono l’osteoclastogenesi, ovvero la differenziazione degli osteoclasti che portano con sé un corredo di enzimi idrolitici in grado di distruggere la matrice ossea.[33, 34]

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Figura 2 Meccanismi della risposta immunitaria che conducono alla produzione di autoanticorpi, alla sinovite e al danno articolare. Riprodotto con permesso da[33]. Copyright Massachusetts Medical Society.

Schematicamente si possono distinguere cinque stadi patogenetici, ognuno dei quali associato a specifiche caratteristiche cliniche e radiologiche.

Stadio 1:

Le cellule presentanti l’antigene (macrofagi e cellule dendritiche), localizzate nella membrana sinoviale, fagocitano l’antigene ed una volta processato lo espongono ai linfociti T helper CD4+ associandolo all’HLA di classe II. In questo primo stadio non vi sono modificazioni istologiche evidenti e la sintomatologia è assente.

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aspetto ipertrofico. Caratteristica di questa fase è la formazione del cosiddetto panno sinoviale, un tessuto derivante dalla membrana sinoviale e localizzato all’interfaccia tra essa e la cartilagine. I componenti del panno sono in parte cellule fibroblasto-simili ed in parte nuovi elementi cellulari chiamati pannociti. I primi degradano la cartilagine grazie alla loro capacità di secernere proteinasi; i secondi esprimono la molecola di adesione VCAM-1 e sembrano anch’essi coinvolti nei processi di erosione articolare.[35] L’ipertrofia del panno sinoviale si traduce nella formazione di estroflessioni che possono essere considerate dei veri e propri villi sinoviali. All’interfaccia tra panno ed osso sono invece presenti elementi che fenotipicamente si possono ricondurre agli osteoclasti e sono responsabili del processo di erosione dell’osso. Contemporaneamente le cellule della linea monocitica-macrofagica secernono citochine (TNF, IL-1, IF-γ) che stimolano ed attivano i linfociti B ed i leucociti polimorfonucleati, i quali vengono reclutati nel sito di infiammazione. L’infiltrato infiammatorio all’interno della membrana sinoviale risulta composto da vari tipi cellulari: linfociti T, linfociti B, plasmacellule, macrofagi, cellule dendritiche e natural killer, occasionalmente neutrofili (maggiormente presenti nel liquido sinoviale). Tuttavia si ha predominanza di linfociti e macrofagi. Questi ultimi sono di rilevanza considerevole nella produzione di numerose citochine, tra cui TNF ed IL-1. I linfociti B, sotto l’azione delle citochine sono stimolati a produrre autoanticorpi i quali sono una peculiarità dei processi infiammatori dell’artrite reumatoide. Tra questi il più importante è il fattore reumatoide che riconosce la porzione Fc delle IgG e si lega ad essa. Gli immunocomplessi così originati si trasferiscono nel liquido sinoviale dove attivano il complemento. I neutrofili, predominanti nel liquido sinoviale, vanno incontro a degranulazione e fagocitano detriti cellulari e materiale fibrinoso. Tale attività è indotta da IL-1 e IL-8; quest’ultima è un fattore chemotattico per i neutrofili, promuove la migrazione verso il sito di flogosi ed attiva la fagocitosi. In questo stadio sono rilevabili i primi sintomi della patologia quali dolorabilità alla digitopressione, rigidità mattutina e astenia.

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Stadio 3:

E’ caratterizzato dai medesimi processi patologici che progressivamente si fanno più accentuati. Il quadro della sintomatologia si aggrava e compaiono dolore, tumefazione, arrossamento cutaneo e limitazione funzionale dell’articolazione infiammata. A questo stadio si riscontrano le prime alterazioni radiologiche che manifestano un ispessimento della capsula articolare.

Stadio 4:

Il panno sinoviale, che inizialmente si origina tra la cartilagine e la membrana sinoviale, inizia a proliferare e svilupparsi in direzione centripeta. Invade ed erode la cartilagine ialina, i tendini e l’osso subcondrale. I macrofagi ed i fibroblasti secernono mediatori proinfiammatori come il TNF che promuove l’adesione molecolare alle cellule endoteliali e l’infiltrazione di leucociti; inoltre stimola la produzione di altri mediatori infiammatori come IL-1 e IL-6. La risposta proliferativa è accompagnata da distruzione della matrice proteica della cartilagine articolare. Il quadro clinico mostra un peggioramento dei segni di flogosi ed una più accentuata limitazione funzionale dell’articolazione. All’esame radiografico si riscontra un ispessimento della capsula con riduzione dello spazio articolare, entrambi causati dai fenomeni di distruzione a carico della cartilagine.

Stadio 5:

Il panno sinoviale continua a proliferare ed invade la cartilagine e l’osso sub- condrale, riempiendo l’articolazione. Ne consegue che le strutture periarticolari, come tendini e legamenti, risultano fortemente danneggiate e ciò si traduce in una ancora più pronunciata limitazione funzionale nonché sviluppo di deformità. La sintomatologia è di grado elevato e possono comparire manifestazioni extra-articolari.[36]

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Nel tessuto infiammatorio si assiste ad una angiogenesi patologica. Mentre la formazione di nuovi vasi sanguigni a partire da una vascolarizzazione preesistente è fisiologica durante lo sviluppo embrionale e nei processi di riparazione tissutale, nell’adulto è una caratteristica di fenomeni patologici come neoplasie, infiammazioni croniche, diabete. Durante l’infiammazione nel corso dell’artrite reumatoide, l’iperplasia sinoviale conduce ad uno stato di ipossia ed ipoperfusione dei tessuti a causa della distanza dai vasi sanguigni che risulta aumentata così come la richiesta di nutrienti ed ossigeno. La bassa pressione parziale di ossigeno rappresenta il fattore primario inducente l’angiogenesi, la quale ha la funzione di supplire a tali richieste di ossigeno nelle regioni ipossiche. Sebbene l’angiogenesi sia un risposta ad una sinovite, essa stessa è in grado di sostenere lo stato di infiammazione cronica locale perché consente la migrazione e l’infiltrazione di linfociti e macrofagi che producono un gran numero di mediatori proinfiammatori in grado di mantenere l’artrite. Tuttavia, in condizioni patologiche, la formazione di nuovi vasi produce una rete vascolare altamente disorganizzata e disfunzionale che non risolve lo stato di ipossia tissutale.[37] E’ stato dimostrato che l’ipossia e lo stress ossidativo che ne consegue svolgono un ruolo chiave nel processo di formazione e nel mantenimento dello stato infiammatorio: una ridotta pO2 nei tessuti promuove l’espressione

dell’enzima NOX-2, una isoforma della NADPH ossidasi, il quale è responsabile della produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS), molecole segnale in vari processi tra cui l’angiogenesi.[38]

La formazione di nuovi vasi sanguigni è strettamente regolata e promossa dalla presenza di numerosi fattori proangiogenetici quali fattori di crescita, citochine, chemochine, molecole di adesione, proteasi. Il più noto e potente è il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF), la cui produzione da parte dei fibroblasti sinoviali del panno è indotta dall’ipossia presente nel sito di infiammazione. Elevati livelli sierici sono stati riscontrati in pazienti con artrite reumatoide rispetto ad individui sani; inoltre essi correlano positivamente con la proteina C-reattiva, un marker dell’infiammazione e dell’attività della malattia.[39] VEGF stimola la proliferazione delle cellule endoteliali, che migrano verso il tessuto ipossico

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seguendo il gradiente di concentrazione, facilitate dall’azione di enzimi proteolitici che degradano la membrana basale del vaso ed i componenti della matrice extracellulare. Segue la generazione di nuovi capillari con la realizzazione di giunzioni strette tra cellule, la formazione del lume, l’anastomosi tra i capillari neoformati e la sintesi della nuova membrana basale.[40] VEGF è prodotto in risposta alla stimolazione da parte di varie citochine proinfiammatorie come IL-1, TNF-α, TGF-β e la sua trascrizione è regolata dal fattore di trascrizione indotto da ipossia (HIF). Si tratta di una famiglia di fattori di trascrizione che rispondono a diminuzioni della pO2 tissutale: se in condizioni normali le subunità 1α e

HIF-1β vengono idrossilate da idrossilasi ossigeno-dipendenti che le rendono ipoattive, in condizioni ipossiche la mancanza di ossigeno rende il complesso più stabile ed attiva una maggiore risposta trascrizionale di fattori proangiogenetici al fine di supplire la mancanza di ossigeno.[41] Macrofagi, sinoviciti fibroblasto-simili, mastcellule, linfociti T e B rappresentano le cellule produttrici di un’ampia varietà di molecole proangiogenetiche; accanto ad esse si trovano mediatori angiostatici endogeni in grado di inibire la neovascolarizzazione. Esiste quindi un equilibrio fra fattori angiostatici e proangiogenetici che nell’AR risulta spostato in favore di questi ultimi. L’angiogenesi, oltre a rappresentare un target terapeutico per il suo ruolo nella migrazione e nell’ingresso dei leucociti nello spazio sinoviale, è anche un marker che identifica la progressione della malattia ed è spesso considerato un indicatore della variazione tra forma acuta e cronica della malattia. Numerosi sono gli agenti antireumatici in grado di inibire la formazione di nuovi vasi nel corso della malattia, avendo come targets fattori di crescita, citochine, chemochine e molecole di adesione cellulare. Gli inibitori del TNF ed alcuni DMARD usati in terapia, oltre ad avere proprietà antinfiammatorie, possiedono la capacità di inibire la neo- vascolarizzazione del tessuto sinoviale.[37, 40]

I processi coinvolti nell’angiogenesi possono essere inoltre sfruttati per veicolare selettivamente molecole bioattive coniugate con un anticorpo in grado di localizzarsi selettivamente a livello dei vasi di nuova formazione nelle lesioni artritiche. Questo approccio, ampiamente studiato nella terapia dei tumori, rappresenta una nuova prospettiva terapeutica nell’ambito delle malattie infiammatorie croniche.

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Figura 3 Elementi cellulari e fattori solubili che promuovono l’angiogenesi in corso di artrite reumatoide.[40]

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Autoanticorpi

Il primo autoanticorpo identificato nei pazienti affetti da artrite reumatoide è stato, nel 1940[42], il fattore reumatoide (FR) corrispondente ad una famiglia di autoanticorpi diretti contro la porzione Fc delle immunoglobuline. Tale porzione è fondamentale per il legame con il corrispondente recettore FcR, localizzato sulla membrana di diverse cellule del sistema immunitario: macrofagi, linfociti, neutrofili etc. La scoperta del fattore reumatoide ha portato alla luce il contributo di meccanismi immunitari coinvolti nella patogenesi dell’artrite reumatoide. Questo fattore viene infatti prodotto dai linfociti B presenti nel tessuto infiammato ma non è del tutto chiaro il suo ruolo nello sviluppo della malattia essendo un autoanticorpo dotato di bassa specificità, riscontrabile dunque anche in altre patologie. Forma immunocomplessi principalmente con le IgM ma anche con le IgG e le IgA (sebbene questi ultimi siano rilevabili meno frequentemente) che sono capaci di amplificare la risposta immunitaria. La presenza contemporanea di elevati livelli di FR, specialmente l’isotipo IgM, e di ACPA nelle fasi presintomatiche della malattia può accelerarne lo sviluppo ed essere dunque un indicatore prognostico.[43] Il FR rappresenta un importante marker sierologico ed è incluso nei criteri classificativi dell’American College of Rheumatology.

Tra i markers più significativi dell’artrite reumatoide ci sono anche gli anticorpi anti-peptidi citrullinati (ACPA); a differenza di altri autoanticorpi, come il FR, quelli diretti contro le proteine citrullinate si riscontrano specificatamente nei pazienti con artrite reumatoide mentre sono assenti nei pazienti sani. Essi sono diretti contro proteine contenenti l’amminoacido non naturale citrullina. Questo si forma a partire dai residui di arginina a seguito di una deimminazione da parte dell’enzima calcio dipendente peptidilarginina deimminasi (PAD).[44] Tale alterazione si traduce in un cambiamento delle caratteristiche biochimiche dell’amminoacido (massa, pH e pI, capacità di formare legami ad idrogeno con altri amminoacidi) che dunque viene riconosciuto come determinante antigenico da autoanticorpi presenti nel siero dei pazienti, generando una risposta immunitaria ed un’induzione dei fenomeni erosivi ed aggressivi della malattia.[45]

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Figura 4 Reazione di deimminazione dell’arginina a citrullina, ad opera dell’enzima PAD. L’enzima presenta un residuo di cisteina che attacca il gruppo guanidinico del residuo di arginina del polipeptide: si forma un addotto che, a seguito di una reazione di idrolisi, libera ammoniaca ed il polipeptide citrullinato, il quale viene riconosciuto come antigene dagli autoanticorpi.

Nell’uomo esistono cinque diverse isoforme dell’enzima. La citrullinazione avviene principalmente a carico di proteine del citoscheletro come filaggrina, vimentina e citocheratina e localizzate prevalentemente a livello del panno sinoviale. Nel 2010 l’American College of Rheumatology ha introdotto questi autoanticorpi all’interno delle linee guide dell’EULAR, identificandoli come biomarkers diagnostici della malattia.[46] I pazienti con artrite reumatoide possono essere classificati in due sottopopolazioni in base alla presenza o alla mancanza di anticorpi diretti contro le proteine citrullinate. Il 50-70% dei pazienti risulta ACPA+; la presenza di questi

autoanticorpi è rilevata precocemente ed è indice di una maggiore severità della malattia.[47] Gli ACPA si legano agli osteoclasti promuovendo la loro differenziazione e maturazione, quindi il riassorbimento osseo. Gli osteoclasti attivati producono IL-8 che da un lato sostiene l’osteoclatogenesi e dall’altro induce dolore attraverso la stimolazione dei recettori CXCR1/2 sui neuroni sensitivi.[48-50] La presenza di alleli codificanti lo shared epitope è associata alla produzione di ACPA ed anche il fumo di sigaretta rappresenta un considerevole fattore di rischio ambientale nei pazienti ACPA+. È stato inoltre suggerito un contributo degli ACPA

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possono contribuire all’infiammazione reclutando i leucociti e modulando la permeabilità vascolare.[47] In un recente studio, è stato identificato come possibile biomarker predittivo dell’insorgenza della malattia la Tenascina-C citrullinata (cTNC). La Tenascina-C è una glicoproteina della matrice extracellulare, up-regolata durante l’infiammazione e presente in grado elevato nelle articolazioni dei pazienti con artrite reumatoide; essa viene citrullinata da PAD e riconosciuta da autoanticorpi, scatenando la risposta immune. Nello stesso studio è stata valutata la possibilità di sfruttare anticorpi diretti contro cTNC come test diagnostico ed è stato suggerito un potenziale ruolo della proteina nell’eziologia della malattia.[51]

Un altro gruppo di anticorpi, che si suppone abbiano un ruolo importante nella patogenesi dell’artrite reumatoide, è quello costituito da anticorpi diretti contro la ribonucleoproteina eterogenea A2 (hnRNP-A2), sovraespressa nei tessuti sinoviali. Inizialmente denominata RA33, la hnRNP-A2 è una proteina nucleare di circa 33 KDa associata al pre-mRNA e coinvolta nello splicing e nel trasporto dell’mRNA neoformato dal nucleo al citoplasma. Autoanticorpi diretti contro hnRNP-A2 sono stati per la prima volta identificati nel 1989 e sono rilevati nel 36% dei pazienti.[52] Studi su modelli animali hanno evidenziato un’elevata reattività dei linfociti T nei confronti dell’autoantigene hnRNP-A2 e gli anticorpi diretti contro questa proteina si riscontrano già nelle fasi precoci della malattia.[53]

Nei pazienti con artrite reumatoide sono inoltre stati identificati autoanticorpi diretti contro altre proteine come la glucosio-6-fosfato isomerasi, la glicoproteina-39, il collagene di tipo II, le proteine da shock termico (HSPs) tra cui la GRP78/BiP.[54]

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Attualmente la diagnosi di artrite reumatoide si basa sui criteri elaborati nel 2010 dall’American College of Rheumatology unitamente all’European League Against Rheumatism. La predisposizione di questo set di criteri si è resa necessaria come conseguenza di un sempre più acceso dibattito sull’inadeguatezza dei vecchi criteri classificativi dell’American Rheumatism Association in uso dal 1987. Il concetto di artrite reumatoide ha visto così un’evoluzione alla luce della necessità di una diagnosi e terapia precoci, valorizzando quindi le fasi iniziali della terapia al fine di modificare lo sviluppo e la progressione della malattia. I nuovi criteri prendono in considerazione il numero ed il tipo di articolazioni coinvolte, i livelli sierici di FR e ACPA, indicatori dell’infiammazione come la velocità di eritrosedimentazione ed i livelli di proteina C-reattiva, la durata dei sintomi (Tabella I).

score

A. Convolgimento articolare (0-5)

1 grande articolazione 0

2-10 grandi articolazioni 1

1-3 piccole articolazioni (con o senza coinvolgimento di grandi articolazioni)

2 4-10 piccole articolazioni (con o senza coinvolgimento di

grandi articolazioni)

3 >10 articolazioni (almeno una piccola articolazione) 5

B. Sierologia (0-3)

FR negativo e ACPA negativo 0

FR a basso titolo o ACPA a basso titolo 2 FR ad alto titolo o ACPA ad alto titolo 3

C. Reattanti di fase acuta (0-1)

PCR normale e VES normale 0

PCR elevata e VES elevata 1

D. Durata dei sintomi (0-1)

<6 settimane 0

≥6 settimane 1

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Ad ognuno dei quattro domini (A, B, C e D) viene assegnato uno score: il punteggio massimo è 10 ed è necessario un valore ≥6 per classificare un paziente come affetto da artrite reumatoide. Tali criteri si applicano ai pazienti che mostrano le seguenti caratteristiche:

I. presenza confermata di almeno un’articolazione con sinovite clinica definita,

II. sinovite non spiegabile da altre cause.

Seppur intesi come criteri classificativi, possono risultare utili anche come guida nella diagnosi poiché prendono in considerazione aspetti caratteristici della malattia quali il coinvolgimento articolare, i rilievi sierologici e la presenza di una perdurante sintomatologia. [46, 55]

Per una corretta diagnosi sono necessari anche analisi di laboratorio: 1. Valutazione degli indici di flogosi:

- aumentata velocità di eritrosedimentazione (VES) - elevati livelli di proteina C-reattiva

2. Positività al fattore reumatoide 3. Positività agli anticorpi anti-CCP

4. Analisi del liquido sinoviale che mostra un aspetto viscoso, torbido e presenta un’elevata concentrazione proteica[56]

E’ inoltre fondamentale il costante monitoraggio del danno a carico delle articolazioni al fine di confrontarne nel tempo il deterioramento e valutare la progressione della malattia. A tale scopo si utilizzano tecniche diagnostiche non invasive quali la radiografia tradizionale, la risonanza magnetica nucleare (RMN) e l’ecografia articolare.

Poiché l’artrite reumatoide è una patologia caratterizzata da una compromissione della qualità della vita, sono stati elaborati indici clinimetrici utili a raccogliere informazioni e documentare lo stato di salute del paziente, la disabilità, il livello di attività della malattia.[36, 57]

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• Indice articolare di Ritchie (RAI): è una misura della dolorabilità articolare a seguito della digitopressione.

• Numero di articolazioni tumefatte (SJC) e dolenti (TJC)

• Scale analogiche di valutazione del dolore articolare (VAS-dolore): scale visuoanalogiche per l’indicazione, da parte del paziente, del dolore soggettivo provato.

• Valutazione globale dell’attività di malattia (GH): attraverso l’utilizzo di una scala analogica visiva il paziente esprime un giudizio sullo stato generale di salute.

• Disease Activity Score (DAS): viene calcolato sulla base dei valori di VES, SJC, RAI, VAS. Il punteggio ottenuto attraverso l’applicazione di una formula indica il livello di attività della malattia. Spesso viene utilizzata una versione semplificata che prende il nome di DAS28.

Valutazione della disabilità:

• Health Assessement Questionnaire (HAQ): è un questionario in cui il paziente esprime, attraverso l’assegnazione di punteggi, le difficoltà concernenti lo svolgimento di alcune fra le più comuni attività quotidiane.

Valutazione della qualità della vita:

• Medical Outcomes Study-Short-Form (SF-36): è un questionario autosomministrato con indici che prendono in considerazione lo stato di salute fisico e mentale del paziente.

Valutazione del danno radiologico:

• Van der Heijde-modified Sharp score: è un indice di progressione del livello di erosione osteoarticolare.

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Terapia

A partire dagli anni ‛50 fino alla metà degli anni ‛80 la linea seguita nel trattamento dell’artrite reumatoide prevedeva un approccio cosiddetto piramidale. Esso consisteva in un periodo prolungato di terapia con analgesici e farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), eventualmente in associazione con basse dosi di glucocorticoidi, posticipando l’utilizzo dei cosiddetti DMARD (farmaci antireumatici in grado di modificare il decorso della malattia) disponibili, come penicillamina o sali d’oro, considerati meno sicuri sotto il profilo della tossicità. Il concetto era quello di iniziare con una terapia più sicura sostituendola con una progressivamente più aggressiva, qualora si ritenesse necessario.[58] Questo tipo di approccio portava inevitabilmente al peggioramento della maggior parte dei pazienti in quanto i FANS, nonostante migliorino la sintomatologia infiammatoria, non bloccano la progressione della malattia né sono in grado di evitare la distruzione articolare. I progressi nella conoscenza e nella valutazione della malattia fatti negli anni successivi hanno dimostrato non solo che tale approccio non preservava dal danno articolare ma che questo si verificava precocemente, nei primi due anni a partire dalla comparsa dei primi sintomi. L’impiego, a partire dal 1988, di basse dosi orali settimanali di metotressato come efficace e sicuro trattamento dell’artrite reumatoide, ha portato ad una rivalutazione del tradizionale approccio piramidale che è stato così abbandonato in favore di un nuovo modello terapeutico. L’uso dei DMARD e la recente introduzione di farmaci biologici ha indirizzato la terapia verso un approccio più aggressivo con lo scopo di raggiungere il miglior successo possibile. Evidenze hanno dimostrato come, al fine di ottenere il massimo beneficio dalla terapia, di rallentare la progressione e ridurre la disabilità, sia necessario l’impiego dei DMARD già nelle fasi precoci della malattia.[59]

La terapia farmacologica si attua con farmaci sintomatici e farmaci cosiddetti “di fondo”. I primi sono rappresentati da analgesici, FANS e corticosteroidi che non sono in grado di alterare in alcun modo il decorso della malattia ma diminuiscono in breve tempo il dolore e l’infiammazione; i secondi sono una categoria eterogenea di agenti terapeutici ed oltre a migliorare la sintomatologia, riducono il grado di

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sulfasalazina sono considerati farmaci di prima scelta il cui utilizzo nel trattamento dovrebbe essere iniziato non appena formulata la diagnosi, come indicato nelle linee guida dell’EULAR.[60, 61]

Una più recente classe di agenti terapeutici è quella dei farmaci biologici. Essi si sono sviluppati parallelamente alle nuove tecniche di biologia molecolare e rappresentano strategie mirate, agendo selettivamente su alcuni dei meccanismi responsabili della patogenesi della malattia. A causa delle loro attività immuno- modulatorie si rende necessario il monitoraggio del paziente ed un’attenta osservazione riguardo il profilo di sicurezza a lungo termine. E’ stata infatti determinata un’associazione statisticamente rilevante tra l’impiego dei farmaci biologici ed alcune reazioni avverse come lo sviluppo di linfomi ed infezioni anche se, vista la complessità dei processi biologici che sottostanno alle risposte del sistema immunitario, questi dati devono essere interpretatati con la doverosa cautela.[62-64]

Inibitori del TNF-α

Il TNF è una citochina coinvolta nei processi infiammatori. Viene inizialmente sintetizzato come una proteina transmembrana omotrimerica di 212 amminoacidi per poi andare incontro a scissione proteolitica ad opera dell’enzima TNF-α converting enzyme (TACE). Entrambe le forme sono attive. I macrofagi sono la principale fonte di TNF che comunque può essere sintetizzato e rilasciato anche da altri elementi cellulari quali fibroblasti, cellule endoteliali, mastociti. Il TNF è in grado di legarsi a due diversi recettori chiamati TNF-R1 e TNF-R2, che mediano risposte apoptotiche e di sopravvivenza, rispettivamente. La porzione extracellulare di entrambi i recettori va incontro a scissione proteolitica per produrre proteine solubili in grado di legarsi al TNF. Le risposte infiammatorie mediate dal TNF sono in gran parte ascrivibili a p55 TNFRs. Sia p55 che p75 si riscontrano in elevate concentrazioni nel liquido sinoviale di pazienti affetti da artrite reumatoide. Il TNF-α mostra avere un ampio spettro di effetti che includono l’attivazione dei leucociti polimorfonucleati, dei monociti e dei fibroblasti sinoviali; la produzione di citochine, chemochine, molecole di adesione; il rilascio di prostaglandine e di enzimi di

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matrice; la promozione della distruzione della cartilagine. Il TNF-α è stata la prima citochina ad essere identificata come target terapeutico dell’artrite reumatoide e la sua inibizione da parte di anticorpi monoclonali (Infliximab, Adalimumab) o proteine ricombinanti (Etanercept) è risultata efficace nel trattare l’infiammazione indotta da AR. Questi agenti biologici si combinano con elevata affinità e specificità alla molecola di TNF-α impedendo il legame con i suoi recettori e quindi bloccando la cascata di eventi che portano alla formazione di citochine proinfiammatorie.[65]

Inibitori delle cellule T

I linfociti T rivestono un’importanza chiave nell’attivazione della risposta immune e nell’infiammazione che, nell’artrite reumatoide, conduce alla distruzione delle componenti articolari. L’attivazione dei linfociti T avviene grazie a due simultanee interazioni con le cellule presentanti l’antigene:

I. riconoscimento attraverso la presentazione dell’antigene al linfocita T da parte della cellula APC;

II. co-stimolazione che avviene attraverso diverse interazioni tra molecole localizzate sulle membrane cellulari dei due partecipanti. Una di queste è l’interazione tra la proteina CD28 espressa dal linfocita T e le proteine CD80 e CD86 espresse da APC. L’assenza della co-stimolazione in presenza del primo meccanismo di riconoscimento impedisce l’attivazione del linfocita T che resta in uno stato di inattività o ipoattività.

Una sovraespressione di CTLA4 segue l’attivazione del linfocita T; si tratta di un recettore la cui interazione con i propri ligandi (CD80/CD86) genera un segnale di tipo inibitorio sulla cellula, modulando così la risposta immunitaria.

Abatacept, denominato anche CTLA4Ig, è una proteina ricombinante umana costituita dal dominio extracellulare di CTLA4 ed un frammento del dominio Fc della IgG1 umana. La porzione CTLA4 si lega alle proteine CD80/86 delle cellule APC bloccando il meccanismo di co-stimolazione sopra descritto, necessario per la completa attivazione delle cellule T.[66, 67]

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ruolo di cellule presentanti l’antigene e nella capacità di produrre citochine ed autoanticorpi. Queste cellule rappresentano dunque dei potenziali bersagli terapeutici ed il Rituximab, sviluppato in origine per il trattamento del linfoma non Hodgkin, viene utilizzato a questo scopo essendo in grado di ridurre il numero di cellule B sia normali che maligne.

Rituximab è un anticorpo monoclonale chimerico (circa 20% murino e 80% umano) che possiede un’elevata affinità per la fosfoproteina CD20 espressa sulla superficie dei linfociti B. Determina la deplezione di questi ultimi attraverso un meccanismo d’azione non ancora del tutto noto ma che probabilmente coinvolge l’attivazione del complemento e di fenomeni apoptotici.[67, 68]

Inibitori dell’IL-6

L’interleuchina-6 è una citochina prodotta dai condrociti, dai sinovicti fibroblasto-simili ma soprattutto dai macrofagi. Presenta due siti di ancoraggio per il legame con due unità della glicoproteina gp130, ubiquitaria sulle membrane cellulari, e un sito di legame per il proprio recettore (IL-6R). I complessi così formati innescano segnali di trasduzione che portano alle molteplici attività biologiche governate dall’IL-6.[69] Promuove l’infiltrazione delle cellule infiammatorie, l’angiogenesi, la produzione di autoanticorpi (come il fattore reumatoide) e metalloproteasi, l’incremento delle proteine C-reattiva (CRP) e sieroamiloide A (SAA), l’attivazione degli osteoclasti coinvolti nella distruzione di cartilagine ed osso. Degna di nota è la sua attività sui linfociti T esplicata attraverso una stimolazione della differenziazione in Th17 ed una inibizione dello sviluppo delle cellule Treg; il risultante squilibrio fra queste due sottopopolazioni riveste una notevole importanza nella patogenesi dell’artrite reumatoide.[70]

Tocilizumab è un anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato anti IL-6R. Impedisce il riconoscimento dell’IL-6 da parte del suo recettore, sia nella forma legata alla membrana cellulare sia in quella solubile. Ne consegue che tutte le azioni promosse dalla citochina vengono inibite, lo squilibrio Th17/Treg viene rimosso ed i livelli sierici di CRP e SAA risultano normalizzati. [71, 72]

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Inibitori dell’IL-1

L’interleuchina-1 è una famiglia di citochine comprendente circa 11 molecole, prodotte da numerosi tipi cellulari ma soprattutto monociti e macrofagi. Le più studiate sono IL-1α e IL-1β, entrambe capaci di scatenare risposte pro-infiammatorie a seguito del legame con il recettore IL-1R, tipo 2 (IL-1R2). Esse promuovono la sintesi di ossido nitrico e prostaglandine che mediano vasodilatazione; l’espressione di molecole di adesione da parte delle cellule endoteliali; la produzione di MMPs; la secrezione di IL-6, IL-17, TNF ed ulteriore rilascio di IL-1 mediante stimolazione autoindotta. È stata identificata una citochina, IL1-RA (IL-1 Receptor Antagonist), che si comporta da inibitore competitivo del recettore Il-1R2. Il legame con il recettore non si traduce in attività biologica ma l’antagonismo competitivo neutralizza l’azione di IL-1α e IL-1β.

Tale scoperta ha portato a sviluppare il farmaco Anakinra, una forma ricombinante di IL1-RA che ne differisce per l’aggiunta di un residuo di metionina alla porzione amminoterminale della citochina. Si lega al recettore, inibendolo in maniera competitiva, annullando quindi l’attività di IL-1.[73, 74]

Il fine della terapia farmacologica è quello di raggiungere i seguenti obiettivi:

 abolire o attenuare l’infiammazione articolare e la sintomatologia dolorosa da essa prodotta,

 rallentare l’evoluzione e la progressione della malattia,  preservare o recuperare la funzione articolare,

 prevenire o limitare lo sviluppo delle deformità articolari,  correggere le deformità o attenuare le loro conseguenze,  indurre la remissione,

 aumentare la sopravvivenza.

Il raggiungimento della remissione o di una bassa attività della malattia rappresenta l’obiettivo terapeutico della strategia nota come treat-to-target (T2T). Si tratta di un approccio che si articola attraverso uno stretto monitoraggio del paziente ed una continua verifica del protocollo terapeutico, eventualmente rivalutato e modificato nel tempo, al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato e migliorare la prognosi.[75]

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Figura 5 Algoritmo treat-to-target.

Accanto alla terapia farmacologica è necessario un intervento mirato all’educazione del paziente che deve essere correttamente informato sulla natura e sulle conseguenze della malattia. Inoltre è ormai ampiamente accettato che un approccio multidisciplinare sia necessario per la corretta gestione del paziente affetto da artrite reumatoide. Dato il coinvolgimento articolare, di particolare importanza è la terapia riabilitativa al fine di prevenire danni nelle sedi compromesse e mantenere la funzione articolare. Utile è anche un supporto psicologico affinché il paziente sia guidato verso una giusta consapevolezza della malattia ed un’adeguata gestione dello stress psicologico.[36, 78]

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Dekavil

L’interleuchina-10 è una citochina antinfiammatoria, prodotta per la maggior parte dai monociti attivati e dalle cellule T, che gioca un ruolo importante nella risposta immunitaria e nelle reazioni infiammatorie. Si lega al suo specifico recettore (IL-10R), costituito da due subunità, IL-10R1 e IL-10R2, innescando una cascata fosforilativa da parte di tirosine chinasi che culmina nella modulazione di vari fattori di trascrizione che controllano l’espressione di molte proteine infiammatorie. In particolare l’IL-10 media l’inibizione di un gran numero di citochine e mediatori infiammatori.

Lo studio delle azioni di questa citochina, unito ad un sempre maggiore sviluppo ed impiego dei farmaci biologici, ha aperto la strada per un suo possibile utilizzo nel trattamento dell’artrite reumatoide: con l’ausilio di un anticorpo specifico può essere veicolata selettivamente nel sito infiammatorio.

Il Dekavil (F8IL10) è un farmaco biologico costituito dalla combinazione dell’IL-10 con il frammento F8 di un anticorpo che lega l’extra-dominio A (EDA) della fibronectina. EDA è associato all’angiogenesi e quindi selettivamente espresso nei tessuti infiammati e nelle lesioni artritiche, caratterizzate dalla presenza di vasi sanguigni di nuova formazione. E’ stata evidenziata una correlazione positiva tra la concentrazione di EDA nel liquido sinoviale ed il danno articolare.[79]

L’attività infiammatoria del Dekavil dipende dunque da due fattori: 1. l’azione immunomodulatoria dell’IL-10,

2. la capacità del frammento F8 della molecola di veicolare selettivamente la citochina nei tessuti infiammati e non in quelli sani.

La veicolazione di citochine al sito bersaglio mediante l’impiego di anticorpi rappresenta un nuovo approccio terapeutico, ampiamente studiato con successo nel corso degli ultimi anni soprattutto in campo oncologico [80, 81], applicato oggi anche per le malattie infiammatorie croniche come l’artrite reumatoide. L’utilizzo dei farmaci biologici è limitato dalla loro tossicità ed è dunque necessario migliorare le strategie terapeutiche al fine di ottenere farmaci meglio tollerati.

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farmaco e stabilito la maggiore efficacia dell’associazione rispetto alla monoterapia. In particolare, è stata dimostrata un’

nuova formazione in modelli murini di artrite collagene progressione della malattia nel topo speci

metotressato. Questi risultati hanno

Dekavil da utilizzare nella successiva fase clinica

trova nella fase II dello sviluppo clinico (verifica contro pla con metotressato) per la dimostrazione della sua efficacia.

Figura 6 Dekavil: proteina ricombinante costituita dalla fusione anticorpale F8 con l’IL-10

farmaco e stabilito la maggiore efficacia dell’associazione rispetto alla monoterapia. icolare, è stata dimostrata un’elevata capacità di localizzazione nei vasi di nuova formazione in modelli murini di artrite collagene-indotta [82

progressione della malattia nel topo specialmente in combinazione con Questi risultati hanno portato ad individuare la dose di partenza da utilizzare nella successiva fase clinica.[83, 84] Attualmente il farmaco si trova nella fase II dello sviluppo clinico (verifica contro placebo, in combin

per la dimostrazione della sua efficacia.

Dekavil: proteina ricombinante costituita dalla fusione del frammento 10

farmaco e stabilito la maggiore efficacia dell’associazione rispetto alla monoterapia. elevata capacità di localizzazione nei vasi di 82] e di inibire la almente in combinazione con a dose di partenza del Attualmente il farmaco si cebo, in combinazione

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