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VALUTAZIONE CARDIOPOLMONARE NELL'ALLENAMENTO CONTRO-RESISTENZA

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Capitolo 1

STORIA DELLA PESISTICA

«Fino all’apparizione delle armi da fuoco la forza costituì la principale risorsa dei combattenti, che su di essa facevano affidamento per sopravvivere» (Georges Lambert).

Se è vero che fin dalla notte dei tempi l’uomo ha corso e lottato per necessità o per gioco, è altrettanto vero che si è sempre compiaciuto della propria forza, esibendosi nelle prove più svariate e stravaganti: sollevare, sostenere, lanciare, tendere, piegare, spezzare, contrastare, spingere e trascinare, erano alcuni degli esercizi praticati.

Eccezionali esibizioni di forza sono testimoniate da tre iscrizioni del VI secolo a.C. su enormi blocchi di pietra: l’iscrizione di Olimpia si riferisce a Bybon, che con una mano lanciò sopra la testa un macigno di 143 chili; quella di Epidauro in Asia minore, che trasportò per un centinaio di metri un masso di 334 chili, e di Tera a Eumastas, capace di sollevare una pietra di 480 chili.

È inutile soffermarsi a contestare l’enormità di quei pesi, a elaborare interpretazioni ragionevoli di quelle scritte, ciò che conta è percepire l’idea di sovrumana potenza che Bybon, Ermodikos ed Eumastas trasmettevano ai loro contemporanei.

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Il sollevamento pesi, o pesistica, è una disciplina atletica nel quale i concorrenti tentano di sollevare pesi montati su un bilanciere d'acciaio [Urso 2013].

Per andare a trovare le origini storiche del sollevamento pesi dobbiamo risalire a tempi antichissimi, a oltre 4000 anni fa [Stone 2006].

Esempi di sfide e allenamenti di pesistica sono state trovate nella tomba del principe egiziano Baghti, risalenti approssimativamente al 2040 a.C., ma anche in scritture provenienti dall'antica Cina. Nell'antica Grecia i pesi venivano invece usati per migliorare e mantenere l'efficienza fisica dei propri guerrieri oltre che per le competizioni. Il padre della medicina scientifica, Ippocrate di Cos (V-IV secolo a.C.), elencò una serie di esercizi per mantenere sano il corpo, tra cui la lotta e i sollevamenti (anakinemata).

Anche il medioevo ci lascia tracce di gare imperniante sul sollevamento pesi, in cui il confronto avveniva di norma attraverso il sollevamento di grossi macigni [Urso 2013].

Da quei tempi a oggi le cose sono cambiate, e anche gli esercizi di forza hanno pian piano abbandonato il concetto di forza bruta, avvalendosi di altre capacità come la potenza, la velocità e la flessibilità [Stone 2006].

L'inizio del moderno sollevamento pesi si può individuare a metà del 1800, quando in Europa nascevano diverse associazioni dedite

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alla pesistica e all'allenamento con i sovraccarichi in generale, in particolare in Austria e Germania. In questo periodo la pesistica era anche un fenomeno circense: molti atleti infatti giravano le piazze e i circhi sollevando enormi pesi, spesso truccati (le cosiddette "marmitte"). Non mancavano comunque i veri campioni, come Louis Cyr, taglialegna che divenne celebre quando sollevò a 10 cm dal suolo con un solo dito un peso di 534 libbre (quasi 243 kg) [Urso 2013].

Il primo campionato mondiale di sollevamento pesi si svolse a Londra nel 1891 (con 11 esercizi validi per la classifica), e dopo di esso questo sport iniziò a prendere piede negli Stati Uniti.

Il sollevamento pesi maschile venne inserito sin dalla prima edizione delle Olimpiadi moderne (Atene 1896) come parte dell'atletica leggera, per entrare poi a far parte stabilmente del programma olimpico dall'edizione del 1920 ad Anversa. L'International Weightlifting Federation (IWF) venne istituita nel 1905 con sede a Budapest, e fu riconosciuta dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO) nel 1915 [Urso 2013].

Nel 1897 fu organizzato un torneo a cui presero parte i diversi college statunitensi dell’epoca (Harvard, Columbia, Amherst, Università del Minnesota e Dickinson), per stabilire chi era colui che avrebbe sviluppato maggior forza nei muscoli del dorso, delle gambe, delle braccia e del torace [McArdle 2009].

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Le prime competizioni di sollevamento pesi si svolgevano su un braccio, altre su due braccia. Dal 1928 in poi le gare si svolsero, invece, esclusivamente con esercizi a due braccia (distensione, strappo e slancio). Il problema tecnico comune a tutti gli esercizi che doveva e deve ancora oggi affrontare l'atleta, è quello di sollevare il peso a braccia tese sopra la testa, senza soluzione di continuità, così come recita il regolamento [Urso 2013].

Per poter aumentare i carichi, la tecnica del pesista si è evoluta negli anni per ridurre al minimo la traiettoria del bilanciere e fargli percorrere uno spazio minore, in modo da ridurre il lavoro. Ovviamente la diminuzione degli spazi comporta la necessità di produrre accelerazioni maggiori, per questo motivo il pesista moderno è tra gli atleti che nel suo gesto atletico produce una delle potenze più elevate [Urso 2013].

All'inizio infatti i pesisti erano dotati di enorme forza e di poca esplosività, a causa di una tecnica poco performante e di traiettorie molto più lunghe rispetto alle attuali. Le alzate venivano quindi eseguite principalmente in posizione eretta o attraverso una piccolissima flessione delle ginocchia.

Successivamente gli atleti iniziarono ad accorciare le traiettorie. Questo espediente veniva attuato negli esercizi di sollevamento ad un braccio, mentre negli esercizi a due braccia (girata, spinta dal petto e strappo) la necessità di accorciare la traiettoria veniva

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soddisfatta dalla tecnica della sforbiciata. Oggi questa tecnica viene utilizzata esclusivamente nella spinta dello slancio [Urso 2013].

Successivamente si diffuse sempre maggiormente la tecnica dello squat o accosciata [Urso 2013].

Un discorso a parte deve essere fatto per quel che riguarda l'esercizio della distensione lenta. L'esercizio di distensione venne praticato in gara per molti anni (dal 1928 al 1973). Prevedeva che si sollevasse il bilanciere a braccia tese sopra la testa, utilizzando la sola forza delle braccia e mantenendo le gambe estese (questo ovviamente dopo aver portato il bilanciere sulle spalle). Alle origini la distensione veniva eseguita rigidamente, in piedi, nella posizione di attenti, con il peso appoggiato sulle spalle e distendendo lentamente entrambe le braccia, posizione nota come military press.

Ben presto però ci si accorse che anche qui l'accorciamento della traiettoria avrebbe potuto produrre notevoli vantaggi. Alcuni atleti cominciarono quindi a proiettare le spalle indietro e il bacino in avanti durante l'estensione delle braccia. Questo movimento creava una traiettoria più vantaggiosa, inoltre permetteva di reclutare meglio il pettorale [Evangelista 2011].

Tuttavia sovraccaricava fortemente le colonna vertebrale, che veniva posta in una condizione di estrema lordosi, con elevato rischio di infortunio [Urso 2013].

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Questo esercizio ebbe poi un'ulteriore evoluzione tecnica. Il pesista partiva infatti con il bacino in retroversione e il torace cifotizzato. Al segnale del giudice di gara l'atleta eseguiva una repentina anteroversione del bacino ed un contemporaneo sollevamento della parta alta del busto, mentre estendeva con forza le braccia. Questo movimento creava una sorta di "onda d'urto", che si trasferiva dalla colonna vertebrale sino alle spalle e permetteva di imprimere un'accelerazione supplementare. Alcuni atleti raggiunsero una tale eccellenza in questa tecnica da arrivare a prestazioni molto vicine e, in alcuni casi, uguali a quella dell'esercizio dello slancio. Questo esercizio, divenuto ormai la brutta copia dello slancio, venne eliminato a partire dall'edizione dei Giochi Olimpici del 1972 a Monaco [Urso 2013].

Verso l'inizio del 1980 iniziò ad acquisire popolarità anche la pesistica femminile, soprattutto negli Stati Uniti e in Cina, tanto da organizzare il 1° campionato mondiale femminile di sollevamento pesi nel 1987 a Daytona Beach, Florida. La pesistica femminile venne inserita per la prima volta ai Giochi Olimpici nell'edizione Sydney 2000. Questo sport aveva ormai preso piede in una moltitudine di paesi, dove venivano organizzate gare di livello regionale, nazionale, internazionale e giovanili (12-20 anni).

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- lo "strappo", nel quale gli atleti devono sollevare il bilanciere sopra la loro testa, in un unico movimento in divaricata frontale o sagittale, con successivo ritorno in posizione eretta dove devono rimanere immobili per almeno 2 secondi e comunque fino all'ok da parte dei giudici. Tra quelle previste sia prima sia dopo il 1972, questa è la specialità che porta a sollevare pesi minori;

- lo "slancio", nel quale si porta prima il bilanciere all'altezza delle spalle (con un movimento detto "girata") in divaricata frontale o sagittale e riacquisto della posizione eretta; poi si solleva il peso al di sopra della testa con un movimento rapido detta spinta; come la girata la spinta si può effettuare in divaricata frontale o sagittale, dove il bilanciere viene portato sopra la testa con l'aiuto delle gambe e braccia, con successivo ritorno in posizione eretta dove devono rimanere immobili per almeno 2 secondi.

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Capitolo 2

ACSM: LINEE GUIDA PER L’ALLENAMENTO DELLA FORZA

L’allenamento contro resistenza, comunemente definito resistance

training, può essere praticato in diversi modi, con l’ausilio di vari

strumenti quali i pesi tradizionali (bilancieri e manubri), le macchine isotoniche come quelle che troviamo in tutte le palestre e gli esercizi a corpo libero a cui possono essere collegati degli elastici. La scelta tra le diverse metodologie e intensità del carico dipendono dall’atleta, dal suo livello fisico e mentale, dalla familiarità che ha con il movimento da eseguire e dagli obiettivi che si è prefissato. L'organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l'American College of Sports Medicine (ACSM) raccomandano almeno 150 minuti di attività fisica di intensità moderata (40-60% di massimo consumo di ossigeno o VO2 max), oppure 75 minuti di attività fisica ad intensità vigorosa (60- 85% del VO2 max) a settimana per gli adulti in buona salute, per mantenere o migliorare la salute [Batacan et al. 2017].

L’ACSM raccomanda lo svolgimento di almeno due allenamenti ogni settimana per la programmazione di un allenamento di forza, con serie da svolgere composte da 8-12 ripetizioni per adulti sani, mentre 10-15 per le persone fragili o anziane. Gli esercizi

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dovrebbero essere tra gli 8 e i 10, comprendenti tutti i maggiori gruppi muscolari [Wilmore 2005].

L’ACSM sottolinea anche l’importanza della progressione nell’allenamento contro resistenza, definendola come l’atto di avanzare verso un obiettivo specifico nel tempo finché questo non è stato raggiunto [Wilmore 2005]. Risulta evidente quindi come sia necessario avere una forte motivazione durante gli allenamenti. Per realizzare un programma di allenamento curato e dettagliato il più possibile, si devono definire oltre agli esercizi anche le metodologie con le quali si svolgono. Ovvero nel programmare le singole sedute o i cicli di allenamento per lo sviluppo della forza contro resistenza, dobbiamo considerare:

- Volume, cioè il numero di ripetizioni totali svolte. Se non consideriamo l’intensità del carico, cioè i kilogrammi del carico allenante, basta moltiplicare il numero delle serie svolte (es. 5) per il numero di ripetizioni eseguite ad ogni serie (es 12): 5 x 12 = 60. Altrimenti se consideriamo anche l’intensità del carico (es. 10 kg), si parla di tonnellaggio, ovvero: 5 x 12 x 10 kg = 600. In questo caso è evidente come il fattore carico sia determinante nel computo del volume dell’allenamento;

- Frequenza, intesa come frequenza settimanale, serve per definire quante sedute vengono fatte ogni settimana, considerando anche le possibili sedute extra svolte nell’arco della solita giornata;

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- Intensità, riferita alla quantità di carico utilizzato in relazione al massimale raggiunto dall’atleta. Calcolato il massimo carico raggiunto dall’atleta in una contrazione (1RM), si calcolano le varie percentuali (70%, 80%, 90%...) per realizzare il programma di allenamento;

- Recupero, cioè il tempo che deve passare tra una serie appena finita e la successiva che dovrà essere svolta. Il recupero incide direttamente sull’intensità del programma di allenamento, perché in questa fase vengono ripristinate le scorte di ATP e CP, con l’acido lattico accumulato precedentemente che viene metabolizzato dall’organismo. Generalmente con carichi leggeri si predilige un recupero basso anche se le ripetizioni delle singole serie sono un numero considerevole, mentre nel caso contrario (con carichi elevati) si preferisce un numero di ripetizioni più basso e un recupero più lungo tra le serie perché la fatica e la forza sviluppate sono maggiori, quindi si necessita di tempi più lunghi per il ripristino delle scorte energetiche.

Uno studio di Gilmar et al. ha analizzato gli effetti degli intervalli di riposo (1, 2, 3 o 5 minuti) tra i set per esercizi singoli e multi articolari con carichi quasi massimali [Gilmar et al. 2016]. Quindici

uomini si sono sottoposti a 8 sessioni di allenamento che prevedevano due esercizi: la pectoral machine (MCF) e la panca orizzontale con bilanciere (BP). Ogni esercizio è stato svolto per 5 serie, e ogni serie era composta da 3 ripetizioni. Sono stati poi

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analizzati i dati che hanno dimostrato che in entrambi gli esercizi si sono verificate riduzioni analoghe e progressive delle prestazioni di forza per tutti i protocolli di riposo lungo i 5 set. I risultati hanno indicato che per il MCF, il numero totale di ripetizioni significativamente più alto è stato completato per il protocollo con 2’ di recupero (p = 0.027), poi con 3’ (p = 0.001) e 5’ minuti (p = 0,001) rispetto al protocollo di 1 minuto. Per la BP, è stato completato un numero totale significativamente maggiore di ripetizioni per il protocollo con 3’ (p = 0.002) e 5’ di recupero (p = 0.001) rispetto al protocollo di 2 minuti e di 1 minuto. Lo studio evidenzia che per mantenere la migliore consistenza nelle prestazioni di forza, sono migliori gli intervalli di riposo di 2 minuti tra le serie per l'MCF e di 3/5 minuti per la BP. Pertanto, sembra che sia necessario un tempo di recupero più lungo per un esercizio multi articolare come la BP rispetto a un esercizio a una sola articolazione come l'MCF.

Le linee guida che suggerisce l’ACSM per l’allenamento di forza riguardano [American College of Sport Medicine 2000]:

- Intensità, intorno al 60-70% di 1RM per principianti e 80-100% di 1RM per atleti avanzati. Uno studio di Sabag et al. ha valutato l'effetto del simultaneo allenamento ad alta intensità (HIIT) e dell'allenamento di resistenza (RT) su forza e ipertrofia [Sabag et al. 2018]. I risultati hanno rivelato che rispetto alla sola RT, l’allenamento HIIT+RT concomitante ha portato a cambiamenti

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simili nell'ipertrofia muscolare della parte superiore del corpo, seppur abbia determinato un aumento della forza inferiore. I dati suggeriscono che HIIT e RT concomitanti non hanno un impatto negativo sull'ipertrofia o sulla forza della parte superiore del corpo. Anche se non sviluppano queste capacità quanto fanno gli allenamenti specifici, si può dire che HIIT e RT concomitanti possono rappresentare un allenamento di partenza pre-specializzazione di una delle due capacità (ipertrofia o forza), un allenamento intermedio tra due programmi distinti per dare stimoli nuovi ai muscoli (principio della variabilità del carico) [Weineck 2009], oppure un allenamento di mantenimento delle capacità di prestazione raggiunte.

- Volume, di 1-3 serie da 8-12 ripetizioni per principianti e 2-6 serie da 1-8 ripetizioni per atleti avanzati. In uno studio Bartolomei et al. hanno confrontato in uomini allenati le risposte fisiologiche indotte tra due diversi protocolli di allenamento: uno ad alto volume (HV) composto da 8 serie da 10 ripetizioni, ed un altro ad alta intensità (HI) con 8 serie da 3 ripetizioni [Bartolomei et al. 2016]. Sono state valutate le seguenti prestazioni: salto contro movimento (CMJP), estensione isocinetica della gamba (ISOK), estensione isometrica della gamba (MVIC), isometrica a metà coscia (IMTP) e isometrica in posizione di squat (ISQ). I risultati hanno dimostrato che si sono verificate riduzioni significativamente maggiori nel caso dell’allenamento ad alto volume HV sia per CMJP (p <0,001), sia

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ISOK (p = 0,003), sia MVIC (p = 0,008) rispetto all’allenamento ad alta intensità HI. L’allenamento HV a intensità moderata con intervalli di riposo brevi, coerente con i programmi di allenamento basati sull'ipertrofia, ha portato a un decremento di forza e potenza maggiore rispetto a una sessione di esercizi focalizzata sullo sviluppo della forza, caratterizzata da carichi di lavoro HI e intervalli di riposo più lunghi.

- Recupero, di 2-3 minuti per gli esercizi che richiedono un’intensità maggiore di sforzo muscolare, o di 1-2 minuti per gli esercizi con carichi più bassi.

Anche nello studio di McKendry et al. è stato valutato il tempo di recupero: gli scienziati che lo hanno eseguito si sono chiesti se il breve tempo di recupero può promuovere una risposta anabolica del muscolo migliore rispetto a tempi di recupero più lunghi [McKendry et al. 2016]. 16 maschi hanno completato quattro serie di

esercizi bipodalici alla pressa e alla leg extention al 75% della massima ripetizione, seguita dall'ingestione di 25 g di proteine del siero del latte. I set di esercizi di resistenza erano intervallati da 1 min (n = 8) o 5 min di riposo passivo (n = 8). Le biopsie muscolari sono state ottenute a riposo dopo 0, 4, 24 e 28 ore post-esercizio per determinare la sintesi proteica miofibrillare. I dati ottenuti rivelano che il tasso di sintesi proteica miofibrillare è aumentato al di sopra dei valori di riposo da 0 a 4 ore post-esercizio sia con 1’ di recupero (P = 0,047) che con 5’ di recupero (P <0,001), ed era

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significativamente maggiore nel gruppo col riposo più lungo (P = 0,001). La velocità di sintesi delle proteine miofibrillari era indistinguibile a 24 e 28 ore post-esercizio ed è rimasta elevata sopra i valori di riposo (P <0,05). Il testosterone sierico è stato maggiore a 20-40 minuti post-esercizio e il lattato plasmatico è risultato maggiore nel post-esercizio con 1’ di recupero piuttosto che nell’altro. A causa dell'attivazione cellulare compromessa, l'esercizio di resistenza con breve durata del riposo (1 min) ha attenuato la sintesi proteica miofibrillare durante il periodo di recupero post-esercizio rispetto a una durata di riposo più lunga (5 min). Il recupero più corto grazie all’intensità maggiore, testimoniata anche dai valori più elevati di lattato plasmatico rispetto al recupero più lungo, favorisce anche una produzione più alta di testosterone.

In letteratura si trovano molti studi e sperimentazioni in cui sono stati analizzati gli effetti dell’allenamento della forza. Ogni sperimentazione ha sviluppato un programma proprio, con metodi e obiettivi diversi dagli altri.

Lo studio condotto da Kennedy e Rodney a cui hanno partecipato 17 giocatori di rugby tra i 19 e i 22 anni, ha misurato dopo l’allenamento di forza il salto contro movimento (CMJ) e la prestazione massima isometrica dello squat (MVC) al basale, immediatamente dopo la seduta e dopo 48 ore di riposo [Kennedy et al. 2016].

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I risultati hanno indicato che immediatamente post esercizio la diminuzione della prestazione massima isometrica MVC è maggiore o paragonabile alle diminuzioni riscontrate nel salto contro movimento CMJ.

48 ore post esercizio invece MCV aveva dimostrato un completo recupero, mentre molte delle principali variabili per CMJ erano ancora compromesse (p ≤ 0,05).

Dai risultati sembra che per recuperare l’espressione massima dell’isometria nella posizione di squat si necessiti di un tempo minore rispetto al salto contro movimento, dove è richiesto un impegno di un numero maggiore di muscoli oltre alla coordinazione del gesto.

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Capitolo 3

SISTEMA MUSCOLARE E METABOLISMO

In anatomia si distinguono tre tipi di muscolatura: - Scheletrica;

- Cardiaca; - Liscia.

Di questi solo i muscoli scheletrici si possono controllare volontariamente, e grazie al loro collegamento con lo scheletro ne permettono il suo movimento nello spazio. I muscoli volontari nel nostro corpo sono più di 660 e si possono distinguere per la forma (lunghi, corti, larghi, circolari), per la topografia (cutanei o scheletrici) e per l’azione che compiono (flessori/estensori, adduttori / abduttori, pronatori/ supinatori, intraruotatori / extraruotatori).

Tutti i muscoli, però, presentano la caratteristica comune di essere composti da due parti ben distinte: il ventre muscolare (parte carnosa, rossa) che rappresenta la parte contrattile, e il tendine (bianco splendente) che serve a collegare il muscolo all’osso in punti ben precisi [Gesi 2009].

Al contrario, il muscolo liscio e il muscolo cardiaco, pur mantenendo alcune delle caratteristiche del muscolo scheletrico, non sono

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controllati direttamente dalla coscienza, ed esplicano le loro attività grazie agli aggiustamenti indotti dal sistema endocrino e nervoso in risposta a stimoli esterni o interni [Wilmore 2005].

In qualsiasi muscolo scheletrico sono presenti fibre muscolari che possono essere di due tipologie, in relazione alla morfologia e alla funzionalità: questi due tipi di fibra sono la slow-twich (a scossa lenta) e la fast-twich (a scossa rapida).

Le fibre a scossa rapida vengono ulteriormente differenziate in tre sottotipi, dei quali però non conosciamo in maniera certa caratteristiche ancora più specifiche [Weineck 2009].

La maggior parte dei muscoli è composta per circa il 50% di fibre a scossa lenta e il rimanente 50% dai tre tipi di fibra a scossa rapida, ad eccezione di alcuni muscoli, come ad esempio il soleo, composto quasi esclusivamente da fibre lente [McArdle 2009].

Sul piano della pratica sportiva, le differenze tra le fibre si traducono in ruoli differenti che svolgono e i processi con i quali ricavano energia. In relazione al tipo e all’intensità dell’allenamento si può riscontrare un incremento di una tipologia rispetto all’altra.

Cap. 3.1 FIBRE ST: MORFOLOGIA E METABOLISMO

Le fibre ST sono sottili e prendono il colore rosso grazie all’alta concentrazione di mioglobina.

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La mioglobina è una proteina globulare che contiene ferro allo stato ferroso (Fe2+) simile all’emoglobina (Hb): le due si differenziano per la presenza di ferro (rispettivamente uno e quattro atomi).

La MHb può legarsi con una sola molecola di O2, essendo un monomero, secondo la seguente reazione:

MHb + O2  MHbO2

La mioglobina facilita il trasferimento di O2 ai mitocondri quando il fabbisogno energetico non può essere coperto dall’ossigeno ematico e la PO2 cala drasticamente come nel caso dell’inizio di un esercizio oppure nel caso in cui l’intensità dell’esercizio è elevata. Un altro fattore importante della mioglobina è l’insensibilità all’effetto Bohr, cioè non è sensibile alle modificazioni di PCO2, ph e temperatura [Paoli 2013].

Nelle fibre ST il rapporto citoplasma/mitocondrio è spostato in favore dei mitocondri, che sono di numero e dimensioni maggiori rispetto alle fibre FT.

In breve i mitocondri sono organuli coinvolti nelle reazioni energetiche, e si trovano nel citoplasma di tutte le cellule a metabolismo aerobico.

Hanno un proprio DNA (DNA-mitocondriale, DNAmt) e sono costituiti da due membrane caratterizzate da un doppio foglietto fosfolipidico: una interna che si estende nella matrice formando le

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creste che contengono le molecole cruciali per la produzione di ATP, e una esterna che separa i mitocondri dal resto della cellula [Luzi 2010].

La funzione principale dei mitocondri è quella di produzione di ATP a partire dai prodotti della glicolisi (piruvato e NADH), ma interviene anche nella regolazione del ciclo cellulare, regolazione dello stato redox della cellula, sintesi dell’eme, sintesi del colesterolo e produzione di calore.

Nella matrice si compiono il ciclo di Krebs e la beta-ossidazione, infatti nelle fibre ST troviamo più attività degli enzimi del ciclo di Krebs e di quelli deputati alla demolizione degli acidi grassi, a discapito degli enzimi glicolitici.

Le fibre di questo tipo possiedono un alto livello di attività aerobica, ovvero a bassa intensità ed alto volume, dovuta all’ossidazione di carboidrati e grassi.

Il sistema aerobico (o ossidativo) prevede una condizione nella quale viene utilizzato ossigeno per ossidare i substrati energetici e produrre ATP, attraverso la glicolisi aerobica e la fosforilazione ossidativa (ciclo di Krebs e catena di trasporto finale degli elettroni).

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20 Cap. 3.2 GLICOLISI AEROBICA

La glicolisi aerobica è il sistema in cui come prodotto finale viene ricavato l’acido piruvico che deve essere poi convertito in Acetyl-CoA, a partire dall’ossidazione completa dei gruppi acetilici dei soli carboidrati. Successivamente l’Acetyl-CoA così prodotto entrerà nel ciclo di Krebs.

La trasformazione e il passaggio dell’Acetyl-CoA dall’esterno all’interno del mitocondrio è regolata da un complesso di enzimi, la piruvato deidrogenasi (PDH), che prevede la conversione del piruvato con formazione di NADH, un potente cofattore essenziale per la formazione del gradiente protonico a livello del complesso ATP sintasi [Paoli 2013]:

Piruvato + NAD+ + CoASH  Acetil-CoA + NADH + H+ + CO 2

Il Piruvato, a sua volta, viene generato dalla conversione di una molecola di glucosio. In realtà, da una molecola di glucosio si riscontra la formazione di ben 2 molecole di piruvato [Paoli 2013]:

C6H12O6 + 2 NAD+ + 2 ADP + 2 P

2 NADH + 2 piruvato + 2 ATP + 2 H2O + 2 H+

Quindi nel ciclo di Krebs giungono 2 molecole di Acetyl-CoA per ogni molecola di glucosio. In questo ciclo (chiamato anche ciclo degli acidi tricarbossilici) una serie di reazioni biochimiche consente di

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ossidare completamente il coenzima CoA. Contemporaneamente vengono rimossi anche gli elettroni, che vengono trasferiti ai coenzimi NAD+ e FAD.

Il ciclo di Krebs è possibile riassumerlo brevemente con questa reazione [Paoli 2013]:

Acetyl-CoA + 3NAD+ + FAD + ADP + P + 2H 2O

3NADH + 3H+ + FADH

2 + ATP + CoA + 2CO2

I coenzimi ridotti (NADH e FADH2) vengono ossidati nella catena di trasporto degli elettroni (all’interno del mitocondrio) ed i loro elettroni vengono trasferiti all’ossigeno; questo provoca un movimento di protoni (H+) attraverso la membrana interna del mitocondrio che determina la creazione di una forza motrice necessaria alla fosforilazione dell’ADP in ATP.

A queste vanno aggiunte 2 molecole derivanti dal NADH + H+ extramitocondriale prodotto durante la glicolisi, e altre 2 ottenute come bilancio netto della glicolisi.

Risulta interessante notare come al termine della glicolisi aerobia si ottengono 19 molecole di ATP per ogni molecola di Acetyl-CoA ossidata. Poiché da una molecola di glucosio si ottengono 2 molecole del coenzima CoA, la reazione finale risulta [Paoli 2013]:

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22 Cap. 3.3 BETA-OSSIDAZIONE

Un altro sistema per la produzione dell’ATP è quello che riguarda l’ossidazione dei grassi. Questi vengono mobilitati e metabolizzati in modo superiore ai carboidrati quando si è in condizioni di riposo oppure sotto sforzo submassimale.

Le principali fonti di grasso sono introdotte con la dieta, mobilizzate dal tessuto adiposo oppure si trovano direttamente nel muscolo. La maggior parte degli acidi grassi proviene dalle prime due.

Il deposito e la mobilizzazione dal tessuto adiposo sono regolati dal controllo ormonale: l’insulina attiva l’enzima lipoproteinlipasi (LPL) presente sull’endotelio vascolare, che va a legarsi con le lipoproteine circolanti (VLDL, LDL, HDL). Una volta legate tra loro, la LPL idrolizza il legame tra acidi grassi e glicerolo, liberandoli dalle lipoproteine e consentendo così l’assunzione da parte delle cellule [Paoli 2013].

I grassi sono depositati nella cellula adiposa in forma di trigliceridi, cioè a una molecola di glicerolo si legano 3 molecole di acidi grassi liberi (FFA). Questa forma di deposito è vantaggiosa perché consente di immagazzinare i lipidi senza che ci sia presenza di acqua, e quindi in grande quantità.

Dopo un pasto l’insulina rilasciata inibisce l’enzima lipasi adipolitica, il cui compito è quello di idrolizzare il legame acidi grassi-glicerolo, e così facendo i grassi vengono immagazzinati nelle cellule. Durante

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l’attività fisica, invece, l’insulina è inibita dagli ormoni contro-insulari (catecolamine e glucocorticoidi), attivando di conseguenza l’azione della lipasi adipolitica e consentendo la liberazione dei grassi nel circolo [Paoli 2013].

Nel sangue gli acidi grassi circolano legati all’albumina, finché non vengono captati dal fegato, dove vengono utilizzati per la sintesi delle lipoproteine (VLDL, LDL, HDL).

Prima di entrare all’interno dei mitocondri, l’acido grasso deve essere attivato ad Acetyl-CoA, ovvero deve legare una molecola di CoA, grazie all’enzima acil-CoA sintetasi [Paoli 2013]:

Acile + CoASH + ATP → Acil-CoA + AMP + 2P + H2O

Per entrare nel mitocondrio, l’Acetyl-CoA appena formato richiede l’intervento di due enzimi, la Carnitina Acil Transferasi I (CAT I) e la Carnitina Acil Transferarsi II (CAT II).

A questo punto nei mitocondri della cellula si attiva la beta-ossidazione, il catabolismo degli acidi grassi al fine di produrre ATP. In questo processo, in cui è indispensabile la presenza di ossigeno, dal complesso FFA-CoA si staccano gli Acetyl-CoA terminali, per ottenere unità più piccole composte da 2 atomi di carbonio di acido acetico.

Il ciclo si ripete più volte, finché non si esauriscono gli atomi di carbonio (processo della spirale di ossidazione degli acidi grassi) [Weineck 2009]. L’acido grasso per eccellenza è l’acido palmitico che

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possiede 16 atomi di carbonio. In questo caso il ciclo della beta-ossidazione si ripete 7 volte. Durante ogni ciclo di beta-beta-ossidazione vengono prodotte una molecola di FADH2 e una coppia di elettroni, che entra nella catena respiratoria.

Da questo punto in poi il metabolismo dei grassi segue la stessa strada della glicolisi aerobica: l’Acetyl-CoA entra nel ciclo di Krebs e successivamente avverrà il trasporto finale degli elettroni.

La resa energetica dell’acido palmitico è molto interessante. Infatti, al termine del processo si ottengono 8 molecole di Acetyl-CoA, 7 molecole di FADH2 più 7 coppie di elettroni. Per ogni molecola di Acetyl-CoA che entra nel ciclo di Krebs si formano 12 ATP; per ogni molecola di FADH2 vengono prodotte 2 molecole di ATP, e per ogni coppia di elettroni si formano 3 ATP. Da ciò consegue che per ogni Acetil-CoA si formano direttamente 12 ATP, e indirettamente 5 molecole di ATP per ogni ciclo di beta-ossidazione.

Calcolando la resa energetica avremo:

(8 Acetyl-CoA x 12 ATP) + (7 cicli x 5 ATP) = 131 ATP. Ma poiché è necessario spendere 2 ATP per formare Acetyl-CoA, alla fine la resa dell’acido palmitico è complessivamente di 129 ATP. Esattamente come per il glucosio, anche l’ossidazione degli FFA dà come sottoprodotti ATP, CO2 e H2O. Tuttavia la combustione completa di una molecola di FFA richiede molto più ossigeno, perché sono presenti in misura maggiore gli atomi di carbonio

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rispetto a una molecola di glucosio. Il vantaggio del maggior contenuto di carbonio si traduce in una quantità maggiore di Acetyl-CoA che entra nel ciclo di Krebs, che a sua volta corrisponde a più energia disponibile per l’organismo.

A causa della necessaria presenza dell’ossigeno, l’utilizzo delle vie aerobiche risulta essere leggermente più lento di circa 20 secondi. Questo tempo è necessario al completo utilizzo dell’ossigeno a fini metabolici [Houston 2008].

Cap. 3.4 FIBRE FT: MORFOLOGIA E METABOLISMO

Le fibre FT sono di colore bianco, e sono molto più spesse delle ST. La velocità con cui si contraggono è elevata, pertanto sono implicate nell’espressione rapida della forza.

Questo tipo di fibra muscolare colpisce per la ricchezza di glicogeno e fosfati energetici, e soprattutto per il relativo corredo di enzimi per la trasformazione dell’energia per via anaerobica.

I processi attraverso il quale si ricava energia sono la glicolisi anaerobica e il sistema della fosfocreatina.

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26 Cap. 3.5 GLICOLISI ANAEROBICA

In caso di assenza di ossigeno, invece, l’acido piruvico prosegue nel citosol per essere ridotto a lattato. Questa reazione è catalizzata dall’enzima lattico deidrogenasi (LDH) e comporta l’ossidazione del NADH a NAD+:

Piruvato + NADH + H+  Lattato + NAD+

Il bilancio energetico netto della glicolisi anaerobica è di 3 ATP nel caso in cui il glucosio derivi dal glicogeno, mentre è di 2 ATP se il glucosio proviene direttamente dal sangue.

Questa modesta resa energetica spiega il motivo per il quale in assenza di ossigeno non è possibile protrarre più di tanto il lavoro muscolare, anche perché il solo substrato utilizzabile per la produzione di ATP è il glucosio.

Il sistema anaerobico lattacido, o glicolitico, è il sistema energetico utilizzato per attività che richiedono forza e resistenza per un tempo di circa un minuto (il culmine è attorno ai 40-45 secondi); l’esempio classico è la corsa dei 400 metri [Wilmore 2005].

Cap. 3.6 SISTEMA DELLA FOSFOCREATINA

Le cellule contengono oltre all’ATP, la molecola regina degli scambi energetici, un’altra molecola di fosfato altamente energetica che immagazzina energia: la fosfocreatina (PCr-creatinfosfato).

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L’energia liberata dalla scissione della PCr non viene utilizzata direttamente per produrre ATP, ma serve invece per mantenere le sue riserve ad un livello relativamente costante.

Il rilascio di energia della PCr è facilitato dall’enzima creatin-chinasi, che separa il gruppo fosfato dalla creatina. L’energia liberata è utilizzata per convertire l’ADP in ATP, proprio con l’aggiunta del gruppo P, grazie all’enzima creatina chinasi (CK) che catalizza la reazione [Paoli 2013]:

ADP + PCr + H+  ATP + Cr

Si tratta di un processo rapido che può avvenire in presenza di ossigeno, anche se il sistema non lo richiede; pertanto il sistema ATP-PCr è di tipo anaerobico alattacido.

La fosfocreatina agisce nel muscolo come un tampone per gli H+ prodotti durante la contrazione. Ciò è molto importante se si considera un lavoro ad alta intensità, che determina acidità del muscolo per l’idrolisi dell’ATP.

Il punto debole di questo sistema è la durata nel tempo: infatti la PCr rigenera ATP per poco tempo all’inizio dell’attività, poi i muscoli devono contare su altri processi per la formazione di ATP, cioè la glicolisi aerobica e anaerobica e la beta-ossidazione [Weineck 2009].

La PCr contenuta nel muscolo è pari a 18-20 mmoli/kg, quantità sufficiente a garantire uno sforzo intenso da 3 a 20 secondi circa.

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La PCr consumata è proporzionale all’intensità dell’esercizio, quindi diminuisce con l’attività. Al contrario, quando si è in fase di riposo, aumentano le scorte di CK che catalizzando la reazione in senso opposto, garantendo ATP disponibile all’uso.

Il tempo necessario per la ricostituzione della PCr è di circa 30 secondi, ma varia a seconda dello stato di allenamento dei soggetti: gli atleti hanno una maggior capacità di produrre ATP per via ossidativa, pertanto recuperano prima le riserve di PCr rispetto ai soggetti meno allenati [McArdle 2009].

L’azione combinata dei due sistemi anaerobici (glicolisi anaerobica e sistema PCr), nonostante questi non generino alte quantità di energia, come invece fanno i sistemi aerobici (glicolisi aerobica, fosforilazione ossidativa e beta-ossidazione), permettono al muscolo di eseguire le sue attività con scarsa presenza di ossigeno.

Cap. 3.7 ESERCIZIO FISICO E METABOLISMO

All’inizio di ogni impegno muscolare la richiesta di energia non può provenire per via ossidativa, poiché i sistemi aerobici producono energia lentamente.

Questa lentezza è dovuta a una risposta relativamente lenta del sistema cardiocircolatorio all’inizio del lavoro. Ciò determina da parte del muscolo una iniziale captazione dell’energia per via anaerobica.

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Successivamente, se l’intensità dell’attività fisica è medio-alta (circa al 65-75% del VO2max), l’ATP è fornito per via aerobica, che produce molta più energia.

Le fasi che si susseguono durante un’attività di intensità media-alta sono:

- 1) Scissione dell’ATP, grazie all’ATPasi miosinica: ATP + H2O  ADP + P + H+ + energia

Le riserve di ATP nella cellula muscolare sono di circa 5 mmoli/kg, che sono sufficienti per eseguire 3-4 ripetizioni massimali, corrispondenti a circa 1-2 secondi di lavoro [Marées 2002]. I prodotti della reazione (ADP e P) stimolano la respirazione fino ad aumentare di 100 volte; tuttavia appena questi vengono riconvertiti in ATP dall’enzima creatina chinasi (CK), il respiro ritorna al suo stato iniziale (principio del controllo della respirazione attraverso il fabbisogno di energia) [Cozzani 2006]

;

- 2) Reintegrazione estremamente veloce dell’ATP, grazie alle riserve di fosfocreatina:

ADP + PCr + H+ ATP + Cr

Le riserve di PCr nel muscolo ammontano a 15-20 mmol/kg, tre/quattro volte maggiori dell’ATP. Queste consentono contrazioni massimali per circa 5-6 secondi. Sommandogli le riserve di ATP, è

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possibile realizzare contrazioni massimali per 6-8 secondi senza produzione di acido lattico degna di nota [Marées 2002];

- 3) Glicolisi anaerobica, quando il rifornimento di ossigeno risulta insufficiente:

C6H12O6  3 ATP + acido lattico

La massima espressione si osserva tra i 20 e i 30 secondi, grazie al metabolismo del glucosio o del glicogeno. Il glicogeno è intracellulare, pertanto non serve trasportarlo all’interno delle cellule, al contrario del glucosio, ed offre anche una resa maggiore [Cozzani 2006];

- 4) Debito di ossigeno, causato dalla necessità dell’organismo di sintetizzare una quantità maggiore di ATP attraverso le vie più economiche, quelle aerobiche. Il debito di ossigeno che si produce all’inizio del carico è la ragione per cui le frequenze cardiaca e respiratoria restano sopra ai valori di riposo anche dopo che si è stoppata l’attività. Ciò predispone ad un consumo maggiore di ossigeno [Paoli 2013];

- 5) Rifosforilazione della creatina (Cr) in fosfocreatina (PCr): ATP + Cr  ADP + PCr + H+

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- 6) Glicolisi aerobica o beta-ossidazione, a seconda dell’intensità dell’attività, che comunque deve essere aerobica in quanto serve ossigeno per ossidare i relativi substrati energetici (glucosio/glicogeno o acidi grassi) [Cozzani 2006]. Quindi:

C6H12O6 + 6O2  6CO2 + 6H2O + 38 ATP

nel caso di ossidazione del glucosio/glicogeno oppure

C16H32O2 + 16O2  16CO2 + 16H2O + 129 ATP

nel caso di ossidazione dell’acido palmitico.

Questi due sistemi ossidativi differiscono per le quantità di energia che riescono a fornire dalla scomposizione di una molecola, ma soprattutto è importante notare la differenza di ossigeno richiesta per l’ossidazione: 6 molecole contro 16. Possiamo affermare che i grassi producono più energia dalla loro scomposizione rispetto ai carboidrati, ma richiedono una quantità maggiore di ossigeno per essere ossidati per produrre energia (ATP) [McArdle 2009]. Questo

concetto è conforme con tutto quello detto finora, infatti quando l’intensità dell’attività è bassa si ha più disponibilità di ossigeno e vengono degradate le riserve degli acidi grassi; al contrario, quando l’intensità è elevata (ma non abbastanza da determinare una condizione di anaerobiosi) ci si serve della scomposizione dei carboidrati.

Quando invece si crea la condizione di anaerobiosi, se lo sforzo è sufficientemente lungo viene prodotto acido lattico.

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L’acido lattico è un acido non molto forte che esiste sotto forma di anione (La-) o nella forma indissociata (HLa). Per anni si è ritenuto che la fatica muscolare fosse dovuta al lattato, con la prova dell’elevata concentrazione del lattato nel muscolo defaticato. Dagli studi eseguiti Westerblad et al. si evince che la principale causa di fatica intracellulare sia da attribuire all’aumento del gruppo fosfato indotto dalla rapida diminuzione della PCr e non del lattato [Westerblad et al. 2002]. In realtà la fatica muscolare è un fenomeno molto complesso la cui causa è attribuibile ad una serie di fattori. Westerblad e Allen nel 2004 affermarono che probabilmente è l’acidificazione extracellulare la reale responsabile del dolore associato ad un’intensa attività fisica.

Il lattato, un combustibile metabolico che viene ossidato a piruvato, si forma nel citosol della cellula a partire dal piruvato e NADH + H+ secondo la reazione reversibile catalizzata dall’enzima LDH, particolarmente attivo nel muscolo scheletrico. L’Acetyl-CoA che ne deriva dalla successiva degradazione verrà metabolizzato nel ciclo di Krebs.

Piruvato + NADH + H+  Lattato + NAD+

Esistono 5 isoforme di LDH, di cui le prime tre (1,2,3) catalizzano la reazione verso sinistra atta alla genesi di piruvato, mentre le altre due (4,5) hanno attività diametralmente opposta. La 1,2,3 si

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trovano principalmente nelle fibre ST, le altre in quelle FT [Paoli 2013].

Di interessante osservazione è la resa energetica del lattato. Infatti, contrariamente a quanto si possa pensare, l’ossidazione di una molecola di lattato genera 15 ATP. Fatto questo da non sottovalutare in quanto permette di riottenere energia utile al proseguo della contrazione.

Il lattato è presente in condizioni di riposo ad una concentrazione di 1 mmol/dl di sangue, ma durante l’esercizio fisico può raggiungere anche valori di 7-8 mmol/dl.

La produzione di lattato è strettamente correlata sia all’intensità (all’aumentare di questa, aumenta anche il lattato), che alle riserve di glicogeno (maggiori sono le riserve di glicogeno all’inizio dell’esercizio, maggiore sarà la produzione di lattato) [McArdle 2009].

Per potersi diffondere attraverso le membrane il lattato si deve trovare nella sua forma indissociata (HLa), che grazie all’aggiunta di uno ione H+ diventa acido lattico.

Di contro, il lattato che si riscontra in condizioni fisiologiche è in forma anionica (La-), questo perché a pH fisiologico, l’acido lattico, che è un acido debole con una pKa bassa (3.7), si scinde immediatamente formando così il lattato [Houston et al. 2008]. Alla luce di questa considerazione rimane evidente come sia necessaria la presenza di un trasportatore di membrana MCT

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(Monocarboxylate transporter) per poter fluire dal citosol della cellula nella quale si è formato, al sangue dove raggiungerà un tessuto o una cellula che lo metabolizzerà [Paoli 2013]. L’MCT agisce da simporto, trasferendo il lattato secondo gradiente di concentrazione accompagnato da un protone H+.

Una volta prodotto, il lattato può raggiungere vari siti: fegato (dove viene utilizzato come substrato per la gluconeogenesi che lo ritrasforma in glucosio consentendo il suo immagazzinamento come glicogeno oppure rimettendolo in circolo per essere utilizzato dai muscoli come nuova energia disponibile), reni, cuore e fibre ST (può essere riconvertito in piruvato ed essere riossidato all’interno della cellula stessa).

Durante l’esercizio a intensità moderata il lattato ematico non varia, perché c’è equilibrio tra produzione e smaltimento ad opera delle fibre ST e del cuore [Weineck 2009].

Con l’aumentare dell’intensità, l’attivazione delle fibre FT (che producono quasi tutto il lattato circolante) genera un aumento di lattato.

Quando il lattato passa dai due tipi di fibra, da FT a ST, si parla di shuttle del lattato. Purtroppo però questa osservazione trova discordanti vari biochimici alla luce del fatto che le moderne tecniche biochimiche ancora non permettono di osservare con

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attenzione cosa realmente succede all’interno di una cellula [Houston et al. 2008].

Durante la glicolisi nella reazione catalizzata dalla gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi, che catalizza la reazione

si origina un NADH + H+ citosolico (in quanto la glicolisi avviene nel citosol) che deve essere consumato perchè l’ambiente citosolico ha come caratteristica quella di avere un rapporto NADH/NAD+ sbilanciato a favore del NAD+. Il NADH viene consumato a livello del citosol se il destino del piruvato è quello di ridursi a lattato grazie alla LDH, altrimenti il coenzima deve essere trasferito nella matrice mitocondriale dove il rapporto NADH/NAD+ si inverte, essendo maggiore la presenza della forma ridotta del coenzima.

Il problema che si crea è che la membrana interna del mitocondrio è impermeabile al NADH, e per far fronte a questa esigenza sono presenti due shuttle: shuttle del glicerolo-fosfato e shuttle malato-aspartato [Paoli 2013].

Il primo lo troviamo nel cervello e nelle fibre FT, ma è usato in misura minore rispetto allo shuttle malato-aspartato. Lo shuttle glicerolo-fosfato trasferisce gli elettroni del NADH citosolico al FAD

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mitocondriale, da questo all’ubichinone, che viene ridotto a ubichinolo.

Lo shuttle malato-aspartato è il trasporto predominante ed è particolarmente attivo a livello del fegato, del cuore e delle fibre lente ST: trasferisce elettroni dal NADH citosolico al NAD+ mitocondriale.

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Capitolo 4

ADATTAMENTI CARDIOPOLMONARI ALL’ESERCIZIO

FISICO

Durante l’attività fisica l’organismo consuma una quantità maggiore di energia rispetto al riposo, per eseguire tutti i movimenti e gli sforzi fisici consentiti dalla contrazione muscolare. Di conseguenza viene richiesta una maggiore quantità di ossigeno da mettere a disposizione per i sistemi respiratorio, cardiovascolare e muscolare. Col progressivo aumento del consumo di ossigeno si ha anche l’aumento della ventilazione polmonare (comunemente chiamata respirazione, cioè il processo attraverso il quale l’aria entra ed esce dai polmoni) mediante gli accrescimenti del volume corrente e della frequenza ventilatoria [Wilmore 2005].

L’aria inspirata ricca di ossigeno attraversa le prime vie aeree (naso, bocca, laringe, trachea) per poi giungere a bronchi e bronchioli. In questo spazio, definito spazio morto, non c’è scambio di gas tra aria e sangue. A livello alveolare si ha lo scambio ossigeno-anidride carbonica attraverso la membrana alveolo-capillare per gradiente di pressione. Con la respirazione l’ossigeno alveolare (PAO2=100 mmHg) passa nel capillare dove arriva con una pressione PO2=40 mmHg per essere trasportato in tutto l’organismo, mentre

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l’anidride carbonica si trasferisce dal sangue (PCO2=46 mmHg) all’alveolo (PCO2=40 mmHg) per essere espulsa con l’espirazione [Wilmore 2005].

Dentro i capillari l’ossigeno si lega all’emoglobina e grazie alla propulsione della pompa cardiaca viene inviato ai tessuti, specificatamente ai mitocondri: questo processo di dissociazione tra l’emoglobina (Hb) e l’ossigeno prende il nome di effetto Bohr [Wilmore 2005].

I principali fattori che determinano questo processo riguardano: - L’aumento della PCO2, in quanto con l’esercizio fisico se ne aumenta

la produzione;

- La diminuzione del ph, indotto dall’accumulo di lattato; - L’aumento della temperatura, provocato dall’attività.

Il rilascio dell’ossigeno è indotto da un intermedio della glicolisi, il 2,3 disfoglicerato (DPG), che riduce l’affinità tra emoglobina e ossigeno, favorendone la diffusione tissutale. Di questo elemento si trovano quantità diverse tra uomo e donna: il sesso femminile ne possiede di più. Questa caratteristica potrebbe compensare in parte la minor quantità di Hb delle donne, rendendo più semplice l’estrapolazione.

Durante l’attività fisica intensa si nota un aumento più marcato della concentrazione ematica del DPG rispetto ad una attività

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blanda, in accordo col fatto le attività più dure richiedono l’apporto di una quantità maggiore di ossigeno.

Cap. 4.1 UTILIZZO DI O2 E PRODUZIONE DI CO2

L’utilizzo di ossigeno da parte dei tessuti per sintetizzare energia comporta anche la formazione di anidride carbonica nei tessuti stessi. La CO2 poi verrà espulsa, trasportata dal sangue ai polmoni. Per il trasporto di CO2 si ricorre a tre meccanismi:

- La porzione disciolta nel plasma (5% della CO2 prodotta) e la porzione libera dell’O2 esercitano una pressione parziale indispensabile per lo scambio dei gas;

- La CO2 trasportata sotto forma di bicarbonati plasmatici (75% circa della CO2 prodotta): l’anidride presente nel plasma reagisce lentamente con l’H2O formando acido carbonico:

CO2 + H2O  H2CO3

La formazione di H2CO3 può avvenire sia nel plasma che all’interno degli eritrociti, con la differenza che a livello plasmatico la reazione è più lenta in quanto è priva di attività enzimatica. Nei globuli rossi, invece, avviene più velocemente perché è mediata da un enzima contenente zinco, l’anidrasi carbonica (AC). La velocità della reazione aumenta di 5000 volte, quantità talmente alta che fa sì che la formazione di H2CO3 si completa prima che il globulo rosso abbia lasciato i capillari. Una volta formato, l’H2CO3 viene ionizzato a ioni

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H+ e ioni bicarbonato (HCO

3-). Successivamente gli ioni H+ vengono tamponati dall’Hb per mantenere l’omeostasi del ph ematico (7,38 – 7,42), mentre gli ioni bicarbonato (HCO3) si diffondono nel sangue contemporaneamente all’ingresso degli ioni cloro Cl- nei globuli rossi che devono garantire la condizione di elettroneutralità [Wasserman 2012].

Quando il sangue venoso carico di anidride e anidrasi carbonica subisce a livello polmonare l’arterializzazione, si ha la diminuzione della PCO2; ciò favorisce la reazione inversa, con cui si riottiene anidride carbonica:

H+ + HCO

3-  H2CO3  CO2 + H2O

La reazione inversa è catalizzata dall’enzima anidrasi carbonica che permette lo spostamento degli ioni Cl- dall’interno all’esterno del globulo rosso, mentre gli ioni H+ e HCO

3- fanno il percorso contrario.

- Trasporto della CO2 sotto forma di carbamminocomposti (25% circa della CO2 prodotta): la CO2 a livello dei tessuti si può legare a gruppi amminici di proteine plasmatiche o con l’emoglobina formando carbamminocomposti. Il carboamminocomposto più prodotto è dato dal legame CO2 – Hb, formando carbamminoemoglobina [Wasserman 2012]:

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Il legame CO2 – Hb è reversibile e correlato al valore della PCO2: a livello dei tessuti la maggior concentrazione di anidride determina formazione di carbamminoemoglobina, mentre negli alveoli la diminuzione di anidride incentiva la dissociazione CO2 – Hb. Contemporaneamente negli alveoli si riduce l’affinità tra Hb e CO2 grazie all’ossigenazione. L’ossigenazione e l’inversione della reazione indotta dalla diminuzione della PCO2 vengono chiamati effetto Haldane, che facilita la rimozione dell’anidride dal sangue per essere poi eliminata [Wilmore 2005].

Di fondamentale importanza nella gestione e nello smistamento dell’ossigeno a livello muscolare riveste il ruolo della mioglobina, Il muscolo scheletrico e quello cardiaco presentano una riserva di O2 intramuscolare grazie alla presenza di mioglobina. La mioglobina è una proteina globulare contenente ferro allo stato ferroso (Fe2+) simile alla Hb: le due si differenziano per la presenza di Fe (rispettivamente uno e quattro atomi).

La MHb può legarsi con una sola molecola di O2:

MHb + O2  MHbO2

La mioglobina presenta una maggior affinità per l’ossigeno rispetto all’emoglobina, a valori di PO2 più bassi.

La mioglobina facilita il trasferimento di O2 ai mitocondri quando il fabbisogno energetico non può essere coperto dall’ossigeno

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ematico e la PO2 cala drasticamente come nel caso dell’inizio di un esercizio oppure nel caso in cui l’intensità dell’esercizio è elevata. Infine la mioglobina, rispetto all’emoglobina, non è sensibile all’effetto Bohr, cioè non è sensibile alle modificazioni di PCO2, ph e temperatura [Paoli 2013].

Cap. 4.2 MODIFICAZIONI DELLA RESPIRAZIONE INDOTTE DALL’ATTIVITA’ FISICA

In conseguenza all’impegno fisico la ventilazione polmonare aumenta per gli aumenti della frequenza respiratoria (FR) o della profondità del respiro, o entrambe.

Può raggiungere ventilazioni di 35-40 atti respiratori al minuto con il volume corrente TV che può arrivare a 2 litri, raggiungendo ventilazioni polmonari di anche 100 litri/minuto. In letteratura sono stati riportati valori di ventilazione di 208 litri/minuto in giocatori professionisti di football americano [McArdle 2009].

Nel caso di attività moderata la ventilazione polmonare aumenta in termini di TV, e non di FR, determinando una maggior profondità del respiro e di ventilazione alveolare che passa dal 70% all’85% della ventilazione polmonare. L’aumento di TV avviene a discapito della diminuzione dell’IRV (volume di riserva ventilatorio) e dell’ERV (volume di riserva espiratorio) [Paoli 2013].

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Quando l’intensità aumenta si provoca anche aumento del TV. Durante l’esercizio fisico la ventilazione aumenta progressivamente, fino a raggiungere i livelli che soddisfano le richieste metaboliche. La ventilazione polmonare durante l’esercizio viene stimolata e modulata dall’effetto combinato di diversi stimoli chimici e nervosi.

Inoltre durante l’attività fisica si ha aumento della ventilazione prima che si instaurino modificazioni di PO2, PCO2 e pH ematici. L’aumento è il risultato dell’attivazione dei centri respiratori da parte di segnali anticipatori provenienti dalla corteccia e segnali propriocettori articolari e muscolari.

L’aumento ventilatorio lo possiamo schematizzare in tre fasi: - 1) Brusco aumento e breve plateau determinati dal comando

motorio della corteccia e dalle afferenze provenienti dai muscoli: all’inizio dell’esercizio gli stimoli nervosi efferenti ed afferenti stimolano i centri respiratori midollari determinando un brusco aumento ventilatorio che raggiunge lo stato di plateau. Questa fase dura all’incirca 20 secondi, seguita da un ulteriore aumento della ventilazione che dà inizio alla fase successiva;

- 2) Aumento lento della ventilazione con aumento della sensibilità dei neuroni respiratori midollari, in risposta a stimoli nervosi e chimici prima descritti (PCO2, PO2, H+ e pH);

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- 3) Aggiustamento fine delle richieste metaboliche, grazie all’attività dei chemiocettori che regolano finemente la ventilazione registrando le concentrazioni di H2CO3, H+ e acido lattico, in modo che ci sia equilibrio tra richiesta metabolica e ventilazione [Paoli 2013].

Il controllo ventilatorio durante l’esercizio proviene anche da una componente riflessa correlata al flusso polmonare e al movimento meccanico dei polmoni e dei muscoli respiratori.

Alla fine dell’esercizio si assiste ad un rapido e veemente calo della ventilazione indotto dall’inibizione sulle componenti nervose centrali ed una diminuzione degli input provenienti dai muscoli impegnati nell’esercizio. Inoltre si determina il ripristino alle condizioni metaboliche, termiche e fisiologiche.

L’aumento della ventilazione polmonare ha lo scopo di mantenere costanti le pressioni parziali dei gas respiratori e facilitarne la diffusione [Wasserman 2012].

Cap. 4.3 BASSA INTENSITA’/ALTA INTENSITA’

Nel caso di attività a bassa intensità (<65%VO2max) la ventilazione aumenta regolarmente e in linea con il consumo di ossigeno e la produzione di anidride carbonica. La ventilazione aumenta per aumento esponenziale di TV a discapito di IRV e ERV, e per l’aumento della frequenza respiratoria.

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Dopo una prima fase di adattamento, si raggiunge uno stato stazionario (steady-state) della ventilazione dopo pochi minuti. In questa condizione di intensità di attività fisica il miglior indicatore della respirazione interna è la differenza artero-venosa dell’ossigeno (Δa-v)O2. Un aumento di questa riflette un

mantenimento costante della pressione parziale di ossigeno a livello arterioso ed una riduzione della saturazione di ossigeno (utilizzato dai tessuti) nel sangue [Gore 1990].

Quando l’intensità aumenta, il fattore regolatore della ventilazione diventa la frequenza respiratoria. La risposta ventilatoria a questa intensità di attività fisica mostra un drift dopo circa 30 minuti. Questo drift si verifica quando il consumo di ossigeno aumenta a fronte del mantenimento dei livelli di attività. Il drift è un allontanamento dallo stato stazionario e può dipendere dalle catecolamine (adrenalina e naradrenalina), dalla produzione di lattato, dal cambio dell’utilizzo dei substrati energetici e dall’aumento della temperatura.

C’è da notare che dopo il raggiungimento dello stato stazionario, il mantenimento della risposta ventilatoria è delegato a lungo termine ad un aumento della frequenza respiratoria. A breve termine, invece, la risposta immediata consiste principalmente in un aumentato volume corrente TV [Short 1997].

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Cap. 4.4 ATTIVITÀ FISICA E MASSIMO CONSUMO DI OSSIGENO (VO2MAX)

Questo parametro corrisponde al massimo consumo di ossigeno che viene utilizzato da un individuo nell’unità di tempo.

Rappresenta una capacità individuale, infatti se sottoponiamo due soggetti al medesimo sforzo, non è detto che questi reagiscano alla solita maniera: chi possiede un valore più alto di VO2max è in grado di sostenere per più tempo un medesimo sforzo fisico, o a parità di tempo gli permette di sostenere un’attività più intensa, rispetto a chi possiede un valore del VO2max più basso.

Viene espresso in millilitri di ossigeno consumati per ogni kilogrammo di peso del soggetto per i minuti di attività (ml/kg x min), quando si parla di valore relativo. Può essere descritto con VO2= Q*(Δa-v)O2, dove Q è la portata cardiaca (frequenza cardiaca

* gettata sistolica) e (Δa-v)O2 è la differenza arterio-venosa per

l’ossigeno. Mentre se parliamo di valore assoluto viene espresso in litri/minuto [Wasserman 2012].

La frequenza cardiaca rappresenta il numero di battiti che il cuore compie in un minuto, e si può influenzare soltanto modestamente con l’allenamento.

La gettata sistolica esprime il volume di sangue che esce dal ventricolo sinistro del cuore ad ogni contrazione (sistole), e aumenta soprattutto nel periodo iniziale dell’attività.

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La differenza artero-venosa dell’ossigeno rappresenta la quantità di O2 che le cellule riescono ad estrarre dal circolo sanguigno durante il passaggio del sangue nei capillari, ed è il parametro più incidente sul VO2max. Tale parametro è influenzato sia dalla genetica, che da altri fattori come:

- Ventilazione polmonare;

- Trasporto periferico di ossigeno da parte dei globuli rossi e dell’emoglobina in essi contenuta;

- Densità del letto capillare nei muscoli;

- Composizione del muscolo (fibre lente o rapide);

- Numero, dimensione ed efficienza degli enzimi che catalizzano le reazioni energetiche;

- Numero, dimensione ed efficienza dei mitocondri.

Oltre al valore assoluto, che rappresenta dunque il massimo consumo di ossigeno del soggetto, è importante sottolineare la percentuale di VO2max che si riesce a mantenere durante lo sforzo [McArdle 2009]. Questa ci fornisce informazioni determinanti nel

prevedere dopo quanto insorgerà uno stato di affaticamento tale da dover interrompere l’attività o ridurne sensibilmente l’intensità. Questo concetto è collegato alla soglia di lattato, cioè il momento in cui l’intensità crescente dell’esercizio fisico determina accumulo di lattato nel sangue superiore al livello di riposo [Wilmore 2005].

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In pratica si raggiunge il massimo consumo di ossigeno quando la crescente intensità dello sforzo fisico non determina una crescita del consumo di ossigeno nell’organismo. Oltre questo punto, o soglia anaerobica, si ha accumulo di lattato, che determina dopo un certo lasso di tempo l’incapacità di mantenere o migliorare la prestazione massima raggiunta.

La soglia del lattato, o soglia anaerobica, rappresenta il punto di passaggio dal metabolismo prevalentemente aerobico a quello principalmente anaerobico.

Cap. 4.5 VO2MAX E SOGLIA DEL LATTATO O ANAEROBICA

La soglia del lattato o anaerobica viene espressa normalmente come la percentuale del VO2max alla quale la soglia viene raggiunta. La soglia del lattato è un indice fisiologico strettamente correlato alle prestazioni di resistenza aerobica: quanto più è elevata, tanto migliore sarà la prestazione aerobica.

Il lattato è uno dei prodotti della glicolisi anaerobica, il sistema metabolico che entra in azione all’inizio dell’attività fisica quando la lentezza del sistema cardiocircolatorio impone al muscolo di rifornirsi per via anaerobica, ma soprattutto quando l’intensità dell’attività è tale da non consentire un’adeguata ossigenazione.

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Per quanto riguarda la glicolisi bisogna ricordare che in presenza di ossigeno il sistema dà come prodotto finale dell’ossidazione completa dei gruppi acetilici dei carboidrati l’acido piruvico, che deve essere trasformato in Acetyl-CoA prima di essere immesso nel mitocondrio e affrontare il ciclo di Krebs.

In caso di assenza di ossigeno, invece, l’acido piruvico prosegue nel citosol per essere ridotto a lattato. Questa reazione è catalizzata dall’enzima lattico deidrogenasi (LDH) e comporta l’ossidazione del NADH a NAD+:

Piruvato + NADH + H+  Lattato + NAD+

La reazione è reversibile, perciò quando aumentano le scorte di ossigeno, l’enzima lattico deidrogenasi riconverte l’acido lattico in acido piruvico, consentendogli di poter realizzare la glicolisi aerobica.

Ma quando le scorte continuano ad essere insufficienti, le cellule restano con una quantità troppo elevata di NADH che impedisce l'ulteriore svolgimento della glicolisi.

La riduzione del piruvato a lattato permette la rigenerazione del NAD+ e lo svolgimento ulteriore della glicolisi anaerobica.

Al lattato prodotto viene aggiunto uno ione H+ per diventare acido lattico.

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L’acido lattico viene prodotto nei muscoli negli sforzi intensi e dopo una certa quantità l’organismo non è più in grado di smaltirlo. Quando dal muscolo si sposta nel torrente ematico, perde lo ione idrogeno tornando ad essere lattato.

Il lattato prodotto dalle fibre ossidative ST durante un esercizio ad alta intensità, terminato lo sforzo, può essere riconvertito in piruvato ed essere riossidato all’interno della cellula stessa.

Se però è prodotto in grande quantità dalle fibre glicolitiche FT, viene trasportato all’esterno della cellula dove entra nel circolo ematico per essere trasportato ai tessuti ed essere metabolizzato. Il lattato circolante viene infatti prelevato e ossidato da diversi organi (fegato, cuore, cervello, rene); il fegato capta circa 1/3 del lattato circolante e lo ri-ossida a piruvato. La gluconeogenesi, infine, lo ritrasforma in glucosio consentendo il suo immagazzinamento come glicogeno oppure rimettendolo in circolo per essere utilizzato dai muscoli come nuova energia disponibile. Questo appena descritto è il ciclo di Cori [Ivy 1980].

L’aumento del lattato ematico non deriva soltanto da un incremento della produzione muscolare, ma dipende anche dal suo tasso di eliminazione da parte del fegato. Da ciò deriva una definizione più esatta che descrive la soglia anaerobica come il punto in cui, ad intensità crescente, il tasso di produzione del lattato supera il tasso di eliminazione.

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La capacità di sostenere un’attività senza accumulo di lattato è un vantaggio per l’atleta, in quanto la sua formazione contribuisce all’insorgere della fatica.

Quindi, la capacità di esercizio a una percentuale più elevata di VO2max riflette una soglia del lattato più alta.

Cap. 4.6 ATTIVITA’ AEROBICA E VO2MAX

L’attività aerobica e l’allenamento della resistenza cardiorespiratoria determina un aumento sostanziale del VO2max. Gli incrementi riscontrati spaziano dal 4% al 93% [Wilmore 2005].

Un incremento del 15-20% è tipico di una persona con abitudini sedentarie, che si allena per 30 minuti al 75% del VO2max per tre volte alla settimana, per un periodo di 6 mesi. Un programma di questo tipo può far aumentare il VO2max da un valore iniziale di 35 a un valore finale di 42 ml/kg*min, ben lontano ovviamente dai valori registrati dagli atleti di resistenza a livello mondiale che sono generalmente compresi tra 70 e 94 ml/kg*min [Davis 1985].

Di solito un soggetto raggiunge il proprio massimo valore di VO2max nell’arco di 18 mesi di un intenso allenamento di resistenza prolungata [Weineck 2009]. Ciononostante la prestazione di

resistenza continua a migliorare anche per molti anni, se si prosegue l’allenamento con regolarità [Coyle 1995].

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Tuttavia si può verificare il caso in cui si ha un miglioramento della prestazione di resistenza senza un corrispondente aumento del VO2max [Costill 1970].

Ciò deriva dall’innalzamento della soglia del lattato perché la velocità di corsa è direttamente collegata al VO2 al momento in cui viene raggiunta la soglia lattacida [Wilmore 2005].

La capacità di utilizzazione dell’ossigeno è quindi più importante del valore massimo di consumo di ossigeno in senso assoluto; infatti chi riesce ad utilizzare una percentuale del VO2max maggiore e per più tempo, ottiene prestazioni di resistenza migliori rispetto agli altri. Questa capacità è geneticamente determinata, ed influiscono sul suo valore anche lo stato di condizionamento dell’atleta (meno si è allenati e più alto sarà il miglioramento che si riscontra, a parità di programma di allenamento), dall’età (più si invecchia e più si ha un deterioramento della funzione cardiopolmonare) e dal genere (ragazze non allenate hanno valori del 20-25% inferiori a uomini non allenati; mentre le atlete di endurance mondiale perdono solo il 10% rispetto agli atleti maschi) [Wilmore 2005].

Per il miglioramento della capacità aerobica si può ricorrere a diverse tipologie di allenamento, specificatamente al [Weineck 2009]:

- Metodo del carico prolungato estensivo, che comprende allenamenti voluminosi a bassa intensità, che consentono un massivo reclutamento dell’energia dalla beta ossidazione dei grassi,

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