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Il ruolo dell'assistente sociale tra le trame della poverta'

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Sociologia e Politiche Sociali

Tesi di Laurea Magistrale

Il ruolo dell’assistente sociale tra le trame della povertà

Relatore:

Prof. Gabriele Tomei

Candidata:

Giulia Scarpinato

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INDICE

RINGRAZIAMENTI

INTRODUZIONE 6

CAPITOLO I

Inquadramento del concetto

1. Povertà economica e disuguaglianza 8 1.1. Origine e concezione della disuguaglianza 12

1.2. Il concetto di povertà e le sue dicotomie 14 2. Il pensiero di Amartya Sen 19

3. Povertà ed esclusione sociale 20 4. Da una povertà di tipo economico, legata al mercato del lavoro,

a una di tipo multidimensionale 23 5. Vulnerabilità che portano ai nuovi impoverimenti. Ha senso parlare

di nuove povertà? 28 5.1. Stabilità/flessibilità occupazionale 29 5.2. Ampiezza e generosità/inefficienza dei programmi di welfare 30 5.3. Assiduità/trascuratezza dei legami familiari 31 6. La povertà rapportata alle varie fasi della vita 35

6.1. La povertà dei bambini 35 6.2. La povertà dei giovani 38 6.3. La povertà degli anziani 40 7. La povertà rapportata alle diverse aree territoriali: Nord e Sud 41 8. Oltre la povertà, le famiglie multiproblematiche 43

CAPITOLO II

I cambiamenti del servizio sociale professionale e le risposte nel contrasto ai meccanismi d’impoverimento

1. Le soluzioni informali in assenza di servizi 44 2. Nascita ed evoluzione delle risposte sociali in relazione al tempo 45

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2.2. Gli anni Quaranta 47 2.3. Gli anni Cinquanta 48 2.4. Gli anni Sessanta 49 2.5. Gli anni Settanta 49 2.6. Gli anni Ottanta 50 2.7. Gli anni Novanta 53 2.8. Dal Duemila ai giorni nostri 53 3. Risposte diverse in relazione alla lettura dei problemi sociali 55 4. Risposte diverse in relazione ai soggetti che le gestiscono 57 5. Risposte sempre più selettive 58

CAPITOLO III

Il ruolo del servizio sociale professionale in relazione ad utenti bisognosi

1. Verso una nuova concezione di welfare: da assistenziale a generativo 60 2. Il servizio sociale professionale e le sue caratteristiche 64

2.1. I principi del servizio sociale 67 2.2. Gli obiettivi del servizio sociale 68 2.3. Le funzioni del servizio sociale 70 2.4. Le criticità del servizio sociale 70 2.5. Le sfide del servizio sociale 71 3. Il processo di aiuto in situazioni di bisogno 72 4. La capacità di agire dei soggetti e le diversità rispetto ai progetti di

intervento 78

CAPITOLO IV

Nuove soluzioni per attivare i poveri: l’orto sociale, giardino dello spirito

1. La mia esperienza di tirocinio al Comune di Gangi 82

2. Un progetto innovativo: l’orto sociale di Gangi 86 3. I metodi di ricerca utilizzati 92

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3.1. L’intervista qualitativa 92 3.2. L’osservazione partecipante 94 4. Presentazione e obiettivi della ricerca 96 5. Considerazioni sui contenuti del progetto 97 5.1. Alla nascita del progetto 97 5.2. L’evoluzione del progetto 99 5.3. Altre soluzioni al problema povertà 103 5.4. Nuove sfide per il futuro e conclusioni finali 104

RIFLESSIONI CONCLUSIVE 107

APPENDICI 110

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare il professor Gabriele Tomei, relatore di questa tesi, per la grande disponibilità e cortesia dimostratemi.

Ringrazio sentitamente la Prof.ssa Elisa Matutini per i preziosi consigli a me forniti durante la stesura di questo lavoro.

Ringrazio il Sindaco e l’Assistente Sociale del Comune di Gangi come pure le famiglie intervistate per l’importante collaborazione offerta nella raccolta dei dati.

Un doveroso ringraziamento alle persone a me più care, i miei genitori, che mi hanno saputo incoraggiare soprattutto in quei momenti in cui credevo di non riuscire a venirne fuori e che con il loro sostegno economico mi hanno permesso di raggiungere questo grande traguardo.

Un particolare ringraziamento a un pezzo importante della mia vita, mio fratello Leandro, che ha sempre creduto in me ed è sempre stato pronto a sdrammatizzare qualche momento di difficoltà.

Ringrazio Piero che anche se con difficoltà ha sempre accettato e sostenuto le mie scelte, rappresentando un punto certo della mia vita.

Ringrazio Maria, amica che non potrei mai smettere di amare, per l’autostima che è riuscita ad infondermi e per non avermi mai abbandonata anche se a centinaia di km.

Ringrazio Federica compagna inseparabile in questi anni universitari e amica con la quale ho vissuto momenti straordinari.

Ringrazio Concetta per le ore passate al telefono ad estorcere confessioni, a ridere e a consolare delle delusioni.

Ringrazio Silvia, grande donna e cugina, per aver trovato sempre un momento libero da dedicarmi durante la giornata anche se con tanti altri pensieri per la testa.

Ringrazio Antonella per aver sopportato le mie continue lamentele.

Per ultima, ma non perché meno importante, ringrazio me stessa per essere riuscita ad ottenere quest’altro traguardo superando tante difficoltà, perché se sono arrivata a questo punto, in fondo è anche merito mio.

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INTRODUZIONE

Oggi, più che in passato, i soggetti che vivono una condizione di grave deprivazione vengono non solo aiutati, ma anche sostenuti per cercare di combattere un mostro chiamato povertà che spaventa progressivamente sempre più famiglie.

La povertà è sempre esistita, ma si inizia a darle un nome intorno all’epoca industriale, quando ci si rende conto che i soggetti poveri possono costituire un imponente problema per la stabilità economica e sociale. È a partire da questa concezione che diversi studiosi cercano di conoscere il problema, primo tra tanti Waxman che definisce la povertà come un tipo particolare di stigma che attribuisce a coloro i quali vivono una situazione del genere una condizione tutt’altro che umana.

Sotto questa luce inizia a farsi strada il servizio sociale professionale, che nasce in Italia nel 1945 e si evolve in un contesto tanto nuovo quanto difficile. Inizialmente la soluzione migliore pareva quella di isolare i poveri, poiché ritenuti pericolosi o tutt’al più concedere sussidi, consistenti in un aiuto materiale in denaro. Oggi la lettura del fenomeno si è completamente ribaltata, i poveri hanno bisogno di essere sostenuti dal servizio sociale professionale, in quanto lavorare con gli utenti può portare a raggiungere grandi risultati il cui culmine è rappresentato dal riottenimento della capacità di agire dell’utente all’interno del contesto sociale.

Il presente lavoro ha la finalità, dopo aver ampiamente attenzionato il concetto di povertà e il ruolo del servizio sociale, di illustrare quanto sia importante passare da una visione in cui il povero è un semplice ozioso dipendente dall’assistenza, ad un'altra in cui lo si considera capace di rispondere adeguatamente ed eccellentemente ai problemi che lo riguardano.

Il primo capitolo del presente lavoro fornisce una visione generale del concetto di povertà, riportando anche i contributi dei principali studiosi che si sono occupati di questo tema, per poi passare ad introdurre concetti limitrofi come quelli di disuguaglianza, esclusione e vulnerabilità. Da un’analisi di tipo economico, altresì, si passa ad esaminare una nuova concezione di povertà di tipo multidimensionale e ad elencare i diversi indici nati per calcolare la sua incidenza. Infine, le ultime considerazioni rimandano a differenze territoriali e generazionali poiché il nostro paese è caratterizzato non solo da differenze abissali che separano Nord e Sud, ma è altresì significativo considerare in quale fase della vita si sperimentano condizioni di notevole deprivazione.

Nel secondo capitolo ci si sofferma sui cambiamenti nel servizio sociale professionale, dando prima uno sguardo ai paesi in cui in passato o oggi non è presente un servizio sociale in grado di fornire risposte. L’excursus parte dalla considerazione delle prime risposte al problema

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povertà verificatesi già intorno alla metà del Trecento, per poi passare a esaminare i piccoli progressi verificatisi negli anni, fino all’emanazione di un’importantissima legge per il servizio sociale (Legge 328/2000) che ha dato vita ad un sistema integrato di servizi, coinvolgendo diversi soggetti del pubblico, ma anche del privato sociale, ponendosi l’obiettivo di creare una soddisfacente rete di protezione e promozione sociale.

Il terzo capitolo si propone di offrire un quadro completo del servizio sociale e delle sue caratteristiche con riferimento allo studio della povertà e specificatamente alle condizioni di bisogno. Si approfondisce, in particolar modo, il processo di aiuto definito come percorso di risposta nel contrasto ai meccanismi di impoverimento in collaborazione con il soggetto problematico che deve essere considerato protagonista. L’obiettivo cardine diviene quello di investire sulle persone, non più considerate destinatarie di interventi, ma ritenute capaci di intervenire sulla pianificazione ed erogazione dei servizi.

Alla luce del grande interesse per questa tematica si è deciso, per il quarto e ultimo capitolo, di concentrarsi sulla presentazione di un progetto innovativo nato qualche anno fa a Gangi, con l’obiettivo di risollevare la situazione di famiglie che vivono in condizioni di grave deprivazione. Dopo aver introdotto gli strumenti principali del progetto si è passati ad esaminare i risultati delle elaborazioni. Essi hanno permesso di capire quanto di meraviglioso e sorprendente possa nascondersi sotto un apparente semplice progetto. I risultati ottenuti hanno, infatti, permesso di avere un quadro abbastanza completo della situazione. Le attività si sono rilevate in grado di sostenere coloro i quali vivono una condizione di deprivazione e hanno costituito un’opportunità per coloro i quali non avevano mai disposto di un pezzo di terreno e desideravano tanto poter prendere contatti con la terra.

A conclusione del lavoro sono state poste alcune riflessioni che potrebbero essere riassunte attorno a queste due domande: cos’è cambiato nel corso di questi anni in termini di concezione del fenomeno della povertà e in termini di saper fare della professione? Ma soprattutto, quale tipo di progettazione potrebbe essere promossa per migliorare l’efficacia degli interventi?

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Capitolo I

INQUADRAMENTO DEL CONCETTO

1. Povertà economica e disuguaglianza

Durante l’epoca industriale1, secondo l’etica del lavoro, l’eccezione consisteva nella

disoccupazione, in altre parole nel mancato svolgimento di un lavoro. A riguardo, l’ostinata presenza dei poveri veniva associata alla scarsità di lavoro o alla mancata volontà di lavorare da parte di questi ultimi. Diverse variabili contraddistinguevano i tratti tipici dei poveri, si trattava con maggiore probabilità di famiglie del Sud più che del Nord Italia, di addetti all’agricoltura non occupati o con situazioni di lavoro irregolare, e infine, di famiglie numerose.

La povertà diventava in questo scenario particolare oggetto di interesse, poiché per la prima volta ci si rendeva conto che i poveri potevano costituire un imponente problema per la stabilità economica e sociale.

Vivere una situazione di miseria ha significato per lungo tempo, e ancora oggi significa in alcune parti del mondo, mettere in pericolo la propria sopravvivenza, morire di malnutrizione, di malattia, vivere senza dimora.

Grazie all’Inchiesta parlamentare sulla miseria2, realizzata nel 1951-52, e ad altri

approfondimenti realizzati successivamente, emersero con estrema chiarezza diversi quadri tragici e inverosimili.

Eccone alcuni esempi [Niero, 1996, pagina 99]..

Delta Padano. (…) Vi sono casi in cui 11-12 persone abitano nello stesso vano; il 95% delle abitazioni senza latrina: tutte le acque di rifiuto scolano nei cortili e stagnano a poca distanza; manca l’acqua potabile e in molte località si compra l’acqua ad un prezzo variabile dalle 15 alle 30 lire al secchio. L’analfabetismo oscilla dal 16 al 19,5%; dominano malattie come il rachitismo, la poliartrite, il tifo, affezioni polmonari, malaria.

1 Dalla seconda metà del Settecento avvenne un processo di evoluzione economica che trasformò il sistema agricolo, artigianale e commerciale in sistema industriale moderno, contrassegnato dall’utilizzo di macchine azionate da energia meccanica e nuove fonti energetiche inanimate, quali i combustibili fossili. Convenzionalmente, è solito distinguere fra prima rivoluzione industriale, che interessò il settore tessile-mettalurgico con l'introduzionedella spoletta volante e della macchina a vapore, e seconda rivoluzione industriale, dal 1870, con la diffusione dell'elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Vi è anche chi parla di terza rivoluzione industriale volendo riferirsi all’ introduzione dell'elettronica,

delle telecomunicazioni e dell'informatica nell'industria, quindi, a partire dal 1970. 2 Indagine conoscitiva di oltre 4.000 pagine effettuata nel dopoguerra del nostro paese.

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Napoli. (…) Nelle ore inoltrate della giornata un numero eccezionalmente alto di persone, ancora in giovane età e in ottime condizioni fisiche, sosta in ozio nella zona centrale della città, attendendo non si sa bene cosa, in atteggiamento apatico e indifferente… Su 1.100.000 persone risultano occupati solo il 28,7%. Su un fabbisogno di 4.100 aule scolastiche ve ne sono disponibili a malapena 2.100 di cui 900 di fortuna. La mortalità infantile è altissima, 1.562 deceduti inferiori a un anno nel 1952. Il 49% dei suicidi registrati nel 1952 è causato da miseria. La delinquenza minorile è elevatissima: 1.500 ragazzi ambosessi ricoverati nelle case penali sui 9.000 dell’intero paese.

Scicli (Ragusa). (…) Nell’interno di questo vano, quasi sempre unico si dorme, si cucina, stanno sani e malati, vecchi e bambini, sposi e familiari, e spesso anche le bestie.

Considerando i dati, questi, non possono che mostrare un’estesa povertà economica presente in Italia sia in passato che oggi.

Passati diversi anni dai primi tentativi di costruire politiche di intervento, l’immaginazione comune riteneva la povertà come qualcosa che potesse scomparire nel tempo. In realtà, ci si rese subito conto che il periodo di gran luce, i trent’anni gloriosi3, aveva solo disabituato la gente a

vedere intorno a sé la povertà. Essa, infatti, non faceva altro che cambiare forma.

Waxman è stato uno dei primi autori a definire la povertà come un tipo particolare di stigma, che attribuisce a coloro i quali vivono una situazione del genere una condizione tutt’altro che umana:

vorremmo suggerire che lo stigma della povertà è uno stigma speciale che attribuisce ai poveri uno status “less than human” (meno che umano): poveri sono coloro a cui è assegnata una umanità inferiore. [Waxman, 1976, pagina 69].

Il fenomeno della povertà non può essere ridotto, però, esclusivamente a uno stato di necessità materiale e di sofferenza fisica, a questi, vanno ad aggregarsi una condizione sociale e psicologica inadeguata, contrassegnata da angoscia, sofferenza e vergogna. Essere povero significherebbe, a tal proposito, non poter vivere una vita normale, né tantomeno felice, poiché con questo s’intende quella della società attuale, in cui i consumatori possono scegliere fra una molteplicità di possibilità senza lasciarsene sfuggire nessuna o quasi, sperimentando in tal modo sensazioni piacevoli [Bauman, 1998].

Una concezione diversa, di soggetto povero, è quella proposta dal sociologo austriaco George Simmel, il quale teorizza che può essere considerato povero il soggetto ricevitore di assistenza, poiché incapace di badare a se stesso [Saraceno, 2015].

3 Periodo tra il 1945 e il 1947, quindi, successivo alla seconda guerra mondiale, in cui tutti i paesi industrializzati conobbero una smisurata crescita economica.

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A parer dello studioso Serge Paugam, è proprio sulle caratteristiche dell’assistenza che bisogna porre l’accento, oltre che sulle relazioni tra una società e i suoi cittadini poveri, potendo così definire tre forme elementari di povertà: integrata, marginale e squalificata. La prima forma definisce una situazione di povertà allargata, in cui chi è povero non si sente escluso rispetto a chi fa parte della comunità in cui egli stesso vive; la seconda si riferisce a contesti in cui, contrariamente alla prima, la povertà è minimamente diffusa e di conseguenza tali poveri si percepiscono e sono percepiti come esclusi. La terza forma, infine, si testerebbe in ambienti in cui la povertà non è solo riconosciuta, ma i poveri sono assistiti a patto che accettino di rinunciare a parte dei diritti a dire e decidere di sé. Secondo l’autore, il percorso degli esclusi sarebbe, quindi, influenzato da una combinazione di fattori, non solo economici ma, anche sociali, ponendo importanza alla condizione di disoccupazione che rappresenterebbe un episodio sfavorevole importante.

Non solo Paugam ma anche altri autori, quale il sociologo tedesco Daniel Kronauer, pongono l’accento sulla condizione di disoccupazione, definita come una realtà sociale permanente che accomuna sempre più persone non permettendo loro di condurre una vita soddisfacente. L’esclusione sociale deriverebbe, a tal proposito, dalla combinazione di una pozione economica marginale e di una condizione di emarginazione sociale [Corbisiero, 2005].

Elaborazione drastica è quella di Arjun Appadurai il quale sostiene che sia addirittura possibile parlare di povertà estrema qualora venga uccisa anche la capacità di aspirare, di immaginare di poter cambiare la propria condizione [Saraceno, 2015].

Karl Marx offre una lettura della povertà come esito inevitabile dello sviluppo capitalistico, definendola motivo di limitazione dell’autodeterminazione e dell’autorealizzazione delle persone. La povertà viene pensata come nemico veemente della lotta per il superamento del sistema economico esistente. I poveri, quali vagabondi e mendicanti, vengono posti negli strati più bassi del pauperismo e definiti soggetti impossibilitati a cambiare, in quanto manca loro l’indispensabile spinta al cambiamento. Si ritiene impossibile, quindi, l’abolizione delle società di classe. La diseguaglianza viene esposta, invece, come una caratteristica propria alla natura della società capitalistica e una conseguenza dello sfruttamento di una classe da parte dell’altra.

Prima di andare avanti, è bene porre attenzione sui vari indicatori del disagio economico che possono essere diversificati come: grave deprivazione, rischio di povertà, povertà assoluta, permanenza nella varie forme del disagio. Dal momento che si vogliano considerare tutte le dimensioni sopra citate, è opportuno rifarsi all’Indagine Eu-Sic (Stations Income and living Conditions), in cui vengono costruiti rapporti periodici sulla situazione sociale e sulla diffusione

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della povertà nei paesi membri dell’Unione Europea. La fig. 1.1 sintetizza la sovrapposizione dei vari sintomi di disagio in forma transitoria e permanente.

Fig. 1.1 Sovrapposizione dei vari sintomi di disagio in forma transitoria e permanente. Anni 2009-2012.

RP= rischio povertà

RPP= rischio di povertà permanente PA= povertà assoluta

PAP= povertà assoluta permanente GD= grave deprivazione

GDP= grave deprivazione permanente

Fonte: Istat - Indagine su reddito e condizioni di vita (Eusilc).

Se riflettiamo sulla parte che nel 2012 sperimentava una qualunque forma di disagio, possiamo arrivare alla conclusione che il 25,3% era solo gravemente deprivato, il 24% era a rischio povertà permanente, l’11,8% era a rischio povertà ma non permanente, il 4% in povertà assoluta permanente, il 3,5% in grave deprivazione permanente, il 2,2% in povertà assoluta non permanente. Una gran parte di soggetti, per l’esattezza, il 71,7%, presentava forme separate di disagio economico. La restante parte, 28%, invece, combinava le differenti forme di disagio. Tra

RP RPP PAP PA GDP GD 11,8 24,0 9,1 25,3 4,0 2,2 4,0 1,3 2,3 2,8 1,6 0,3 2,6 0,3 4,1 0,8 3,5

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questi soggetti, va segnalato in particolare il 9,1% che sperimentava insieme un rischio di povertà permanente e grave deprivazione, il 4% in condizioni sia di povertà assoluta sia a rischio di povertà permanente, e un altro 4,1% in severa deprivazione e a rischio di povertà, entrambi permanenti.

Detto questo, ci si sofferma adesso sui concetti di disuguaglianza e povertà, utilizzati dalle scienze sociali fin dalle origini ma, tutt’oggi difficili da definire in quanto astrazioni di natura relativa, multidimensionale e dinamica.

1.1. Origine e concezione della disuguaglianza

Il concetto di disuguaglianza rimanda alla diversa distribuzione delle risorse tra gli individui, all’interno di un contesto sociale di riferimento, ovvero, alla misurazione della distanza tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Le disuguaglianze sociali sembrerebbero, infatti, essere legate alle differenze di accesso a determinate ricompense sociali associate al possesso, da parte di un individuo o di un gruppo sociale, di una posizione gerarchicamente ordinata o nella struttura economica o in quella culturale o in quella politico-istituzionale. [Amaturo, Ardigò, Bianco, Carboni, Cobalti, Colasanti, De Lillo, Drago, Gobo, Leone, Memoli, Pacinelli, Palumbo, Ricolfi, Rositi, Rovati, Salamone, Sarpellon, Schizzerotto, Zajczyk, 1993].

La diseguaglianza ha sicuramente origini molto antiche, basti pensare all’invocazione di “libertà, uguaglianza e fratellanza” ampiamente ridondante durante la Rivoluzione Francese. In questo contesto raggiungere l’uguaglianza era presupposto fondamentale per ottenere le altre due condizioni4.

Analizzando il contributo dell’economista D. Ricardo, che parte dalla definizione delle diverse tipologie di reddito5 presenti nel contesto economico e delle loro caratteristiche, si arriva

alla conclusione che la diseguaglianza costituisce un elemento non eliminabile dalla società, in quanto rispondente alle esigenze di equilibrio del mercato.

L’Italia presenta da molti anni un grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito al di sopra della media europea, tale dato potrebbe essere legato a vari fattori quali:

4 “Libertà” voleva dire porre fine alla schiavitù e alla sottomissione per conto della nobiltà feudale e dell’aristocrazia terriera, mentre l’idea di “Fratellanza” rifletteva il desiderio di relazioni sociali maggiormente reciproche.

5 Il reddito, cioè quello che le famiglie ricavano da varie fonti quali salari, profitti e rendite, deve essere distinto dal patrimonio che, invece, è costituito da tutti i beni mobili e immobili posseduti dagli individui o dalle famiglie.

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 la dinamica dei redditi di lavoro e l’ampliarsi dei differenziali retributivi, causato dal fatto che la diminuzione della domanda di operai poco qualificati è stata maggiore di quella di impiegati e dirigenti;

 l’aumento del tasso di attività delle donne e del numero di mogli che percepiscono buone retribuzioni, che ha favorito il passaggio di alcune famiglie dalla fascia di reddito media a quella alta;

 la crescita del numero di divorzi, che ha fatto piombare una parte delle famiglie composte da madre e figli dallo stato medio a quello basso [Bagnasco, Barbagli, Cavalli, 2007].

Diviene necessario, a questo punto, distinguere nelle società avanzate neoindustriali, tre dimensioni della disuguaglianza:

 disuguaglianze economiche-occupazionali, riferite alle diverse posizioni che il soggetto può occupare nella sfera lavorativa e di mercato, che danno origine alle classi sociali;

 disuguaglianze culturali, rispetto cioè agli stili di vita, nei modelli di valore, nelle convinzioni laiche e religiose, nell’accesso a privilegi associati alla stima e all’onore, che danno origine ai ceti;

 disuguaglianze in termini di doveri e diritti istituzionali, generate dalla disparità nel grado di accesso alle risorse pubbliche e delle disparità fiscali, che danno origine ai gruppi di cittadinanza [Amaturo, Ardigò, Bianco, Carboni, Cobalti, Colasanti, De Lillo, Drago, Gobo, Leone, Memoli, Pacinelli, Palumbo, Ricolfi, Rositi, Rovati, Salamone, Sarpellon, Schizzerotto, Zajczyk, 1993].

Solo dal momento in cui cercheremo di attenuare le disuguaglianze arriveremo ad ottenere il vero benessere. Esso, infatti, risulta vigere nei paesi scandinavi e nel Giappone in cui esistono minimi livelli di disuguaglianza, mentre in paesi quali gli Stati Uniti e il Portogallo, dov’è presente parecchia disuguaglianza anche se la ricchezza procapite posseduta è molto alta, si respira tutta un’altra aria.

Possiamo, dunque, concludere che le disuguaglianze materiali possano essere considerate come lo scheletro, o la struttura, attorno alla quale si sviluppano distinzioni culturali e di classe. D’altro canto, è inutile pensare di risolvere i problemi che ne derivano con una psicoterapia di massa che renda tutti meno vulnerabili, l’unica soluzione è proprio quella di attenuare le disparità economiche [Wilkinson e Pickett, 2012].

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14 1.2. Il concetto di povertà e le sue dicotomie

Il fenomeno della povertà è sempre stato un argomento di particolare rilievo all’interno delle scienze sociali. Se volessimo riassumere tutto ciò che sta dentro questo concetto potremmo definire la povertà come:

 polisemica, in quanto può riguardare aspetti diversi e non per forza economici;  pervasiva, poiché si insinua negli interstizi più deboli della vita della persona e li

infetta;

 pervicace, dal momento che è difficile uscire da una situazione di povertà e, non bastano semplicemente aiuti economici ma, risulta indispensabile mettere in atto azioni di appoggio e di accompagnamento della persona coinvolgendo la rete relazionale;

 diffusa, dato che compromette ampie fasce di popolazione;

 collettiva, considerato che non interessa solo il singolo soggetto invischiato in tale situazione ma tutta la società;

 trasformativa, perché trasforma, nel vero senso della parola, l’esistenza della persona, la sua immagine di sé e le sue relazioni [Gregori e Gui, 2012].

La povertà rimane comunque uno dei problemi più difficili, con cui i governi si confrontano. Bisogna, infatti, considerare che essere poveri può comportare parallelamente un aumento della possibilità di: non disporre di un alloggio, essere tossicodipendenti, subire o avviare atti di violenza domestica, soffrire di problemi di salute, essere analfabeti, ecc. Benché sia difficile separare le cause della povertà dai suoi effetti, è indubbio che la povertà sia associata a diversi mali economici e sociali [Mankiw e Taylor, 2015].

Detto ciò, si ritiene opportuno esaminare diverse importanti dicotomie legate al concetto di povertà, per rendere chiarezza su ciò che nel corso degli anni si è susseguito. Diverse nozioni di povertà, infatti, sono andate ad accumulandosi nel corso del tempo, caratterizzate però dalla troppa ampiezza e, quindi, per questo contrassegnate da elementi di genericità.

Povertà assoluta/relativa

In economia vengono utilizzate queste due diverse nozioni per distinguere i poveri dai non poveri. Il concetto di povertà assoluta varia in funzione del costo dei beni e dei servizi ritenuti di prima necessità6, affinché non si cada in una condizione di deprivazione. Calcolare la linea di

6 In economia si parla di “paniere di beni e servizi primari” che include generi alimentari, vestiario, abitazione.

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povertà con questi criteri significherebbe, quindi, definire i bisogni di base che una persona deve soddisfare per vivere in modo decente.

I primi studi sulla povertà si diffusero in Gran Bretagna nel 1889 a mano di Charles Booth, che adottò per primo una soglia di povertà assoluta, costituita dai redditi posseduti e dai consumi di alcune famiglie campione per la conduzione di una ricerca sulla povertà, a Londra, finalizzata a rilevare le caratteristiche e le cause. Il concetto di soglia di povertà venne poi ripreso dal sociologo inglese Benjamin S. Rowntree e da altri studiosi all’inizio del Novecento.

Anche se la definizione della linea di povertà assoluta si basa su conoscenze mediche non trascurabili, in realtà, le valutazioni da parte degli esperti saranno sempre influenzate da un certo grado di soggettività. La soglia è comunque sempre adattata alle dimensioni familiari, alla presenza di figli minori o anziani a carico, alla zona di residenza e al genere del capofamiglia7,

inoltre, è aggiornata rispetto al tasso di inflazione8.

Bisogna inoltre considerare che, dato l’aumento del reddito pro capite reale9 e della spesa

per consumi, la povertà assoluta tenderà a moderarsi nel tempo. Se infatti essa è da un lato legata all’incremento del costo della vita, dall’altro non lo è alla variazione reale dei consumi.

In Italia una misura di povertà assoluta è stata elaborata nel 1997 dall’ISTAT. I beni considerati minimi che devono essere soddisfatti, sono nello specifico: i generi alimentari, l’abitazione, l’ammontare di beni durevoli e una somma che deve includere le spese per il vestiario, il trasporto ed altro. Non sono incluse le spese per la sanità e l’istruzione, partendo dalla considerazione che questi servizi saranno concessi gratuitamente alle famiglie bisognose.

Oltre alla linea di povertà stimata attraverso un metodo assoluto, si può ricorrere al metodo relativo. Esso, differentemente dal precedente, non considera esclusivamente gli standard di consumo di sussistenza ma, prende anche conto degli svantaggi che caratterizzano determinati soggetti rispetto alla collettività di riferimento, ossia valuta le evoluzioni rispetto alle norme e le consuetudini.

Peter Townsend, negli anni Settanta, è stato tra i primi a considerare il concetto di povertà in termini relativi. Egli sosteneva che:

individui, famiglie o gruppi della popolazione possono dirsi in povertà quando risultano carenti delle risorse necessarie a garantire la dieta alimentare, lo standard di vita, le comodità e la

7 Ques’ultima differenziazione fu eliminata a ricorrere dal 1981.

8Si parla di inflazione quando si registra un rincaro di ampia portata, che non si limita a singole voci di

spesa. In seguito a tale fenomeno un’unità di moneta (1 euro) consente di acquistare una minore quantità di beni e servizi; in altre parole, il valore reale dell’unità di moneta risulta inferiore rispetto al passato. Cos’è l’inflazione?, 2016, www.ecb.europa.eu/ecb/educational/hicp/html/index.it.html, 14 Giugno

2016.

9 A partire dal Settecento si iniziò ad utilizzare il concetto di reddito nazionale per studiare il benessere di un Paese. L’indice, definito PIL (Prodotto Interno Lordo) si basava sul valore di beni e servizi prodotti da un paese in un determinato periodo [Saiani, 2009].

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partecipazione alle attività sociali che si ritiene abituali, o almeno manchevoli di essere conseguite, nella collettività cui si appartiene [Baldini e Toso, 2004, pagina 97].

Così come per il concetto di povertà assoluta, anche rispetto a quello relativo non mancano punti deboli.

Anzitutto, dal momento in cui i redditi di tutti gli individui cambiano la povertà relativa non cambia, poiché i soggetti si sono mossi nella stessa percentuale. Altro difetto del concetto è di non avere uno svolgimento anticiclico ma, esso tende ad aumentare nei periodi migliori del ciclo economico e, all'opposto, a diminuire in caso di stagnazione economica. Infine, l’ultima pecca è di considerare poveri tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia, anche quando questo significherebbe avere a che fare con una soglia così alta tanto da non poter considerare manchevoli di beni nemmeno coloro i quali stanno al di sotto; in questo modo non si potrebbe mai porre fine alla povertà, a meno che non si porterebbe a 0 la disuguaglianza.

Povertà oggettiva/soggettiva

E’ sempre stato Peter Townsend il primo a porre l’accento su tale distinzione, considerando la povertà di tipo oggettiva qualora non si ritiene necessario ricorrere al giudizio dell’intervistato, diversamente dalla povertà soggettiva in cui , invece, l’obiettivo è quello di conoscere le percezioni e i giudizi delle persone coinvolte nell’indagine.

Povertà quantitativa/qualitativa

A primo impatto si potrebbe pensare che tale dicotomia riguardi la diversa natura dei dati, variabili in forma numerica nel primo caso e indicatori espressi in forma categoriale nel secondo. In realtà, nella prospettiva quantitativa si considera la povertà come parte della realtà che si trova ad di fuori del ricercatore e per questo sarà possibile studiare il fenomeno in maniera oggettiva, usufruendo di strumenti quali il campionamento, il questionario, ecc.

Nell’approccio qualitativo appare, invece, impossibile considerare il ricercatore come estraneo e considerare i risultati obiettivi. Ciò che veramente conta è di far emergere l’infinità delle visioni e dei concetti che ne derivano.

Povertà statica/dinamica

Ciò che differisce tra una forma e l’altra è il diverso tipo di approccio, statico nel primo, in quanto prende in considerazione un momento ben preciso e da questo ne scaturisce un’analisi istantanea del fenomeno della povertà, e dinamico nel secondo, in quando ad essere valutato è uno spazio temporale esteso così da cogliere anche avvenimenti transitori o oscillanti delle forme di povertà.

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Autori come Leisering e Leibfried, in un loro libro10, espongono altre tipologie di

classificazione e, a tale scopo, individuano sei tipi di povertà: la povertà di coloro i quali la sperimentano in una fase critica della propria vita; quella di chi è costretto a vivere con un reddito cosi basso da non poter seguire un tenore adeguato; coloro che si trovano in una condizione di deprivazione ma non sono esclusi; quelli che non solo sono poveri ma vivono processi di consolidata esclusione; quelli che alternano periodo di lavoro, seppur spesso sotto remunerato, e periodi in cui è necessario chiedere aiuto di tipo assistenziale; infine, gli immigrati.

Prima di andare avanti pare opportuno, inoltre, menzionare altri due diversi livelli di povertà, istituzionale e relazionale. La povertà istituzionale rimanda alla mancanza di istituzioni funzionali che siano in grado di dare risposte consone rispetto ai bisogni che possono essere connessi a problematiche riguardanti la vita familiare, lavorativa, culturale. La povertà relazionale, invece, rimanda alla rottura dei rapporti umano-affettivi e alla venuta meno dei valori di solidarietà, per cui si assiste alla solitudine degli anziani, alla rottura dei rapporti di coppia, insomma, ad una generale perdita di identità individuale e sociale.

Oggi, nella nostra realtà, le due forme di povertà si intrecciano e coesistono con distribuzione variegata, in merito sia alle disparate aree considerate che alle diverse fasce di popolazione.

Dopo aver ampiamente riflettuto sulla differenza che intercorre tra i due concetti articolati, quello di disuguaglianza e quello di povertà, è opportuno concludere che risulta impossibile studiare il fenomeno della povertà senza cogliere le condizioni e i meccanismi tipici delle disuguaglianza. La povertà non può, quindi, essere definita come semplice scarsità di reddito o di servizi di base ma, è altresì indispensabile che essa venga collegata con i modelli di redistribuzione della ricchezza all’interno del contesto societario.

Oggi, volendo, è possibile costruire una piramide della disuguaglianza caratterizzata da tre diversi livelli occupati da poveri estremi, poveri meno gravi e, infine, quasi poveri (fig.1.2).

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Fig. 1.2 – Piramide della disuguaglianza

QUASI POVERI

POVERI MENO GRAVI

POVERI GRAVI O ESTREMI

Fonte: P. Dovis e C. Saraceno, I nuovi poveri: Politiche per le disuguaglianze, Codice Edizioni,Torino, 2011.

Molto spesso si tenta di compiere un errore fatale, pensare che il livello più basso della piramide sia pressoché disabitato. Esso, invece, non solo accumuna parecchie teste, ma è andato ad incrementarsi nel tempo. Fanno parte di questo coloro che vivono senza dimora, costretti a risiedere in una panchina e ad arrangiarsi in qualche mensa cittadina. Non vanno dimenticati, inoltre, coloro che sono stati cacciati da un altro contesto territoriale e sono costretti a campare in capanne costruite da essi stessi alla meno peggio. Vi è poi chi tenta di salire ai margini superiori del livello ed infine chi, ritenendosi parecchio fortunato, dispone di una roulotte o di un’automobile. Da pochi anni un altro lembo di popolazione deve essere ricompreso in questo livello, è dato da coloro che possiedono una casa ma purtroppo non hanno la possibilità di poterla mantenere.

Ad un gradino più alto, troviamo i soggetti che definiamo quasi poveri, quelli che rappresentano il livello più esteso di disagio. Sono i “clienti” della rete pubblica di solidarietà sociale, del volontariato e delle chiese caritatevoli. Per molti di essi è cruciale il ruolo giocato dai genitori anziani, che con la loro pensione mantengono tutto il nucleo familiare e talvolta mettono a disposizione persino la loro casa pur di risparmiare a figli e nipoti la condizione di senza dimora. Il problema non viene comunque risolto in quanto la morte dei genitori farebbe sprofondare il nucleo familiare in una condizione intollerabile.

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Il terzo livello della piramide della diseguaglianza, infine, è quello che attraverso i media appare in maggior misura. Quelli che definiamo quasi poveri vivono una condizione di mancano equilibrio dettato da diverse cause. Ridimensionamento del lavoro, malattie inaspettate, concepimento imprevisto di figli e mutui considerevoli, accomunano i nuclei familiari maggiormente a rischio.

2. Il pensiero di Amartya Sen

Nella concezione di Sen, potremmo identificare il povero come quel soggetto che non riesce a tradurre le proprie capacità in funzionamenti. L’esempio più elementare potrebbe essere quello di un bambino che non ha la possibilità di andare a scuola o è costretto ad abbandonare questa per altre necessità.

A tal proposito, risulta necessario soffermarsi sulle capacità (capabilities), definite essenziali affinché il soggetto possa sentirsi libero di condurre differenti tipi di vita. Essi, però, dipendono da una serie di fattori che comprendono sia caratteristiche personali che condizioni sociali.

I funzionamenti (functionings), invece, rappresentano parti dello stato di una persona, in altre parole, riguardano cose che essa riesce a fare o a essere nella propria vita; possono essere elementari come l’essere nutriti, godere di buona salute oppure complessi come l’essere felici o l’essere integrati all’interno della società. Dal momento in cui avviene una stima di tali funzionamenti ne consegue una valutazione del benessere della persona.

Il benessere può essere assimilato con le varie interpretazioni dell’utilità, vale a dire la felicità, la scelta, il soddisfacimento dei desideri, quando però tale assimilazione non avviene è opportuno parlare di benessere economico o tenore di vita (che può essere anche molto elevato) ma non di benessere generale.

Sinteticamente, potremmo quindi asserire che i funzionamenti costituiscono le diverse condizioni di vita che siamo in grado o meno di realizzare, le capacità corrispondono all’abilità di realizzare e scegliere fra le vite possibili e il tenore di vita rappresenta un vero e proprio problema di funzionamenti e capacità.

A questo punto, si potrebbe compiere lo sbaglio di concentrarsi maggiormente sui funzionamenti, che costituiscono conseguimenti, tralasciando le capacità, ossia l’abilità di conseguire. Le capacità, invece, assumono un ruolo centrale, in quanto non solo costituiscono le opportunità reali che il soggetto ha per decidere quale vita condurre ma, permettono anche di compiere un “funzionamento perfezionato” dato che si sceglie A avendo, altresì, la disponibilità di poter scegliere B. Per maggiore chiarezza si riporta l’esempio di Sen:

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prendete in considerazione due persone che stanno morendo di fame – una senza alternative (poiché è molto povera) e l’altra per scelta (poiché ha un’elevata generosità di un genere particolare). In un certo senso il loro conseguimento di funzionamenti in termini di alimentazione può essere del tutto analogo – entrambe sono denutrite e supponiamo anche che lo siano nella stessa misura. Ma una sta digiunando e l’altra no. Colui che pratica il digiuno per motivi religiosi sta scegliendo di morire di fame, mentre colui che muore di fame per indigenza non sta esercitando alcuna scelta rispetto al morire di fame oppure no [Sen, 2005, pagina 88].

3. Povertà ed esclusione sociale

Si può fare risalire a fine 1992 la nascita del concetto di esclusione, definito come “parola chiave” per identificare le svariate miserie del mondo, che fanno la loro comparsa in uno scenario caratterizzato dall’aumento della disoccupazione e lo sviluppo di ghetti11.

Ancora oggi il concetto di escluso rimanda ad un soggetto passivo, parassitario e incapace di autocontrollarsi, nonché responsabile della propria condizione dettata dalla conduzione di una vita oziosa. Nonostante questo, il significato del concetto rimane ancora oggi abbastanza vago.

La nozione di esclusione sociale ha acquistato grande importanza nel dibattito politico europeo dal momento in cui è stata legata al fenomeno della povertà, dell’emarginazione e della disgregazione. Mentre, però, la povertà può riferirsi a diversi gruppi sociali, in circostanze di vita anche molto differenti, e rappresentare un’esperienza contenuta nell’esistenza della persona, l’esclusione sociale sembra, invece, assumere un carattere più durevole e fisso [Siza, 2009].

L’esclusione dipenderebbe, in primis, dal senso d’inadeguatezza che questi soggetti percepiscono, per poi legarsi alla triste sensazione di essere rimasti scartati dalla festa cui gli altri invece sono ammessi [Bauman, 1998].

Mingione, altresì, ritiene che nel concetto di esclusione sociale possono essere allegate quelle forme di povertà che diventano croniche anche perché coincidono con processi di discriminazione istituzionale, attiva o passiva (l’incapacità o la mancata volontà politica da parte delle istituzioni di combattere contro queste forme di impoverimento […] si ipotizza che l’esclusione sociale pur dipendendo da un unico processo di trasformazione sociale, economica e politica (globalizzazione), si produca in modalità differenti nelle diverse varianti di società industrializzate [Mingione, 1999, pagina 7].

11 Nella maggior parte dei casi l’“escluso”è in realtà un disaffiliato, il cui percorso è costituito da una

serie di sganciamenti da una condizione di equilibrio anteriore più o meno stabile. In R. Castel, Le insidie dell’esclusone, in Assistenza Sociale n. 3-4, 2003 (1996), pagina 196.

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Ciò detto, il riferimento ad esclusione si allarga considerando alcune possibilità:

 essere estranei, nel senso che la presenza di un determinato soggetto viene considerata irrilevante rispetto ad altre in un determinato sistema relazionale di riferimento;

 vivere una condizione di subalternità, nel senso che viene riconosciuto il soggetto ma esso è allo stesso tempo concepito secondario rispetto ad altri ruoli presenti;  sentirsi a disagio, nel senso di concepirsi come attori inferiori rispetto ad altri che

sono maggiormente capaci di agire.

Per risolvere queste possibili implicazioni, diviene essenziale il sostegno agli attori in maniera tale da favorire crescita e presenza attiva. Inoltre, sarà essenziale introdurre meccanismi di compensazione rispetto ai casi di estraneità; riabilitare gli attori e ricostruire la fiducia nelle proprie competenze rispetto ai casi di subalternità; infine, pare indispensabile sostenere i soggetti per renderli capaci di esplicare la loro funzione di attore.

L’obiettivo da perseguire rimanere sempre quello di rendere i soggetti capaci di comunicare, di progettare, di avere conoscenza di sé e dell’ambiente, nonché cercare di farli partecipare attivamente.

Analizzando la letteratura sull’esclusione sociale, la studiosa anglosassone Hillary Silver mostra come dietro al concetto di esclusione siano individuabili tre diversi paradigmi: solidarietà, specializzazione e monopolio. Nel paradigma di solidarietà, ampiamente diffuso nella Francia repubblicana, per esclusione s’intende un crollo di legami tra individui e società. L’esclusione è contrapposta all’integrazione, vale a dire acquisizione alla cultura dominante attraverso la partecipazione ai diritti e doveri di cittadinanza, e l’impegno, da parte dello stato di favorire l’inclusione degli esclusi. Nel paradigma di specializzazione, che trae origine dal liberalismo angloamericano, si presuppone che la società sia costituita da individui che sono portatori di propri interessi e capacità, separati e in competizione tra loro. Giacché, l’ordine sociale si basa sulla cittadinanza, concepita come lo scambio tra diritti e obbligazioni, l’esclusione si configura come discriminazione, in altre parole, come la creazione di gruppi differenti, che negano ad individui appartenenti a altri gruppi il pieno accesso alla partecipazione, allo scambio e all’integrazione. Il paradigma di monopolio, terzo ed ultimo, di matrice weberiana, considera l’esclusione come conseguenza della formazione di gruppi di monopolio, che precluderebbero l’accesso agli outsiders attraverso la chiusura sociale. Tale chiusura avviene dal momento il cui le istituzioni creano barriere che tengano fuori gli altri, definendoli ineguali. L’esclusione può essere contrapposta avvalendosi dei diritti di cittadinanza e della piena partecipazione alla società, eguaglianza [Corbisiero, 2005].

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Volendo tirare le somme, il concetto di esclusione sociale appare ricondursi non solo a un’area molto più vasta di disagio sociale, rispetto a quella della mera povertà economica, ma sembra anche aver prodotto nuovi indicatori di disagio che comprendono le condizioni abitative, di salute, d’istruzione.

Messeri e Ruggeri [2000] mostrano alcuni caratteri generali dei processi di inclusione/esclusione:

 il primo è dato dalla perdita della capacità di agire dei soggetti, diventando incapaci di gestire i problemi che li riguardano;

 il secondo riguarda l’atrofizzazione delle relazioni, considerate importantissime in un normale contesto sociale;

 il terzo, invece, è dato dall’emergere di nuove dimensioni della “coscienza collettiva”, di nuove forme di relazione e comunicazione, di una tematizzazione di questioni considerevoli, di azioni politico-amministrative che puntano a sviluppare cittadinanze attive.

Il possibile passaggio da una condizione di povertà a quella di esclusione non avviene quindi in automatico, esso deve essere dettato da disparati avvenimenti traumatici, tra cui ad esempio la perdita del lavoro, che costringe il soggetto a divenire altresì insicuro di se stesso. D’altro canto, bisogna prendere atto che una volta invischiati in un processo di esclusione sarà difficile uscirne, soprattutto quando la permanenza nello stato di povertà, da parte della famiglia o del singolo soggetto, si prolunga.

In Italia, purtroppo, non esiste una vera e propria politica contro le forme di esclusione, come non esistono politiche che trattano questa e la povertà come fenomeni multidimensionali. Ciò nonostante, sono presenti diversi dispositivi che cercano di rispondere a quesiti riguardo suddette questioni.[ Negri e Saraceno, 1996].

A livello Europeo, invece, dagli anni Novanta diversi orientamenti, in materia di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, si sono prefissati l’obiettivo di valorizzare l’importanza che possono avere politiche attive del lavoro12, aventi l’obiettivo non solo di “includere” ma anche

di tirare dentro chi sta fuori dal contesto sociale. Rendere i cittadini attivi attraverso la partecipazione al mercato del lavoro contribuirebbe, non soltanto all’inclusione degli aventi

12 Per politiche del lavoro s’intende quell’insieme di interventi pubblici rivolti alla tutela dell’interesse collettivo all’occupazione. Le politiche passive sono relative alle prestazioni monetarie erogate a favore dei disoccupati, quelle attive, piuttosto, riguardano quegli interventi volti a creare nuova occupazione o intervenendo, a scopo preventivo o curativo, sulle possibili cause della disoccupazione (alcuni esempi sono costituiti da sussidi all’occupazione, formazione professionale, servizi per l’orientamento ed il collocamento lavorativo) [Ferrara, 2006].

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diritto alla sicurezza sociale ma, anche al contenimento della spesa assistenziale e a dare una risposta all’imponente problema della disoccupazione.

A tal proposito, si ritiene opportuno menzionare il significato di cittadini attivi, al di là della titolarità formale, e la differenza con chi invece attivo non può essere definito. Si può parlare di cittadini attivi quando l’informazione e la capacità di comunicare e agire sono tali da poter spiegare la diversità come risorsa; al contrario, si è cittadini non attivi quando la scarsità delle informazioni coopera con la mancata partecipazione a un dibattito riguardante le forme di sviluppo e l’utilizzazione delle risorse condivise [Messeri, Ruggeri, 2000].

Giunti a questo punto, appare necessario porre attenzione sia alle condizioni culturali e istituzionali che portano a processi di esclusione che, all’impiego di criteri ridistributivi di risorse.

Per la realizzazione di determinati obiettivi è fondamentale sviluppare specifiche attività formative con l’obiettivo di far maturare capacità personali per la comunicazione, la conoscenza di sé e dell’ambiente e la partecipazione attiva.

Considerando quanto detto sopra e nella consapevolezza che i termini di povertà ed esclusione sociale si riferiscono a due livelli di analisi differenti, si è deciso di utilizzarli, in questo lavoro, come sinonimi.

4. Da una povertà di tipo economico, legata al mercato del lavoro, a una di tipo multidimensionale

È possibile partire da una chiara certezza, la categoria dei poveri è sempre esistita. Con l’avvento della società industriale essa, però, si definisce come “questione sociale”, ovvero oggetto di indagine sociologica e preoccupazioni politiche.

L’approccio più tradizionale alla definizione e misurazione della povertà è l’approccio unidimensionale che si basa su un’unica variabile, il reddito. A questo riguardo, è definito povero chi in mancanza di un reddito sufficiente non può permettersi di vivere dignitosamente. La condizione di disagio vissuta dal soggetto è così marcata da rendere l’individuo incapace di soddisfare un livello minimo di bisogni, ritenuti vitali.

I metodi più comunemente utilizzati, per misurare la povertà basata sul reddito, sono la Curva di Lorenz e l’indice di Gini.

La curva di Lorenz è la rappresentazione grafica della distribuzione dei redditi, utile per avere un’immagine immediata della disuguaglianza presente all’interno di una società oggetto di studio. Si pone in ascissa la percentuale cumulata della popolazione e in ordinata la

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percentuale cumulata del reddito. Se si collega ad ogni segmento di popolazione la corrispondente quota di reddito si ottiene la suddetta curva (Fig. 4.1).

Fig.4.1 Curva di Lorenz e retta di equidistribuzione

Se i redditi della popolazione sono distribuiti equamente la curva di Lorenz coincide con la bisettrice, man mano che invece la curva si scosta dalla perfetta uguaglianza noteremo la differenza tra bisettrice e area sottostante.

L’indice di Gini13 considera l’area che intercorre tra la curva di Lorenz e la retta di

equidistribuzione, avente valori compresi tra 0, quando tutti gli individui presentano lo stesso reddito, e 1, quando un solo individuo possiede tutto il reddito disponibile.

Esistono in realtà anche altre misure di povertà che fanno riferimento alla variabile reddito, l’incidenza della povertà, lo scarto relativo medio dalla linea di povertà e l’indice di povertà di Sen.

L’indice di incidenza della povertà viene particolarmente utilizzato poiché risulta facilmente calcolabile. Attraverso la sua semplice formula14, il cui risultato può variare tra 0 e 1,

13Formula Gp = 2 𝑁2𝑦̅∑ i(yi−y)̅̅̅ 𝑛 𝑖=1

N è la numerosità della popolazione e 𝒚̅ il reddito medio Retta di equidistribuzione

Curva di Lorenz %

cumulata dei redditi

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vengono dichiarate il numero di persone che si trovano al di sotto della soglia di povertà rispetto alla popolazione totale. La sua unica pecca è quella di non dare alcuna informazione rispetto alla gravità della situazione.

Lo scarto relativo medio dalla linea di povertà nasce con l’obiettivo di prendere in considerazione solo la parte della popolazione che si trova in situazioni di povertà. L’indice si ottiene calcolando la differenza esistente tra i redditi di ciascun povero e la linea di povertà15. Il

suo limite è quello di poter presentare risultati distorti, poiché lo scarto relativo medio non è altro che una media. Tale indice può essere anche corretto grazie ad una ponderazione per l’incidenza relativa della povertà16.

Altra misurazione, molto nota, è l’Indice di Sen che tenta di legare la povertà con la sua gravità e la sua dispersione17. Esso varia da 0 (nessuno è considerato povero) a 1 (nessuno ha

redditi). Anche l’indice di Sen è stato comunque criticato per due diverse ragioni. Esso non sarà mai uguale al valore ips delle due distribuzioni originarie quando verrà calcolato sulla somma di due popolazioni uguali ed, inoltre, non riflette le diverse situazioni dei differenti paesi considerati.

Nel corso del tempo, l’approccio tradizionale, unidimensionale, è stato definito riduttivo poiché convogliava un’unica variabile. Si inizia, allora, a concepire la povertà in senso multidimensionale, ossia legata a diverse dimensioni di deprivazione individuale. Ciò avviene dall’inizio del Novecento quando ci si rese conto che non bastava più concentrarsi solamente sulla mancanza di risorse ma, anche su diverse dimensioni, quali basso livello d’istruzione, cattiva salute, difficoltà di accesso ai servizi, ecc.

Conseguentemente a ciò, ci si è concentrati su altri metodi che adoperano misure di deprivazione multipla, basate sul riconoscimento di più dimensioni di svantaggio sociale.

La misura di povertà multidimensionale maggiormente utilizzata è l’indice di sviluppo umano, introdotto nel 1997 dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite nei suoi Rapporti annuali. Esso stima i risultati medi di un paese rispetto a tre dimensioni fondamentali: vita sana e decorosa, accesso alla conoscenza e dignitoso standard di vita (Tab. 4.2.).

14 Ip = 𝑞

𝑛

q è il numero di famiglie o individui al di sotto della linea di povertà e n rappresenta la popolazione totale 15 smr =1 𝑛∑ ( 𝑧−𝑦𝑖 𝑧 ) 𝑞 𝑖=𝑡

z è la linea di povertà e 𝒚𝒊 rappresenta il reddito della persona i

16 srm= ip*srm 17 Formula

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Tab.4.2. - Indice di sviluppo umano: diagramma delle dimensioni, degli indicatori e degli indici DIMENSIONI Vita lunga e sana Conoscenza Dignitoso standard di vita

INDICATORI Aspettativa di vita Anni medi di Anni previsti di PIL pro capite

alla nascita istruzione istruzione

INDICI Aspettativa di vita Istruzione PIL

Fonte: Human Development Report 2013, Technical notes

Più avanti, intorno al 2010, un gruppo di studiosi dell’istituto di ricerca dell’Università di Oxford ha costruito l’indice di povertà multidimensionale. Esso identifica plurime condizioni di svantaggio nelle medesime tre dimensioni analizzate dall’Isu, salute, educazione e standard di vita, potendo cosi misurare sia il numero di poveri sia il numero di privazioni che opprimono le famiglie povere. Gli indicatori sono dieci e a ognuno di esso è assegnato un diverso peso.

Le dimensioni di salute ed educazione hanno ciascuno due indicatori, perciò ogni componente acquisisce un valore pari a 16,7%. La dimensione standard di vita, invece, essendo costituita da sei indicatori acquisisce un valore pari al 6,5% per ogni componente. Gli indicatori considerati sono quindi: per la salute, avere almeno un membro della famiglia malnutrito o aver avuto uno o più figli morti; per l’educazione, non avere nessun membro della famiglia che abbia completato cinque anni di scolarizzazione e avere almeno un figlio in età scolare (otto anni) che non frequenta la scuola dell’obbligo; infine, per lo standard di vita, non avere energia elettrica, non possedere acqua potabile, non disporre di servizi igienici adeguati, utilizzare carbone o legna per cucinare, avere un pavimento in casa a terra battuta e non possedere nessun veicolo motorizzato (Tab.4.3).

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Tab.4.3. - Indice di povertà multidimensionale: diagramma delle dimensioni, degli indicatori e degli indici

DIMENSIONI Salute Istruzione Standard di vita

INDICATORI Nutrizione Mortalità Anni di Bambini combustibile per cucinare, infantile istruzione iscritti servizi igienici,

acqua potabile, elettricità, pavimento,

veicolo motorizzato

MISURE DI POVERTA’ Intensità di povertà Rapporto organico

Fonte: Human Development Report 2013, Technical notes

Una famiglia,o un individuo, potrà riconoscersi povero se sommando gli indicatori il punteggio supera il 33,3%. Se questo, invece, è maggiore o uguale al 20% ma inferiore al 33,3% la famiglia si identificherà come vulnerabile o a rischio di diventare multidimensionalmente povera. Le famiglie con un punteggio uguale o superiore al 50% sono, invece, considerate multidimensionalmente gravemente povere. Da quanto appena detto ne consegue che, il valore ipm è la media dei punteggi ottenuti da ogni indicatore e viene definito come il prodotto tra il rapporto organico e l’intensità della povertà18.

18 Il rapporto organico è dato dalla divisione delle famiglie che stanno sotto la linea di povertà per la popolazione totale→ 𝑞

𝑛 mentre l’intensità della povertà è data dividendo il totale dei punteggi di

privazione per il numero totale di persone povere→ ∑ 𝑐𝑞1

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5. Vulnerabilità che portano ai nuovi impoverimenti. Ha senso parlare di nuove povertà?

La povertà non rappresenta certamente un nuovo rischio sociale. Tale concezione nasce e cresce di pari passo alla storia dell’Europa ma, è pur vero che, negli ultimi dieci anni nuove forme e diverse dinamiche di fragilizzazione sociale hanno arricchito il dibattito.

Pierluigi Dovies definisce vulnerabile

quella zona esistenziale in cui si sperimenta, dentro ad un contesto di vita assolutamente ordinario e non già in partenza svantaggiato, una situazione problematica derivante dalla necessità di svolgere compiti cruciali per la persona, in mancanza di una riserva adeguata di risorse o capacità, e di relazioni che possono fornire aiuto [Dovies, 2011, pagina 5].

Castel, invece, considera vulnerabili quelle persone che vivono una situazione di oscillamento rispetto alla struttura sociale, senza trovare mai un posto assegnato.

Concezione altrettanto diversa è quella di Ranci, il quale sostiene che le persone che vivono una condizione di vulnerabilità sono quelle che sperimentano un contesto instabile, sia rispetto ai principali sistemi di integrazione sociale che riguardo alla distribuzione delle risorse. Essa sorge, dunque, conseguentemente alla scarsità dei mezzi disponibili, alla debolezza delle reti sociali in cui si è inseriti e alla difficoltà di sviluppare strategie appropriate di fronteggiamento delle situazioni critiche. [Ranci, 2002].

Raffaello Ciucci, ancora, esaminando la concezione di vulnerabilità ai giorni d’oggi, sostiene che essa indica:

gli esiti iniziali dei processi di destabilizzazione sociale, che espongono un crescente numero di soggetti alla precarizzazione lavorativa e alla disoccupazione, fino al possibile ingresso nelle spirali della povertà e dell’esclusione. Si tratta di un vero e proprio declassamento generalizzato delle posizioni sociali e lavorative, tale da costituire ormai la cifra dell’impoverimento e dell’insicurezza che investono crescenti aree della popolazione fin qui relativamente protette da sistemi di garanzie sufficientemente consolidati [Matutini, 2013, pagina 13].

Per capire meglio di cosa si sta parlando e afferrare il concetto di “vulnerabilità”, è doveroso fare dapprima un passo indietro partendo dal Modello sociale europeo, che ha caratterizzato le società salariali europee dall’ultimo dopoguerra, reggendosi su tre pilastri fondamentali: stabilità occupazionale, ampiezza e generosità dei programmi di welfare, assiduità di forti legami familiari. Dopodiché, è indispensabile ritornare a ciò che oggi

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caratterizza queste società, rendendosi conto di come questi tre pilastri hanno tuttavia mancato nella capacità di provvedere alla sicurezza e al benessere della maggior parte dei cittadini.

5.1. Stabilità / flessibilità occupazionale

Lo scenario caratterizzante l’Europa occidentale a finire del secondo dopoguerra godeva di elementi al quanto positivi, a partire dai processi di industrializzazione, ovvero il passaggio da economie agricole a economie industriali, che erano state in grado di offrire maggiore occupazione. L’aumento dell’occupazione era considerato, in questo scenario, direttamente proporzionale alla creazione di nuovi posti di lavoro e, d’altro canto, inversamente proporzionale sia all’aumento degli anni dedicati all’istruzione per i giovani che all’introduzione di un sistema pensionistico, che consentiva a coloro i quali avessero raggiunto una determinata età di ritrarsi.

La piena occupazione favorì, inoltre, l’aumento della retribuzione e la diffusione di uno “star bene” anche tra i ceti medi e la classe lavoratrice.

Oltre a quanto appena esposto, bisogna anche riflettere sulla marcata distinzione tra le classi che caratterizzavano il sistema sociale, con una indiscutibile riduzione delle disuguaglianze economiche come conseguenza dell’istituzionalizzazione dei conflitti sociali. A tal proposito, bisogna considerare il tentativo di equilibrare i conflitti emergenti tra lavoratori e datori di lavoro, attraverso la regolazione del mondo del lavoro e la diffusione di accordi tra le parti.

Infine, merita un accenno la rigida divisione del lavoro, che caratterizzò questa fase, prevedendo attività lavorative retribuite per gli uomini e compiti riguardanti le responsabilità familiari per le donne. La partecipazione della donna al mercato del lavoro retribuito fu, infatti, non solo eccessivamente limitata ma decisamente più bassa di quella maschile. Il modello familiare definito prendeva il nome di male breadwinner.

Diversi cambiamenti negli ultimi anni hanno investito e trasformato il mercato del lavoro. La globalizzazione dei mercati e la produzione tecnologica hanno causato una non indifferente ristrutturazione della produzione, che ha generato aumento della disoccupazione e flessibilità del lavoro. Si possono distinguere diverse forme di flessibilità, oraria, salariale, ma quella che a noi più interessa è quella cosiddetta numerica, corrispondente essenzialmente alla maggiore libertà di licenziamento19. In Italia, i dati INPS rivelano che il nostro paese ha una mobilità

pressoché identica, se non superiore, a quella dei paesi sviluppati; bisogna, a tal proposito,

19 Altri autori hanno menzionato diversi tipi di flessibilità. Accornero parla di flessibilità volta a migliorare l’organizzazione e che riesca a porsi come risposta ai picchi della domanda. La Rosa invece identifica altre forme di flessibilità: di entrata-uscita o quella funzionale.

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considerare la percentuale di lavoratori irregolari e precari e le piccole imprese di cui il nostro paese è ricco.

E’ alle conseguenze negative di un lavoro temporaneo o flessibile che bisogna mirare, proprio perché vi è un’alta percentuale che questo può produrre l’aumento del rischio di percepire un salario più basso, di restare intrappolati in un occupazione precaria a vita o ancora di finire spiazzati fuori dallo stesso mercato del lavoro.

Anche distinguendo la produzione in base alla competitività economica, è stato notato che troppa flessibilità del lavoro è un male. La via bassa alla competitività, caratterizzata da bassa remunerazione, bassa qualificazione del lavoro e scarsa qualità del prodotto, potrebbe innescare una flessibilità di entrata-uscita dall’azienda, contrariamente, la via alta alla competitività, contrassegnata da alta remunerazione, alta qualificazione e produzione di qualità, potrebbe attivare una flessibilità funzionale, basata sulla mobilità tra le mansioni professionali, la formazione continua e la possibilità di carriera all’interno della stessa azienda o all’esterno.

5.2. Ampiezza e generosità / inefficienza dei programmi di welfare

Partendo innanzitutto da quella che è la definizione di welfare, potremmo riduttivamente sostenere che, con quest’accezione, ci si riferisce a un’assicurazione minima di benessere per i cittadini garantita dallo Stato. La nascita del welfare si fa risalire convenzionalmente al momento dell’introduzione delle assicurazioni sociali obbligatorie contro quelli che venivano percepiti come i rischi maggiori della vita dei lavoratori: la vecchiaia, l’invalidità, la malattia e la disoccupazione.

Tuttavia, già a partire dal XVII secolo non sono mancate risposte generose ed efficienti da parte di singoli soggetti o organizzazioni, soprattutto religiose, che tentavano di rispondere a determinati problemi facendosi così carico di poveri ed emarginati. Tale operosità può essere oggi considerate come la preistoria del welfare [S. Rizza, 2010].

Dalla sua nascita e fino alla prima metà degli anni Settanta è stato un periodo di grande sviluppo e crescita per il welfare, tanto da definire il periodo come “età dell’oro”. In poco tempo cominciò ad estendersi il raggio d’azione di schemi che, in un primo momento, si rivolgevano esclusivamente ad una cerchia più ristretta, i lavoratori, e successivamente, ricomprendevano sempre più beneficiari tanto da parlare non più di assicurazioni dei lavoratori ma di assicurazioni sociali. A Godere di un certo grado di benessere era una parte sempre più ampia di popolazione. Il riferimento a benessere è, però, sempre stato un problema, poiché la sua espressione sembra essere legata alla difficoltà di raggiungere un determinato traguardo, affinché sia possibile definire e realizzare strategie utili per creare le condizioni dello star bene e sembra, inoltre, essere connessa alla volontà di garantire un certo numero di risorse da

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