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Sviluppo metodica NAT per la rilevazione di HEV RNA in pool di plasma

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INDICE

GLOSSARIO

3

RIASSUNTO

5

ABSTRACT

6

1. Introduzione

7

1.1 Dati storici

7

1.2 Classificazione di HEV

7

1.3 Struttura e organizzazione genomica

8

1.4 Ciclo replicativo di HEV

11

1.5 Patogenesi

12

1.6 Diagnosi

14

1.7 Trattamento

16

1.8 Distribuzione geografica e modalità di trasmissione

16

1.9 Prevenzione

21

1.10 Trasmissione attraverso trasfusioni e derivati del sangue

22

1.11 Plasma trattato solvente detergente

24

1.12 Validazione metodi NAT per la ricerca di genomi virali

secondo Farmacopea

26

2. Scopo della tesi

27

3. Materiali e Metodi

28

3.1. Materiali utilizzati

28

3.2. Strumentazione utilizzata

29

3.3. Condizioni adottate nella messa a punto della metodica NAT

29

3.3.1

Controllo interno di estrazione

30

3.3.2

Controllo positivo di estrazione

34

3.3.3

Disegno di primer e probe per HEV e BVDV

35

3.3.4

Fase di estrazione

37

(2)

2

3.4. Validazione metodo

45

4. Risultati

47

4.1 Fasi di sviluppo del metodo NAT in house

48

4.1.1 Prove preliminari per valutare l’efficienza primer/

probe per il controllo interno

48

4.1.2 Messa a punto della fase di amplificazione ed

estrazione di HEV senza l’aggiunta di IC

52

4.1.3 Prove per identificare la quantità minima di

controllo interno da utilizzare in multiplex PCR

63

4.1.4 Ottimizzazione della fase di amplificazione/

estrazione multiplex

68

4.2 Valutazione kit presenti in commercio

112

4.2.1

Metodica RealStar di Altona

112

4.3 Validazione

118

5. Discussione

123

6. Conclusioni

124

7. Ringraziamenti

126

8. Bibliografia

128

9. Sitografia

131

(3)

3

GLOSSARIO

ALT: Alanina amino transferasi

Amplitaq Gold: Enzima DNA polimerasi

AST: Aspartato amino transferasi

ATCC American Type Culture Collection

BHQ: Quencher black-hole

BVDV: Bovine Viral Diarrhea Virus

cDNA: DNA complementare

CRE: Elementi regolatori agenti in cis

Ct: Ciclo soglia al quale la differenza della variazione di fluorescenza rispetto alla linea di base diventa significativa

DMSO: Dimetilsulfossido

DNA: Acido desossiribonucleico

dNTP’s: Miscela di nucleotidi contenente dATP, dCTP, dGTP e dTTP

EMEM: Eagle’s Minimum Essential Medium

ER: Reticolo endoplasmatico

ERK: Chinasi regolatoria extracellulare

ET-NANBH: Epatite enterica non A-non B

FAM/HEX/JOE: Fluorofori utilizzati per la marcatura della sonda oligonucleotidica.

Grp 78: Proteina che regola il glucosio

HAV: Virus dell’epatite A

HBV: Virus dell’epatite B

HCV: Virus dell’epatite C

HDV: Virus dell’epatite D

HEV: Virus dell’epatite E

HIF: fattori inducibili da ipossia

HS: Horse Serum

HSC: Heat shock cognate protein

HSP: Proteina heat shock

IC: controllo interno

IEM: Microscopia immuno-elettronica

Ig: Immunoglobuline

(4)

4

Log: logaritmo in base 10

MAPK: Proteine chinasi attivate da mitogeni

Master Mix (MMX):Miscela di reazione

MDBK: Madin-Darby bovine Kidney

NAT: Nucleic Acid Amplification Techniques (metodiche di amplificazione degli acidi nucleici)

NSP: Proteine non strutturali

ORF: Open reading frame (cornice di lettura aperta)

PBS: Tampone fosfato salino

PCR: Reazione polimerasica a catena

PEI Paul Erlich Institute

PFU: Unità formanti placca

Primer F/R: oligonucleotide senso/antisenso con funzione di innesco per reazione di polimerizzazione degli acidi nucleici

Probe: Oligonucleotide che si appaia per complementarietà ad una sequenza nucleotidica con funzione di rivelazione della sequenza stessa

Rcf: Forza centrifuga relativa

RNA: Acido ribonucleico

RNase OUT: Inibitore di ribonucleasi

RT Sup III: Enzima trascrittasi inversa che sintetizza DNA complementare (cDNA) a partire da uno stampo a RNA

RT-PCR: Reverse-transcriptase PCR

SEIEVA: Sistema epidemiologico integrato dell’epatite virale acuta TCID50: Tissue Culture Infectious Dose 50%

UI/ml: Unità internazionali/ml

UTR: Untraslated region

VLPs: Virus like particles (Particelle simili a virus)

(5)

5

RIASSUNTO

Recentemente è stata osservata una crescente diffusione del virus dell’Epatite E (HEV) non solo in Paesi in via di sviluppo, ma anche in Paesi in cui le buone condizioni igienico-sanitarie non farebbero pensare ad una elevata prevalenza. Questi dati hanno portato le Autorità Regolatorie ed i produttori di plasma-derivati a valutare attentamente il rischio di trasmissione di questo patogeno. A tale proposito, al fine di ridurre il rischio di trasmissione di agenti patogeni attraverso l’uso terapeutico di plasma derivati, vengono adottate misure quali: selezione dei donatori, screening delle donazioni, tracciabilità donatori-prodotto finito e viceversa, procedure di look back, controllo plasma pool secondo test previsti da Farmacopea o definiti da standard qualitativi interni e presenza di step del processo produttivo dedicati alla inattivazione/rimozione dei virus. I processi produttivi di plasma derivati (fattori della coagulazione, immunoglobuline, albumina, ecc.) sono caratterizzati da numerose fasi di purificazione e da step dedicati alla rimozione/inattivazione virale, efficaci nell’assicurare la clearance di eventuali contaminanti virali con diverse caratteristiche fisico-chimiche; per tale motivo si ritiene che per questi prodotti le misure attualmente presenti siano sufficienti a ridurre il rischio di trasmissione per HEV. Per un particolare prodotto, costituito da plasma sottoposto a inattivazione virale mediante trattamento solvente/detergente (efficace solo per virus con envelope), la particolarità del processo produttivo, la mancanza di dati scientifici riguardo al contributo neutralizzante di eventuali anticorpi presenti e l’impossibilità di potere inserire step efficaci per la clearance di virus non rivestiti, ha portato alla necessità di arginare il rischio per la trasmissione dell’HEV tramite l’introduzione di un test NAT specifico sul materiale di partenza. Lo scopo di questa tesi è stato quello di individuare una metodica applicabile come test di screening sui pool di plasma destinati alla lavorazione, in accordo a quanto verrà richiesto dalla Farmacopea Europea nella variazione prevista per la monografia del plasma trattato solvente/detergente. Nello studio è stata sviluppata una metodica multiplex NAT “in-house” di tipo qualitativo per la rivelazione di HEV e di un controllo interno aggiunto per evitare falsi negativi. La metodica sviluppata è stata poi confrontata con una metodica simile disponibile in commercio. Sulla base di indagini preliminari, entrambe le metodiche si sono rivelate adeguate alle disposizioni regolatorie proposte, per cui la scelta della metodica per l’introduzione del test come specifica di processo è stata effettuata principalmente in base alla semplicità di utilizzo, di validazione e di standardizzazione. Il metodo scelto è stato quello disponibile in commercio, questo è stato poi validato in accordo alla sezione 2.6.21 della Farmacopea Europea, in particolare è stata verificata la specificità, il detection limit e la robustezza.

(6)

6

ABSTRACT

Recently an increasing spread of hepatitis E virus (HEV) has been observed in developing Countries as well as in Countries where good sanitary conditions would not suggest a high prevalence. These data have led the regulatory authorities and manufacturers of plasma derivatives to carefully assess the risk of transmission of this pathogen. In order to reduce the risk of transmission of pathogens through the therapeutic use of plasma derivatives, safety measures are taken, such as: selection of donors, screening of donation, traceability between donors and finished product, look back procedures, plasma pool screening according to test required by the Pharmacopoeia or defined by internal quality standards and the introduction of step in the manufacturing process specifically designed for inactivation/removal of viruses. The production process of plasma derivatives (e.g. coagulation factors, immunoglobulins, albumin, etc) are characterized by purification stages and by steps dedicated to viral inactivation/removal, effective in ensuring the clearance of potential viral contaminants with different physical-chemical properties. For these reasons for this kind of products the measures adopted are considered sufficient to reduce the risk of HEV transmission. For a particular product, represented by plasma subjected to viral inactivation by solvent/ detergent treatment (known to be effective only against viruses), the peculiarity of the production process, the lack of scientific data concerning the neutralizing activity of anti-HEV antibodies and the impossibility to insert effective steps for the clearance of non-enveloped viruses, have led to the introduction of a specific NAT test on the starting material in order to limit the risk of HEV transmission.

The aim of this work was to find a suitable method which could be applied as a screening test on plasma pools subjected to processing, in accordance with what will be required by the European Pharmacopoeia in the next variation concerning the monograph for solvent/detergent treated plasma. In the study a multiplex “in-house” NAT qualitative method was developed for the simultaneous detection of HEV and an internal control inserted to avoid false negative results. The method developed was then compared with a commercially available similar method. On the basis of preliminary investigation, both methods have proved to be suitable for the proposed regulatory requirements. However, based on simplicity of use, validation and standardization, the methodology chosen for the introduction of NAT test as process specification was the commercially available method. The method was then validated according to section 2.6.21 of European Pharmacopoeia by investigating the following parameters: specificity, detection limit and robustness.

(7)

7

1. Introduzione

1.1 Dati storici

La grave epidemia che si verificò in Nuova Delhi in India nel 1955-56, fu provocata dalla contaminazione delle acque del fiume Jamuna River da parte di un agente allora sconosciuto. Inizialmente si ritenne responsabile di quella epidemia il virus dell’epatite A, in base a similitudini epidemiologiche e cliniche. La maggior parte della popolazione nei Paesi in via di sviluppo, però, presenta già esposizione a HAV dall’infanzia e non si spiegava come potesse essersi verificata un’epidemia così grande, in grado di colpire anche giovani adulti in teoria immuni. L’epidemia, inoltre, mostrava un’altra caratteristica che non era mai stata associata prima di allora all’epatite A: causava molte morti soprattutto nelle donne al terzo mese di gravidanza. Altre epidemie simili si verificarono in Unione Sovietica (1955-56), in Nepal (1973-74) e a Myanmar (1976-77). Nel 1980, lo sviluppo di test sierologici per anticorpi anti-HAV, escluse la possibilità che le epidemie fossero attribuibili al virus dell’HAV ed in seguito le epidemie caratterizzate da questi sintomi furono indicate temporaneamente con l’acronimo ET-NANBH.

La scoperta del virus dell’epatite E è attribuita a Mikhail Balayan, il quale nel 1983 ingerì una sospensione fecale di pazienti asiatici infetti da un virus che produceva gli stessi sintomi osservati nell’epidemia del 1955-1956. L’identificazione di HEV fu un lavoro impegnativo dal momento che il virus non cresceva bene in colture cellulari e poiché nella fase acuta si ritrovavano limitate quantità di virus nelle feci; fu possibile identificare il virus soltanto attraverso l’analisi delle feci mediante IEM. Nei dieci anni successivi si intensificarono gli studi per la sua caratterizzazione e nel 1991 Tam e collaboratori riuscirono a clonare il genoma, che fu isolato e sequenziato grazie all’utilizzo di campioni di bile provenienti da macachi cinomolgi infetti; ciò confermò la presenza di un nuovo virus al quale fu attribuito, per la prima volta, il nome “virus dell’epatite E” (Purcell

2008).

“E” può indicare “enterico”, “endemico” e “ epidemico”, aggettivi che descrivono adeguatamente l’epidemiologia dell’HEV, ma la scelta della lettera E è dovuta principalmente ad un fattore alfabetico poiché precedentemente erano stati già individuati HAV, HBV, HCV e HDV (Jameel

1999).

1.2 Classificazione di HEV

La classificazione del virus dell’epatite E ha destato enormi dubbi ed ha trovato, nel tempo, molte difficoltà a causa della bassa efficienza delle tecniche di caratterizzazione. Inizialmente, visto la

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8

somiglianza fisica e molecolare con i Calicivirus, fu classificato nella famiglia Caliciviridae. Presentava però differenze con quest’ultimi nell’ordine genico, in quanto la ORF3 dei Calicivirus è localizzata alla fine del genoma, mentre in HEV si sovrappone alla ORF2. Inoltre HEV mostrava numerose somiglianze nella sequenza genica con Rubella virus, un virus appartenente alla famiglia Togaviridae. La più recente classificazione tassonomica, indicata nell’International Commetee on Taxonomy of Viruses, identifica la famiglia Hepeviridae, che raggruppa due generi di HEV: il genere Hepevirus, (indicato anche come HEV di mammiferi) che comprende la specie del virus dell’epatite E responsabile di epatite nell’uomo e negli animali, e il genere del virus dell’epatite E aviaria che genera splenomegalia nel pollo, al quale non è ancora stato assegnato un nome. L’HEV di mammiferi, comprende quattro genotipi: genotipi 1 e 2, con uno spettro d’ospite limitato all’uomo, e genotipi 3 e 4, che sono stati rilevati sia nell’uomo che in diversi animali. Tutti i genotipi appartengono ad un unico sierotipo. Il genere che comprende l’HEV aviario è stato ritrovato in esemplari di pollo. Questo virus mostra una bassa omologia nucleotidica con il genere dei mammiferi (pari al 50% circa), ma esiste comunque un nesso: è presente un riconoscimento da parte di anticorpi anti-HEV aviari del capside del genere dei mammiferi, indicando la presenza di determinanti antigenici comuni.

Da recenti scoperte sembrano esistere altri due genotipi di HEV dei mammiferi, uno identificato nei cinghiali selvatici del Giappone e l’altro in ratti in Germania, ma non hanno ancora una classificazione tassonomica definita. È stato identificato anche nel pesce un virus simile a HEV, chiamato CTV, virus della trota salmonata, diverso dagli altri due generi per il basso livello di omologia della sequenza (circa il 13-27%) e, proprio per tale motivo, potrebbe andare a costituire un nuovo genere della famiglia Hepeviridae (Cao 2012).

1.3 Struttura e organizzazione genomica

Il virus dell’epatite E è un virus a simmetria icoesaedrica, privo di envelope, con aspetto sferico di circa 27-34 nm di diametro. Il suo genoma è costituito da RNA a singolo filamento con polarità positiva (capace di agire direttamente da mRNA), di una lunghezza di circa 7,2 Kb nel genere di mammifero, mentre è 6,7 Kb nel genere aviario. Essendo un virus a RNA mostra elevata variabilità genetica (il tasso medio di mutazione/genoma/ replicazione di un RNAv è 0.76, quello di un DNAv è di 0.0034 cioè 223 volte inferiore) (Ref 1 sitografia).

Il genoma è caratterizzato da corte sequenze non tradotte UTR presenti al 5’ e al 3’ e da tre ORFs (ORF1, ORF2, ORF3), che si sovrappongo parzialmente, in particolare ORF2 si sovrappone a ORF3, ma nessuna delle precedenti si sovrappone a ORF1. Le proteine codificate da ORF2 e ORF3 sono prodotte da un mRNA subgenomico bicistronico e tra la ORF1 e la sequenza

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9

bicistronica è presente una regione di giunzione. Sono presenti anche due elementi regolatori agenti in cis, detti CRE: uno si sovrappone alla estremità 3’ di ORF2 e alla 3’UTR, mentre il secondo è localizzato nella regione di giunzione creando strutture stem-loop. Entrambe le CRE sono importanti per la replicazione del virus, e la seconda potrebbe essere anche il promotore di mRNA sub genomico.

ORF1 ha inizio dopo la 5’UTR, si estende per circa 5 Kb e codifica per una proteina di 1693 amminoacidi. Insieme alle UTRs, a una regione conservata di 58 nucleotidi e ad una sequenza omologa alla giunzione alpha-virus, forma un ripiegamento stem-loop, altamente conservato, il quale sembra essere coinvolto nei processi di replicazione del virus. La proteina non strutturale codificata contiene diversi domini funzionali: una metil-transferasi (MT), una cysteine protease (PCP), una regione ricca in proline contenente siti di ipervariabilità (HVR), una elicasi (Hel), una RNA polimerasi RNA dipendente (RdRp), e due regioni X e Y la cui funzione è sconosciuta. La presenza di una metil-transferasi indica la presenza di un Cap al 5’, fondamentale per l’infettività del virus. In vitro si è osservato che la presenza di una elicasi ricombinante è importante per il primo step della formazione del Cap, suggerendo un possibile coinvolgimento del dominio Hel della proteina nella sintesi del Cap al 5’ dell’RNA di HEV. Sebbene in vitro, in sistemi di espressione diversi, sia stato osservato un taglio della poliproteina (modificazione post-traduzionale) non è chiaro se ciò accada anche in vivo. La RdRp di HEV contiene otto motivi, i quali ricordano quelle delle RdRp di altri virus a RNA a singolo filamento positivo. La sequenza HVR è localizzata tra la porzione N terminale della regione sconosciuta X e la porzione C terminale di un presunto dominio PCP. Le HVR dei diversi ceppi variano in lunghezza e nella sequenza. Questa regione è importante per la replicazione e l’infettività del virus: è stato appurato che è possibile scambiare le sequenze HVR tra i diversi ceppi o effettuare piccole delezioni nella

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10

sequenza, ma se viene eliminata l’intera sequenza si perdono le caratteristiche di replicazione e l’infettività del virus. Ad oggi è stata espressa, purificata e caratterizzata a livello biochimico solo la metil-transferasi e non è noto se la poli-proteina agisca come singola proteina con molte funzioni o se siano codificate piccole proteine, ciascuna con una diversa funzione (Cao 2012). ORF2 codifica per una proteina che fa parte del capside del virus, composta da 660 amminoacidi, costituita dal peptide segnale, caratterizzato da un elevato numero di arginine e tre siti di glicosilazione. La mutazione dei siti di glicosilazione della proteina ORF2 determina una minor infezione da parte delle particelle virali in macachi, stabilendo un coinvolgimento di questi siti nell’infettività. Se la proteina viene espressa in cellule di insetti, avviene un auto-assemblamento in particelle simili a virus (VLPs). Si può dedurre, quindi, che la proteina ORF2 sia coinvolta nell’assemblamento delle particelle virali di HEV e prenda parte all’interazione con le cellule da infettare. L’assemblamento dei virioni inizia con la formazione di monomeri e successivamente dimeri, i quali possono includere o meno la regione N-terminale. Il processo termina con la formazione di decameri: i decameri privi della regione N-terminale si assemblano in particelle simili a virus, mentre i decameri contenenti anche la regione N-teminale sono in grado di incapsulare l’RNA virale e formare così l’intero virione (Hoofnagle 2012). Il capside interagisce con proteine cellulari, ossia HSP 90, Grp 78 (proteina che regola il glucosio) e HSPG (heparin sulfate proteoglycans). HSPG sembra coinvolta nei meccanismi di entrata del virus nelle cellule, mentre HSP90 e Grp78 sono coinvolte nel trasporto intracellulare. La proteina capsidica codificata da ORF2 è immunogenica e viene riconosciuta dagli anticorpi neutralizzanti, grazie alla presenza di due amminoacidi, Leu477 e Leu613 (Cao 2012).

ORF 3 codifica per una piccola proteina fosforilata associata al citoscheletro, lunga circa 144 amminoacidi, contenente due domini N-terminali idrofobici e due domini ricchi in proline C-terminali. La ORF3 si sovrappone al 3’ alla ORF2, ma non alla ORF1. Sembra essere coinvolta nell’assemblamento del virione, quindi importante nell’infezione virale in vivo, grazie alla capacità di interazione con la proteina ORF2 determinata dalla presenza di Ser71 sulla proteina di ORF3, la quale, una volta fosforilata, può legare la proteina capsidica non glicosilata. È stato dimostrato anche che pORF3 co-localizza con il citoscheletro e lega MAPK e microtubuli, regola l’espressione di enzimi nella via glicolitica attraverso la stabilizzazione di HIF-1 e interagisce con la catena β del fibrinogeno (Cao 2012). Una volta espressa questa proteina può attivare ERK (chinasi regolatoria extracellulare), generando un segnale di sopravvivenza e proliferazione (Chandra 2008). Da recenti esperimenti è stato osservato anche che la pORF3 interagisce con le

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proteine citoplasmatiche della cellula ospite, creando un ambiente favorevole per la replicazione del virus e la patogenesi (Cao 2012).

Attraverso l’allineamento di sequenze multiple delle regioni genomiche di HEV di ORF3, è stato possibile identificare le regioni altamente conservate tra i diversi genotipi di HEV ed in seguito è stato possibile disegnare dei primer/probe specifici per tutti e quattro i genotipi di HEV

(Jothikumar 2006).

1.4 Ciclo replicativo di HEV

Dal momento che la propagazione di HEV nelle cellule in coltura è abbastanza limitata, si sa ben poco sui meccanismi di entrata e di replicazione del virus. Per quanto riguarda le modalità di entrata all’interno delle cellule, si ipotizza l’esistenza di un recettore in grado di legare la proteina capsidica virale. Questo ipotetico recettore sembra essere presente sulla membrana di epatociti, di cellule del tratto biliare e dell’intestino, più soggette ad essere colpite dal virus. Alcuni esperimenti suggeriscono che la porzione C-terminale di ORF2 di HEV possa mediare l’entrata legandosi alla proteina HSC70 (heat shock cognate protein 70) posta sulla superfice cellulare. Successivamente è stato osservato che, sempre sulla membrana cellulare, HSPGs favorisce l’attacco del recettore alla porzione C-terminale. Al momento, comunque, non è stato evidenziato e isolato alcun recettore specifico per HEV. Un recente studio mostra che un dimero tronco della proteina capsidica codificata dalla ORF2, chiamato HEV239 o p239, (amminoacidi 368-606), è in grado di legare i recettori presenti sulla membrana cellulare e riesce ad entrare in alcuni tipi cellulari. La sequenza del peptide tronco è conservata tra i 4 genotipi, suggerendo l’importanza di questa nel legame con i recettori. Il dimero costituito dalla proteina tronca p239 interagisce con proteine cellulari quali HSP90 e Grp78 che ne mediano il trasporto intracellulare. La 7-metilguanosina presente al 5’UTR del genoma di HEV recluta la subunità ribosomiale per iniziare il processo di traduzione delle proteine virali; l’RNA virale positivo serve da stampo per la traduzione di NSPs codificate dall’ORF1 nel citoplasma. La replicasi virale RdRp dal filamento positivo sintetizza un filamento intermedio negativo, il quale servirà da stampo per la sintesi di altre copie di filamenti positivi, che formeranno la progenie genomica virale. La RdRp, RNA polimerasi RNA dipendente, può legare le due CRE presenti sul genoma di HEV, determinando

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due diversi destini: quando lega la CRE presente alla 3’UTR, crea filamenti genomici, quando lega la CRE presente nella regione di giunzione, invece, produce filamenti subgenomici. Dai filamenti subgenomici vengono tradotte le proteine di ORF2 e ORF3. La proteina capsidica codificati da ORF2, tradotta mediante i filamenti subgenomici, si assembla, in modo ancora poco chiaro, includendo al suo interno l’RNA virale genomico. I nuovi virioni vengono trasportati verso la membrana cellulare, dove sono rilasciati per infettare altre cellule con modalità ancora sconosciute (Cao 2012).

Questo modello deve essere ancora confermato, ma in esperimenti in cui sono stati infettati rhesus macachi e maiali, sono stati evidenziati filamenti a RNA positivi e negativi di HEV nel fegato (Chandra 2008).

1.5 Patogenesi

Il virus entra all’interno dell’ospite prevalentemente attraverso la via orale. Il sito in cui avviene replicazione primaria non è ancora noto, ma si presume sia nel tratto intestinale. Da qui, il virus giunge nel fegato probabilmente attraverso la vena porta, si replica nel citoplasma degli epatociti e viene rilasciato nella bile e nel sangue tramite meccanismi non ancora ben definiti (Fields 2001). L’infezione può avere un decorso asintomatico, con un rapporto di 1:2- 1:13 casi sintomatici/ casi

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asintomatici (Ref 2 sitografia). I sintomi caratteristici sono quelli tipici di una epatite virale acuta e ricordano i sintomi di epatite A, tra i quali troviamo itterizia, anoressia, senso di malessere, nausea, febbre e dolore addominale. Il periodo di incubazione va da 3 a 8 settimane (Hoofnagle

2012), la comparsa dei primi sintomi e dell’ittero corrisponde ad un innalzamento dei valori di

ALT determinato dal danno epatico. In pazienti affetti da HEV si verificano infatti modificazioni istologiche a livello del fegato, ad esempio necrosi focali, infiammazione caratterizzata dalla presenza simultanea delle cellule del Kupffer e leucociti polimorfonucleati, rigonfiamento degli epatociti e colestasi. La discrepanza temporale che c’è tra la replicazione virale nel fegato e i cambiamenti istopatologici e biochimici tipici dell’epatite, suggeriscono che il meccanismo di patogenesi non sia dovuto ad un effetto citopatico del virus, ma che sia almeno in parte mediato da meccanismi immunologici dell’ospite, anche se non ci sono evidenze dirette per avvalorare tale ipotesi (Fields 2001).

Come per altre forme di epatiti virali, la viremia, rilevabile tramite metodi NAT, inizia durante il periodo di incubazione dell’epatite E (1-2 settimane prima della fase sintomatica). Il titolo degli anticorpi IgM e IgG inizia ad aumentare prima dell’innalzamento dei livelli di ALT e della eventuale comparsa dei sintomi. Il titolo delle IgM ha un picco nella fase sintomatica e diminuisce fino a scomparire in 3-12 mesi. Il titolo delle IgG arriva a plateau dopo circa 1 mese dalla comparsa dei primi sintomi e rimane rilevabile per 2-13 anni (Chandra 2008).

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La malattia è in genere auto-limitante e non si riscontrano conseguenze croniche in soggetti immunocompetenti. Tuttavia, di recente, sono state osservate infezioni croniche in pazienti che hanno subito trapianto e per tale motivo i pazienti immunosoppressi rappresentano una popolazione a rischio. Nell’epidemia verificatasi nel 1955-1956, è stato possibile distinguere due fasi della malattia: nella prima fase, definita pre-itterica, si ha manifestazione dell’infezione con febbre, perdita di appetito e anoressia, mentre nella seconda fase, definita itterica, non si ha più febbre, ma si verifica epatomegalia, ossia aumento di volume del fegato e comparsa dell’ittero. È proprio in questa fase che possono verificarsi casi di epatite fulminante in soggetti immunocompetenti, anche se rari (Ref 2 sitografia). Casi di epatite fulminante in seguito ad infezione da parte di HEV sono stati rilevati con maggiore frequenza in donne in gravidanza, nelle quali aumenta il tasso di mortalità, soprattutto al terzo mese (Ref 2 sitografia, Jameel 1999,

Hoofnagle 2013). Casi di cronicizzazione sono stati rilevati per la prima volta in Francia nel 2008

in pazienti riceventi trapianto di organi, e più recentemente sono stati rilevati anche in soggetti immuno-compromessi a causa di disordini ematologici (Tamura 2007, Gerolami 2008)), di infezione da HIV (Dalton 2009) o a seguito di trattamenti chemioterapici (Tamura 2007).

Negli ultimi 10 anni sono state associate all’HEV complicazioni neurologiche quali sindrome di Guillain-Barrè, neuropatie periferiche, encefalite e ataxia, ma sono riportati anche complicazioni in tessuti extraepatici, come pancreatite, artrite e anemia (Hoofnagle 2013).

1.6 Diagnosi

L’infezione da HEV non è distinguibile dagli altri tipi di epatite virale acuta sulla base delle sole evidenze cliniche, per cui una diagnosi precisa può essere fatta solo in base a test di laboratorio. La diagnosi di HEV può essere fatta direttamente, attraverso la ricerca dell’ RNA virale nel siero, nella bile o nelle feci, o indirettamente, attraverso metodiche di tipo immuno-enzimatico (rilevamento di anticorpi anti-HEV IgM o IgG) (Ref 2 sitografia). La ricerca degli anticorpi risulta importante in quanto ad oggi si conosce un unico sierotipo e gli anticorpi cross reagiscono con i diversi isolati, d’altra parte solo le IgM sono indice di una infezione attiva o recente, mentre le IgG indicano una infezione pregressa e non necessariamente recente. In caso di positività alle metodiche NAT si può affermare che c’è una infezione in corso, ma visto il breve periodo della viremia, in caso di negatività, in mancanza del dato sierologico non si può affermare con certezza che la malattia sia dovuta ad infezione con HEV

In Italia, presso l’Istituto Superiore di Sanità è stato messo a punto un protocollo standard per la diagnostica dei casi acuti di epatite E mediante l’utilizzo di saggi immuno-enzimatici multipli e di

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un saggio molecolare complementare. La procedura è stata sviluppata nell’ottica di fornire alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale una collaborazione attiva nel settore della diagnosi delle infezioni causate da HEV. Il protocollo standard prevede la valutazione dei campioni di siero sia mediante saggi commerciali specifici per la ricerca di anticorpi anti-HEV (IgM e IgG) sia mediante test basati su Real-time RT-PCR. I campioni positivi sono classificati, in base ai risultati, in quattro diverse categorie corrispondenti alle seguenti fasi dell’infezione:

Periodo finestra: IgM- negativo, IgG-negativo, HEV-RNA-positivo

Fase di sieroconversione precoce: IgM-positivo, IgG-negativo, HEV-RNA-positivo Fase di post-sieroconversione precoce: IgM-positivo, IgG-positivo, HEV-RNA-positivo Fase di post-sieroconversione tardiva: IgM-positivo, IgG-positivo, HEV-RNA-negativo La metodologia è stata valutata su 52 pazienti con epatite virale acuta non A-C, per i quali era stato chiesto un approfondimento diagnostico da parte delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, distribuiti in quindici strutture ospedaliere differenti, provenienti da undici regioni, in un periodo compreso tra il 2004 e il 2010. L’analisi dei risultati ha mostrato che 30 su 52 campioni hanno dato esito positivo per almeno un marcatore di infezione da HEV; tra questi:

 25 sono risultati positivi per anticorpi anti-HEV IgM  25 sono risultati positivi per anticorpi anti-HEV IgG  21 hanno presentato positività per entrambi

Il test real time PCR ha evidenziato 23 campioni positivi per HEV-RNA.

In conclusione l’infezione acuta è stata diagnostica in 23 pazienti su 52, di cui 21 hanno mostrato positività per tutti e tre i marcatori (fase post-sierconversione precoce), mentre uno solo per HEV-RNA (periodo finestra) e uno è risultato positivo solo per HEV-HEV-RNA e IgG. I risultati hanno mostrato che per la conferma della diagnosi è necessario combinare più metodi complementari (ISTISAN 2013).

Test per anticorpi anti-HEV sono disponibili in commercio, ma nessuno di questi è stato ufficialmente approvato dalla FDA (Teshale 2010(a), Hoofnagle 2013). La maggior parte dei test sierologici utilizza la proteina capsidica codificata da ORF2 come substrato di riconoscimento per gli anticorpi. Tra diversi saggi sierologici per l’identificazione dell’epatite E, si osserva una certa variabilità dei risultati, risulta quindi cruciale risolvere la standardizzazione dei metodi: a tale scopo le metodiche per la diagnosi dell’epatite E sono in continua evoluzione (ISTISAN 2013).

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Tra i kit presenti in commercio per la rilevazione di RNA di HEV, è presente quello della ditta Altona diagnostic (Germania) (Vollmer 2012), quello di PrimerDesign (USA) e di Gentaur (Belgio) (Ref 2 sitografia).

1.7 Trattamento

Nei principali casi di infezioni acute di HEV, la malattia è autolimitante, per cui non necessita di trattamenti specifici. A pazienti che avevano contratto l’HEV è stata somministrata una terapia a base di ribavirina la quale ha riscontrato esiti positivi. Questo trattamento però è controindicato per le donne in gravidanza a causa della teratogenicità. Per le infezioni croniche da HEV di organi trapiantati è importante l’eliminazione del virus. Il primo passo è quello di ridurre la terapie di immunosoppressione, favorendo l’eliminazione del virus. Alcuni trattamenti proposti includono l’uso di interferone-α associato o meno alla ribavirina. L’utilizzo di interferone- α aumenta il rischio di rigetto nei trapianti di reni (Kamar 2012).

1.8 Distribuzione geografica e modalità di trasmissione

Il virus dell’epatite E è responsabile di un’epatite la quale può essere epidemica o sporadica e non mancano casi asintomatici. Il virus è endemico in diversi paesi come in Asia, Africa e America latina, ma ha la capacità di colpire tutte le aree mondiali. Possono essere distinti due profili epidemiologici: uno che descrive le grandi epidemie nei Paesi in via di sviluppo, causate prevalentemente dai genotipi 1 e 2, e uno tipico di pochi casi sintomatici e asintomatici causati prevalentemente dai genotipi 3 e 4, caratteristica di Paesi più industrializzati. Considerando i quattro genotipi del genere Hepevirus è stata individuata una distribuzione geografica:

 Genotipo 1: isolato nelle zone tropicali, molto frequente in Asia e Africa  Genotipo 2: ritrovato in Messico e in alcuni casi sporadici in Africa

 Genotipo 3: è quello più a larga diffusione, si ritrova nell’uomo e in animali di tutto il mondo, (rispetto agli altri genotipi è quello trovato più frequentemente in Europa e America del nord)

 Genotipo 4: si trova comunemente nel Sud Est Asiatico, maggiormente in Cina, Tailandia e Giappone, ma è stato isolato anche nei maiali in Europa

Il riferimento ad una distribuzione geografica, intende una prevalenza del genotipo di HEV nell’area in questione, ma ciò non significa che il virus sia limitato in quella zona. È stata dimostrata anche una correlazione tra genotipo e modalità di trasmissione del virus all’uomo: i genotipi 1 e 2 sono stati ritrovati solo nell’uomo, la trasmissione sembra avvenire prevalentemente

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per via oro-fecale e da contaminazione delle acque tipica delle aree in via di sviluppo, mentre con i ceppi 3 e 4 si ha una trasmissione prevalentemente attraverso l’ingestione di cibi non cotti provenienti da animali infetti: si parla di zoonosi emergente responsabile della presenza della malattia nei paesi dove essa non è endemica, specialmente in Paesi Industrializzati.

Ad oggi la distribuzione geografica dei genotipi di HEV è complessa e in continua evoluzione: l’elevato numero di persone che viaggiano in aree endemiche con l’aggiunta dell’ampio flusso migratorio delle persone provenienti dalle aree endemiche in quelle non-endemiche come l’Europa, porterà cambiamenti nel quadro epidemiologico dell’epatite E (Romanò 2011; La Rosa

2011).

Caratteristiche cliniche ed epidemiologiche dell’infezione di HEV correlate al genotipo

Caratteristiche Genotipo 1 and 2

(Epidemie)

Genotipo 3 and 4 (Casi autoctoni) Distribuzione geografica Paesi in via di sviluppo Sia nei Paesi in via di sviluppo

sia nei Paesi industrializzati

Modalità di diffusione Epidemica e sporadica Sporadica

Spettro d’ospite Uomo Maiale e uomo (ospite

accidentale)

Principale modalità di trasmissione all’uomo

Orofecale, contaminazione

delle acque Alimentazione

Presenza di ittero Alta percentuale Bassa percentuale

Distribuzione per età Maggiormente adolescenti e

giovani adulti Maggiormente anziani

Distribuzione per sesso Percentuale di malattia simile

tra maschi e femmine

Percentuale di malattia più elevata nei maschi

Mortalità Elevata nelle donne in

gravidanza Elevata negli anziani

Manifestazioni

extraepatiche Rare Complicazioni neurologiche

Infezioni croniche No Comune in soggetti

immunocompromessi

Terapia Non necessaria Ribavirina, peginterferone

(sperimentale)

Prevenzione Vaccino* Vaccino*

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HEV nei Paesi in via di sviluppo

L’infezione da HEV è uno dei problemi maggiori di salute nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto laddove vengono meno le condizioni igieniche. La prima epidemia associata ad HEV, che avvenne negli anni ’50, determinò 29300 casi di malattia, ma a seguire ce ne furono altre, in Cina e India, che colpirono un maggior numero di persone. Il genotipo responsabile di queste epidemie, scoperto negli anni ’90 è principalmente il genotipo 1, ma se ne verificarono altre, come quelle avvenute in Africa e Messico delle quali il responsabile è il genotipo 2; casi sporadici verificatisi in Asia sono stati attribuiti al genotipo 4. La trasmissione del virus avviene principalmente attraverso via oro-fecale e contaminazione delle acque, ed è favorita dalla mancanza di condizioni igienico-sanitarie adeguate. La trasmissione oro-fecale fu dimostrata per la prima volta da Balayan, virologo russo, e collaboratori, i quali descrissero la modalità di trasmissione in seguito all’infezione di Balayan stesso, tramite ingestione di una sospensione orale derivante da feci infette di un paziente asiatico (Purcell 2008). Le epidemie, nei Paesi in via di sviluppo, si presentano principalmente in seguito a eventi atmosferici, quali grandi piogge e/o alluvioni che implicano maggior probabilità di contaminazione fecale delle acque.

Proprio in queste aree endemiche, anche se le cause non sono note, è elevata la morte di donne in gravidanza infette dal genotipo 1, causata da epatite fulminante nell’81% dei casi, e più di un quarto delle donne colpite ha complicanze, come la rottura prematura della membrana o una diminuzione della crescita intrauterina. Durante il terzo mese può verificarsi una trasmissione verticale madre figlio, con conseguente morte del feto. Sempre in queste aree, inspiegabilmente, si ha elevata mortalità anche in bambini con età inferiore a due anni (Teshale 2010). Casi di epatite sembrano colpire maggiormente gli uomini con età compresa tra i 15 e 35 anni. Durante le epidemie si osserva che il numero dei casi asintomatici è circa 2-4 volte maggiore dei casi sintomatici. (Kamar 2012)

HEV nei Paesi Industrializzati

Agli inizi degli studi si pensava che i rari casi di epatite E registrati nei Paesi industrializzati, fossero dovuti a viaggi delle persone affette in zone endemiche. Quando la frequenza aumentò anche in aree non endemiche, si capì che i viaggi non potevano essere il motivo scatenante la malattia, anche perché nelle aree sviluppate, sempre più frequenti erano casi di individui infetti che non avevano recentemente viaggiato in aree endemiche (Aggarwal 2011). Da studi successivi, inoltre, si stabilì che i ceppi che colpivano i soggetti che abitavano nei Paesi industrializzati,

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19

appartenevano a ceppi isolati e geneticamente diversi da quelli presenti nelle aree endemiche. Con il passare degli anni sono state accumulate prove che suggeriscono che l’HEV è responsabile di casi sporadici di epatite sempre più frequenti nei Paesi Industrializzati.

La presenza del virus nei Paesi sviluppati fu dimostrato da Clemente-Casares e collaboratori nel 2003, i quali analizzarono acque reflue di città spagnole, Madrid e Barcellona, individuando ceppi di HEV responsabili di casi d’infezione di epatite E clinici e subclinici. Dati analoghi furono ottenuti anche in seguito all’analisi di campioni ottenuti da maiali di diverse fattorie, indicando una possibile trasmissione all’uomo nell’assunzione di queste carni (Clemente-Casares 2003). Nei Paesi industrializzati, la malattia è causata prevalentemente dai genotipi 3 e 4, è auto-limitante e scompare nel giro di 4-6 settimane. Con i genotipi 3 e 4 non si evidenzia un’elevata mortalità delle donne in gravidanza, come con il genotipo 1 dei Paesi in via di sviluppo, ma possono essere soggette, comunque, a diverse complicazioni. Nei Paesi industrializzati, a differenza di quelli in via di sviluppo, l’infezione in forma sintomatica si manifesta soprattutto in individui di mezza età e anziani, in particolare in persone che fanno abuso di alcol, forse perché sono ad un più alto rischio di steatosi epatica (Kamar 2012).

Il genotipo più frequente è il 3, ma non mancano casi di epatite provocati dal genotipo 4; proprio la presenza di questi due genotipi fecero pensare a zoonosi, come modalità di trasmissione a soggetti abitanti in Paesi Industrializzati, perché erano gli stessi genotipi responsabili di epatite E negli animali (Corman 2012). La trasmissione animale-uomo è confermata anche dal ritrovamento di ceppi umani di HEV nelle feci di suini domestici, viventi a stretto contatto con persone infette; il tutto è convalidato dalla scoperta della capacità di HEV di saltare le barriere di specie: uomo/primati, pollame/tacchino, suino/primati, suino/uomo (Ref 1 sitografia, Caprioli 2005,

Halbur 2001, He 2002).

In Francia (2001-02), nell’area Midi-Pyrenees, in pazienti con epatite acuta, si è rilevata la presenza di IgG anti-HEV nel 10% dei campioni esaminati (in un altro 3.9% l’esito è risultato dubbio). La PCR e l’analisi filogenetica hanno portato a concludere per l’esistenza di un ceppo, apparentemente al genotipo 3, circolante in quest’area geografica. Riscontri analoghi si sono avuti negli U.S.A. (Meng 1998), in Olanda (Van der Poel 2001), in Spagna (Pina 2000), in Cina (Li

2006), in Italia (Zanetti 1994, Ref 1 sitografia). Le analisi fatte su individui mediante la

rilevazione di IgG anti-HEV, mostrano che si ha una maggior possibilità di contagio negli individui che sono a contatto con maiali, includendo veterinari, contadini e lavoratori agricoli. Il primo ceppo animale di HEV fu identificato e caratterizzato negli USA (1997) e venne denominato “HEV suino”: questo apparteneva al genotipo 3 e presentava omologia di sequenza

(20)

20

con ceppi ritrovati nell’uomo. La stessa correlazione non era riscontrabile, invece, tra i genotipi di HEV ricavati da maiali e umani in India, suggerendo che in questa area la trasmissione del virus all’uomo, da parte degli animali, aveva un ruolo minore. I virus che colpiscono gli animali causano infezioni prevalentemente subcliniche, ma a causa della variabilità e dalle condizioni dell’ospite, possono causare casi di epatite più violenti. Nei suini l’infezione non è ristretta ad aree geografiche e, in seguito alla sua identificazione in America, è stato ritrovato in Gran Bretagna, Olanda, Cina, Nepal, Corea e Canada, indicando appunto una distribuzione a livello mondiale (Ref

1 sitografia). Nel 2002 fu condotto uno studio da Meng e collaboratori, per valutare il tasso

d’infezione in veterinari e in persone che lavoravano a stretto contatto con maiali in USA. Nello studio, le percentuali ottenute da tali soggetti positivi alle IgG anti-HEV furono confrontati con i donatori di sangue positivi in quella zona, e fu osservato che il tasso di positività dei veterinari era più alto dei donatori di sangue, suggerendo un maggior rischio di infezione da HEV causata dalla possibile trasmissione maiale-uomo (Meng 2002).

La modalità più diffusa d’infezione nei Paesi industrializzati, è l’ingestione di carni poco cotte di animali infetti. In Giappone, tra il 2001 e 2002 furono osservati 29 casi sporadici di epatite E, 9 dei quali avevano assunto carni poco cotte, in particolare derivanti dal fegato di maiale. Il fegato era stato acquistato in un supermercato, in cui le analisi fatte mostrarono che il 2% dei campioni testati erano positivi per l’HEV(Teo 2009). Nel 2010, Colson e collaboratori, analizzarono salsicce tipiche della Corsica, chiamate Figatelli, prodotti a partire dal fegato di maiale. Queste salsicce possono essere degustate crude, affumicate o stagionate e proprio per questo motivo furono esaminati per valutare la possibilità di infezione da HEV. A seguito dell’analisi tramite PCR sui figatelli, fu possibile attribuire l’alta frequenza di epatite E nel sud della Francia per l’elevato consumo di salsicce infette, rappresentando così un problema di salute pubblica (Colson 2010). In Nepal, è stata dimostrata una stretta correlazione tra i virus umani e quelli dei roditori (95% di omologia nucleotidica e 98% di omologia amminoacidica, (He 2002)) per cui si ipotizza che un ulteriore serbatotio di infezione possa essere rappresentato dai roditori anche nei paesi a bassa endemia (Ref 1 sitografia).

Da alcuni anni è stato rilevato un ceppo virale di HEV in pollame allevato. La scoperta è avvenuta negli U.S.A., dove il virus causa nel pollame la Sindrome epato-splenomegalica (HS syndrome) ed in seguito a caratterizzazione, è stato classificato come un nuovo genere che si distingue da quello che colpisce i mammiferi. È stato dimostrato che anche il ceppo aviario ha la capacità di saltare la barriera di specie, poiché sono stati osservati casi di infezione nel tacchino. (Ref 1

(21)

21

I dati sulla sieroprevalenza nelle aree industrializzate sono riportate nella seguente tabella:

Paese Sieroprevalenza/anno Popolazione Riferimento

USA 16% (2012) Blood donors Xu C. 2013

England 16% (2008) Blood donors Dalton 2008

France (South) 16,6% (2008) Blood donors Mansuy 2008

France (Northern regions)

3.2% (2007) Blood donors Boutrouille 2007

Denmark 20,6% (2008) Blood donors Christensen 2008

Germania 14-15% Blood donors Adlhoch 2009,

Krumbholz, 2011

Italia 1-5 % 1994 Blood donors Zanetti 1994

Switzerland 4,9% (2009-2010) Blood donors Kaufmann et al 2011

China 32,6%(2010) Blood donors Guo 2010

Japan 3,7 % (2002-2003) Total

population

Fukuda 2004

1.9

Prevenzione

Le vie per prevenire l’infezione dell’HEV sono essenzialmente due: è possibile ridurre l’esposizione al virus e indurre l’immunità attraverso la vaccinazione. La strategia più usata nei Paesi in via di sviluppo per ridurre l’esposizione al virus, consiste nel migliorare le infrastrutture sanitarie e fornire acqua potabile pulita, sfavorendo così la trasmissione del virus. La prevenzione nei paesi industrializzati, invece, è più complessa in quanto esistono già adeguati sistemi igienico sanitari quindi le modalità d’infezione sono altre, alcune delle quali non sono tutt’oggi completamente comprese. Alcuni approcci per la prevenzioni in tali paesi prevedono che i prodotti a base di carne siano ben cotti, che siano adottate misure adeguate durante la manipolazione di carne cruda e che sia garantito il corretto smaltimento delle feci di suino.

La prevenzione della trasmissione attraverso trasfusioni è possibile attraverso lo screening di sangue donato, anche se il suo costo paragonato all’efficacia deve essere ancora stabilito. Oggi la prevenzione per l’HEV attraverso la vaccinazione è una possibilità reale. Sono presenti due vaccini in fase clinica contro l’HEV. Il primo vaccino è una proteina di 56 KDa, codificata da

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22

ORF2 di HEV, espressa in cellule di insetto. Uno studio condotto in Nepal (fase 2 ), ha visto coinvolti militari di sesso maschile dove non erano osservabili anticorpi anti-HEV: sono stati sottoposti a ricevere tre dosi di 20 µg del vaccino (56KDa) o placebo, a 0, 1 e 6 mesi, analizzati e studiati poi per un totale di 804 giorni. Il vaccino è stato ben tollerato e altamente immunogenico, con il 95,5% di efficacia contro l’epatite E. La sicurezza e efficacia del vaccino nelle donne non è ancora stata stabilita.

Il secondo vaccino, HEV 239, è una proteina di 26 KDa codificata da ORF2 di HEV. Il vaccino è espresso in E. coli e si presenta come particella di 23 nm di diametro, simile a un virus. In uno studio in fase 2, condotto su adulti sieronegativi, risulta essere sicuro e immunogenico e conferisce protezione da HEV con un’efficacia dell’83%. In un altro studio in fase 3, in Cina orientale, i partecipanti sono stati scelti a caso a ricevere o tre iniezioni intramuscolari di HEV 239 a 0, 1 e 6 mesi, o un placebo, ossia un vaccino contro l’epatite B, e sono stati osservati per verificare la comparsa di epatite cronica per 19 mesi. Il vaccino è stato ben tollerato ed è efficace contro l’epatite E con una percentuale del 100%. Per tale motivo, il vaccino HEV239 è stato approvato per l’uso dalle Autorità Regolatorie cinesi. Non è chiaro se e quando sarà approvato e disponibile anche in altri paesi. Quando saranno disponibili i vaccini, sarà più utile nei Paesi in via di sviluppo, dove il virus è endemico. Tuttavia, non è chiaro come verrà finanziato tale programma di vaccinazione, perché alcuni dei paesi più bisognosi della vaccinazione sono i più poveri al mondo. Nei paesi sviluppati la vaccinazione potrebbe essere utile per quei gruppi di persone ad alto rischio, come i pazienti immunosoppressi e quelli con epatite cronica, oltre ai soggetti che intendono recarsi in zone endemiche. Si pensa anche ad una vaccinazione suina solo laddove sia economicamente favorevole (Kamar 2012).

1.10 Trasmissione attraverso trasfusioni e derivati del sangue

Il rischio di trasmissione tramite trasfusioni è tutt’altro che trascurabile considerando che:

nella maggior parte dei casi l’infezione ha un decorso asintomatico

 anche quando il decorso è sintomatico la viremia inizia durante la fase asintomatica  ad oggi non è previsto uno screening delle donazioni per il virus HEV.

Studi retrospettivi hanno dimostrato l’effettiva trasmissione attraverso trasfusioni di sangue o di suoi componenti preparati a livello non industriale sia in paesi a elevata endemicità (Khuro et al.

2004), sia in paesi dove si osserva una bassa prevalenza. In particolare sono stati riportati casi

accertati di trasmissione attraverso trasfusione in Giappone (Matsubayashi 2004, Matsubayashi

(23)

23

analisi del ricevente e donatore. Il primo caso di trasmissione tramite trasfusione risale al 2004 in Hokkaido, Giappone, quando Matsubayashi e collaboratori riportarono un caso di epatite E in un paziente maschio che aveva ricevuto trasfusione di sangue da 23 donatori volontari, durante un’operazione di chirurgia a cuore aperto. Il paziente non aveva viaggiato in aree endemiche di recente, ma risultò positivo all’HEV in seguito alla trasfusione. Attraverso indagini successive, uno dei donatori risultò positivo ai test per HEV, nonostante fosse asintomatico e abitante di uno stato dove il virus non era endemico. Attraverso amplificazione, fu possibile identificare il genotipo 4 come ceppo responsabile di quel caso di epatite a seguito della trasfusione (Matsubayashi 2004).

Questo fatto suscitò grande interesse ed in seguito aumentarono gli studi per implementare la rilevazione del virus dell’epatite E nel plasma. Sono riportati anche casi in cui la trasmissione tramite trasfusione rimane ancora un’ipotesi perché non è stata confermata dalla rilevazione di HEV nel donatore.

Dal momento che l’infezione nella maggior parte dei casi è asintomatica o ha un decorso subclinico, è possibile che molti casi rimangano non diagnosticati. La trasmissione attraverso sangue rappresenta un problema di salute pubblica non trascurabile perché, anche se nella maggior parte dei casi la malattia ha un decorso benigno, si possono verificare casi di epatite grave e fulminante con elevati tassi di mortalità in pazienti immunocompromessi (naturalmente od in seguito a terapie immunosoppressive), pazienti con precedenti danni epatici, donne in gravidanza e per tali soggetti trattamenti ematologici di supporto a base di sangue o componenti del sangue rappresentano un trattamento comune (si stima che in UK il 75% del sangue/componenti del sangue sono somministrati a queste categorie di pazienti (Liaz 2012).

Ad oggi non si hanno evidenze di trasmissione di HEV dall’utilizzo di plasma derivati costituiti da proteine purificate dal plasma quali albumina, immunoglobuline, fattori della coagulazione. Questi farmaci vengono prodotti mediante processi che prevedono step specificamente designati all’inattivazione o rimozione di virus (trattamento al calore o a pH acido, nanofiltrazioni) e step che non sono specifici per la clearance virale, ma che possono comunque contribuire alla inattivazione virale (metodiche di purificazione tramite cromatografia e precipitazione differenziale), per cui tali procedure costituiscono probabilmente una efficace barriera alla possibilità di trasmissione di HEV (Kumar 2013). Per un particolare prodotto derivante dal plasma, costituito dal plasma stesso trattato con agenti chimici (Triton X-100 e TnBP) per l’inattivazione di virus con envelope, è stato valutato che il rischio di trasmissione di HEV sia maggiore in quanto:

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24

 il processo produttivo è molto semplice e non ci sono step in grado di assicurare la clearance di virus non rivestiti

 inserire nel processo produttivo step specifici per la clearance di virus senza envelope, (ad esempio nanofiltrazione) risulta ad oggi impossibile visto che il plasma ha una composizione complessa e tali misure comporterebbero alterazioni biochimiche del farmaco stesso

 ad oggi mancano studi che quantifichino la capacità neutralizzante di Ab anti HEV eventualmente presenti

Per tali motivi, a garanzia della sicurezza del prodotto per la trasmissione di HEV, è risultato necessario introdurre un test di screening sul materiale di partenza del processo industriale, costituito da pool di plasma. E’ previsto che il test verrà inserito nella monografia di Farmacopea Europea per il plasma trattato solvente/deteregente a Gennaio 2015.

1.11 Plasma trattato solvente detergente

Il plasma ha una composizione complessa: dal 2002 l’human Proteome Organisation-Plasma Proteome Project ha iniziato ad analizzarlo allo scopo di costituire un database di proteine da rendere disponibile al pubblico (attualmente ne contiene oltre 3000). L’efficacia terapeutica del plasma trattato S/D è determinata da proteine in grado di resistere al trattamento SD. Nel 1986-87 l’americano Horowits propose una metodica di trattamento con solvente/detergente all’azienda svizzera Octapharma, la quale accettò di finanziare la sua attività. Tre anni dopo lo scienziato consegnò le specifiche del processo produttivo a Octapharma, la quale mise a punto un processo produttivo utilizzabile su scala industriale. Il brevetto fu poi concesso da Octapharma nel 1992 al “Centre regional de trabsfusion sanguine” di bordeaux (Francia), qualche anno dopo al “National bioproducts Institute” di Pinetown (Sud Africa) e nel 2005 all’azienda Kedrion Biopharma (Italia). Attualmente è la metodica industriale più diffusa, maggiormente validata e più robusta per il trattamento virucida dei farmaci plasma-derivati.

La tecnica del solvente/detergente si basa sull’azione combinata di due composti chimici:

 Tri-nitrobutil-fosfato, indicato con TNBP, solvente organico che rimuove i lipidi dalle membrane dei patogeni.

 Poliossietilene-p-t-octilfenolo, indicato con Triton X-100 o Octoxinol 10, detergente anionico che stabilizza il TNBP e distrugge i doppi strati lipidici delle membrane, facilitando l’estrazione dei lipidi stessi.

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25

Il processo produttivo del plasma trattato solvente/detergente, viene descritto nel flowsheet indicato di seguito:

Il trattamento S/D è molto efficace verso virus con rivestimento lipidico, quali HBV, HCV e HIV, ma non agisce su virus privi di rivestimento quali HAV (virus dell’epatite A) e il Parvovirus B19. La sicurezza virale nei confronti di questi due virus viene comunque garantita da screening sui donatori e sui pool di plasma iniziali e dalla presenza di anticorpi neutralizzanti.

1.12 Validazioni metodi NAT per la ricerca genomi virali secondo

Farmacopea

La produzione di farmaci destinati alla registrazione in Europa ed i test utilizzati per il controllo della qualità dei farmaci stessi, devono seguire le normative indicate dalla Farmacopea Europea. Il

Cromatografia

Aggiunta di glicina 0.5% w/w

Plasma tratta S/D soluzione bulk Filtrazione sterilizzante

Plasma fresco congelato

Pooling e scongelo

Aggiunta di NaH2PO4·2H2O

Filtrazione 1µm

Trattamento Solvente/detergente (1%TnBP, 1%Octoxinol 10, 30°C, 4 ore)

Aggiunta di Castor oil e separazione di fase

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metodo NAT scelto per la rilevazione di HEV RNA nei pool di plasma destinati alla produzione di plasma trattato S/D è stato quindi validato in accordo a quanto richiesto dalla Farmacopea Europea (sezione 2.6.21) e seguendo i principi generali della linea guida ICH Q2B (Validation of Analitical Methods).

La convalida di un metodo analitico è il processo attraverso il quale si stabilisce, per mezzo di studi di laboratorio, se un metodo di analisi presenta caratteristiche di efficienza tali da soddisfare i requisiti previsti per le applicazioni specifiche del metodo stesso. Nel caso in cui il test venga effettuato con kit commerciali, alcuni requisiti di validazione richiesti possono essere forniti dal produttore del kit.

Le caratteristiche più importanti da determinare per un un metodo NAT qualitativo, secondo le normative indicate sopra sono: specificità, detection limit e robustezza.

Specificità

Un test si definisce specifico se ha la capacità di misurare in maniera specifica l’analita in presenza di altri componenti, che possono essere presenti nella matrice del campione da esaminare e che possono eventualmente influenzare l’analisi stessa. La specificità per un test NAT rappresenta la capacità di rilevare in modo inequivocabile acidi nucleici del virus ricercato. La specificità dipende dalla scelta dei primer/probe e da quanto sono stringenti le condizioni scelte, ad esempio per la fase di amplificazione; i primer/probe devono permettere l’amplificazione di frammenti specifici e unici, tale caratteristica può essere ottenuta eseguendo indagini su banche dati. La specificità dovrebbe essere confermata tramite analisi degli ampliconi ottenuti (nested PCR, sequenziamento o analisi mediante enzimi di restrizione). Per validare la specificità della procedura analitica è richiesto inoltre che vengano testati almeno 100 campioni di plasma pool negativi per l’RNA di HEV (e confermati negativi con un altro metodo). La capacità della metodica di rilevare tutti i genotipi di HEV dipende ancora una volta dalla scelta dei primer/probe e dai parametri della metodica.

Detection limit

Il detection limit (LOD) di un metodo, detto anche limite di rilevazione, rappresenta la più piccola quantità di analita presente in un campione che può essere rilevata, ma non necessariamente quantificata, dal metodo utilizzato. Il limite di rilevazione delle metodiche NAT qualitative è definito come il numero minimo di unità target, in questo caso di HEV-RNA, per volume di campione rilevate nel 95% delle prove sostenute. Per la determinazione del detection limit devono essere analizzate diluizioni seriali di un campione a concentrazione nota (Standard) effettuando almeno tre serie di diluizioni indipendenti ed eseguendo un numero di replicati tale da avere

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27

almeno 24 determinazioni per ogni livello di concentrazione (ad esempio tre serie di diluizioni indipendenti con otto replicati per ciascuna diluizione). Il calcolo del detection limit deve essere poi effettuato con metodi statistici appropriati.

Robustezza

La robustezza di una metodica è definita come la capacità del metodo di non essere influenzato da piccole variazioni di alcuni dei suoi parametri operativi. Per le metodiche NAT piccole variazioni dei parametri posso essere cruciali; la robustezza del metodo può essere dimostrata durante il suo sviluppo quando sono testate piccole variazioni nelle concentrazioni dei reagenti. Per dimostrare che il metodo è robusto, almeno 20 campioni di plasma negativo a cui è stato aggiunto lo standard HEV-RNA a concentrazioni pari a tre volte il detection limit devono essere testati e trovati positivi. La possibilità di cross contaminazione deve essere valutata tramite un test effettuato su un pannello costituito da almeno 20 campioni alternando plasma pool negativi a plasma pool negativi a cui sia stato aggiunta una elevata quantità di standard (HEV RNA in quantità almeno 100 volte superiore al detection limit o in quantità di 10000 UI/ml).

2. Scopo della tesi

Recentemente è stata osservata una crescente diffusione del virus dell’Epatite E (HEV) non solo in paesi in via di sviluppo, ma anche in paesi in cui le buone condizioni igienico-sanitarie non farebbero pensare ad una elevata prevalenza; la trasmissione, specialmente nei paesi industrializzati, può avvenire tramite plasma contaminato. Sebbene ad oggi non risultino casi di trasmissione da plasma derivati, per un particolare prodotto, costituito da plasma trattato con solvente/detergente per l’inattivazione virale (efficace solo per virus con envelope), le autorità regolatorie hanno ritenuto necessario introdurre un controllo NAT per la ricerca di HEV sul pool di plasma che rappresenta il primo intermedio omogeneo di produzione. Tale necessità nasce dalla particolarità del prodotto suddetto, infatti:

 Il prodotto plasma S/D ha un processo produttivo molto semplice che non prevede step di purificazione che possano contribuire all’eliminazione di eventuali contaminanti costituiti da virus senza envelope, inoltre per preservare le caratteristiche del prodotto non è possibile inserire step efficaci per la clearance di virus non rivestiti, quali nanofiltrazione o trattamenti al calore

 Mancano dati scientifici riguardo al contributo neutralizzante di eventuali anticorpi presenti

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Lo scopo di questa tesi è stato quello di individuare, ed in seguito validare, una metodica NAT di tipo qualitativo, applicabile come test di screening sui pool di plasma destinati alla lavorazione per la produzione di plasma trattato solvente-detergente, in accordo a quanto proposto per la variazione della monografia del plasma trattato con solvente/detergente contenuta nella Farmacopea Europea.

L’internato di tesi è stato svolto presso l’azienda Kedrion Biopharma SpA, un’azienda farmaceutica specializzata nello sviluppo, produzione e distribuzione di plasma derivati. In questi anni l’azienda ha acquisito un ruolo di rilievo in Europa e nel mondo, e in Italia è diventata l’azienda di riferimento del Servizio Sanitario Nazionale per la produzione di farmaci plasma derivati.

3. MATERIALI E METODI

3.1 Materiali utilizzati

 1st

WHO International Standard per HEV-RNA (standard HEV) (WHO)

 5X Master Mix Quantitect Virus (QIAGEN)

 Acqua Nucleasi free (Applied Biosystem)

 Acqua RNasi free (Applied Biosystem)

 Buffer AC, AR, AB, AW1, AV2, AVE (Ultrasens®

) (QIAGEN)

 Buffer AL, AW2, AVE (MinElute®

) (QIAGEN)

 Buffer AVL, AW1, AW2, AVE (Viral) (QIAGEN)

 DMSO (SIGMA ALDRICH)

 EMEM (ATCC)

 Flask per colture cellulari (Falcon)

 Piastre da titolazione (Falcon)

 GeneAmp®

dNTP (Applied Biosystem)

 Inibitore di ribonucleasi (RNase OUT) (Invitrogen)  Kit QIAamp®

MinElute® Virus Spin (QIAGEN)

 Kit QIAamp®

Ultrasens® (QIAGEN)

 Kit QIAamp®

Viral RNA Mini kit (QIAGEN)

 Kit TNAI (Roche)

 Madin-Darby bovine Kidney (MDBK) (ATCC)

(29)

29

 Primer F/R per HEV (TIB MOLBIOL)

 Probe per BVDV marcata HEX/BHQ (TIB MOLBIOL)

 Probe per BVDV marcata JOE/BHQ (TIB MOLBIOL)

 Probe per HEV marcata FAM/BHQ (TIB MOLBIOL)

 Quantitech virus kit (QIAGEN)

 Real Star (Altona)

 SuperScrip®

III Reverse Trascriptase (Life Technologies)

 TaqMan 1000 Rx Gold buffer A (Life Technologies)

 Compression PAD (Applera)

 ABIPrism Optical Adhesive (Applera)

 Filtri da 0,2 µm (Millipore)

 TaqMan®

Fast Virus 1-step Master Mix: (Life Technologies)

 Piastre da 96 pozzetti per PCR (Applera)

 Virus BVDV (ATCC)

3.2 Strumentazione utilizzata

 ABIPrism 7900 HT SDS (Applera)

 Cappa di bio sicurezza di classe II (Steril VBH)

 Centrifuga da tavolo (Beckman Coulter)

 Congelatore -80°C (KW)

 Frigo/congelatore +4/-20°C (KW)

 Incubatori CO2 (Heracell 150i)

 Microscopio ottico (Zeiss, Meditech)

 Centrifuga per cellule (Beckman Coulter)

 Cobas TaqMan 48 (Roche)

 Cobas AmpliPrep (Roche)

 Rotorgene 6000 (Corbett)

 Vortex (IKA MS3)

 Termoblocco (Falc)

3.3 Condizioni adottate nella messa a punto della metodica NAT

Nella prima parte dello studio è stata messa a punto una metodica NAT in-house, la quale in un secondo momento è stata confrontata con un kit di amplificazione presente in commercio; è seguita poi la fase di validazione del metodo di scelta.

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