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Studio retrospettivo sull'eziologia della cataratta nel cane (2012-2016)

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Veterinarie

Corso di Laurea Magistrale in Medicina Veterinaria

Tesi di Laurea

Studio retrospettivo sull’eziologia della cataratta nel cane

(2012-2016)

Candidato:

Relatore:

Esther Santini

Prof. Giovanni Barsotti

Controrelatore:

Prof.ssa Gloria Breghi

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Riassunto

Il seguente studio si propone di determinare la prevalenza delle varie eziologie della cataratta e la prevalenza di razza nell’ambito di ciascuna di esse nonché le complicazioni più frequentemente associate alla patologia. A tale scopo sono stati inclusi in questo lavoro tutti i cani presentati presso l’ambulatorio di oftalmologia dell’Ospedale Didattico Veterinario "Mario Modenato" del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa, nel periodo compreso tra il I gennaio 2012 e il 31 dicembre 2016. Complessivamente, nel corso del periodo d’interesse, l’16,38% dei pazienti visitati su un totale di 1062 è stato affetto da una cataratta ad eziologia varia. La popolazione era costituita da 132 cani di razza (37 razze) e 42 meticci, a loro volta suddivisibili in 92 maschi e 82 femmine (61 femmine intere e 21 femmine sterilizzate). L’età media dei cani malati era di 80,22 mesi (intervallo: 2 mesi-204mesi) con mediana di 84 mesi. Le varie eziologie della cataratta osservate sono state: la cataratta ereditaria (26%), la cataratta secondaria a PRA (16%), la cataratta senile (14%), la cataratta congenita (11%), la cataratta diabetica (8%), la cataratta traumatica (5%) e la cataratta secondaria ad uveite (3%). Nel 17% dei casi, data la complessità dei casi clinici presentati, non è stato possibile stabilire l’eziologia della cataratta.

Parole chiavi: cristallino, cataratta, razza, prevalenza, eziologia.

Abstract

The following study aims to determine the prevalence of various cataract etiologies and the prevalence of race within each of them as well as the complications most frequently associated with the disease. To this end, all dogs presented at the ophthalmology surgery of the Veterinary Didactic Hospital "Mario Modenato" of the Veterinary Sciences Department of the University of Pisa, in the period between 1st January 2012 and 31st December 2016, were included in this work. Overall, during the period of interest, 16.38% of the patients visited on a total of 1062 were affected by a cataract of various etiology. The population consisted of 132 purebred dogs (37 breeds) and 42 mixed-breed dogs, which were subdivided into 92 males and 82 females (61 entire females and 21 sterilized females). The average age of sick dogs was 80.22 months (interval: 2 months-204 months) with 84-month median. The various etiologies of the cataract observed were: hereditary cataracts (26%), the cataract secondary to PRA (16%), the senile cataract (14%), the congenital cataract (11%), the diabetic cataract (8%), the traumatic cataract (5%) and cataract secondary to uveitis (3%). In 17% of cases, given the complexity of the clinical cases presented, it was not possible to establish the etiology of the cataract.

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INDICE

CAPITOLO 1: IL CRISTALLINO...……….………….………7

1.1

Embriologia del cristallino……….7

1.1.2 Sistema vascolare embrionario………8

1.2

Anatomia del cristallino……….9

1.3

Funzione ottica e accomodazione……….11

1.4

Il metabolismo del cristallino……….….12

CAPITOLO 2: LA CATARATTA………14

2.1

Fisiopatologia della cataratta………..14

2.2 Diagnosi di cataratta………..16

2.2.1 Diagnosi differenziale con la nucleosclerosi……….18

2.3 Classificazione della cataratta.………19

2.4 Conseguenze della cataratta………22

2.5 Trattamento della cataratta……….23

2.5.1 Gestione post-operatoria……….27

2.5.2 Prognosi e complicazioni post-operatorie……….28

CAPITOLO 3: EZIOLOGIA E PREVALENZA DELLA CATARATTA NELLA

SPECIE CANINA……….32

3.1 Cataratta primaria………..……….32

3.1.1 Cataratta ereditaria………..32

3.1.2 Cataratta congenita………..35

3.1.2.1 Anomalie oculari multiple………36

3.1.2.2 Persistenza di strutture embrionarie………37

3.2

Cataratta secondaria………..………..40

3.2.1 Cataratta metabolica………40

3.2.1.1 Cataratta diabetica………40

3.2.1.2 Cataratta ipocalcemica………..43

3.2.2 Cataratta secondarie associate ad altre patologie oculari………..44

3.2.2.1 Cataratta secondaria associata a atrofia progressiva della retina………..44

3.2.2.2 Cataratta secondaria associata a displasia retinica……….46

(6)

3.2.3 Cataratta traumatica………...47

3.2.4 Cataratta nutrizionale……….49

3.2.5 Cataratta tossica……….50

3.2.6 Cataratta senile………51

3.3

Cause di cataratta nel cane: studi di prevalenza riportati in

letteratura……….52

3.3.1 Presentazione cliniche della cataratta nel cane……….53

3.3.2 La cataratta nelle razze canine di piccola taglia………..55

3.3.3 Cataratta ereditaria: le razze canine prevalentemente affette………55

3.3.4 Età di insorgenza della cataratta ereditaria………..57

CAPITOLO 4: ESPERIENZA PERSONALE……….59

4.1

Introduzione……….59

4.2 Materiali e metodi………59

4.2.1 Raccolta dei dati………..59

4.2.2 Visita oculistica……….62 4.2.3 Analisi statistica………63

4.3 Risultati………64

4.3.1 Cataratta primaria……….67 4.3.1.1 Cataratta ereditaria……….68 4.3.1.2 Cataratta congenita……….69 4.3.2 Cataratta secondaria………73

4.3.2.1 Cataratta secondaria a atrofia progressiva della retina…………..74

4.3.2.2 Cataratta senile………..75

4.3.2.3 Cataratta diabetica………76

4.3.2.4 Cataratta traumatica………77

4.3.2.5 Cataratta secondaria ad uveite……….78

4.3.3 Cataratta ad eziologia dubbia……….79

4.3.3.1 Cataratta ad eziologia dubbia fra primaria e secondaria………….80

4.3.3.2 Cataratta ad eziologia dubbia fra le varie tipologie di cataratta secondaria………..81

4.4 Lesioni oculari indotte dalla cataratta………82

4.5 Discussioni……….83

4.5.1 Cataratta primaria……….84

4.5.2 Cataratta secondaria………90

4.5.3 Cataratta ad eziologia dubbia………95

4.5.4 Complicazioni secondarie alla cataratta………..100

(7)

BIBLIOGRAFIA………...104

RINGRAZIAMENTI………115

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7

CAPITOLO 1: IL CRISTALLINO

1.1 Embriologia del cristallino

Il cristallino (o lente) nel cane inizia il suo sviluppo intorno al 15°-17° giorno di gestazione (Peruccio, 1987).

Il primo abbozzo della formazione del cristallino, inizia quando l’ectoderma di superficie della vescicola ottica primitiva subisce un graduale ispessimento (placode del cristallino), indotta dalla proliferazione cellulare in risposta ai segnali induttivi da parte della piastra neurale (Grainer et al., 1992), per poi invaginarsi dando luogo alla formazione della fovea lentis (Grainer et al., 1992; Cook, 1995; Peruccio, 2009). La vescicola ottica così invaginata risulta costituita inizialmente da due strati, interno ed esterno, dapprima separati da uno spazio che tenderà a ridursi progressivamente nel corso dello sviluppo oculare (McGeady et al., 2017). Le estremità della fovea lentis si avvicinano in conseguenza del suo graduale sviluppo; il processo esita nella chiusura della fossetta lenticolare e successivo completamento della formazione della vescicola del cristallino che, nel 25° giorno di gestazione, si dissocerà totalmente dall’ectoderma di superficie (Cook, 2007). Durante questa fase del processo evolutivo, la parete della vescicola è costituita da un singolo strato di cellule cuboidi; queste presentano apice rivolto verso l’interno, mentre le basi esterne aderiscono ad una membrana basale destinata a circondare la lente di cui costituisce la capsula o cristalloide (Peruccio, 2009). Una volta completata la chiusura della vescicola lenticolare, le cellule della metà posteriore iniziano a crescere in senso longitudinale verso il loro polo anteriore, formando le cosiddette fibre primarie del cristallino. Queste, proseguendo lo sviluppo, colmano progressivamente il lume della vescicola costituendo nell’insieme una sfera compatta: il nucleo embrionario (Peruccio, 1987; Cook, 2007). La progressiva organizzazione delle fibre primarie, esita nella scomparsa dell’epitelio posteriore della vescicola, del quale permane soltanto una capsula posteriore estremamente sottile (Peruccio, 1987). Alla formazione delle fibre primarie segue quella delle fibre secondarie, che diversamente dalle prime continuano a svilupparsi durante tutta la vita (Peruccio, 1987; Gelatt, 1999). A produrre le fibre secondarie sono infatti gli elementi cellulari epiteliali disposti sotto la capsula anteriore del cristallino, i quali si moltiplicano incessantemente per mitosi. L’attiva moltiplicazione cellulare, spinge

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progressivamente le cellule meno recenti verso l’equatore, il punto di maggiore diametro circonferenziale della lente. Pertanto, a questo livello, le cellule si allungano disponendosi in maniera ordinata e formano le fibre secondarie, le cui estremità anteriore e posteriore si svilupperanno nelle rispettive direzioni (Turner & Bouhanna, 2010). Conseguentemente, le fibre secondarie intersecano le primarie sia anteriormente che posteriormente e dal loro intreccio originano le linee di sutura principali: anteriore a forma di Y dritta e posteriore a forma di Y rovesciata (Grainer et al., 1992; Cook, 1995; Cook, 2007), quest’ultima spesso la più evidente delle due (Turner & Bouhanna, 2010). Occasionalmente, grazie a un esame oftalmologico scrupoloso è possibile mettere in evidenza le linee di sutura del cristallino e la loro evidenziazione è un reperto del tutto normale; in alcuni casi però possono anche essere sede di cataratta (Peruccio, 1987). A questo punto dello sviluppo embrionale, la componente cellulare del cristallino resta confinata alla sola zona sottocapsulare anteriore e il resto è pertanto costituito dalle fibre. Il loro progressivo accumulo nel centro della lente, esita nella formazione di zone a densità differente e organizzate in maniera concentrica intorno al nucleo embrionario: si formano così i nuclei fetale, adulto e la corteccia, la quale subirà un progressivo ispessimento fisiologico nel corso dei processi di invecchiamento della lente (Peruccio, 2009).

1.1.2 Sistema vascolare embrionario

Lo sviluppo della lente è strettamente correlato con quello del vitreo, il quale nel feto risulta invaso da una fitta rete vascolare, di pertinenza dell’arteria ialoidea, che circonda posteriormente la lente. Un ulteriore apporto ematico viene in seguito fornito dalla tunica

vasculosa lentis (TVL), ovvero la struttura vascolare della membrana pupillare, che nel cane si

sviluppa in camera anteriore dal 25°-30° giorno di gestazione (Peruccio, 2009).

A partire dal 45° giorno, i vasi presenti nel vitreo si atrofizzano rapidamente, mentre la TVL persiste fino alle 2-4 settimane successive alla nascita (Boeve et al., 1988; Bayón et al., 2001). Quando il processo involutivo non si completa, è possibile riscontrare i residui delle strutture vascolari collocati dietro al polo posteriore della lente (PHA o Persistent Hyaloid Artery), o davanti al polo anteriore (PHTVL o Persistent Hyperplastic Tunica Vasculosa Lentis), o ancora residui della membrana pupillare (PPM o Persistent Pupillary Membrane), osservando quadri clinici variabili per aspetto e prognosi visiva, in funzione della presenza o meno delle relative opacità capsulari/sottocapsulari residue congenite, conseguenti al contatto con queste

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strutture (Cook, 2007; Peruccio, 2009). Nello specifico, l’iperplasia o la mancata regressione del sistema vascolare della lente può essere dovuta a due meccanismi: una disarmonica interazione tra fattori di crescita e fattori inibitori della crescita a livello oculare, o a causa di uno sviluppo anomalo del sistema vascolare, che ne impedisce pertanto la regressione completa (Bayòn et al., 2001).

Terminato infine il suo sviluppo, la lente risulta costituita da differenti componenti: - nuclei embrionario e fetale con progressivo sviluppo del nucleo adulto;

- corteccia in continua espansione;

- monostrato di cellule epiteliali sotto la capsula anteriore; - capsula anteriore con spessore di 50 micron (cane); - capsula posteriore di 3-5 micron (cane) (Peruccio, 2009).

1.2 Anatomia del cristallino

Il cristallino è una struttura biconvessa, trasparente e non vascolarizzata, che si colloca tra l’iride anteriormente e il corpo vitreo al suo confine posteriore. Nel cane presenta un diametro equatoriale di 10 mm, uno spessore pari a 7 mm, e un volume totale di circa 0,5 ml (Gelatt, 1999; Mitchell, 2013); il rapporto cristallino-globo oculare varia tra 1:8 e 1:10 (Gelatt, 1999). Da un punto di vista strutturale, nel cristallino si distinguono dall’esterno verso l’interno: - la capsula, la cui sezione anteriore poggia sull’epitelio subcapsulare;

- la corteccia in continua espansione;

- il nucleo, derivante dal progressivo sviluppo dei nuclei embrionario e fetale (Peruccio, 1987). La capsula, o cristalloide, rappresenta l’involucro esterno della lente. Si tratta di una struttura acellulare (Mitchell, 2013), con proprietà elastiche, conseguenti alla disposizione delle fibre di collagene di tipo IV, che rappresenta il suo principale costituente (Gelatt, 1999). A scopo topografico si distinguono una capsula anteriore (o cristalloide anteriore), prodotta dalle cellule subcapsulari (Gelatt, 1999; Beteg et al., 2008; Turner & Bouhanna, 2010) e una capsula posteriore (o cristalloide posteriore) a profilo più convesso. Il suo spessore varia a seconda della localizzazione: è pari a 8-12 µm all’equatore, 50-70 µm per la porzione anteriore, e solo 2-4 µm per la parte posteriore (Gelatt, 1999).

Dal punto di vista stratigrafico, l'epitelio subcapsulare si interpone tra cristalloide anteriore e corteccia.

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È formato da un singolo strato di cellule cuboidi, in continua produzione per lo sviluppo della sola capsula anteriore e di aspetto morfologicamente più oblungo nelle porzioni adiacenti all’equatore (Peruccio, 2009). L’epitelio subcapsulare assume quindi un ruolo importante nella regolazione omeostatica, così come nella rigenerazione fibrillare (Turner & Bouhanna, 2010). La corteccia è l’area intermedia della lente situata tra la capsula e il nucleo ed è costituita dalle fibre secondarie, frutto della differenziazione dell’epitelio germinativo (Gelatt, 1999). A questo livello, le fibre, così come nel nucleo, si organizzano in maniera concentrica ed è proprio questa regolare architettura che contribuisce in modo significativo alla trasparenza del cristallino (Turner & Bouhanna, 2010). Nello specifico, le fibre presentano una membrana cellulare costituita da glicoproteine, glicolipidi, fosfolipidi, mucopolisaccaridi acidi e proteine con gruppi sulfidrilici (Peruccio, 1987). Le fibre assumono una forma esagonale e ognuna di essa è strettamente legata ad altre sei fibre, di cui due della generazione precedente, due della stessa generazione e due della proliferazione successiva. Il legame si realizza tramite le giunzioni “ball-and-socket”, disposte lungo i loro perimetri, implicate nel passaggio di piccole quantità di soluti, e numerose gap-junctions (Gelatt, 1999). Ogni fibra non circonda l’intera area del cristallino, ma dopo maturazione completa, si unisce con semplici giunzioni ai due poli alle tipiche linee di sutura a Y e Y rovesciata (Gelatt, 1999). Queste ultime sono differenti per specie (Gelatt, 1999; Kuszak, 2004) e sono soggette a modificazioni strutturali con l’avanzamento dell’età (Gelatt, 1999). Le fibre dell’area corticale interna sono più compresse, di aspetto rugoso per irregolarità di superficie e il numero di giunzioni è molto ridotto (Gelatt, 1999). Tra una fibra e l’altra sono presenti dei piccoli spazi, che nel loro insieme costituiscono solo il 5% del volume totale della lente (Peruccio, 1987).

Il nucleo costituisce la porzione più interna del cristallino e può essere distinto in nucleo embrionario, fetale e adulto (Peruccio, 1987). Il nucleo si forma per associazione delle fibre meno recenti, che si presentano più compresse e con un numero elevato di giunzioni “ball-and-socket (Gelatt, 1999). La composizione chimica del nucleo lenticolare contiene inoltre una percentuale di acqua inferiore rispetto a quella della regione corticale (Peruccio, 1987). Il cristallino confina anteriormente con l’iride, con cui concorre alla delimitazione delle camere anteriore e posteriore del globo oculare, e col corpo vitreo posteriormente, nel quale vi alloggia attraverso la fossa patellare del vitreo, e al quale si fissa tramite il legamento ialoideo (Gelatt, 1999; Turner & Bouhanna, 2010).

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Le zonule di Zinn, rappresentano un altro mezzo di fissazione della lente e la rilegano al corpo ciliare (Turner & Bouhanna, 2010).

La trasparenza del cristallino è un requisito fondamentale ai fini della funzione visiva. Oltre che dalla particolare disposizione delle fibre lenticolari, in condizioni fisiologiche la trasparenza della lente è, inoltre, garantita dalla totale assenza di pigmentazione, dalla mancanza di una vascolarizzazione propria in età adulta e dalla sua specifica composizione chimica (Mitchell, 2013).

I due costituenti chimici principali del cristallino sono rappresentati dall’acqua (65%), la cui concentrazione tende a diminuire con l’età (Gelatt, 1999), e dalle proteine (35%) di cui il 90% sono cristalline solubili e il 10% cristalloidi insolubili (Gelatt, 1999; Turner & Bouhanna, 2010; Mitchell, 2013) dette albuminoidi (Peruccio, 1987; Gelatt, 1999). Le prime sono classificate in quattro gruppi a secondo del loro peso molecolare in α-cristalline pesanti, β-cristalline pesanti, β-cristalline leggere e γ-cristalline (Gelatt,1999). Il nucleo può contenere il 50% delle proteine totali, di cui molte sono rappresentate dalle cristalline le quali hanno un alto contenuto di gruppi tiolici, necessari al mantenimento della trasparenza della lente (Lou, 2003). L’alta percentuale di proteine fa del cristallino il tessuto dell’organismo più ricco di questi elementi. L’avanzamento dell’età o l’insorgenza di determinate condizioni patologiche possono tuttavia modificare questa percentuale (Gelatt, 1999), come nella comparsa della cataratta, dove si assiste ad un incremento della percentuale proteica insolubile del cristallino, a sfavore della componente solubile (Gelatt, 1999; Cottrill, 2007).

In aggiunta alle maggiori componenti chimiche strutturali, la lente contiene anche una bassa quantità di minerali (Cottrill, 2007), e piccole percentuali di amminoacidi, lipidi, acido ascorbico, elettroliti e glutatione (Peruccio, 1987; Gelatt K, 1999; Lou, 2003). La concentrazione di quest’ultimo è fondamentale per proteggere le proteine e gli enzimi dai danni ossidativi da radicali liberi (Lou, 2003).

1.3 Funzione ottica e accomodazione

La luce viene rifratta dai mezzi diottrici oculari prima di raggiungere la retina (Gelatt, 1999). Il potere di rifrazione di un occhio, cioè di far convergere le radiazioni luminose sul fondo oculare per consentire la proiezione di immagini messe a fuoco, dipende in massima parte dalla cornea e dalla lente (Peruccio, 2009).

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Si misura in diottrie e indica la capacità dei mezzi diottrici di deviare la luce che penetra nell’occhio. Nel cane la cornea ha un potere diottrico tra 37,8D e 43,2D e la lente di 41,5D (Gelatt, 1999; Peruccio, 2009). L‘assenza di pigmentazione e di vascolarizzazione, il basso contenuto in acqua e la regolare distribuzione delle fibre partecipano alla trasparenza del cristallino, requisito essenziale per un suo corretto funzionamento (Mitchell, 2013).

II cristallino consente la messa a fuoco delle immagini sul fondo dell’occhio grazie alle sue caratteristiche strutturali, al differente raggio di curvatura dei cristalloidi e all’apparato

zonulare di Zinn (o apparato sospensore della lente), un sistema di fibre tese tra il cristallino e

il corpo ciliare (Peruccio, 2009). L’azione muscolare del corpo ciliare provoca una variazione della forma della lente modificandone le sue proprietà ottiche, fenomeno conosciuto come

accomodazione, ovvero il processo che permette di mantenere a fuoco l’immagine sulla retina

nonostante le variazioni di distanza (Mitchell, 2013). Per una visione da vicino, l’innervazione parasimpatica determina una contrazione del muscolo ciliare e il conseguente rilassamento delle fibre di Zinn. Il cristallino assume così una forma più convessa e aumenta il suo potere di rifrazione. Al contrario per una visione da lontano, il sistema simpatico induce il rilassamento del muscolo ciliare con stiramento sulle fibre zonulari; di conseguenza la capsula risulta tesa e la lente assume una forma discoidale con diminuzione della sua convessità e quindi del suo potere di rifrazione (Gelatt, 1999).

Con l’avanzare dell’età, le fibre diventano più compatte e disidratate, e la capacità di accomodazione del cristallino diminuisce (Peruccio, 1987). Tuttavia, nel cane la capacità di accomodazione è alquanto limitata, se paragonata a quella dell’uomo (Peruccio, 1987; Mitchell, 2013).

1.4 Il metabolismo del cristallino

I processi metabolici della lente sono piuttosto limitati se correlati a quelli degli altri tessuti dell’organismo, perciò anche la sua richiesta energetica risulta meno elevata (Peruccio, 1987). Le regioni del cristallino metabolicamente più attive sono l’equatore (Beteg et al., 2008) e l’epitelio subcapsulare anteriore (Peruccio, 1987; Gelatt, 1999). Nello specifico l’epitelio subcapsulare rappresenta il sito di maggiore produzione energetica, utilizzata per il trasporto di ioni inorganici, amminoacidi, e per la sintesi proteica (Gelatt, 1999). Per mantenere la trasparenza e l’indice di rifrazione della lente sono necessari: un basso contenuto di acqua e

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un alto contenuto di proteine. L’acqua diffonde passivamente e deve essere espulsa in maniera costante. A mantenere questo stato di disidratazione è una pompa attiva-ATP-dipendente. Questa pompa permette l’ingresso di ioni potassio e di amminoacidi, utili alla sintesi proteica, e l’espulsione di acqua, ioni sodio e cloruri (Gelatt, 1999; Peruccio, 1987). Data la totale assenza di vasi, l’apporto nutritivo alla lente e la rimozione dei metaboliti avviene tramite l’umor acqueo e l’umor vitreo (Peruccio, 1987; Turner & Bouhanna, 2010; Mitchell, 2013). In particolare è il glucosio a fornire l’energia chimica indispensabile (Peruccio, 1987), e il prodotto finale del suo metabolismo è l’acido lattico (Gelatt, 1999). L’ossigeno non è infatti necessario per il normale funzionamento della lente (Gelatt, 1999); pertanto la via metabolica più rappresentativa è la glicolisi anaerobica (Gelatt, 1999; Turner & Bouhanna,), seguita dalla via dei pentosi fosfati, del sorbitolo e dal ciclo di Krebs (Gelatt, 1999).

La glicolisi è controllata dall’enzima esochinasi e dalla velocità di ingresso del glucosio nel cristallino. Se la concentrazione di glucosio è superiore a 175 mg/dl, il livello di glucosio-6-fosfato aumenta e inibisce l’attività del enzima esochinasi. Tale processo permette di limitare l’accumulo di acido lattico e quindi il conseguente abbassamento del pH (Gelatt, 1999). Infine, l’eccesso di glucosio viene trasformato in sorbitolo e fruttosio, entrambi osmoticamente molto attivi. Di conseguenza, un’elevata concentrazione di glucosio comporta la saturazione dei sistemi enzimatici e provoca un rapido accumulo di acqua nella lente con modificazione delle sue caratteristiche strutturali e funzionali (Peruccio, 1987), come dimostrato nell’insorgenza della cataratta diabetica (Nartey, 2017).

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CAPITOLO 2: LA CATARATTA

2.1 Fisiopatologia della cataratta

Nel corso della vita, la lente subisce alcune modificazioni conformazionali per effetto di due principali processi evolutivi, ovvero l’aumento di dimensione, per la continua formazione delle fibre secondarie e la disidratazione delle fibre centrali, più vecchie, che si addensano e appaiono “sclerosate” (Peruccio, 2009). Data la crescita continua delle fibre lenticolari, la zona centrale del cristallino diventa progressivamente biancastra, senza però determinare una vera e propria opacità. Questo fenomeno è detto nucleosclerosi, e in sede diagnostica deve essere correttamente differenziato dalla cataratta (Cottrill, 2007; Mitchell, 2013). Per cataratta si intende qualsiasi opacità della lente, sia essa localizzata o diffusa, stazionaria o progressiva, compatibile o meno con la funzione visiva (Peruccio, 2009). Si manifesta nel paziente con l’organizzazione di un’area biancastra, opaca, più o meno estesa, che, contrariamente alla nucleosclerosi, rende difficoltosa all’operatore la visualizzazione del fondo oculare (Cottrill, 2007; Mitchell, 2013). La cataratta è una patologia della lente a carattere multifattoriale che compare in conseguenza di alterazioni nel metabolismo energetico e proteico, o per modificazioni dell’equilibrio osmotico della lente e nel paziente può essere causa frequente di differenti gradi di cecità (Thayananuphat, 2015; Nartey, 2017). I principali fattori che concorrono alla sua insorgenza sono rappresentati da alterazioni a carico del contenuto in proteine, turbe funzionali delle pompe ioniche (con conseguente modificazione della concentrazione ionica) e l’inefficienza dell’attività dei sistemi antiossidanti (Gelatt, 1999). La cataratta è frequentemente associata a un aumento della quota proteica insolubile a scapito della frazione solubile e a una riduzione dell’attività della pompa Na+-K+-ATP-dipendente. Il

ridotto funzionamento della pompa determina un abbassamento della concentrazione in ioni potassio K+ e un aumento della quantità di ioni sodio Na+ all’interno del cristallino. L’aumento

del sodio crea, per effetto osmotico, l’ingresso di acqua all’interno della lente con conseguente idratazione delle fibre lenticolari, determinando pertanto la rottura delle loro membrane (Gelatt, 1999). Nella cataratta matura, gli enzimi idrolitici e proteolitici aumentano e la degradazione delle proteine in amminoacidi e polipeptidi determina una loro diffusione nell’umor acqueo, innescando un processo infiammatorio a carico dell’uvea (Gelatt, 1999).

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Pertanto, i pazienti affetti da cataratta in stadio avanzato presentano molto spesso uveite associata che, se trascurata, aggrava a sua volta la condizione clinica dell’occhio per l’instaurarsi di sinechie e di glaucoma secondario; nei casi più gravi, la perdita della funzione visiva può risultare irreversibile (Thayananuphat, 2015). Lo stato di trasparenza della lente è legato al suo metabolismo mediante processi di ossido-riduzione e qualsiasi alterazione a carico dei suoi costituenti può pertanto determinarne un’opacizzazione (Lou, 2003). L’ossigeno è una molecola altamente reattiva che può formare derivati dannosi come l'anione superossido (O2-), il perossido d'idrogeno (H

2O2) e il radicale ossidrilico (OH-) (Williams, 2006).

Questi radicali liberi possono essere generati da fattori esogeni come i raggi UV, le radiazioni ionizzanti, le tossine ambientali o le citochine infiammatorie, oppure da sistemi enzimatici della lente stessa come la NADPH-ossidasi (Lou, 2003). In difesa, nelle cellule esistono dei sistemi antiossidanti, fra questi i sistemi non enzimatici (come il glutatione, l’acido ascorbico, la vitamina E, e i carotenoidi), e i sistemi enzimatici (come la supersossido dismutasi, la glutatione perossidasi e le catalasi).(Lou, 2003). Il glutatione viene sintetizzato all’interno del cristallino. È costituito dagli amminoacidi glicina, cisteina e acido glutammico (Peruccio 1987; Gelatt, 1999) ed è presente prevalentemente nella sua forma ridotta. Il rapporto tra forma ridotta e quella ossidata deve essere bilanciato a favore della prima, poiché un aumento della forma ossidata o la riduzione della forma ridotta determina l’ossidazione delle proteine. (Peruccio, 1987). È stato dimostrato che la concentrazione del glutatione ridotto, nei cristallini affetti da cataratta, risulta inferiore rispetto ai livelli normali (Gelatt et al.,1982; Peruccio, 1987). Nel corso dei processi di invecchiamento della lente, risulta compromessa la sintesi del glutatione, la cui concentrazione a livello del nucleo diminuisce (Nartey, 2017) e i sistemi anti-ossidanti diventano di conseguenza meno efficienti (Lou, 2003). Si verifica, quindi, uno squilibrio tra la produzione di intermedi dell’ossigeno e la capacità del sistema biologico di contrastarli o di riparare i danni che ne derivano (Nartey, 2017). Questo può dare luogo a gravi lesioni alle varie componenti cellulari e modificazione della componente proteica, causando l’insorgenza della cataratta. L’età è quindi un fattore predisponente la comparsa della cataratta, poiché risulta correlata alla ridotta funzionalità dei sistemi anti-ossidanti e a un decremento dei processi metabolici con una resa energetica bassa. Inoltre, il metabolismo del glucosio diviene nel tempo prevalentemente aerobico, ostacolando il trasporto ionico di membrana e la sintesi proteica (Nartey, 2017).

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2.2 Diagnosi di cataratta

Per una corretta diagnosi di cataratta occorre definire la localizzazione, la tendenza all’estensione, lo stadio evolutivo, l’eziologia e il periodo di insorgenza nel quale si manifesta clinicamente nella vita dell’animale (Peruccio, 2009). Dopo l’acquisizione dei dati anamnestici del paziente, viene effettuato un esame oftalmologico completo, eventualmente arricchito dall’esecuzione di ulteriori esami complementari (Turner & Bouhanna, 2010). Durante la visita oftalmologica si procede alla valutazione della risposta del paziente alla stimolazione della reazione alla minaccia, che nei cani affetti da cataratta può essere presente, dubbia o addirittura assente, in relazione all’estensione e al grado di maturazione della cataratta e quindi della funzione visiva del paziente (Mitchell, 2013; Mancuso, 2016). Si procede poi con la valutazione del riflesso fotomotore o pupillare (Pupillary Light Reflex o PLR) diretto e consensuale dei due occhi (Peruccio, 1987). Il PLR viene valutato tenendo presente che, in caso di cataratta avanzata, un animale non vedente è comunque in grado di rilevare la presenza della luce, risultando positivo alla stimolazione del riflesso (Peruccio, 1987). La cataratta da sola quindi, non determina un’alterazione del PLR, poiché tale riflesso non è indicativo della funzionalità visiva del paziente. Tuttavia, quando il PLR risulta assente o diminuito, oltre l’atrofia iridea, lesioni ai nervi (ottico e oculomotore) e alle vie ottiche è necessario prendere in considerazione possibili fenomeni degenerativi a carico alla retina, eventualmente correlate alla presenza della cataratta (Mancuso, 2016). La stima della pressione intraoculare (Intraocular Pressure o IOP) del paziente è una procedura utile ai fini della diagnosi di eventuali complicazioni intraoculari. Nel cane la IOP è compresa all’interno di intervalli compresi tra 10 e 25 mmHg, e valori superiore al range fisiologico sono rappresentativi di glaucoma (Turner & Bouhanna, 2010). Se la IOP assume, invece, un valore inferiore a 15mmHg, questo può essere indicativo della presenza di un’uveite, frequente in corso di cataratta, e clinicamente osservabile nel paziente con iperemia congiuntivale, miosi dell’occhio affetto, e una colorazione alterata dell’iride (Mitchell, 2013; Mancuso, 2016). Per la valutazione completa del cristallino può essere necessario indurre la midriasi nel paziente. In alcuni casi, invece, come in soggetti particolarmente paurosi o sotto forte stress, affetti da alterazioni iridee congenite (iridodisgenesi), acquisite (atrofia), o con gravi lesioni retiniche, la pupilla risulta già dilatata a luce ambientale e non responsiva alla stimolazione luminosa (Peruccio, 1987; Peruccio, 2009). La midriasi viene farmacologicamente indotta dopo un

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esame del settore anteriore dettagliato che attesti l’assenza di complicazioni secondarie legate alla cataratta, come ad esempio il glaucoma, o che scongiuri il rischio di possibili instabilità della lente, e quindi una sua possibile lussazione. Per la midriasi viene istillato un collirio midriatico a breve durata d’azione (tropicamide 1%) (Peruccio, 2009; Mitchell, 2013; Clode, 2016). Questa procedura diagnostica permette di osservare il cristallino in tutta la sua estensione, compresa la zona equatoriale (Clode, 2016). Gli strumenti oftalmici indispensabili al fine di una diagnosi precisa sono rappresentati dalla lampada a fessura, il transilluminatore di Finoff, e l’oftalmoscopio diretto o indiretto (Peruccio, 1987). La lampada a fessura deve essere utilizzata con un ingrandimento di almeno 10X o superiore (16 – 20X) (Peruccio, 2009). Questa consente di rilevare in modo accurato qualsiasi alterazione a carico della cornea, del settore anteriore dell’occhio e permette di discriminare eventuali opacità patologiche del cristallino dai normali processi di invecchiamento (Kecova, 2004). Relativamente al cristallino, la lampada a fessura consente di valutare l’intensità, la localizzazione e l’estensione dell’opacità, oltre alle caratteristiche strutturali della capsula, l’eventuale presenza di oscillamenti con facodonesi, iridodonesi, o di crescente afcahico (Ollivier et al., 2007). Il transilluminatore di Finoff è una fonte di luce focalizzata che permette di provocare il PLR, di riscontrare eventuali opacità del cristallino e visualizzare l’intensità del riflesso tappetale (Peruccio, 1987). L’oftalmoscopio diretto si rivela molto utile per la localizzazione delle cataratte, sia nelle fasi avanzate, che negli stadi iniziali del suo sviluppo. Nell’apparecchio sono contenute diverse lenti (positive o convergenti e lenti negative o divergenti) da interporre all’asse di osservazione per modificare la profondità del fuoco nell’occhio e correggere i difetti refrattivi, agevolando in questo modo l’esplorazione precisa del cristallino, sebbene lo strumento sia finalizzato primariamente all’esplorazione del fondo oculare (Turner & Bouhanna, 2010; Mitchell, 2013). L’oftalmoscopia indiretta, consente di ottenere una visione più globale del fondo oculare. Per questo esame sono necessari delle lenti convergenti e quella più frequentemente utilizzata è di 20D (Turner & Bouhanna, 2010). Un esame dettagliato del fondo oculare in corso di cataratta permette di valutare inoltre la presenza di alterazioni associate, fra cui ad esempio un’atrofia retinica progressiva (Progressive Retinal Atrophy o PRA) (Kecova, 2004). Nei casi in cui si sospetta una cataratta secondaria associata a patologie retiniche e l’opacità marcata della lente renda impossibile la valutazione dello stato clinico della retina, può risultare necessario effettuare esami specialistici complementari, come

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l’elettroretinografia (ERG) o l’ecografia oculare, che permettono, a fini prognostici, di poter valutare anche la funzionalità retinica, in previsione di un possibile trattamento chirurgico (Kecova, 2004; Martin, 2010; Mitchell, 2013; Mancuso, 2016). Vari studi clinici e sperimentali hanno dimostrato che l'ERG è un metodo di valutazione efficace e obiettivo per la valutazione della funzionalità retinica. Questo metodo è pertanto stato utilizzato per molti anni in medicina veterinaria principalmente per la diagnosi delle distrofie retiniche e per la valutazione preoperatoria della retina in previsione della chirurgia per cataratta (Narfström, 2002). All’esame ecografico possono essere visualizzati eventuali alterazioni del cristallino associate alla cataratta, quali rotture o spostamenti della lente dalla sede naturale (lussazione/sublussazione), degenerazione a carico del vitreo, persistenza dell’arteria ialoidea, o distacchi di retina (Mitchell, 2013). Esami specialistici come l'ERG o l’ecografia oculare sono particolarmente utili a scopo prognostico, poiché in corso di cataratta consentono di poter valutare lo stato clinico della retinica e di accertare quindi un possibile recupero della visione nel paziente. Se la funzionalità retinica è infatti compromessa, la terapia chirurgia per la cataratta non sarà pertanto risolutiva ai fini del recupero della funzione visiva (Mitchell, 2013).

2.2.1 Diagnosi differenziale con la nucleosclerosi

La continua crescita delle fibre lenticolari determina un progressivo consolidamento delle aree centrali del cristallino. A questo livello, le fibre risultano sempre più compresse e le loro connessioni alterate, ostacolando conseguentemente gli scambi metabolici e aumentando progressivamente la densità del nucleo lenticolare (Gelatt, 1999). Questo fenomeno è conosciuto come nucleosclerosi e rappresenta un processo fisiologico, legato al progressivo invecchiamento della lente. Compare nel cane all’età di circa 6-7 anni quando il nucleo lenticolare diviene ampio, denso e rigido (Peruccio, 2009). Clinicamente si manifesta con la formazione di un’area centrale biancastra, che tuttavia non altera la visione del paziente e generalmente non ostacola la visualizzazione del fondo oculare in corso di esame oftalmologico (Gelatt, 1999; Cottrill, 2007, Mitchell, 2013), ad eccezione di casi molto avanzati (Gelatt, 1999; Cottrill, 2007). Cataratta e nucleosclerosi vengono a volte confuse, ma le due condizioni risultano tra loro alquanto diverse, sia talora per cause d’insorgenza, che per le ripercussioni cliniche sul paziente. Ai fini di un trattamento adeguato infatti, è di fondamentale importanza formulare una diagnosi corretta. Per mettere in risalto le opacità del cristallino è

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necessario effettuare un esame oftalmologico in camera oscurata. Grazie all’esame biomicroscopico con lampada a fessura (biomicroscopia oculare) è possibile apprezzare le immagini di Purkinje, ovvero le 3 proiezioni lineari della sorgente luminosa sovrapposte al foro pupillare, riflesse sui mezzi diottrici oculari: la superficie corneale, il cristalloide anteriore e il cristalloide posteriore. Ogni mancanza, interruzione o offuscamento delle ultime due immagini del Purkinje rispecchia alterazioni patologiche della trasparenza del cristallino, indicative di cataratta, mentre risulteranno positive in presenza di nucleosclerosi (Peruccio, 1987; Gelatt, 1999). L’oftalmoscopio diretto consente di differenziare la cataratta dalla nucleosclerosi, esaminando complessivamente la lente dopo aver selezionato all’interno dell’apparecchio lenti positive convergenti (+8 / + 12). Spesso è possibile inserire un limitatore a fessura sul decorso del fascio luminoso (Peruccio, 1987). L’esame oftalmoscopico diretto permette di differenziare indirettamente una cataratta da una nucleosclerosi, anche attraverso la visualizzazione del fondo oculare (Turner & Bouhanna, 2010, Mitchell, 2013). L’illuminazione diretta dell’occhio consente di mettere in evidenza il riflesso tappetale, per rilevare eventuali ostacoli alla visualizzazione del fondo oculare, correlate ad eventuali opacizzazioni della lente. In caso di cataratta, più o meno estesa, non sarà possibile esaminare in toto il fondo oculare e la notevole riduzione o l’assenza del riflesso tappetale saranno la diretta conseguenza dell’ostacolo al passaggio di luce, dovuto alla perdita di trasparenza del cristallino (Peruccio, 1987: Gelatt, 1999; Mitchell, 2013). Con la nucleosclerosi, invece, il riflesso tappetale è mantenuto, sufficientemente visibile all’operatore e l’osservazione della lente mette in risalto un opacamento centrale che tuttavia mantiene una netta linea di demarcazione tra corteccia e nucleo lenticolare (Clode, 2016).

2.3 Classificazione della cataratta

Tramite un’accurata osservazione della lente, utilizzando gli strumenti diagnostici precedentemente descritti, è possibile classificare i diversi tipi di cataratta in riferimento alla modalità o al periodo di insorgenza, all’estensione, alla localizzazione, allo stadio di sviluppo e all’eziologia (Peruccio, 1987).

In base al periodo d’insorgenza la cataratta si classifica in congenita, su base ereditaria o secondarie all’azione di un agente tossico/teratogeno durante lo sviluppo embrionale del

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cristallino, giovanile quando avviene ad un’età inferiore agli 8 anni, e senile quando compare ad un’età superiore agli 8 anni (Gelatt, 1999; Peruccio, 2009).

L’evoluzione della cataratta può essere stazionaria o progressiva e la consistenza della lente può essere fluida, molle o dura (Peruccio, 1987).

Relativamente alla localizzazione nelle varie componenti del cristallino, la cataratta si classifica come:

subcapsulare: adiacente alla capsula anteriore o posteriore, senza il coinvolgimento della

corteccia; frequentemente a carattere ereditario e a progressione variabile (Mancuso & Hendrix, 2016);

corticale: insorge con la presenza di opacità multiple disposte radialmente nella

corteccia, e che tendono a confluire progressivamente, per formare nelle fasi più avanzate delle zone di opacità cuneiformi e confluenti verso il centro (Peruccio, 2009); ▪ equatoriale: in prossimità delle fibre zonulari, alla periferia del cristallino; generalmente

progressiva, data la crescita attiva della lente a livello equatoriale (Mancuso & Hendrix, 2016);

nucleare: raramente progressiva e di origine primaria o secondaria (Mancuso & Hendrix,

2016).

▪ Infine, la cataratta è possibile riscontrarla anche in corrispondenza delle linee di sutura (Peruccio, 1987).

La localizzazione della cataratta, così come la sua fase evolutiva, è utile per formulare una prognosi riguardo la funzione visiva del soggetto (Peruccio, 1987). Una cataratta equatoriale o capsulare fuori dall’asse ottico è compatibile con una funzione visiva inalterata. Quelle nucleari sono, invece, caratterizzate da miglioramento funzionale con luce attenuata e netto peggioramento della visione con luce intensa, in rapporto al diametro del foro pupillare, mentre le cataratte corticali comportano deficit visivi variabili in rapporto alla loro densità ed estensione e devono essere valutate con riferimento alla fase evolutiva raggiunta (Peruccio, 2009).

A seconda dello stadio evolutivo, la cataratta viene distinta in cinque stadi (Gould, 2002; Martin, 2010):

• incipiente: è lo stadio più precoce della patologia. L’opacità risulta inferiore al 10% (Gelatt,1999; Gould, 2002; Martin, 2010) o 15% del volume della lente (Gelatt, 1999;

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Mancuso & Hendrix, 2016). Spesso è una cataratta corticale, subcapsulare o delle linee di suture, e può essere progressiva o meno a secondo dell’eziologia (Gelatt, 1999). All’esame oftalmoscopico il fondo oculare è poco oscurato e ancora visibile all’operatore (Gould, 2002; Martin, 2010; Mancuso & Hendrix, 2016).

• immatura: è quella cataratta che si estende dal 15% al 99% del volume della lente (Mancuso & Hendrix, 2016). Spesso, la cataratta immatura è osmoticamente attiva, il che induce una imbibizione delle fibre della lente, con la formazione di fessurazioni e successiva rottura delle fibre lenticolari, specialmente a livello delle linee di sutura, con conseguente aumento delle dimensioni della lente stessa (Gelatt,1999). Il fondo oculare è più o meno osservabile in funzione del grado di opacamento (Gould, 2002; Martin, 2010; Mancuso & Hendrix, 2016). Con una cataratta immatura l’animale può essere affetto da gradi variabili di cecità, a seconda del grado di opacamento della lente, del diametro pupillare, dell’intensità e dell’incidenza della luce ambientale (Peruccio, 2009; Mancuso & Hendrix, 2016).

• matura: la lente è completamente opaca (100% del volume della lente, senza riassorbimento), e il fondo oculare non valutabile (Gelatt, 1999; Mancuso & Hendrix, 2016). L’animale è del tutto cieco e urta costantemente gli ostacoli anche se, nell’ambiente domestico in cui vive, può seguire le piste olfattive e memorizzare altri riferimenti (Peruccio, 2009). Se la retina è funzionante il riflesso all’abbagliamento e il PLR saranno comunque mantenuti (Mancuso & Hendrix, 2016).

• ipermatura: è la cataratta in stadio particolarmente avanzato. In questa condizione è di frequente riscontro la presenza di uveite facolitica, dovuta all’attivazione di enzimi proteolitici che provocano la degradazione e la successiva rottura delle fibre lenticolari. Il passaggio in camera anteriore delle componenti fibrillari del cristallino, innescano a loro volta un’imponente reazione infiammatoria autoimmune (Gelatt, 1999; Gould, 2002; Martin, 2010).

• morgagnana: o cataratta di Morgagni, si ha quando nella fase avanzata della patologia, la perdita della componente proteica ad opera degli enzimi litici comporta una riduzione volumetrica della lente, e il cristalloide anteriore si raggrinzisce progressivamente, mostrando la formazione di placche biancastre (Gelatt,1999; Mancuso & Hendrix, 2016). Successivamente la cataratta viene a poco a poco

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riassorbita (Gelatt, 1999; Mancuso & Hendrix, 2016), il riflesso tappetale può risultare in parte nuovamente visibile e la camera anteriore appare più profonda.

La cataratta di Morgagni rappresenta quindi l’ultimo stadio del processo patologico. In questa fase, la corteccia mostra una consistenza ormai molle, a causa della liquefazione delle fibre (Gelatt, 1999). Conseguentemente, per gravità il nucleo assume una posizione ventrale, non più sostenuto dalla corteccia, e la visione nel paziente può in alcuni casi essere riacquisita (Peruccio, 2009; Mancuso & Hendrix, 2016). A questo stadio della patologia aumentano tuttavia le percentuali di rischio di distacco di retina, di degenerazione del vitreo, e la probabilità di sublussazione/lussazione della lente risulta maggiore (Gelatt, 1999).

Infine, è possibile classificare la cataratta secondo la sua eziologia in cataratta primaria e

cataratta secondaria. La prima si sviluppa su base genetica mentre la seconda si verifica in

seguito a un insulto esogeno o una patologia sistemica o oculare (Mancuso & Hendrix, 2016). Per l’approfondimento della cataratta in base all’eziologia si rimanda al capitolo 3.

2.4 Conseguenze della cataratta

L’insorgenza di uveite associata a danni a carico della lente è piuttosto frequente in varie specie animali, compreso il cane. Si tratta di una risposta infiammatoria a carico dell’uvea, scaturita dall’esposizione delle componenti interne del cristallino. La lente è un organo isolato, sprovvisto di vasi sanguigni e che si sviluppa separatamente dalle altre strutture embrionali. Le sue componenti proteiche sono da un punto di vista immunologico organo-specifiche e non specie-specifiche e durante lo sviluppo embrionale la capsula funge da barriera, impedendone il contatto coi sistemi reticolo-endoteliali e circolatorio pre-natale. Queste risultano pertanto attaccabili dal sistema immunitario stesso in caso di una loro esposizione esterna, innescando nel soggetto una reazione infiammatoria autoimmune più o meno grave, con la formazione di anticorpi diretti contro la lente (Gelatt, 1999). In medicina veterinaria possono essere distinte l’uveite facoclastica e quella facolitica (Van Der Woerdt, 2000). L’uveite facoclastica avviene in caso di rottura spontanea o traumatica della lente. L’uveite facolitica, invece, consegue all’azione degli enzimi proteolitici che degradano le proteine fibrillari della lente; si tratta di un’uveite linfo-plasmacellulare e istologicamente si rilevano numerosi linfociti e plasmacellule

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all’interno dello stroma dell’uvea. Il Barboncino nano e il Cocker Spaniel Americano sono tra le razze maggiormente colpite dall’uveite facolitica, a dimostrazione dell’alta prevalenza di cataratta riscontrata in queste razze. Questo tipo di uveite è frequentemente associata a cataratta ipermatura (Gelatt, 1970; Gelatt, 1975; Fischer 1983; Van Der Woendt et al., 1992) e alle cataratte a insorgenza rapida come quella diabetica (Pumphrey, 2015). In alcuni casi, tuttavia, l’uveite facolitica può essere correlata anche a cataratte mature e immature (Van Der Woerdt, 2000). I segni clinici di uveite sono rappresentati da miosi, iperemia congiuntivale e intorbidimento dell’umor acqueo. Le possibili complicazioni associate all’uveite in corso di cronicizzazione variano dalla tisi del globo oculare al buftalmo secondario a glaucoma (Van Der Woerdt, 2000). Quest’ultimo è molto comune e nel cane rappresenta circa il 45% dei glaucomi secondari (Johnsen, 2006). In corso di uveite, infatti, l’accumulo di fibrina può dare origine alla formazione di sinechie anteriori (fra iride e cornea) o posteriori (fra iride e cristalloide anteriore). Le sinechie anteriori alterano la normale conformazione dell’angolo irido-corneale, compromettendo il drenaggio dell’umor acqueo, che si accumula di conseguenza in camera anteriore. Le sinechie posteriori, invece, occludono il flusso dell’umor acqueo verso la camera anteriore, e concorrono alla formazione della cosiddetta iride bombé. Infine l’infiammazione dell’uvea può anche compromettere la stabilità delle zonule di Zinn, e predisporre quindi il cristallino alla lussazione (Pumphrey, 2015). Data la gravità della sintomatologia clinica e delle complicazioni associate, risulta di fondamentale importanza valutare l’eventuale presenza di uveite, anche in previsione del trattamento chirurgico, poiché ne condiziona significativamente il tasso di successo (Paulsen, 1985; Van Der Woendt et al., 1992).

2.5 Trattamento della cataratta

La chirurgia è la sola terapia risolutiva per la cataratta (Lim, 2011) e rappresenta una delle procedure chirurgiche maggiormente praticate in ambito oculistico (Davidson, 1999). In medicina veterinaria mancano dimostrazioni scientifiche valide a supporto dell’efficacia del trattamento medico per la cataratta, sebbene siano disponibili in commercio alcuni prodotti supportati da studi in vitro e sperimentazioni cliniche (Kador, 1983; Bron et al., 1987; Davidson & Nelms, 2007). La maggior parte dei farmaci sono finalizzati a rallentare l’evoluzione delle forme iniziali di cataratta. Si tratta di integratori a base di sali inorganici, estratti di prodotti

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naturali, supplementi nutrizionali, antinfiammatori non steroidei e antiossidanti, come selenio, vitamina E, superossido dismutasi (SOD), N-acetylcarnosina, e zincocitrato (Kador, 1983; Williams & Munday, 2006; Davidson & Nelms, 2007). Per la specie canina in particolare, la ricerca scientifica supporta lo studio di sistemi inibitori dell’aldoso reduttasi, ai fini dello sviluppo di un trattamento medico relativo alla cataratta diabetica (Sato et al., 1991).

Nel caso di cataratta focale e stazionaria un monitoraggio periodico può scongiurare il rischio di complicazioni secondarie legate alla cataratta, come l’uveite, spesso riscontrabile in corso di cataratte mature o ipermature, che a sua volta necessita un trattamento medico basato sulla somministrazione di farmaci anti-infiammatori steroidei (corticosteroidi) o non streoidei (FANS) (Mitchell, 2013).

Oltre che alla prevenzione delle conseguenze legate alla cataratta, la risoluzione chirurgica è particolarmente indicata per i pazienti affetti da deficit visivi imputabili a gravi opacità del cristallino e nei quali la valutazione della funzionalità retinica ha riportato un esito positivo. Lo scopo della chirurgia è quello di rimuovere l’impedimento al passaggio della luce e ripristinare, se possibile, il potere diottrico naturale della lente mediante l’inserimento di una lente artificiale (Intraocular Lens o IOL) (Peruccio, 2009).

I diversi tipi di interventi sono classificati in:

- intracapsulare: prevede l’asportazione della lente in toto, comprensiva di capsula. Oggi si effettua solo nei casi di grave sublussazione o lussazione del cristallino;

- extracapsulare (Extra Capsular Cataract Extraction o ECCE): senza l’ausilio di strumenti che frammentano il contenuto della lente; comporta l’asportazione di un ampio settore della capsula anteriore mediante capsuloressi, che consente di estrarre il contenuto della lente mediante manovre di indentazione;

- extracapsulare o facoemulsificazione: grazie a un particolare strumento (facoemulsificatore) consente di frammentare la lente mediante l’emissione di ultrasuoni, irrigare l’interno dell’occhio mantenendone la forma e aspirarne, infine, i frammenti insieme ai liquidi di lavaggio (Peruccio, 2009). Una corretta terapia preoperatoria aumenta in modo significativo i margini di successo dell’operazione (Peruccio, 1987). Qualche giorno prima dell’intervento l’occhio viene medicato con colliri antibiotici, corticostreroidei o a base di FANS (Cook, 2008). Per l’intervento vengono, invece, somministrati FANS per via sistemica e viene indotto il paziente in midriasi farmacologica mediante l’istillazione di tropicamide o fenilefrina. Il

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protocollo anestesiologico deve comprendere dei bloccanti neuromuscolari, in quanto impediscono la rotazione del bulbo oculare e facilitano pertanto la procedura chirurgica (Dziezyc, 1990; Nasisse and Davidson, 1991). Infine, alla fine della chirurgia, può essere somministrato carbacolo per indure miosi e ridurre il rischio di glaucoma post-operatorio (Adkins & Hendrix, 2003). Nel cane, la tecnica chirurgica più frequentemente utilizzata è la facoemulsificazione (Beteg et al., 2008; Mitchell, 2013). Si tratta di una procedura chirurgica scarsamente traumatica e ideale per l’inserimento di una lente intraoculare (IOL) di diametro pari a 14-18 mm nel cane (Peruccio, 2009). Il facoemulsificatore riunisce in sé l’impianto di infusione-aspirazione, il sistema di capsulotomia, l’elettrocoagulatore bipolare a campo umido per l’emostasi e il vitrectomo. Questa tecnica molto precisa permette di intervenire attraverso una breccia operatoria piuttosto ridotta (Peruccio, 2009), inferiore ai 3mm (Mitchell, 2013). Nel cane l’accesso chirurgico è corneale e una cantotomia laterale può essere effettuata per aumentare l’esposizione del campo operatorio e limitare una deformazione eccessiva del globo oculare (Gelatt, 1999). L’incisione corneale consente di scavare un tunnel all’interno dello stroma corneale, grazie all’ausilio di lame angolate di 30°-45° e con punta triangolare di 3 mm circa, arrotondata e tagliente per tutta la sua lunghezza, per consentire l’ingresso all’interno della camera anteriore (Mitchell, 2013). Successivamente si esegue la capsulotomia. Uno dei metodi più praticati a tal proposito è la capsuloressi che consiste in un’apertura circolare a carico della capsula, la quale consente di effettuare un’incisione di piccola dimensione e determinare una buona stabilità dell’IOL (Gelatt, 1999). Viene quindi introdotto il facoemulsificatore a livello dell’apertura, che frantuma la lente mediante ultrasuoni (Mitchell, 2013). Durante questa fase della chirurgia, si introducono dei liquidi a flusso regolato dal chirurgo, i quali mantengono la forma e la pressione interna oculare ai livelli fisiologici e consentono allo stesso modo di aspirare i frammenti della lente che vengono quindi drenati all’esterno dalla continua irrigazione (Peruccio, 2009). Per lo scopo, sono state studiate delle soluzioni saline bilanciate, con un pH compreso tra 7,5 – 8,2. Si tratta di particolari sistemi tampone addizionati a elettroliti e altri elementi come il glutatione ossidato, per diminuire il danno intraoculare. Infine, per prevenire la formazione di membrane di fibrina conseguenti all’infiammazione post-chirurgica e per garantire una midriasi adeguata nel paziente, molti chirurghi aggiungono ad ogni litro di soluzione 1000 unità di eparina e fenilefrina in diluizione pari a 1:10.000 (1 ml di fenilefrina concentrata 1:1.000 per ogni litro di

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soluzione). Si deve tenere presente che tali farmaci non devono contenere conservanti potenzialmente tossici per l’occhio e possono comunque alterare l’equilibrio elettrolitico, il pH e l’osmolalità della soluzione (McDermott et al., 1988).

I materiali viscoelastici, generalmente formulati a base di condroitina solfato e acido ialuronico (Cook, 2008), sono sostanze utilizzate nell’intervento di facoemulsificazione per mantenere la camera anteriore nella sua normale conformazione, dilatare la pupilla, consentire le adeguate manipolazione sull’iride, proteggere l’endotelio corneale, distendere il sacco capsulare per l’introduzione della IOL ed evitare, infine, spostamenti del vitreo in seguito a lacerazioni capsulari posteriori, controllando possibili emorragie e altre complicazioni intraoperatorie (Glover & Constantinescu, 1997; Wilkie & Willis, 1999). Nel cane la lente è dotata di un potere diottrico pari a 40 – 41,5D, variabile in funzione della razza e la sua capacità di accomodazione è stimata da 1 a 3D. In caso di asportazione della lente, l’occhio diviene eccessivamente ipermetrope, poiché le immagini saranno messe a fuoco su di un piano posto dietro la retina (Peruccio, 2009; Thayananuphat, 2015). L’inserimento nell’occhio di una IOL consentirà di sopperire a un difetto di circa 14D conseguente all’afachia, e di ristabilire quindi nel paziente un potere diottrico paragonabile a quello di una lente naturale (Kecova, 2004; Cottrill, 2007; Peruccio, 2009;Thayananuphat, 2015). Tuttavia, l’inserimento della IOL non si effettua in presenza di specifiche controindicazioni, come nel caso di soggetti di pochi mesi affetti da gravi malformazioni congenite, o in seguito a complicazioni intraoperatorie, quali la rottura della capsula posteriore con spostamento del vitreo (Peruccio,2009). Le caratteristiche essenziali di una lente artificiale sono rappresentate da una densità adeguata, un appropriato indice di rifrazione, biocompatibilità e quindi assenza di tossicità per i tessuti oculari e una buona stabilità chimica che perduri nel tempo (Kecova, 2004). I materiali utilizzati sono il polimetilmetacrilato (PMMA), l’acrilato (idrofilo e idrofobico), il silicone e l’idrogel. Il PMMA è un polimero del metilmetacrilato, possiede un indice di rifrazione di 1,49D ed è ben tollerato a livello tissutale. Il PMMA tuttavia è un materiale rigido e la sua introduzione richiede l’esecuzione di un’incisione corneale di maggiori dimensioni (6-8 mm) (Kecova, 2004). Il silicone è un materiale biocompatibile, elastico e con indice di rifrazione pari a 1,41 – 1,46D. Tuttavia, non va utilizzato nei pazienti a rischio di subire una chirurgia vitreoretinica, come ad esempio i pazienti diabetici, in quanto verrebbe danneggiato da tale procedura. Infine, l’idrogel rappresenta un polimero di acrilato e possiede

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un indice di rifrazione di 1,43 – 1,48D (Kecova, 2004). Con l’affermarsi della tecnica extracapsulare, sempre più eseguita in campo veterinario, si sono diffuse anche lenti a base di acrilato idrofilico, materiale estremamente biocompatibile, flessibile, che riduce notevolmente anche l’ampiezza dell’incisione chirurgica corneale (Kecova, 2004). Infine, la sintesi chirurgica corneale deve garantire la minore reazione locale e il mantenimento della chiusura della breccia operatoria fino a completa cicatrizzazione (Peruccio, 2009). Spesso vengono utilizzati fili in poliglactina 9-0, riassorbibili e perfettamente tollerati dall’organismo (Gelatt, 1999; Lim, 2011).

Nonostante i miglioramenti continui nell’evoluzione delle tecniche chirurgiche, i limiti all’applicazione del trattamento sono rappresentati dai costi, a volte poco sostenibili da parte dei proprietari, o da cause intrinseche al paziente. Tra queste si annoverano la presenza di altre patologie oculari, come la degenerazione progressiva retinica, cheratiti, o eventuali malattie sistemiche concomitanti, che possono ostacolare la preparazione chirurgica del paziente stesso e comprometterne una buona guarigione (Lim, 2011).

2.5.1 Gestione post-operatoria

Nel periodo post-operatorio il cane necessita di una rigorosa terapia farmacologica a base di antibiotici locali e antiinfiammatori steroidei per almeno 3 o 4 settimane. In aggiunta alla terapia medica, l’applicazione del collare elisabettiano rappresenta una valida misura precauzionale al fine di evitare possibili autotraumatismi (Cook, 2008). Durante il periodo post-operatorio, la compliance dei proprietari è indispensabile ai fini del successo terapeutico. Per questo motivo occorre informarli adeguatamente sulle cure post-chirurgiche del paziente, oltre che sull’importanza della loro gestione pre-operatoria (Thayananuphat, 2015). Gli animali iperattivi, estremamente aggressivi, o difficilmente gestibili non sono pertanto candidati idonei alla terapia chirurgica della cataratta (Kecova, 2004). Generalmente, dopo la chirurgia, la prognosi per il recupero della funzione visiva è buona; il tasso di successo è compreso tra 90% (Mitchell, 2013) e 95% (Beteg et al., 2008), e il 99% dei pazienti vedono il giorno stesso dell’intervento (Cottrill, 2007). È comunque consigliabile operare di cataratta il paziente il prima possibile, in quanto il successo dell’intervento decresce con la progressione della patologia (Mitchell,2013). Inoltre, al fine di ottenere risultati positivi a lungo termine, occorre effettuare controlli postoperatori regolari (Cook, 2008; Mitchell, 2013). Nonostante il

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tasso di successo sia alto, la riuscita dell’intervento non è sempre garantita (Lim, 2011) e in rari casi è possibile riscontrare l’insorgenza di complicazioni secondarie, quali ad esempio l’uveite, il glaucoma e l’endoftalmite (Beteg et al., 2008; Cook, 2008).

2.5.2 Prognosi e complicazioni post-operatorie

Grazie a un’esperienza professionale consolidata e a un’attrezzatura medica all’avanguardia, è possibile ottenere ottimi risultati terapeutici a breve termine. Dopo alcuni giorni tuttavia può insorgere un’opacizzazione dei mezzi diottrici oculari, che in assenza di complicazioni acquisiscono nuovamente la loro trasparenza nell’arco di trenta giorni circa, ripristinando nel paziente una buona funzionalità visiva (Peruccio, 1987). Le percentuali di successo della facoemulsificazione a breve e medio termine sono elevate e variano dal 80% al 95%. Purtroppo, il tasso di successo diminuisce con il tempo e può scendere fino al 70% a un anno dopo la chirurgia (Gould, 2002). Varie complicazioni corneali, quali la deiscenza della sutura, lesioni traumatiche, edemi o erosioni, si possono riscontrare generalmente subito dopo l'intervento. Il fallimento della sintesi chirurgica, così come lesioni corneali traumatiche iatrogene, possono portare in casi gravi a una fuoriuscita dell’umor acqueo, clinicamente manifesta con una ridotta profondità della camera anteriore, prolasso irideo con abbondante formazione di fibrina e discoria evidente (Gelatt, 1999). L’edema della cornea può conseguire a un danno iatrogeno a carico dell’endotelio corneale, causato da manipolazioni strumentali scorrette, dalla presenza di frammenti lenticolari, errori di scelta o di inserimenti della IOL, oppure ancora per l’utilizzo eccessivo di fluidi di irrigazione (Gelatt, 1999). Infine l’ulcera corneale, frequente soprattutto nelle razze brachicefaliche, ha una patogenesi spesso multifattoriale, associata ad una diminuzione della produzione di lacrime indotta sia dall’utilizzo di farmaci parasimpaticolitici, sia da possibili autotraumatismi o dal prolungamento dei tempi di guarigione conseguente alla somministrazione di agenti antiinfiammatori corticosteroidei (Gelatt,1999).

L’ifema e l’emorragia vitreale possono verificarsi durante l’intervento di cataratta o nell’immediato post-operatorio, a causa del sanguinamento del sito di incisione, di improvvisi sbalzi pressori intraoculari, di un’eccessiva tensione esercitata sul corpo ciliare, di insulti traumatici sull’uvea mediante strumenti oftalmici, o per eventuali turbe coagulative nel paziente. Tuttavia, tensioni provocate dal collare o dal guinzaglio, l’abbaio eccessivo e

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l’iperattività del soggetto, sono le cause più frequenti di ifema nell’immediato post-operatorio. Se l’emorragia è cospicua, è consigliabile effettuare un trattamento intracamerale con un’attivatore del plasminogeno, che risulta molto efficace già nell’arco di poche ore (Gelatt, 1999). Nel post-operatorio, tra le complicazioni a breve e a medio termine, è molto frequente lo sviluppo di uveite, la quale può aggravare notevolmente la condizione clinica dell’occhio e compromettere il risultato terapeutico (Adkins & Hendrix, 2003; Peruccio, 2009). I fenomeni patologici associati variano dall’edema corneale allo sviluppo di sinechie, sineresi vitreale e glaucoma, a seconda della refrattarietà o cronicizzazione dell’infiammazione. La barriera emato-oculare del cane è di per sé estremamente fragile, il che predispone a un tasso di infiammazione e complicazioni post-operatorie piuttosto elevato. Un certo grado di danneggiamento della barriera emato-oculare è inevitabile dopo una chirurgia intraoculare, tuttavia il grado dell’uveite dipende sicuramente dalla tecnica chirurgica impiegata e dall’esperienza del chirurgo. Una chirurgia rapida e delicata, l’utilizzo di viscoelastici e la rimozione accurata di tutti i frammenti della lente, consentono di ridurre notevolmente l’insorgenza di uveite post-operatoria (Gelatt, 1999).

L’endoftalmite è una complicazione rara della chirurgia, ma che determina effetti devastanti sul globo oculare. L’infezione di solito consegue a un’asepsi insufficiente e insorge in associazione a un prolungamento anomalo dell’infiammazione postoperatoria, o in presenza di essudati in camera anteriore o nel vitreo. L’approccio terapeutico si basa sull’utilizzo di farmaci antibiotici, ma, nei casi più gravi, può essere necessario rimuovere l’impianto intraoculare o altre strutture oculari ormai irreversibilmente compromesse. La prognosi in questo caso è riservata (Gelatt, 1999).

Il glaucoma post-operatorio è spesso multifattoriale e correlato a modificazioni dell’angolo iridocorneale, alterazioni della dinamica dell’umor acqueo e all’utilizzo dei viscoelastici. A scopo precauzionale, l’iniezione intracamerale di carbacolo 0,01% può prevenire efficacemente un aumento post-operatorio della pressione intraoculare (Gelatt, 1999). Il Glaucoma può essere una conseguenza a breve o a lungo termine dell’intervento di facoemulsificazione, o di altre metodiche chirurgiche per il trattamento della cataratta. Il glaucoma può insorgere anche nell’immediato secondariamente a ostruzione del deflusso dell’umor acqueo conseguente all’accumulo di fibrina o detriti lenticolari, vitreali e di altro

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materiale. Questo tipo di glaucoma avviene generalmente nell’immediato post-operatorio (Pumphrey, 2015).

A lungo termine, il glaucoma può essere indotto da una chiusura dell’angolo irido-corneale causata dalla progressiva formazione di sinechie anteriori (Scott, 2013). Una goniodisgenesi preesistente di per sé rappresenta una delle principali controindicazioni all’intervento chirurgico per la cataratta e può riscontrarsi con maggiore frequenza in determinate razze canine (Scott, 2013). Per questo motivo, Boston Terriers, Cocker Spaniels, Shih Tzus, Jack Russell Terriers, Bichon Frises e Labrador Retrievers sono tra le razze maggiormente predisposte allo sviluppo di glaucoma nel post-operatorio (Sigle et al., 2006; Moeller et

al.,2011; Scott, 2013).

Oltre alla predisposizione di razza i pazienti maggiormente a rischio di glaucoma post-operatorio sono i soggetti anziani, affetti da cataratta ipermatura e sottoposti a un intervento eccessivamente lungo o nei casi in cui l’inserimento della IOL non è stato effettuato correttamente (Pumphrey, 2015).

Il distacco di retina può insorgere come complicazione a breve o a lungo termine (Adkins & Hendrix, 2003) e aumenta nel caso di intervento a carico di una cataratta ipermatura (Gelatt, 1999). Bichon Frises, Shih Tzus e Boston Terriers sono razze predisposte al distacco retinico post- chirurgico (Mancuso & Hendrix, 2016). Queste razze hanno probabilmente una composizione vitreale anomala che favorisce il distacco retinico per trazione (Foote et al., 2017). Il meccanismo eziopatogenetico consiste in una alterazione degli spazi intraoculari, con una modificazione volumetrica del vitreo e una sua dislocazione anteriore. Conseguentemente, i rapporti anatomici con la retina risultano compromessi e il mancato sostegno del vitreo predispone la retina al distacco (Gelatt, 1999). Inoltre, la formazione di filamenti e coaguli di fibrina è una complicazione frequente dell’infiammazione oculare presente dopo la chirurgia. Questi filamenti si possono formare fra la retina e la lente e la loro riorganizzazione e contrazione può tirare la retina lontano dalla coroide e provocare quindi un distacco retinico post-chirurgico (Ofri, 2006). Alcuni distacchi post-operatori sono suscettibili di riparazione chirurgica; tuttavia la prognosi per la funzione visiva, in questi casi, rimane generalmente riservata (Gelatt, 1999).

L’opacizzazione della capsula posteriore della lente è una delle più comuni complicazioni a lungo termine dell’intervento chirurgico (Gelatt, 1999). Generalmente insorge a seguito di una

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