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Il Net Stable Funding Ratio in risposta alla crisi della liquidita bancaria

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione

Capitolo 1. La liquidità bancaria nel contesto di crisi: il Net Stable Funding Ratio 1.1 Definizione del rischio di liquidità

1.1.1 Funding liquidity risk e Market liquidity risk 1.1.2 Interazione con altre tipologie di rischio

1.2 Crisi di liquidità dei mercati ed evoluzione della vigilanza 1.2.1 Regolamentazione internazionale prima della crisi 1.2.2 Evoluzione della vigilanza prudenziale italiana 1.2.3 I punti deboli del sistema di Basilea 2

1.2.4 Basilea 3 e i nuovi requisiti sulla liquidità 1.3 L’introduzione del Net Stable Funding Ratio: definizione

1.3.1 Provvista stabile disponibile

1.3.2 Provvista stabile obbligatoria ed esposizioni fuori bilancio

Capitolo 2. La misurazione del rischio di liquidità in letteratura Premessa

2.1 Rassegna della letteratura

2.2 Possibili criticità del Net Stable Funding Ratio

2.2.1 Endogeneità della moneta (modello di Kauko) 2.2.2 Il problema del Debt Overhang

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Capitolo 3. Impatti del Net Stable Funding Ratio sull’operatività delle banche Premessa

3.1 Sezione dati 3.2 Metodologie

3.3 Risultati dei modelli

3.3.1 Quali fattori influenzano l’indice Net Stable Funding Ratio?

3.3.2 Qual è l’influenza del Net Stable Funding Ratio sulla redditività della banca?

3.4 Focus sulle banche sistemiche 3.5 Monitoring Report EBA

3.6 Monitoring Report del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria

Capitolo 4. Scenari futuri Premessa

4.1 Rischi legati al cambiamento strutturale e finanziario delle banche

4.2 Possibili strategie attuabili dalle banche per accrescere il Net Stable Funding Ratio

4.2.1 Strategie per aumentare la Provvista stabile disponibile 4.2.2 Strategie per ridurre la Provvista stabile obbligatoria Conclusioni

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Introduzione

Il tema del rischio di liquidità all’interno delle banche è stato riportato all’attenzione generale di mercati, regolatori ed intermediari soltanto in tempi recenti, a seguito della crisi finanziaria che si è sviluppata su scala internazionale a partire dal 2007.

Nel periodo antecedente la crisi, il sistema finanziario era caratterizzato da livelli elevati di liquidità, motivo per cui il rischio ad essa associato non ha goduto delle adeguate attenzioni (in termini di gestione, monitoraggio e controllo) riservate invece ad altre tipologie di rischio.

Tale atteggiamento, pur dettato da un’eccessiva fiducia nella liquidità disponibile, va attribuito soprattutto ad una scarsa consapevolezza dell’importanza e della trasversalità del rischio di liquidità, il quale è strettamente legato a tutti i processi messi in atto dalla banca.

Peraltro, la recente crisi ha messo in luce con quanta rapidità e intensità tale rischio possa manifestarsi anche in contesti apparentemente liquidi, nonché le disastrose conseguenze che ne possono derivare.

L’inadeguatezza dimostrata dagli intermediari nel gestire lo scenario di emergenza ha sostanzialmente stimolato due fronti di intervento: quello interno alla stessa industria bancaria, con l’affinamento delle tecniche di liquidity risk management, e quello regolamentare, con la riforma imposta dall’Accordo di Basilea 3. Entrambe le linee di azione sono state percorse nell’intento di rafforzare i presidi degli intermediari a fronte del rischio di liquidità, riducendo in tal modo anche le possibilità di contagio dell’intero sistema bancario.

Il presente elaborato propone un’analisi della letteratura e della normativa sul tema della gestione e della misurazione del rischio di liquidità negli intermediari finanziari. Questa tematica viene sviluppata nell’analisi del nuovo indice di liquidità, il Net Stable Funding Ratio, e dei suoi potenziali effetti sulla redditività della banca.

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Nello specifico, il primo capitolo sviluppa il tema della liquidità e la sua interazione con le diverse tipologie di rischio. Viene fornita una panoramica della regolamentazione pre e post crisi finanziaria del 2007 e infine spiegata la composizione del Net Stable Funding Ratio insieme ai suoi scopi.

Nel secondo capitolo viene fatta una rassegna di tutta la letteratura riguardante gli indici di liquidità ed effettuato un confronto fra le varie idee degli autori, ponendo l’attenzione su due possibili scenari critici che potrebbe manifestarsi con l’utilizzo di questo nuovo indicatore.

Nel terzo capitolo viene analizzato l’impatto potenziale delle nuove norme di liquidità sulle banche, nello specifico vengono analizzati i fattori che possono influenzare il NSFR e la relazione fra quest’ultimo e la redditività della banca. Inoltre vengono illustrati i monitoring fatti sull’indice, nel corso degli anni, da parte del Fondo Monetario Internazionale, EBA e Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria.

A conclusione, nel quarto capitolo vengono descritte le possibili problematiche future legate al cambiamento strutturale delle banche, dettato dall’abbandono di una linea politica comune incentrata sull’espansione dell’attivo, e le possibili strategie attuabili dalle banche per migliorare il proprio NSFR così da arrivare ad un valore del 100% entro il 2018.

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Capitolo 1.

La liquidità bancaria nel contesto di crisi: il Net Stable Funding Ratio 1.1 Definizione del rischio di liquidità

La recente crisi finanziaria e i mutamenti intervenuti nel contesto competitivo in questi ultimi anni hanno risvegliato un forte interesse da parte dei mercati, autorità di vigilanza e aziende di credito per il tema della liquidità all’interno delle banche. Non è certamente un tema di ricerca nuovo, in realtà rappresenta una delle tematiche classiche della teoria economica poiché fa riferimento a due importanti concetti di equilibrio:

L’equilibrio monetario, indicante la capacità di conseguire puntualmente

un ordinato bilanciamento dei flussi monetari in entrata e in uscita;

L’equilibrio finanziario, indicante la capacità di mantenere con sufficiente

continuità, in un orizzonte temporale più esteso, un’armonica corrispondenza tra poste patrimoniali attive e passive.

Una solida posizione di liquidità rappresenta, quindi, un vincolo fisiologico e ineliminabile per l’equilibrio di qualsiasi impresa. Questo vincolo assume carattere ancora più stringente per un intermediario finanziario, proprio in virtù del ruolo assunto nel garantire le condizioni di liquidità dell’intero sistema economico e per la peculiarità delle funzioni svolte e delle operazioni poste in essere.

L’attività bancaria si concretizza principalmente nell’espletamento di due funzioni: la funzione monetaria e quella creditizia.

La funzione monetaria viene esercitata attraverso la trasformazione delle proprie passività in moneta bancaria che viene poi messa a disposizione del pubblico per effettuare le transazioni. La banca deve essere in grado di far fronte agli impegni di pagamento assunti nei confronti dei propri creditori garantendone, in ogni momento, la pronta conversione in moneta legale.

La funzione creditizia consiste nel trasferimento di risorse dalle unità che si trovano in situazione di surplus finanziario a quelle che si trovano in deficit,

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favorendo così il processo di allocazione del risparmio e lo sviluppo economico. L’attività di intermediazione creditizia avviene attraverso la cosiddetta “trasformazione delle scadenze”: la banca raccoglie risorse in forma di depositi presso il pubblico, tipicamente rimborsabili a vista, e le impiega per il finanziamento di fabbisogni finanziari a medio lungo termine.

Dal mismatch temporale tra le passività, prevalentemente a breve termine, e le attività, maggiormente orientate a lungo termine si viene a creare uno squilibrio tra i flussi finanziari in entrata e quelli in uscita. La banca può trovarsi nella condizione di non riuscire a far fronte in maniera efficiente ai propri obblighi di pagamento ovvero non garantire stabilità e continuità al circuito del credito, a causa dell’incapacità di reperire fondi (funding liquidity risk) o per la presenza di limiti allo smobilizzo della attività (market liquidity risk).

Da questa prospettiva nasce l’esigenza per l’azienda di credito di gestire il rischio di liquidità: esso è definito dalla Banca d’Italia come “il rischio di non essere in grado di far fronte ai propri impegni di pagamento per l’incapacità sia di reperire fondi sul mercato sia di smobilizzare i propri attivi”.

Questa definizione mette in luce due aspetti importanti del concetto di liquidità:  Finanziario che consiste nella capacità finanziaria di soddisfare le

obbligazioni con la massima prontezza;

Economico cioè l’assolvimento dei compiti finanziari senza pregiudicare la normale attività dell’azienda e il suo equilibrio.

A questi due aspetti è legata l’importante relazione di trade-off esistente tra le nozioni di liquidità e redditività. Va precisato, infatti, che mantenere disponibilità finanziarie superiori a quelle necessarie per garantire l’equilibrio corrente tra i flussi, penalizza la banca dato che non sfrutta al meglio le sue possibilità di investimento. Di norma, quanto più liquide sono le attività della banca, tanto minore è il loro rendimento. Dunque, detenere eccessiva liquidità al fine di conseguire un margine di sicurezza può rivelarsi molto costoso, sia in termini di

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mancate opportunità di guadagno per la banca, sia in termini sociali, per la riduzione di credito erogato a famiglie e imprese (credit crunch).

In stretta connessione con la situazione di liquidità dell’azienda c’è anche lo stato di solvibilità, misurato dall’idoneità del valore atteso dell’attivo a coprire quello del passivo. L’analisi di solvibilità non considera la dimensione temporale degli elementi attivi e passivi del patrimonio perciò una banca può trovarsi ad essere contemporaneamente solvibile ma non liquida e viceversa. Questa possibilità, tuttavia, non esclude la forte correlazione tra la condizione di liquidità e quella di solvibilità, che tendono a influenzarsi reciprocamente. Infatti, è evidente che una banca non liquida è esposta a un rischio crescente di insolvenza poiché può trovarsi costretta a liquidare sul mercato attività a prezzi di realizzo inferiori rispetto a quelli attesi; d’altra parte una banca non solvibile è esposta ad un elevato rischio di liquidità poiché una valutazione di scarsa affidabilità potrebbe indurre i suoi creditori ad una crescente e diffusa “corsa agli sportelli” per il ritiro dei rispettivi crediti.

Infine, non va trascurato il fatto che la relazione di interdipendenza tra liquidità e solvibilità può essere condizionata anche dal grado di patrimonializzazione della struttura finanziaria della banca. La situazione di equilibrio patrimoniale può migliorare la gestione della liquidità aumentando la scadenza media del passivo, riducendo eventuali situazioni di disallineamento fra flussi di cassa in entrata e in uscita e facilitando l’accesso al credito interbancario.

Il rischio di liquidità, tuttavia, dipende da tanti fattori (composizione e struttura per scadenza dell’attivo e del passivo, dinamica delle poste fuori bilancio, andamento dei costi e dei ricavi monetari, evoluzione dei mercati) e solo la predisposizione di efficaci sistemi di monitoraggio, uniti all’adozione di oculate scelte gestionali in base ai requisiti regolamentari, possono attenuarlo, preservando la stabilità delle singole banche e la solidità dell’intero sistema in caso di improvvise crisi finanziarie.

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1.1.1 Funding liquidity risk e Market liquidity risk

In funzione della modalità utilizzata dalla banca per reperire liquidità e riequilibrare la struttura finanziaria si possono distinguere due tipi di rischio:  Funding liquidity risk inteso come il rischio che la banca non sia in grado di far

fronte in modo efficiente, senza mettere a repentaglio la propria ordinaria operatività e il proprio equilibrio finanziario, a deflussi di cassa attesi e inattesi. Questi deflussi possono scaturire dalle passività tipiche della banca (rimborsi chiesti su debiti a scadenza indeterminata, mancati rinnovi di fondi raccolti), dalle attività (utilizzo di linee di credito accordate in precedenza a clientela), ovvero costi operativi da liquidare.

Questo rischio può assumere diverse forme:

 Liquidity mismatch risk, ossia il rischio che il profilo dei flussi di cassa in uscita non risulti perfettamente compensato dal profilo dei flussi di cassa in entrata, con riferimento alle scadenze sia contrattuali che comportamentali;

Fig. 1.1 Liquidity mismatch risk

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 Liquidity contingency risk, ossia il rischio che eventi futuri inattesi possano richiedere un ammontare di liquidità molto superiore rispetto a quanto precedentemente previsto dalla banca. Tale rischio può essere generato da eventi quali: il mancato rimborso di finanziamenti, il rispetto di impegni a erogare fondi, la richiesta di accrescere le garanzie fornite;

Fig. 1.2 Liquidity Contingency Risk

Fonte: Matz, L. M., Neu, P., “Liquidity risk measurement and

management”, 2007.

 Operational liquidity risk, ossia il rischio che la banca non sia in grado di far fronte alle proprie obbligazioni di pagamento per errori, interruzioni o danni causati da processi interni, persone, sistemi o fattori esterni;

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Fig. 1.3 Operational liquidity risk

Fonte: Matz, L. M., Neu, P., “Liquidity risk measurement and

management”, 2007.

 Margin call liquidity risk, ossia il rischio che la banca sia obbligata a ripristinare mediante garanzie (collateral o per cassa) i margini contrattualmente richiesti a fronte di determinati strumenti finanziari;

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Fig. 1.4 Margin call liquidity risk

Fonte: Matz, L. M., Neu, P., “Liquidity risk measurement and

management”, 2007.

 Intraday liquidity risk, ovvero il rischio che può interessare le banche che partecipano ai sistemi di pagamento, regolamento e compensazione; consiste nell’incapacità dell’intermediario di far fronte alle obbligazioni correnti pur rimanendo in condizioni di solvibilità finanziaria;

Name crisis Asset and share price under pressure Rating downgrade Counterparty limits withdrawn or restricted Margin and collateral calls Liquidity driven asset sale

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Fig. 1.5 Intraday liquidity risk

Fonte: Matz, L. M., Neu, P., “Liquidity risk measurement and

management”, 2007.

Il Funding liquidity risk è, quindi, un rischio che riguarda la struttura finanziaria, di natura non adeguata ad affrontare impegni finanziari inattesi. Esso ha carattere idiosincratico e può innescare reazioni da parte delle controparti di mercato, che possono rendersi indisponibili per le usuali transazioni oppure chiedere in contropartita remunerazioni molto alte.

Market liquidity risk si intende invece il rischio che una banca si trovi nell’impossibilità di convertire in denaro una posizione su una data attività finanziaria o riesca a liquidarla subendo una decurtazione del prezzo, a causa dell’insufficiente liquidità del mercato su cui tale attività è negoziata o a causa di un temporaneo malfunzionamento del mercato stesso.

La facilità con cui la banca riesce a generare mezzi liquidi attraverso il pronto realizzo di attività in portafoglio dipende fortemente dalla liquidabilità di quest’ultime. Questa specifica caratteristica di uno strumento finanziario è definita sulla base della tempestività con la quale può essere rimborsato (self-liquidation), ceduto su un mercato secondario o prestato a garanzia di operazioni di

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finanziamento (shiftability), anche in quantità consistenti senza che lo scambio ne influenzi significativamente il prezzo. Quando la liquidabilità dipende dalle caratteristiche intrinseche del titolo si parla di liquidità naturale, al contrario, quando essa viene influenzata dall’efficienza e dallo spessore del mercato è qualificata come liquidità artificiale.

Anche se distinte sul piano logico, le due nozioni di rischio appena descritte sono intrinsecamente collegate fra loro e tendono a rafforzarsi vicendevolmente. Per far fronte a improvvisi deflussi di cassa (Funding liquidity risk), infatti, la banca potrebbe decidere di vendere rapidamente sul mercato una parte più o meno consistente delle sue attività finanziarie, accettando anche un prezzo inferiore al loro valore corrente di mercato e subendo, così, una perdita in conto capitale (Market liquidity risk).

1.1.2 Interazione con altre tipologie di rischio

Il rischio di liquidità viene anche definito “rischio consequenziale” per la caratteristica di essere spesso innescato da situazioni avverse imputabili ad altri tipi di rischi finanziari.

Riguardo alle interconnessioni con i rischi di Pillar I, ossia a quei rischi per i quali il Comitato di Basilea ha previsto specifici requisiti patrimoniali, il rischio di credito, per esempio, può influenzarlo in maniera significativa: il mancato rientro, a causa di insolvenze, di flussi finanziari positivi attesi o il peggioramento della redditività aziendale e delle sue prospettive, espresso da una riduzione del rating, possono gravare sulla capacità di raccolta dell’intermediario.

Anche il rischio di mercato, producendo variazioni nel valore di titoli legati a garanzie e nel valore di smobilizzo degli assets in portafoglio, può aumentare l’incertezza in ottica di gestione della liquidità. Inoltre, la presenza in portafoglio di titoli derivati potrebbe comportare improvvise uscite di cassa, qualora l’andamento sfavorevole del sottostante, richiedesse un aumento dei margini di garanzia versati (margin call liquidity risk).

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Improvvisi outflows possono anche essere conseguenza diretta dell’inadeguatezza dei processi interni di misurazione e gestione delle risorse, dovuti all’incapacità delle risorse umane o a sistemi tecnologici inefficaci (rischio operativo).

Il rischio di liquidità è intrinsecamente correlato anche a molte altre tipologie di rischio che vengono comunemente inserite dal Comitato di Basilea tra i rischi di Pillar II. Si pensi, per esempio, al rischio di tasso d’interesse del banking book con il quale condivide lo stesso event risk, ossia il mismatching delle scadenze tra attivo e passivo. Le variazioni del tasso di interesse influiscono direttamente sul valore della maggior parte delle poste attive e passive di una banca e, quindi, sulle connesse entrate e uscite monetarie, incidendo sulla posizione di liquidità dell’istituto di credito.

Anche il rischio di controparte, connesso agli strumenti finanziari OTC (Over The Counter), e il rischio di cartolarizzazione, possono produrre un improvviso fabbisogno di risorse, come ha dimostrato la recente crisi sistemica.

Il rischio di reputazione, associato al downgrade dell’intermediario bancario o ad una percezione negativa della sua immagine sul mercato, può tradursi in condizioni più onerose di accesso al credito o addirittura indurre una sfiducia tale nei depositanti da scatenare fenomeni di bank run.

Infine, è fortemente influenzato anche dal rischio strategico e da quello di concentrazione. La concentrazione delle esposizioni verso un numero ridotto di controparti (ovvero gruppi di controparti connesse tra di loro) potrebbe condurre a un rapido e corposo ritiro di fondi o a serie difficoltà nella capacità di raccolta. Sin qui abbiamo analizzato gli impatti che molti rischi finanziari possono avere sul rischio di liquidità, ma anche quest’ultimo, a sua volta, può influenzare in maniera significativa alcuni di essi.

Si consideri la recente crisi finanziaria: la carenza di risorse liquide che ha colpito l’intero sistema si è riflessa negativamente sia sul rischio di mercato che sul rischio di credito dei maggiori intermediari finanziari. Questi ultimi hanno cercato di riorganizzare i propri attivi accrescendone le componenti liquide e riducendo

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drasticamente i volumi di credito erogati all’economia. Le conseguenze sono state un peggioramento dei tassi e dei prezzi delle attività finanziarie, unito ad un pesante aumento dell’incidenza del rischio di credito sulla redditività bancaria. Persistenti difficoltà nella gestione del rischio di liquidità possono ripercuotersi in maniera negativa anche sulla reputazione all’interno dell’istituto di credito e sul rischio ad essa connesso.

Si è potuto verificare, quindi, che il rischio di liquidità ha relazioni con la maggior parte degli altri rischi tipici bancari, relazioni che si esplicano in un complesso rapporto di causa-effetto. In questa prospettiva, sembra essere una sorta di collegamento tra i rischi di primo e secondo pilastro, tra la rischiosità interna e quella sistematica; forse risiede proprio in questa sua circolarità la più grande insidia.

Fig. 1.6 Le interdipendenze del rischio di liquidità

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1.2 Crisi liquidità dei mercati ed evoluzione della vigilanza 1.2.1 Regolamentazione internazionale prima della crisi

La regolamentazione del rischio di liquidità si è evoluta nel tempo, presentando soluzioni ed aspetti differenti al mutare del contesto economico-finanziario di riferimento.

Gli approcci regolamentari seguiti a livello internazionale si possono distinguere in:

Quantitativi, richiedono di quantificare e mantenere (generalmente su specifiche scadenze) il rispetto di indicatori di liquidità entro limiti minimi. Sono di tipo prescrittivo e tendono a influire più o meno indirettamente sulla struttura e sulla qualità di fonti e impeghi di un intermediario;

Qualitativi, focalizzano l’attenzione sui sistemi interni di gestione e di controllo del rischio, fornendo semplici linee guida per le singole aziende di credito. Sono approcci più flessibili perché si basano su principi generali e sul ruolo attivo degli intermediari nel definire i propri modelli di risk management;

Misti, tendono a combinare le caratteristiche dei due metodi precedenti. Nell’ultimo decennio, la maggior parte dei sistemi regolamentari mondiali aveva preferito indirizzare gli intermediari verso il rafforzamento dei propri sistemi di controllo delle liquidità piuttosto che imporre requisiti eccessivamente prescrittivi. Tutto questo nella convinzione che lo sviluppo interno dei sistemi di misurazione e gestione del rischio potesse consentire una risposta più tempestiva all’evoluzione dei mercati finanziari. Tuttavia, l’ampia discrezionalità concessa ai singoli istituti e alle autorità di vigilanza nazionali ha ritardato lo sviluppo di una disciplina comune. Si pensi che nel 2007, un’indagine effettuata dal CEBS (Committee of European Banking Supervisors) ha rilevato come nei principali paesi europei non esistesse ancora, al momento del manifestarsi della crisi, un approccio uniforme sul rischio di liquidità.

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Il primo accordo sul capitale minimo delle banche (1988) non menzionava il rischio di liquidità. Il Comitato di Basilea inizia ad occuparsene soltanto a partire dai primi anni Novanta, con la raccolta in un unico documento delle best practices internazionali (BCBS, 1992). Il documento subisce una prima revisione nel 2000 (BCBS, 2000) che lo porta ad un maggiore allineamento rispetto ai mutamenti intervenuti nel sistema bancario; esso individua i 14 principi fondamentali per una corretta gestione del rischio ma non contiene norme prescrittive. Puramente divulgativo è anche il rapporto pubblicato nel 2006 da un gruppo di studio congiunto formato da Comitato di Basilea, IAIS (International Association of Insurance Supervisors) e IOSCO (International Organisation of Securities Commissions): esso tratta la gestione del rischio di liquidità all’interno dei gruppi finanziari, ma ancora una volta si limita a condividere le prassi più diffuse a livello internazionale.

La mancanza di norme imperative permette lo sviluppo di modelli di supervisione e strumenti di monitoraggio molto diversi tra loro; l’unico punto sul quale la maggior parte delle autorità di vigilanza nazionali sembra concordare è l’inadeguatezza dei requisiti di capitale a coprire il rischio di liquidità, poiché quest’ultimo non attiene direttamente alla sfera dell’equilibrio economico-patrimoniale. Coerentemente con questa convinzione il Nuovo Accordo di Vigilanza prudenziale (Basilea 2) non stabilisce requisiti minimi di capitale a presidio del rischio di liquidità.

Adottando un approccio regolamentare di tipo qualitativo si limita a prevedere, all’interno di Pillar II, nell’ambito del processo di controllo prudenziale, che ogni banca adotti adeguati sistemi di misurazione, monitoraggio e gestione del rischio. Sostanzialmente, Basilea 2 chiede alle banche di:

 Predisporre sistemi idonei all’analisi, al monitoraggio e alla gestione, su base continuativa e prospettica, della posizione finanziaria netta;

 Stabilire strategie e politiche di gestione della liquidità in condizioni di normale operatività;

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 Definire piani di emergenza per affrontare situazioni di tensione o eventuali crisi di liquidità.

Il Pillar III della riforma si fonda, invece, sull’importanza della trasparenza informativa e impone alle banche di indicare chiaramente strategie, processi, sistemi di misurazione e politiche di copertura per ciascuna tipologia di rischio (BCBS, 2005). Non sono richieste specifiche informazioni sul rischio di liquidità ma viene lasciato ampio spazio alle autorità di vigilanza nazionali sull’opportunità di obbligare le banche a divulgare informazioni a riguardo.

1.2.2 Evoluzione della vigilanza prudenziale italiana

In Italia, nell’ultimo decennio, le autorità di vigilanza avevano concentrato l’attenzione principalmente sui rischi del primo pilastro (credito, mercato, operativo), trascurando la gestione del rischio di liquidità, per il quale era previsto il mero rispetto della Regola 2 di trasformazione delle scadenze.

Fig. 1.7 Regola di trasformazione delle scadenze

Fonte: Banca d’Italia, “Istruzioni di vigilanza per le banche”, Circolare 229, 1999. (abrogata)

La Regola 2, attraverso una riclassificazione delle poste di bilancio e la conseguente applicazione di un obbligo di bilanciamento tra attivi e fonti a lungo termine, evitava semplicemente che le banche fossero troppo squilibrate verso

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alcune forme di finanziamento, ma non rappresentava certamente uno strumento per la gestione della liquidità. Nel 2006, il CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) prende coscienza dell’incapacità di questa regola di cogliere i molteplici aspetti del rischio di liquidità e ne decide l’abrogazione. Lascia così al risk management del singolo intermediario l’onere di dotarsi di un assetto organizzativo e di controllo interni idoneo a controllare e gestire tutti i rischi connessi all’attività svolta, ivi compresi i rischi di liquidità e di trasformazione delle scadenze.

Le linee guida, tuttavia, vengono fornite dall’orientamento comunitario che, con l’emanazione delle Direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, fa proprio gli indirizzi espressi dal Comitato di Basilea all’interno del Nuovo Accordo sul Capitale (Basilea 2). Banca d’Italia adegua la normativa interna a quella comunitaria attraverso la promulgazione delle “Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche”, le quali diventeranno la disciplina di riferimento a livello nazionale per il presidio della liquidità.

In accordo con quanto previsto da Basilea 2, la nuova regolamentazione si basa su tre pilastri. Il primo pilastro introduce un requisito patrimoniale, per fronteggiare i rischi tipici dell’attività bancaria e finanziaria (credito, controparte, mercato e operativi) ed il terzo prevede obblighi di informativa al pubblico riguardanti l’adeguatezza patrimoniale e l’esposizione ai rischi.

Il rischio di liquidità viene disciplinato all’interno del secondo pilastro: le banche devono dotarsi di processi e strumenti (Internal Capital Adequacy Assessment Process, ICAAP) per determinare il livello di capitale interno adeguato a fronteggiare ogni tipologia di rischio, anche diversi da quelli presidiati dal requisito patrimoniale complessivo (primo pilastro).

A seguito del verificarsi della crisi, la normativa prudenziale viene progressivamente rivista e aggiornata: a partire dal 2008 vengono introdotte importanti novità sul rischio di liquidità anche in vista dell’azione di Basilea 3.

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La Banca d’Italia introduce una soglia di tolleranza al rischio di liquidità che obbliga gli intermediari a detenere costantemente disponibilità liquide adeguate. Questa soglia, intesa come la massima esposizione al rischio ritenuta sostenibile in un contesto di on going concern, integrato da situazioni di stress, si pone come principale parametro di riferimento per l’attuazione delle strategie e per la gestione del rischio di liquidità. Fra gli strumenti di monitoraggio e gestione del rischio, le Nuove Disposizione di Vigilanza richiamano anche lo stress test e il Contingency funding plan (CFP). Quest’ultimo in particolare è un piano d’emergenza con lo scopo di proteggere il patrimonio della banca in situazioni di crisi di liquidità: esso definisce le strategie di intervento e le procedure per il reperimento di fonti di finanziamento in caso di emergenza. La normativa italiana estende, infine, la disciplina di mercato del “terzo pilastro” e i relativi obblighi di disclosure anche al rischio di liquidità, al fine di consentire agli operatori di mercato di avere un quadro completo sulla solidità patrimoniale e sull’esposizione ai rischi delle banche.

1.2.3. Punti deboli del sistema di Basilea 2

La crisi del 2007 ha messo in luce alcuni punti deboli dell’accordo di Basilea 2 che è stato messo in discussione da autorità di vigilanza e autorità politiche poiché ritenuto uno tra i principali responsabili dei recenti dissesti bancari. Queste critiche non sembrano del tutto condivisibili se si pensa che tale sistema di adeguatezza patrimoniale, delineato nel 1999, è entrato in vigore solo a partire dal gennaio 2008 nella maggioranza dei paesi economicamente sviluppati. Tuttavia, è lo stesso Comitato di Basilea a riconoscere la presenza di alcuni limiti all’interno della propria proposta e li esprime chiaramente nel documento “Strengthening the resilience of the banking sector” (2009).

In sintesi, i principali problemi evidenziati sono i seguenti:

Crescita incontrollata della leva finanziaria: numerose banche europee, incoraggiate dalle politiche monetarie accomodanti del periodo pre-crisi, hanno spinto la leva finanziaria ben al di sopra della media di settore.

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Strutture del passivo cosi fortemente squilibrate non han saputo reggere la difficile situazione di crisi.

Inadeguatezza del livello e della qualità del capitale di vigilanza: il requisito patrimoniale minimo fissato dal Comitato di Basilea si è dimostrato sensibilmente inferiore rispetto a quello effettivamente necessario per prevenire le insolvenze bancarie. Si pensi, infatti, a quante banche hanno subito forti perdite nel periodo di crisi, nonostante nei tempi immediatamente precedenti presentassero coefficienti patrimoniali ben al di sopra dei minimi. D’altra parte, anche la qualità del patrimonio si era ridotta, principalmente a causa del crescente ricorso a strumenti di capitale “ibridi” o “innovativi”; quest’ultimi sono sempre stati percepiti dagli investitori più come strumenti di debito piuttosto che di rischio e questa convinzione è stata alimentata dalle stesse banche emittenti che non volevano compromettere la propria reputazione. Di conseguenza, questi titoli non hanno dimostrato la stessa efficacia del più tradizionale “common equity” nell’assorbire le perdite.

Rischi di mercato sul trading book: il minore requisito patrimoniale a fronte delle attività detenute per la negoziazione (trading book) rispetto allo stesso richiesto per l’inserimento nel portafoglio commerciale (banking book) è risultato inadeguato ad assorbire perdite rilevanti su attività finanziarie che hanno risentito a pieno del crollo dei mercati.

Prociclicità: i requisiti patrimoniali basati su rating creditizi tendono a diminuire nelle fasi di crescita economica e ad aumentare in congiunture difficili. Nei periodi recessivi le banche, sottoposte a requisiti patrimoniali più stringenti, sono costrette a contrarre l’offerta di credito o addirittura ridurre i propri attivi, accentuando ulteriormente la fase negativa del ciclo;  Eccessiva presenza di rischio sistemico: i Governi Centrali hanno dovuto

salvare alcune istituzioni finanziarie, le cosidette too big to fall e too interconnected to fall al fine di evitare la trasmissione di shock idiosincratici all’intero sistema finanziario;

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Trasformazione delle scadenze troppo aggressiva e margini di liquidità insufficienti: molte banche si sono trovate impreparate di fronte ad un’inattesa caduta della liquidità dei mercati e sono riuscite a superare la crisi solo grazie all’ampia liquidità a basso costo offerta dalle banche centrali.

In riferimento a quest’ultimo punto, approfondiamo brevemente i limiti della regolamentazione in materia di liquidità.

Come già anticipato in precedenza, Basilea 2 non ha dimenticato di trattare il rischio di liquidità ma si è limitato ad inserirlo all’interno del Pillar II. Di fatto, la normativa prudenziale ha ritenuto che l’accresciuta complessità del sistema finanziario potesse essere gestita e controllata grazie all’autoregolamentazione, confidando nel risk management delle banche. Tuttavia, la mancanza di un requisito patrimoniale esplicito, ha disincentivato un adeguato investimento in risorse umane e tecnologiche. Gli istituti di credito, abituati a contare sull’elevata liquidità del mercato interbancario per qualsiasi esigenza di funding, hanno continuato a detenere buffer di liquidità insufficienti. Inoltre, sottovalutando la possibilità che un mercato come quello interbancario potesse divenire illiquido, le tecniche di Liquidity Risk Management non sono state sviluppate compiutamente e soprattutto non sono state calibrate sufficientemente su eventi estremi. Gli stress test condotti prima del 2007 hanno preso in esame prevalentemente scenari di crisi idiosincratiche e hanno sottostimato le interdipendenze tra il rischio di liquidità e gli altri rischi dell’attività bancaria. Questi test si sono perciò rivelati inefficaci nell’identificare i veri punti deboli delle banche e di conseguenza hanno portato all’elaborazione di contingency funding plans inadeguati.

Infine, la gestione del rischio troppo focalizzata sulla redditività di breve periodo si è tradotta in una scarsa attenzione al costo interno della liquidità: le unità di business più rischiose e a più alto assorbimento di liquidità risultavano spesso avvantaggiate nell’allocazione del capitale per l’elevato rendimento atteso. Tutto questo era favorito dalla comunicazione carente tra risk management, unità di tesoreria e business units.

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Le problematiche descritte hanno evidenziato la necessità di rafforzare, rispetto al passato, il carattere prescrittivo dell’approccio di vigilanza; l’introduzione di regole quantitative rigorose dovrebbe incentivare le banche a prestare maggiore attenzione in materia. Inoltre, è emersa l’urgenza di una regolamentazione più uniforme a livello internazionale che si basi sull’individuazione di approcci operativi condivisi.

1.2.4 Basilea 3 e i nuovi requisiti sulla liquidità

Il repentino mutamento delle condizioni di mercato ha mostrato la rapidità con cui la liquidità può evaporare e quanto tempo può occorrere prima che venga ripristinata. Nel sistema bancario sono emerse gravi tensioni, che hanno indotto le banche centrali ad intervenire a sostegno sia del funzionamento dei mercati monetari, sia, in taluni casi, di singole istituzioni.

Le difficoltà incontrate da alcune banche derivavano dal mancato rispetto dei principi basilari di gestione del rischio di liquidità. Alla luce di ciò, nel 2008 il Comitato di Basilea sulla vigilanza bancaria ha pubblicato il documento “Principles for Sound Liquidity Risk Management and Supervision”, a fondamento dello schema di regolamentazione della liquidità. Esso definisce linee guida dettagliate per la gestione e la supervisione del rischio di provvista della liquidità (rischio di funding) e dovrebbe contribuire a promuovere una migliore gestione del rischio in questo importante ambito, a condizione di una piena attuazione da parte delle banche e delle autorità di vigilanza.

Il Comitato ha ulteriormente rafforzato la regolamentazione della liquidità elaborando due requisiti quantitativi minimi per il rischio di funding e di liquidità. Essi sono stati sviluppati per conseguire due obiettivi distinti ma complementari:

 Promuovere la resilienza a breve termine del profilo di rischio di liquidità delle banche assicurando che esse dispongano di sufficienti attività liquide di elevata qualità (High Quality Liquid Assets, HQLA) per superare una situazione di stress acuto della durata di 30 giorni (obiettivo del Liquidity Coverage Ratio, LCR);

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Ridurre il rischio di funding a più lungo termine con la richiesta alle banche di finanziare la loro attività attingendo a fonti di approvvigionamento sufficientemente stabili, al fine di attenuare il rischio di tensioni future sul fronte della raccolta (obiettivo del Net Stable Funding Ratio).

Nel 2010, dopo un iniziale periodo di osservazione, il BCBS ha intrapreso una verifica dell’esperienza matura con l’NSFR, intesa ad affrontare eventuali conseguenze indesiderate sul funzionamento dei mercati finanziari e sull’economia e a migliorare la definizione dello standard per quanto riguarda vari aspetti fondamentali:

 Impatto sull’attività al dettaglio;

 Richiesta di provvista stabile a fronte di attività e passività a breve termine pareggiate;

 Analisi delle fasce di scadenza inferiori a un anno per le attività e passività con scadenza.

1.3 L’introduzione del Net Stable Funding Ratio: definizione

Il NSFR è definito come rapporto tra l’ammontare di provvista stabile disponibile e l’ammontare di provvista stabile obbligatoria. Questo rapporto deve mantenersi continuativamente a un livello almeno pari al 100%.

La provvista stabile disponibile è spiegata come porzione di patrimonio e passività che si ritiene risulti affidabile nell’arco temporale considerato ai fini del NSFR, ossia un anno. L’ammontare di provvista stabile richiesto a un’istituzione specifica dipende dalle caratteristiche di liquidità e dalla vita residua delle varie attività detenute dall’istituzione, nonché delle sue esposizioni fuori bilancio (off-balance sheet, OBS).

𝐴𝑚𝑚𝑜𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑣𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒

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Il NSFR si compone principalmente di definizioni e calibrazioni concordate a livello internazionale. Alcuni suoi elementi, tuttavia, sono soggetti alla discrezionalità delle autorità nazionali per riflettere la situazione specifica delle singole giurisdizioni, In questi casi gli elementi di discrezionalità nazionale devono essere espliciti e chiaramente delineati nella regolamentazione di ciascuna giurisdizione. Questo indice è una componente essenziale dell’approccio di vigilanza al rischio di funding e va integrato con valutazione prudenziali. Le autorità di vigilanza possono richiedere a una singola banca di adottare requisiti o parametri più stringenti a seconda del suo profilo di rischio di funding e della valutazione formulata dalle autorità stesse sull’osservanza dei Sound Principles. Gli importi di provvista stabile disponibile e obbligatoria specificati nello standard sono calibrati in modo da riflettere il grado atteso di stabilità delle passività e quello di liquidità delle attività.

La calibrazione riflette due dimensioni della stabilità delle passività:

Scadenza della provvista – Il NSFR è generalmente calibrato in base all’ipotesi che le passività a più lungo termine siano più stabili di quelle a breve termine;

Tipo di provvista e controparte – Il NSFR è calibrato in base all’ipotesi che i depositi a breve termine (con scadenza inferiore all’anno) collocati dalla clientela al dettaglio e la provvista fornita dalla clientela di piccole imprese si comportino in maniera più stabile della provvista all’ingrosso di pari scadenza fornita da altre controparti.

Al fine di determinare gli importi appropriati di provvista stabile obbligatoria a fronte delle varie attività sono stati considerati i seguenti criteri, riconoscendo che in alcuni casi essi possono risultare in contrasto:

Resilienza della creazione del credito – Il NSFR richiede che una parte del credito all’economia reale sia finanziata da fonti di provvista stabile al fine di assicurare la continuità di questo tipo di intermediazione;

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Comportamento delle banche – Il NSFR è calibrato in base all’ipotesi che le banche cerchino di rinnovare una quota significativa dei prestiti in scadenza al fine di mantenere il rapporto con la clientela;

Scadenza delle attività – Il NSFR si basa sull’ipotesi che alcune attività a breve termine (con scadenza entro un anno) richiedano una quota inferiore di provvista stabile poiché le banche dovrebbero essere in grado di lasciare che una parte di tali attività giunga a scadenza, anziché essere rinnovata;  Qualità e grado di liquidità delle attività – Il NSFR ipotizza che le attività

di elevata qualità non vincolate cartoralizzabili o negoziabili, che quindi possono essere prontamente stanziate in garanzia per ottenere finanziamenti addizionali o vendute nel mercato, non debbano essere necessariamente finanziate integralmente mediante fonti di provvista stabile.

Fonti di provvista stabili aggiuntive sono inoltre richieste a sostegno quantomeno di una modesta quota del potenziale fabbisogno di liquidità derivante da impegni ed eventuali esposizioni fuori bilancio.

Se non altrimenti specificato, le definizioni corrispondono a quelle formulate per il Liquidity Coverage Ratio, l’ambito di applicazione del NSFR ricalca quello già definito nella prima parte (ambito di applicazione) dello scherma di regolamentazione di Basilea 2.

1.4.1 Provvista stabile disponibile

L’ammontare di provvista stabile disponibile (Available Stable Funding, ASF) è misurato in base alle caratteristiche generali della stabilità relativa delle fonti di provvista di un’istituzione, compresa la scadenza contrattuale delle sue passività e la diversa propensione dei vari prestatori a ritirare i finanziamenti erogati.

Esso viene calcolato in primo luogo classificando il valore contabile del patrimonio e delle passività di un’istituzione in una delle cinque categorie presentate di seguito. L’ammontare attribuito a ciascuna categoria viene successivamente moltiplicato per un fattore ASF; il totale della provvista stabile

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disponibile corrisponde alla somma degli importi ponderati. Il valore contabile rappresenta l’importo al quale la passività o lo strumento di capitale è registrato al lordo dell’applicazione di eventuali deduzioni, filtri o altri aggiustamenti regolamentari.

Nel determinare la scadenza di uno strumento di capitale o una passività si suppone che gli investitori riscattino le eventuali opzioni call alla prima data utile. Per le fonti di provvista con opzioni esercitabili a discrezione della banca, le banche dovranno ipotizzare di esercitarle alla prima data possibile, a meno di poter dimostrare, in modo soddisfacente per l’autorità di vigilanza competente, che in nessun caso eserciterebbero l’opzione. Per le passività a lunga scadenza, solo la porzione di flussi di cassa dovuta in corrispondenza o successivamente alle scadenze di sei mesi e di un anno va considerata come avente una vita residua effettiva pari o superiore a, rispettivamente, sei mesi e un anno.

La seguente tabella 1 presenta le componenti di ciascuna delle categorie ASF e l’associato fattore ASF massimo da applicare nel calcolo dell’ammontare complessivo di provvista stabile a disposizione di un’istituzione nell’ambito dello standard.

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Fonte: Basel Committee on Banking Supervision, “Basel III: the Net Stable Funding Ratio”, Ottobre 2014.

1.1.3 Provvista stabile obbligatoria

L’ammontare della provvista stabile obbligatoria è misurato in base alle caratteristiche generali del profilo di rischio di liquidità delle attività e delle esposizioni OBS di un’istituzione.

Esso è calcolato in primo luogo classificando il valore contabile delle attività di un’istituzione in una delle categorie elencate. L’ammontare attribuito a ciascuna categoria viene successivamente moltiplicato per il corrispondente fattore di provvista stabile obbligatoria (Required Stable Funding, RSF); il totale della provvista stabile obbligatoria corrisponderà alla somma degli importi ponderati e dell’ammontare delle operazioni OBS (o esposizione di liquidità potenziale) moltiplicato per il fattore RSF associato. Se non altrimenti specificato, le definizioni corrispondono a quelle formulate per il Liquidity Coverage Ratio. I fattori RSF attribuiti alle varie tipologie di attività sono parametri volti ad approssimare l’importo di una particolare attività che occorrerebbe finanziare, o perché destinata a essere rinnovata o perché non smobilizzabile attraverso la

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vendita o lo stanziamento in un’operazione di prestito garantito durante il corso dell’anno senza incorrere in costi significativi. Nel quadro del presente standard a tali importi devono corrispondere approvvigionamenti stabili.

Alle attività va assegnato il fattore RSF appropriato in base alla loro vita residua o grado di liquidità. Nel determinare la scadenza di uno strumento si suppone che gli investitori esercitino eventuali opzioni volte ad allungare la scadenza. Per i prestiti soggetti ad ammortamento a rate, la quota che giunge a scadenza nell’orizzonte di un anno può essere considerata nella categoria di vita residua inferiore a un anno. La tabella 2 presenta le specifiche tipologie di attività da attribuire a ciascuna categoria e il fattore RSF associato.

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Fonte: Basel Committee on Banking Supervision, “Basel III: the Net Stable Funding Ratio”, Ottobre 2014.

Esposizioni fuori bilancio

Molte esposizioni potenziali OBS richiedono un finanziamento diretto o immediato modesto ma possono comportare prosciugamenti significativi della liquidità su periodi più lunghi. Il NSFR assegna alle varie attività OBS un fattore RSF al fine di assicurare che le banche dispongano di provvista stabile a fronte delle esposizioni OBS che potrebbero dover esser finanziate su un orizzonte di un anno.

In linea con il Liquidity Coverage Ratio, il NSFR suddivide le esposizioni OBS in categorie basate grosso modo sul tipo di impegno, ossia linea di credito o di liquidità oppure altro obbligo eventuale di finanziamento.

La tabella 3 riporta le specifiche tipologie di esposizioni OBS da attribuire a ciascuna categoria OBS e il fattore RSF associato.

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Fonte: Basel Committee on Banking Supervision, “Basel III: the Net Stable Funding Ratio”, Ottobre 2014.

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Capitolo 2.

La misurazione del rischio di liquidità in letteratura Premessa

Come osservato da Tirole (2011) non è affatto semplice riassumere il rischio di liquidità in un’unica misura. Date le molteplici cause che possono portare a situazioni di illiquidità sono stati proposti in letteratura molti indicatori che rappresentano la posizione di liquidità di una banca. Tuttavia, ognuno di essi generalmente prende in considerazione solamente singoli aspetti di questo rischio. Sono stati creati svariati liquidity ratios. Essi, generalmente, tendono a misurare il mismatch tra il funding a breve termine e gli assets prontamente ed economicamente smobilizzabili. Accanto a questi rapporti, sono state sviluppate metodologie più sofisticate fino a giungere a metodi che utilizzano le regressioni lineari per mettere in relazione l’esposizione al rischio di liquidità con le cause che lo generano. Queste ultime utilizzano i ratios precedentemente menzionati come proxy del rischio di liquidità della singola banca. Inoltre le misure di liquidità cambiano in base all’obiettivo del ricercatore; sono state implementate metodologie per misurare sia il rischio specifico che il rischio sistemico. Non bisogna dimenticare, infatti, che quando ci si trova di fronte ad una crisi di liquidità di una banca non si deve sottovalutare l’ipotesi che tutto il sistema possa esserne velocemente contagiato.

Nonostante non ci siano delle misure di rischio di liquidità comunemente accettate dai vari autori, se parliamo di esposizione al rischio riferito alla singola istituzione, è consigliabile partire considerando gli indicatori presi a riferimento dal Comitato di Basilea con l’accordo di Basilea III del 2009. Questi sono due indicatori che presentano funzioni diverse e mirano a quantificare l’esposizione nel breve periodo e nel lungo periodo; essi sono denominati rispettivamente Liquidity Coverage Ratio (LCR) e Net Stable Funding Ratio (NSFR). Accanto alle disposizioni del Comitato di Basilea bisogna considerare anche la normativa nazionale; infatti, tale organo non gode di capacità regolamentare e quindi opera fornendo delle linee

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guida confidando nell’aspettativa che esse vengano recepite nelle stesse giurisdizioni. Per l’implementazione di questi due indicatori era stato previsto un periodo di osservazione fino al 2012 al fine di scoprire potenziali difetti insiti in essi. Il LCR è entrato in vigore il 1.10.2015 con la soglia del 60% da rispettare, arriverà a una soglia del 100% il 1.1.2018, mentre per il NSFR è prevista l’entrata in vigore sempre il 1.1.2018 con la soglia del 100%. Nei prossimi due paragrafi farò prima un riassunto di tutti gli indicatori che sono stati creati e utilizzati dalla banche per controllare la propria liquidità, confrontando le idee dei vari autori, e infine illustrerò due elaborati nei quali si tende ad analizzare il NSFR cercando di delineare possibili criticità che potrebbero manifestarsi nel tempo.

2.1 Rassegna della letteratura

Molti studiosi, nel corso degli anni, hanno cercato di quantificare il rischio di liquidità anche se tuttavia esso non era la ragione principale delle loro ricerche. Infatti, i primi indicatori di liquidità erano rappresentati da ratios e venivano utilizzati come variabile esplicativa per stimare la performance delle banche. Molyneux e Thornton (1992), per stimare la profittabilità degli istituti bancari, inseriscono la liquidità come variabile indipendente trovando una relazione inversa comunque debole. L’esposizione della liquidità viene stimata utilizzando un indicatore calcolato come rapporto tra gli assets liquidi e il totale degli assets. Gli autori considerano come assets liquidi:

 Le disponibilità liquide;  Il cosiddetto “cash”;

 I depositi della banca stessa presumibilmente verso la Banca Centrale di riferimento e presso altre banche;

 Gli investimenti in titoli.

Anche Bourke (1989) indica il rapporto tra il totale degli assets liquidi e il totale dell’attivo come una determinante della performance della banca specificando che

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il suo reciproco può essere considerato come una proxy del rapporto tra il totale dei prestiti erogati e il totale dei depositi dei clienti.

Un indicatore simile è utilizzato da Barth (2003); la liquidità è rappresentata come il rapporto tra i “non-interest assets” e il totale degli assets. Nel numeratore vengono comprese le disponibilità liquide e tutti quegli elementi dell’attivo, inclusi i depositi presso altre banche, sui quali non maturano interessi. Gli assets liquidi possono, in un certo senso, essere considerati componenti sui quali non maturano interessi in quanto la liquidità ha un costo e gli investimenti più liquidi sono generalmente meno remunerativi di quelli più illiquidi.

Infine il liquid assets to total assets ratio è utilizzato da Demirguc-Kunt (2003) per stimare l’impatto della regolamentazione, della concentrazione del sistema bancario e delle istituzioni sui margini d’interesse bancari. A conferma di quanto sopra affermato, anche il risultato di Demirguc-Kunt (2003) attesta che una banca con un tale quoziente elevato riceve meno introiti derivanti da interessi rispetto ad un’altra banca che detiene meno disponibilità liquide e meno titoli governativi, i quali, salvo casi particolari, sono considerati beni facilmente smobilizzabili per eccellenza.

Kosmidou (2005) configura l’esposizione al rischio di liquidità dividendo la quantità di assets liquidi per la somma tra il funding a breve termine e il funding proveniente dai clienti. Egli definisce questo quoziente come un “deposit run off ratio” atto ad indicare la percentuale di funding a breve termine a cui la banca può far fronte attraverso la vendita degli assets nel caso in cui le passività a breve termine considerate venissero improvvisamente a mancare. Se il valore dei rapporti di cui si è parlato sinora è maggiore dell’unità significa che la banca è meno vulnerabile al rischio di liquidità.

Esistono poi altre tipologie di ratios dove più aumenta il valore del rapporto più è elevata l’esposizione al rischio a cui la singola banca può essere esposta. Un indicatore che presenta questa caratteristica è il rapporto tra prestiti erogati e il totale attività utilizzato da Demirguc-Kunt e Huizinga (1999) e da Athanasoglou

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(2006). Tuttavia Athanasoglou specifica che il rapporto tra gli assets liquidi e il totale attività è una proxy migliore del rischio di liquidità sebbene fosse inutilizzabile nella sua ricerca a causa dell’indisponibilità dei relativi dati.

Il rapporto tra i prestiti della banca e il totale degli assets, invece, è migliore del rapporto tra prestiti erogati e depositi in quanto quest’ultimo non fornisce alcuna indicazione sul rischio di liquidità derivante dagli elementi dell’attivo diversi dai prestiti e dalle passività diverse dai depositi.

Un altro indicatore che presenta un valore positivamente correlato con il rischio di liquidità è il rapporto tra i prestiti netti erogati e la somma tra depositi dei clienti e passività a brave termine. Naceur e Kandil (2009) interpretano questa variabile come il rischio di non avere sufficienti risorse liquide per fronteggiare un’improvvisa diminuzione dei depositi. Secondo Pasiouras e Kosmidou (2007), questo indicatore rappresenta la relazione tra assets illiquidi e passività a breve termine. I prestiti erogati, infatti, non sono considerati assets liquidi in quanto non possono essere venduti nel mercato secondario e vengono rimborsati solo a scadenze predeterminate. Essi inseriscono tale indicatore tra le variabili utilizzate per stimare la profittabilità delle banche commerciali dell’Unione Europea come proxy del rischio di liquidità insito nella singola banca. Tale variabile ha un effetto positivo in quanto gli assets meno liquidi hanno una remunerazione maggiore rispetto alle attività caratterizzate da liquidità maggiore.

Nonostante le misure appena elencate possano fornire indicazioni utili si possono utilizzare altre metodologie che hanno una visione più complessiva, e in alcuni casi più dinamica, della liquidità di un’istituzione. Resti e Sironi (2007) suddividono le misure di funding liquidity risk in tre approcci:

 Approccio degli stock

 Approccio dei flussi di cassa  Approccio ibrido.

Come specificato dagli autori, nell’utilizzo di questi metodi è importante fare riferimenti ai flussi effettivi e non a quelli contrattuali.

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L’approccio degli stock mira a calcolare la cash capital position cioè la differenza tra attività monetizzabili e passività volatili. Matz e Neu (2007) definiscono la cash capital position come la differenza tra il valore degli unencumbered assets e la somma tra i debiti interbancari a breve termine e la parte non considerata stabile dei depositi della clientela. Nelle attività monetizzabili sono compresi:

 Il denaro contante;

 Una quota degli impieghi e dei titoli detenuti nel portafoglio della banca. La condizione che rende un impiego inseribile nelle attività monetizzabili è rappresentata dalla possibilità che esso possa essere liquidato, prima o alla scadenza, senza danneggiare l’immagine della banca o le sue relazioni nel mercato. Un titolo invece può essere considerato monetizzabile quando non è già utilizzato come garanzia per ottenere prestiti. In questo caso si parla di titoli “unencumbered”; ad essi viene applicato uno scarto di garanzia detto haircut. Questi titoli possono essere sia a breve termine che a lungo termine. Tuttavia più lontana nel tempo è la scadenza, maggiore sarà il haircut applicato in quanto i titoli a scadenza più protratta risentono di maggiori fluttuazioni. Le passività volatili sono rappresentate dai depositi a vista e dai finanziamenti a brevissimo termine. Tuttavia non tutti i depositi della clientela vengono inclusi in questa categoria ma solo quella parte non ritenuta stabile. Quindi è la banca che, in base alla sua esperienza e alle sue conoscenze circa la propria clientela, deve prevedere quale sarà l’effettivo impatto dei comportamenti della clientela sui depositi a vista. Nel calcolo della cash capital position possono, infine, essere ricomprese altre due voci: gli impegni ad erogare e le linee di credito disponibili. Per quanto riguarda i primi, alcune banche ne tengono effettivamente conto in quanto essi rappresentano un impegno inderogabile a cui la banca deve far fronte nel caso in cui si presenti. Le linee di credito disponibili sono flussi di fondi a disposizione della banca qualora essa necessiti di maggiori risorse per far fronte alle proprie necessità. Nonostante esse siano considerate stabili, non vengono incluse nella cash capital position in quanto esse possono venire a mancare nel caso in cui la banca presenti delle tensioni finanziarie. Non di rado i finanziatori preferiscono non far fronte ai

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propri impegni bancari se ritengono che il finanziamento sia troppo rischioso, anche qualora questo comportamento possa comportare il pagamento di penali rilevanti. Tuttavia il metodo della cash capital position presenta un difetto: suddividere attività e passività solo in base alla loro liquidabilità è un po’ riduttivo dato che ogni posta presenta scadenze diverse e soprattutto, durante la sua vita, può comportare pagamenti o incassi in un momento diverso dalla scadenza. Per questo motivo è opportuno passare all’approccio dei flussi di cassa che prevede la suddivisione di incassi e pagamenti in base alle loro scadenze. Per ogni fascia temporale viene calcolato il divario tra incassi ed esborsi. Questa differenza prende il nome di liquidity gap. Quando il liquidity gap assume valori negativi si è in presenza di una situazione che potrebbe degenerare in una crisi di liquidità. Il difetto dell’approccio dei flussi ci porta a considerare l’approccio ibrido. Mentre l’approccio degli stock non considera i flussi intermedi e la scadenza effettiva delle poste, l’approccio dei flussi non contempla la possibilità che gli investimenti in titoli possano essere prestati in garanzia per ottenere finanziamenti o possano essere smobilizzati prima della scadenza. In caso di difficoltà la banca può cedere o dare in garanzia i suoi assets, ovviamente solo se questi sono considerati eligible o non sono già stati impegnati (unencumbered). Quindi, nell’approccio ibrido al liquidity gap ottenuto attraverso il metodo dei flussi deve essere sommata quella parte di fondi che può provenire dalla smobilizzazione dei componenti dell’attivo.

Matz e Neu, oltre a citare la cash capital position e il maturity mismatch approach, riconducibile all’approccio ibrido, citano anche un altro metodo ovvero il balance sheet liquidity analysis. Tale metodologia, appartenente agli approcci degli stock, mira a mettere in relazione poste dell’attivo e del passivo in base al loro grado di liquidità. Quando gli assets illiquidi sono finanziati con finanziamenti a lungo termine e gli assets liquidi o con scadenza inferiore all’anno con finanziamenti a breve termine si crea una certa armonia tra poste attive e passive; una struttura di bilancio equilibrata assicura una certa mitigazione dal rischio di liquidità. Inoltre i due autori, precisano che le valutazioni di tipo qualitativo non devono essere

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trascurate e assumono la stessa importanza di qualsiasi approccio quantitativo che possa essere ragionevolmente applicato allo scopo di misurare il rischio.

Saunders e Cornett (2009) indicano cinque misure diverse di rischio di liquidità: usi e fonti di liquidità, peer group ratio comparisons, liquidity index, financing gap e infine la maturity ladder. La prima misura consiste nella costruzione di un rendiconto finanziario che indichi tutte le fonti e tutti gli usi della liquidità, cioè il totale di prestiti a breve termine che la banca già utilizza. La differenza tra le due grandezze indica il fabbisogno di liquidità o l’eccesso di risorse disponibili. Dato che il fabbisogno di liquidità nel breve termine è di importanza cruciale nell’attività bancaria, il gap tra fonti e usi di fondi andrebbe calcolato su base giornaliera. Come già affermato per alcune delle metodologie già menzionate, tra le fonti di liquidità vanno ricomprese le risorse liquide già a disposizione come il denaro contante ma anche i fondi provenienti dalla vendita di assets prontamente liquidabili o dall’ottenimento di prestiti a breve nel mercato interbancario. Il peer group ratios comparisons consiste nel mettere a confronto dei rapporti significativi calcolati direttamente dal bilancio di più banche. Un esempio potrebbe essere la comparazione del loan to deposit ratio. Per dar senso all’utilizzo di questa metodologia, è importante che le banche prese a riferimento siano simili per quanto riguarda le loro caratteristiche geografiche, la grandezza e la forma giuridica. Il liquidity index rappresenta le perdite potenziali derivanti dalla dismissione immediata di assets nel mercato; esso è calcolato come la somma pesata dei rapporti tra il prezzo di ogni asset in caso di fire-sale e il suo rispettivo fair market price. A causa di tensioni di liquidità la banca può essere costretta a vendere assets ricavandone un prezzo minore a quello che ricaverebbe in normali condizioni di mercato o se aspettasse la scadenza. Dato che questo indice prende in considerazione solo l’attivo di bilancio può essere considerata una misura di market liquidity risk più che di funding liquidity risk.

Un’ulteriore misura proposta da Saunders e Cornett (2009) consiste nel calcolo del financing gap. La differenza tra il totale medio dei prestiti erogati e il totale medio dei depositi costituiscono il financing gap. La somma tra questo gap e gli

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assets liquidi prontamente smobilizzabili indicano il financial requirement cioè il totale di finanziamenti di cui la banca necessita per far fronte a tutti i suoi impegni. Infine Saunders e Cornett indicano il maturity ladder come ultima modalità di misura del rischio di liquidità; essa è la metodologia che era stata consigliata dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) prima di Basilea 3 e coincide con l’approccio dei flussi di cassa proposto da Resti e Sironi. E’ importante che i flussi di cassa siano calcolati per diversi scenari, utilizzando l’approccio “what if”. In questo modo, la banca può conoscere come può variare il suo fabbisogno di liquidità in circostanze diverse al variare di fattori sia relativi alla banca stessa, sia relativi al mercato.

Sundararajan (2002) propone di misurare l’esposizione al rischio di liquidità attraverso due approcci: l’approccio delle fonti e degli usi di fondi e l’approccio della struttura dei fondi. Mentre il primo è lo stesso metodo proposto anche da Saunders e Cornett, il secondo metodo si basa sulla struttura di fonti e impieghi. Il metodo analizza la struttura di fonti e impieghi mirando a calcolare i fabbisogni futuri. Per poter effettuare questa previsione le fonti vanno suddivise in relazione alla loro volatilità, cioè alla possibilità che esse possano essere prelevate nel caso dei depositi o non rinnovate nel caso dei debiti a brevissimo termine. Inoltre, vanno individuati anche gli assets che sotto alcune ipotesi di scenario possono diventare illiquidi.

Tutte le misure di cui si è parlato sopra mirano a misurare il rischio di liquidità, ma nessuna di esse riesce a prendere in considerazione tutti quei fattori che impattano su esso. Shen (2009) e Bonfim e Kim (2001) hanno studiato le cause che impattano sul rischio di liquidità. Shen utilizza il metodo della regressione lineare per mettere in relazione il rischio di liquidità di banche provenienti da 12 economie avanzate. In questo studio la variabile dipendente è rappresentata dal financing gap proposto da Saunders e Cornett, calcolato come differenza tra prestiti erogati e depositi della clientela, standardizzato per il totale degli assets. Secondo Shen le cause che impattano sul rischio di liquidità sono di tre tipi: cause specifiche alla banca, relative alla regolamentazione e supervisione, di tipo

Riferimenti

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