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Sentenza n. 579 Anno 1990

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Sentenza n. 579 Anno 1990

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. Giovanni CONSO, Presidente – Prof. Ettore GALLO – Dott. Aldo CORASANTI – Prof. Giuseppe BORZELLINO – Dott. Francesco GRECO – Prof. Gabriele PESCATORE – Avv. Ugo SPAGNOLI – Prof. Francesco Paolo CASAVOLA – Prof. Antonio BALDASSARRE – Prof. Vincenzo

CAIANIELLO – Prof. Luigi MENGONI – Prof. Enzo CHELI – Dott. Renato GRANATA, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, quarto comma, delle legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il

funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), promosso con ordinanza emessa il 22 giugno 1989 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sui ricorsi riuniti proposti da Palermo Carlo contro il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ed altri e dal Ministero di grazia e giustizia contro Palermo Carlo ed altro, iscritta al n. 455 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 1990.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola.

Ritenuto in fatto

1. — La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura – con

sentenza del 26 giugno 1985 – infliggeva alcune sanzioni al dott. Carlo Palermo, il

quale proponeva ricorso per cassazione. Le Sezioni unite, con sentenza del 24 luglio

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1986, n. 4754, cassavano la sentenza e rinviavano la causa alla sezione disciplinare.

Quest’ultima – fissata una nuova udienza con decreto notificato all’incolpato in data 27 luglio 1987 – infliggeva al magistrato, con successiva sentenza, altra sanzione disciplinare.

Le Sezioni unite, nuovamente adite dal dott. Palermo avverso tale ultima decisione, con ordinanza emessa il 22 giugno 1989, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n.1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195 e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), – più esattamente, art. 59, non comma, del D.P.R. 16 settembre 1959, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie) nel testo sostituito dall’art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 – nella parte in cui non prevede alcun termine per l’inizio del procedimento disciplinare in sede di rinvio dalla Corte di cassazione.

Osserva il giudice a quo che, nella specie, il decreto di fissazione dell’udienza

disciplinare è stato comunicato dopo oltre un anno dal deposito della sentenza che ha attivato il giudizio di rinvio. Pertanto, anche ove nel caso in esame fossero applicabili i termini previsti dalla norma impugnata, il procedimento sarebbe estinto. Per le ipotesi “normali” di avvio della procedura, infatti, l’art. 12 impone che entro un anno dalla richiesta del Ministro al Procuratore generale, ovvero dalla richiesta o

comunicazione del Procuratore generale, ovvero dalla richiesta o comunicazione del Procuratore generale al C.S.M., l’incolpato debba ricevere comunicazione del decreto che fissa la discussione, altrimenti – e sempre che questi vi consenta – il

procedimento si estingue (ed altrettanto accade allorché non venga pronunciata sentenza nei due anni successivi).

Esclusa la possibilità di un’interpretazione estensiva, in considerazione del peculiare carattere del giudizio di rinvio – volto all’applicazione del principio di diritto – che non consente di assimilarlo al primo giudizio, la Corte di cassazione rileva che, allo stato della normativa, il procedimento disciplinare può protrarsi, in sede di rinvio, a tempo indeterminato, in aperto contrasto con la ratio della legge impugnata.

L’intervento del legislatore del 1981 (di molto successivo alla sentenza n. 145 del 1976 in cui questa Corte aveva ritenuto infondata la questione concernente l’omessa fissazione di termini nella precedente normativa) aveva infatti lo scopo di realizzare una giusta tutela del magistrato nel procedimento a suo carico.

Sarebbe irrazionale, nell’ambito di un sistema che prevede tali garanzie, escludere dal meccanismo dei termini proprio il giudizio di rinvio, dove la fissazione dell’udienza può certamente essere più sollecita rispetto al primo grado, reso meno spedito dalla presenza di una fase istruttoria. L’incongruenza della normativa sarebbe quindi

produttiva di disparità di trattamento nei confronti dei magistrati, più o meno garantiti

a seconda delle fasi del procedimento.

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Tali conclusioni risulterebbero confermate dal confronto tra la normativa in esame e quella prevista per il giudizio di rinvio sia dal rito civile sia da quello penale. Nel primo caso, infatti, il giudizio in argomento trova impulso in un atto di riassunzione, là dove, in ambito disciplinare, vige il principio dell’officiosità, il quale assimila la procedura a quella penale (a sua volta caratterizzata dalla prescrizione del reato).

Inoltre la legge impugnata rappresenta, secondo la Corte di cassazione, un riconoscimento dell’interesse del magistrato ad una rapida definizione del procedimento, sì che la mancata prefissione di termini è idonea ad incidere

negativamente sul diritto di difesa dell’incolpato, sul sereno esercizio delle funzioni, sulla autonomia e sull’indipendenza.

2. — È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato

dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità – in riferimento alla discrezionalità legislativa in materia – ovvero per l’infondatezza della questione, richiamandosi anzitutto alla sentenza n. 145 del 1976 per escludere, nella logica di quella decisione, che un’esposizione senza limiti di tempo all’azione disciplinare possa intaccare l’indipendenza del magistrato. Le motivazioni ivi addotte si

attaglierebbero, mutatis mutandis, anche alla nuova disciplina introdotta dalla legge impugnata.

Per quanto riguarda l’asserita violazione dell’art. 3 della Costituzione, l’Avvocatura rileva che la necessità di apporre un termine è stata utilmente avvertita soltanto nella prima fase del procedimento onde assicurare difese adeguate, accertamenti tempestivi ed indagini sollecite, esigenze queste non presenti nel giudizio di rinvio, con

conseguente non omogeneità delle situazioni a confronto.

Considerato in diritto

1. — La Corte di cassazione – Sezioni unite civili – con ordinanza del 22 giugno 1989 (pervenuta alla Corte costituzionale il 5 luglio 1990; R.O. n. 455/1990), solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, secondo comma, e 104, primo comma, della

Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) – più esattamente, art.

59, nono comma, del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie), nel testo sostituito dall’art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 – nella parte in cui “pur statuendo che entro un anno dall’inizio del procedimento

disciplinare nei confronti del magistrato deve essere comunicato all’incolpato, a pena di estinzione del procedimento stesso, il decreto che fissa la discussione orale davanti alla Sezione disciplinare, non prevede termine alcuno per l’inizio del procedimento in sede di rinvio dalla cassazione”.

2. — La questione è fondata.

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La norma impugnata recita: “Entro un anno dall’inizio del procedimento deve essere comunicato all’incolpato il decreto che fissa la discussione orale davanti alla sezione disciplinare. Nei due anni successivi dalla predetta comunicazione deve essere

pronunciata la sentenza. Quando i termini non sono osservati, il procedimento disciplinare si estingue, sempre che l’incolpato vi consenta”.

La normativa precedente ignorava, invece, termini perentori o almeno sollecitatori per l’inizio e la definizione del procedimento disciplinare. Peraltro questa Corte, con sentenza n. 145 del 1976, pur non rilevando allora violazione degli artt. 24 e 101, primo comma, della Costituzione, ribadiva il principio di civiltà giuridica secondo il quale l’azione disciplinare “dev’essere promossa senza ritardi ingiustificati, o peggio arbitrari, rispetto al momento della conoscenza dei fatti cui si riferisce”.

Nella proposta del Consiglio superiore della magistratura, divenuta base del progetto di legge, n. 1040 della VIII Legislatura, sfociato poi nella legge 3 gennaio 1981, n. 1, si poneva “in evidenza la gravità delle conseguenze che derivano per l’indipendenza e la libertà dei singoli magistrati dal ritardo con cui vengono definiti i procedimenti disciplinari” [Atti parlamentari, Camera dei deputati, pag. 4, nonché ibidem: IV Commissione, sedute del 10 e 31 luglio 1980].

La norma vigente fa progredire con la fissazione di termini di decadenza per l’inizio e la definizione del procedimento disciplinare la giurisdizionalizzazione dell’attività della Sezione disciplinare del C.S.M., con la evidente lacuna, tuttavia, che la Corte di cassazione ora denuncia con la sollevata questione.

Nel giudizio di rinvio infatti è senza ragionevole giustificazione l’assenza di un termine che ad esso dia inizio e di una corrispondente previsione d’estinzione, partecipando questa fase alla stessa logica finalistica del giudizio di prima e unica istanza per la realizzazione del principio di una sollecita definizione della posizione dell’incolpato.

3. — Non ha pregio l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la diversa disciplina delle due fasi si giustificherebbe perché nella prima la fissazione di termini giova ad assicurare accertamenti tempestivi ed indagini sollecite nell’esigenza di garantire all’incolpato una difesa adeguata, mentre nella seconda ad una tale attività istruttoria non si dà luogo trattandosi di applicare il principio di diritto espresso nella sentenza di annullamento con rinvio.

In realtà, in questo momento procedimentale resta preminente non tanto il diritto di attività di difesa dell’incolpato, garantito dai termini del giudizio di prima istanza, quanto il diritto alla decisione, dovendosi leggere anche questo secondo profilo nel precetto di cui all’art. 24 della Costituzione.

Il procedimento di rinvio – originato dall’azione disciplinare per sua natura

imprescrittibile, a differenza dell’azione penale prescrittibile – che non sia sollecitato

da un termine di decadenza e che può in ipotesi non avere mai inizio, vanificandosi

così l’effetto estintivo, riconosciuto invece dalla norma impugnata all’inutile decorso

dei termini stabiliti per il procedimento di prima e unica istanza, non soltanto viola

l’art. 24 della Costituzione nel contenuto innanzi delineato, ma menoma la posizione

di affidabilità sociale del magistrato che continui ad esercitare la giurisdizione nello

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status sine die di incolpato, con evidente lesione altresì dei valori di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 12, quarto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195, e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916, sulla costituzione e il

funzionamento del Consiglio superiore della magistratura) – più esattamente, art. 59, nono comma, del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie), nel testo sostituito dall’art. 12, quinto comma, della legge 3 gennaio 1981, n. 1 – nella parte in cui non estende i termini ivi fissati al procedimento di rinvio.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1990.

F.to: Giovanni CONSO, Presidente

Francesco Paolo CASAVOLA, Redattore

Doro MINELLI, Cancelliere

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Sentenza n. 196 Anno 1992

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Dott. Aldo CORASANTI, Presidente – Prof. Giuseppe BORZELLINO – Dott. Francesco GRECO – Prof. Gabriele PESCATORE – Avv.

Ugo SPAGNOLI – Prof. Francesco Paolo CASAVOLA – Prof. Antonio

BALDASSARRE – Prof. Vincenzo CAIANIELLO – Avv. Mauro FERRI – Prof.

Luigi MENGONI – Prof. Enzo CHELI – Dott. Renato GRANATA – Prof. Giuliano VASSALLI – Prof. Francesco GUIZZI – Prof. Cesare MIRABELLI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma sesto, del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie), come modificato dall’art. 12 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, promosso con ordinanza emessa il 12 aprile 1991 dal Consiglio superiore della magistratura – Sezione disciplinare – nel procedimento disciplinare a carico di Scaduto Rosa

Alba iscritta al n. 639 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 1991.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 febbraio 1992 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.

Ritenuto in fatto

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1. — La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza emessa il 12 aprile 1991 nel procedimento disciplinare a carico della dottoressa Rosa Alba Scaduto, ha sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, 101 e 104 della Costituzione,

dell’articolo 59, comma sesto, D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, modificato dall’art.

12 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, nella parte in cui la disposizione viene

interpretata come diritto vivente nel senso che l’esercizio dell’azione disciplinare è consentito a ciascuno dei titolari dell’azione stessa (Ministro della giustizia o Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione) entro l’anno dalla conoscenza del fatto che ha dato luogo all’addebito, anche quando è già decorso un anno dalla intervenuta conoscenza del medesimo fatto da parte dell’altro titolare, così indeterminatamente dilatando nel tempo l’assoggettabilità del magistrato all’azione disciplinare.

2. — Il giudice a quo ha rilevato che nel momento in cui il Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione aveva promosso l’azione disciplinare era già trascorso oltre un anno da quando il Ministro della giustizia aveva avuto notizia dei medesimi fatti, con la conseguenza che si sarebbero verificate le condizioni che determinano l’estinzione del procedimento se fosse accolta la questione di legittimità costituzionale. La norma sospettata di incostituzionalità stabilisce il termine di un anno per la decadenza dell’azione disciplinare senza provvedere a contrastare

l’ipotesi che la notizia dei fatti di rilevanza disciplinare possa pervenire ai due titolari dell’azione stessa in tempi diversi: così consente l’eventuale esposizione del

magistrato all’azione disciplinare senza limiti di tempo.

Dalla esigenza di evitare questo inconveniente e nella impossibilità di assumere la diversa interpretazione, per cui il termine di decadenza, maturato nei confronti anche del solo Ministro della giustizia o anche del solo Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione, ha valore assoluto e pertanto estingue a quel momento il potere di azione anche per l’altro titolare, la Sezione disciplinare del Consiglio

superiore della magistratura ritiene di poter individuare nell’ordinamento un interesse alla “conoscenza contestuale” delle notizie di tutti quei comportamenti che appaiono suscettibili di valutazione in sede disciplinare sia da parte del Ministro della giustizia sia da parte del Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione, interesse confermato e perseguito anche nel disegno di legge in materia sottoposto all’esame del Parlamento.

L’attuale sistema, nel quale non è prevista reciproca informazione tra i titolari

dell’azione disciplinare, violerebbe – ad avviso della Sezione rimettente – il principio di indipendenza del giudice garantito dagli articoli 101, comma secondo e 104,

comma primo, della Costituzione come condizione estrinseca di corretto esercizio del diritto di difesa dell’incolpato, tutelato dall’art. 24 della Costituzione, a causa del prolungato decorso del tempo fra l’infrazione ed il giudizio disciplinare che ne segue;

comporterebbe altresì una disparità di trattamento dei magistrati che sarebbero più o

meno garantiti a seconda che la notizia del fatto di rilievo disciplinare sia pervenuta

ai titolari dell’azione contestualmente o meno.

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Pertanto, secondo il giudice a quo, la disposizione in questione sarebbe

incostituzionale per violazione degli artt. 3, 24, 101 comma secondo (disposizione questa ultima non enunciata nel dispositivo dell’ordinanza ma contenuta nella

motivazione) e 104, comma primo, della Costituzione, “nella parte in cui non prevede a carico di ciascun titolare dell’azione disciplinare, qualora riceva notizia di

infrazioni che non risultino contestualmente portate a conoscenza anche dell’altro titolare, l’obbligo di comunicarla a questo immediatamente al fine di consentire un tempestivo inizio del decorso del termine di decadenza di un anno per l’esercizio dell’azione stessa per entrambi i soggetti preposti all’esercizio dell’azione

disciplinare nei confronti dei magistrati”.

L’ordinanza è stata ritualmente pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 41, prima serie speciale, del 16 ottobre 1991.

3. — L’Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Sulla base della constatazione dell’esistenza di due distinti organi titolari dell’azione disciplinare, l’Avvocatura ha osservato che l’eventuale decorrenza del termine

annuale per uno di essi non potrà avere alcuna influenza sulla facoltà di

promuovimento dell’azione disciplinare da parte dell’altro titolare dell’azione.

Altrimenti si verrebbe a creare una indebita limitazione nell’esercizio di un potere riconosciuto dalla Costituzione, mentre è da ritenere corretta la possibilità che il termine per l’esercizio dell’azione disciplinare possa decorrere e spirare in momenti diversi per il Ministro della giustizia e per il Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione.

Per l’Avvocatura dello Stato, che richiama in proposito le sentenze della Corte costituzionale n. 145 del 1976 e n. 579 del 1990, si deve ritenere che a mettere in pericolo l’indipendenza e l’autonomia del magistrato inquisito non è il tempo di potenziale esposizione alla possibilità di azione disciplinare, ma quello della durata del procedimento una volta iniziate le indagini.

In relazione all’eventuale contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, l’Avvocatura nega che vi sia diversità di trattamento di situazioni uguali e che l’eventuale sfasatura nei tempi di indagine del Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione e del Ministro della giustizia possa ledere in alcun modo il diritto di difesa dell’interessato.

Considerato in diritto

1. — La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 59, comma sesto, D.P.R. 16 settembre 1958, n.

916, modificato dall’art. 12, legge 3 gennaio 1981, n. 1, nella parte in cui prevede,

secondo la interpretazione dominante, che l’esercizio dell’azione disciplinare è

consentito a ciascuno dei titolari dell’azione stessa (Ministro della giustizia o

Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione) entro l’anno dalla

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conoscenza del fatto che ha dato luogo all’addebito, anche se è già decorso un anno dalla intervenuta conoscenza del medesimo fatto da parte dell’altro titolare

dell’azione disciplinare. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 104 della Costituzione, menzionati nel dispositivo

dell’ordinanza di remissione. La motivazione dell’ordinanza integra e precisa il riferimento alle norme costituzionali, indicando gli artt. 101, comma secondo e 104, comma primo, della Costituzione. Segnala inoltre che la ritenuta illegittimità

costituzionale potrebbe essere superata ove fosse posto l’obbligo, a carico di ciascuno dei due titolari dell’azione disciplinare che riceva notizie di infrazioni che non

risultino contestualmente portate a conoscenza anche dall’altro titolare, di

comunicarle immediatamente anche a questi, al fine di consentire il contemporaneo inizio del decorso del termine di decadenza.

2. — Preliminarmente è opportuno ricordare che il sistema disciplinare relativo ai magistrati non prevede termini di prescrizione. Le infrazioni sono perseguibili anche dopo un lungo periodo di tempo dalla commissione del fatto considerato

disciplinarmente rilevante, secondo un principio di imprescrittibilità dell’azione che,

“mentre si giustifica in base all’esigenza di una rigorosa tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, che rientra senza dubbio tra i più rilevanti dei beni

costituzionalmente protetti, non sacrifica oltre quanto necessario a tal fine il diritto di difesa e l’indipendenza del singolo magistrato” (sentenza n. 145 del 1976).

La imprescrittibilità dell’azione disciplinare è tuttavia bilanciata, a difesa dei diritti del singolo magistrato, da una sequenza di decadenze per l’esercizio dell’azione e per ciascuna fase del relativo procedimento, ad evitare che, avuta la notizia del fatto qualificabile come disciplinarmente rilevante o iniziato il relativo procedimento, ciascuno dei soggetti investiti di un potere di azione, di istruttoria o di giudizio possa differire indefinitamente nel tempo l’esercizio del proprio potere, con il rischio di incidere sulla indipendenza del magistrato. In ragione di questa esigenza la legge 3 gennaio 1981, n. 1, ha integrato la disciplina già prevista dall’art. 59 del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, disponendo (con la norma in ordine alla quale è stato

prospettato il dubbio di legittimità costituzionale) che l’azione disciplinare non può essere promossa dopo un anno dal giorno in cui il Ministro della giustizia o il

Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione hanno avuto notizia del fatto che forma oggetto dell’addebito; che, successivamente, entro un anno dall’inizio del procedimento deve essere comunicato all’incolpato il decreto che fissa la

discussione orale davanti alla Sezione disciplinare; che, infine, nei due anni

successivi dalla predetta comunicazione deve essere pronunciata la sentenza. Questa sequenza di decadenze risulta completata dalla estensione dei termini fissati per il giudizio di prima ed unica istanza anche al giudizio di rinvio che segua l’eventuale pronuncia della Corte di cassazione (sentenza n. 579 del 1990).

Nel sistema così congegnato, in coerenza con la scelta di fondo discrezionalmente operata dal legislatore, già ritenuta non illegittima costituzionalmente, di escludere la prescrittibilità dell’azione disciplinare (ancorata per la sua decorrenza alla

commissione del fatto disciplinarmente apprezzabile), la garanzia per il singolo

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magistrato viene assicurata in modo idoneo dalla limitazione temporale dell’esercizio del potere (di azione, di istruttoria o di giudizio) da parte di chi abbia conoscenza dei fatti (quanto al promuovimento dell’azione) o sia investito di una consequenziale fase processuale (quanto alla istruttoria o al giudizio nelle sue diverse fasi). Risulta

coerente con il sistema delle successive e concatenate decadenze che il termine per il promuovimento dell’azione disciplinare decorra dalla conoscenza dei fatti da parte di chi è investito del potere di promuovimento dell’azione e non dalla conoscenza che altri, sia pure titolari di autonomo ed analogo potere, abbiano dei medesimi fatti.

Del resto proprio a questo ordine di considerazioni finisce per portare argomenti la stessa ordinanza di rimessione, laddove segnala che non sembra neppure possibile che il termine di decadenza maturato nei confronti di uno dei due titolari dell’azione disciplinare abbia valore assoluto e pertanto estingua a quel momento il potere di azione anche per l’altro titolare, che pur non abbia avuto conoscenza del fatto e non abbia quindi dato causa direttamente al verificarsi della decadenza. La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura sottolinea anzi che sarebbe

“assai discutibile sul piano della stessa legittimità costituzionale, prevedere un

meccanismo di estinzione per causa altrui di un potere istituzionale riconosciuto dalla legge”, sì che questa ipotesi “non appare comunque ragionevolmente applicabile all’azione disciplinare di competenza del Ministro della giustizia al quale è riconosciuta addirittura dalla Costituzione ex art. 107, comma secondo, messa a repentaglio – in ipotesi – nella stessa sua sperimentabilità per disposto di legge (solamente) ordinaria”.

Aggiunge ancora l’ordinanza di rimessione che dalla estinzione del potere di azione anche per il titolare che non abbia conoscenza dei fatti “ne verrebbe su un piano generale una seria menomazione alla tutela del prestigio della funzione giudiziaria, tutela che trova in Costituzione un sicuro riconoscimento”. Considerazioni tutte sulle quali si può convenire, ma che portano ad escludere la fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, con riferimento ai diversi profili segnalati ed attinenti alla indipendenza del giudice (art. 101, comma secondo e 104 della

Costituzione). Né si vede, quanto agli altri parametri dedotti per la valutazione della legittimità costituzionale della norma denunciata (artt. 3 e 24 della Costituzione), come il prolungato decorso del tempo fra l’infrazione e il giudizio disciplinare che ne segue possa essere riferito non già al principio di imprescrittibilità dell’azione, ma al differenziato termine di decadenza per i due titolari dell’azione stessa, egualmente e separatamente decorrente per ciascuno di essi dalla conoscenza dei fatti. Inoltre essendo identico il termine (annuale) di decadenza e, segnatamente per ciascuno dei titolari dell’azione, identica la circostanza che dà luogo alla decorrenza del termine (conoscenza del fatto), non se ne può dedurre una disparità di trattamento nei confronti dei magistrati e di garanzie tra magistrati.

3. — L’ordinanza di rimessione prefigura conclusivamente la reciproca

comunicazione dei fatti da parte dei titolari dell’azione disciplinare come idonea a superare i dubbi di legittimità costituzionale affacciati o comunque idonea a

contemperare in modo equilibrato i diversi interessi in gioco. In effetti il legislatore

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già tende a limitare e prevenire le sfasature temporali che possano derivare dalla configurazione del sistema, disponendo che “i rapporti relativi a fatti suscettibili di valutazione in sede disciplinare sono trasmessi al Ministro e al Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione” (art. 59 della legge n. 916 del 1958); questa disposizione prevede inoltre atti che rendono sempre reciprocamente noto ai titolari dell’azione disciplinare il promuovimento della stessa. Tuttavia le sfasature temporali nella decorrenza del termine in questione non possono essere escluse in assoluto in un sistema nel quale il promuovimento della azione è discrezionale e presuppone una preliminare valutazione della rilevanza disciplinare dei fatti. Nell’attuale assetto l’obbligo di reciproca comunicazione dei fatti tra i due titolari dell’azione non varrebbe in realtà a prevenire ed a dissolvere definitivamente le sempre possibili sfasature temporali nella decorrenza dei termini di decadenza, giacché la mancata specificazione delle fattispecie di illecito disciplinare consente che siano

legittimamente differenti, da parte dei due diversi titolari dell’azione la valutazione della stessa apprezzabilità disciplinare e della rilevanza dei comportamenti, che possono attingerne o meno alla soglia dell’illecito disciplinare e dare ingresso al conseguenziale procedimento secondo distinte e separate valutazioni del Ministro della giustizia e del Procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione;

valutazioni svolte senza reciproci condizionamenti o preclusioni e destinate ad attuare, con la doppia titolarità dell’azione, una duplice possibilità di accedere alla verifica della deontologia professionale dei magistrati.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 59, comma sesto, D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916 (Disposizioni di attuazione e di

coordinamento della legge 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie) come modificato dall’art. 12, legge 3 gennaio 1981, n. 1 (Modificazioni alla legge 24 marzo 1958, n. 195 e al decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n.

916, sulla costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 101, comma secondo e 104, comma primo, della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della

magistratura con ordinanza del 12 aprile 1991.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 aprile 1992.

F.to: Aldo CORASANTI, Presidente Cesare MIRABELLI, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

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Sentenza n. 220 Anno 1994

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente – Prof.

Gabriele PESCATORE – Avv. Ugo SPAGNOLI – Prof. Antonio BALDASSARRE – Prof. Vincenzo CAIANIELLO – Avv. Mauro FERRI – Prof. Luigi MENGONI – Prof. Enzo CHELI – Dott. Renato GRANATA – Prof. Giuliano VASSALLI – Prof.

Francesco GUIZZI – Prof. Cesare MIRABELLI – prof. Fernando SANTOSUOSSO – Avv. Massimo VARI – Dott. Cesare RUPERTO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della Magistratura),

promosso con ordinanza emessa il 24 settembre 1993 dal Consiglio Superiore della Magistratura – Sezione disciplinare – nel procedimento disciplinare relativo a

Conigliaro Giovanni, iscritta al n. 781 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 1994.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 27 aprile 1994 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

1. — Nel corso di un procedimento in cui l’incolpato, affermando di non aver

reperito un magistrato disposto ad assisterlo, aveva chiesto alla Sezione disciplinare

del Consiglio Superiore della Magistratura di sollevare questione di legittimità

costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio

1946, n. 511 (Guarentigie della Magistratura), nella parte in cui non consente la

(14)

nomina di un avvocato quale difensore, la Sezione medesima, con ordinanza emessa il 24 settembre 1993, dopo aver respinto tale prospettazione, ha viceversa sollevato questione di legittimità costituzionale della norma citata, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, sotto due diversi e distinti profili.

Premette la Sezione disciplinare che il diritto di difesa può essere articolato in forme e modalità diverse e non implica necessariamente l’apporto tecnico di un avvocato.

Tuttavia la norma non si sottrarrebbe al dubbio di legittimità nella parte in cui rimette alla scelta discrezionale dell’incolpato se avvalersi o meno di un difensore. La stessa facoltatività della difesa in sostanza, soprattutto quando sia lecito dubitare della piena consapevolezza dell’incolpato, comporterebbe il denunciato vulnus.

Alla luce poi dell’interpretazione della norma impugnata che la stessa Sezione remittente afferma di seguire costantemente, escludendo che essa consenta di procedere alla nomina di un difensore d’ufficio – ancorché magistrato – nei casi in cui l’incolpato “non intenda o non possa” nominare un collega, si profilerebbe un ulteriore aspetto d’illegittimità, concretantesi in tale preclusione alla nomina d’ufficio.

2. — È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha rilevato come la difesa tecnica da parte di un collega – anche alla stregua delle affermazioni della Suprema Corte – non violi il diritto di difesa nel procedimento disciplinare nei confronti del magistrato. Altrettanto potrebbe sostenersi per l’autodifesa allorché non intervenga la nomina di un altro magistrato: tale possibilità risulterebbe coerente “con il principio di autogoverno e di autodiarchia della magistratura e con le peculiarità del procedimento disciplinare”, anche per la particolare qualificazione dell’incolpato. Comunque la presenza di un difensore non sarebbe sempre ed in assoluto costituzionalmente richiesta, dovendosi avere riguardo alla funzione oggettiva cui la difesa è preordinata e non alla scelta soggettiva dell’interessato.

L’Avvocatura ha altresì proposto un’interpretazione adeguatrice della norma, nel senso che essa, per non restare “priva di contenuto o quanto meno claudicante”, dovrebbe comportare il potere, da parte della Sezione, di nominare un difensore d’ufficio.

Considerato in diritto

1. — L’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, è sospettato d’illegittimità costituzionale dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura sotto due profili: là dove prevede la possibilità per l’incolpato, di farsi assistere da altro magistrato come una facoltà e non già come un obbligo ed in secondo luogo nella parte in cui non consente la nomina di un

magistrato-difensore di ufficio nei casi in cui l’incolpato “non intenda o non possa

nominare un difensore”.

(15)

Specifica il giudice a quo che nella specie “l’incolpato si è presentato al dibattimento privo di difensore, nonostante la sua volontà di avvalersi della difesa di un altro magistrato, non avendo, a suo dire, potuto reperire un collega disposto ad assisterlo”.

“Per costante interpretazione”, conclude la remittente, si esclude che l’impugnato art.

34 consenta la nomina di ufficio di un magistrato difensore.

2. — Tale premessa di fatto palesa l’irrilevanza del primo dei dedotti profili d’illegittimità costituzionale, non venendo qui in evidenza l’aspetto

dell’obbligatorietà della difesa, posto che l’incolpato ha già espresso la propria intenzione di valersi di un difensore, sì che il momento della discrezionalità della scelta tra assistenza ed autodifesa risulta ormai superato nella dinamica del

procedimento.

La relativa questione deve quindi essere dichiarata inammissibile.

3.1. — Il secondo profilo va altresì scrutinato con riguardo alla sola ipotesi rilevante, quella dell’incolpato che non possa nominare un magistrato difensore e non già che non intenda farlo. Tale seconda eventualità riconduce infatti alla prospettazione sub 2, cioè ad un problema di alternativa tra l’assistenza obbligatoria e l’assistenza facoltativa, che esula dal procedimento a quo.

Così circoscritta nella sua rilevanza e precisata nei suoi termini, la questione è fondata.

3.2. — Questa Corte ha costantemente ritenuto che il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati è strutturalmente e funzionalmente diverso da quello previsto per gli impiegati dello Stato. Nel suo carattere giurisdizionale ed in una serie di

peculiarità, l’intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell’Ordine giudiziario e le implicazioni che essa comporta nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali (sent.

289 del 1992).

A tale specificità si ricollega la particolare previsione dettata dalla norma impugnata, che limita all’ambito dei magistrati i soggetti legittimati a difendere l’incolpato e rimette a quest’ultimo l’opzione tra autodifesa ed assistenza del collega.

Più in generale, questa Corte ha chiarito, quanto a modalità di esercizio del diritto di difesa, che esso può essere dal legislatore “diversamente regolato e adattato alle speciali esigenze dei singoli procedimenti, purché non ne siano pregiudicati lo scopo e le funzioni” (Sentenze nn. 159/72, 119/74, 62/75). Scopo e funzioni che si

concretizzano, in primo luogo, nella garanzia di un effettivo contraddittorio e di un’assistenza di tipo tecnico-professionale. Al riguardo la Corte ha sottolineato che il diritto di difesa può dirsi assicurato, come regola, nella misura in cui si dia

all’interessato la possibilità di partecipare ad un’effettiva dialettica processuale, non realizzabile senza l’intervento del difensore (Sentenza n. 190/70).

Ora, nel caso in esame, è vero che il legislatore ha ritenuto l’assistenza in parola surrogabile con il bagaglio culturale e l’esperienza professionale di cui il magistrato è normalmente portatore, così giustificando la previsione dell’autodifesa e la

limitazione dell’assistenza ai soli colleghi. Ma è altresì chiaro che, nel momento in

(16)

cui la scelta dell’incolpato si sia compiuta nel senso di valersi dell’opera di un collega, la garanzia di effettività del diritto di quella difesa che l’interessato non ritiene di potersi assicurare da solo, postula la necessità che tale assistenza venga comunque resa possibile.

Gli stessi argomenti che sono alla base della possibilità di difendersi solo

personalmente, accreditando all’incolpato preparazione tecnica e discernimento sufficienti a decidere se farsi assistere o meno da un collega, militano a favore della necessità di una nomina d’ufficio ove tale opera difensiva non si concretizzi.

In altri e conclusivi termini, il precetto di cui all’art. 24 della Costituzione non consente che ragioni di carattere oggettivo – ostative all’individuazione e nomina di un collega difensore – vengano a comprimere in danno dell’incolpato quella

possibilità di consapevole ed attiva partecipazione al procedimento, in cui si sostanzia l’effettività della difesa.

Il dato testuale dell’art. 34 non permette l’interpretazione adeguatrice suggerita dall’Autorità intervenuta, sì che la norma va dichiarata illegittima nella parte in cui non prevede eplicitamente la possibilità, per la Sezione disciplinare, di nominare un magistrato difensore d’ufficio all’incolpato che abbia scelto di farsi assistere da un collega: analogamente, del resto, a quanto è legislativamente previsto per altre ipotesi di procedimenti disciplinari (cfr. ad es. gli artt. 17, comma 4, delle disposizioni

d’attuazione c.p.p. e 15, secondo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 “Norme di principio sulla disciplina militare”).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della Magistratura), nella parte in cui non consente alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura di disporre d’ufficio la nomina di un magistrato difensore;

2) dichiara inammissibile la ulteriore questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, sollevata in riferimento all’art. 24 della Costituzione dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 1994.

F.to: Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente Cesare RUPERTO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

(17)

Sentenza n. 119 Anno 1995

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. Antonio BALDASSARRE – Prof. Vincenzo

CAIANIELLO – Avv. Mauro FERRI – Prof. Luigi MENGONI – Prof. Enzo CHELI – Dott. Renato GRANATA – Prof. Giuliano VASSALLI – Prof. Francesco GUIZZI – Prof. Cesare MIRABELLI – Prof. Fernando SANTOSUOSSO – Avv. Massimo

VARI – Dott. Cesare RUPERTO – Dott. Riccardo CHIEPPA, Giudici, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), promossi con 5 ordinanze emesse il 16 settembre 1994 dal Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, nei procedimenti disciplinari a carico di Gianmarino AMALIA, iscritti ai nn. 680, 681, 682, 683, 684 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 marzo 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

1. — Nel corso di cinque procedimenti disciplinari a carico dello stesso magistrato, il Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, ha sollevato, con cinque identiche ordinanze emesse tutte il 16 settembre 1994, questione di legittimità

costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione – dell’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede – sempre o in casi determinati –

l’obbligatorietà dell’assistenza dell’incolpato.

Premette il giudice a quo che la recente sentenza n. 220 del 1994 di questa Corte non

ha direttamente affrontato il problema della legittimità costituzionale dell’autodifesa

(18)

dell’incolpato, che dunque risulterebbe sostanzialmente nuovo. Ritiene il remittente che l’effettività del diritto di difesa rischia di risultare lesa nel momento in cui si rimette all’esclusiva discrezionalità dell’incolpato se avvalersi o meno di un difensore.

La scelta nel senso dell’autodifesa precluderebbe infatti la possibilità di nomina di un difensore di ufficio, anche quando l’incolpato non sia in grado di “avere piena

consapevolezza della scelta”. Oltre alla prospettata violazione dell’art. 24 della

Costituzione, la Sezione disciplinare ravvisa nella norma un duplice profilo di lesione dell’art. 3. Da un lato infatti la generale presunzione di adeguatezza dell’autodifesa – espressa dalla norma – non consentirebbe di trattare in modo differenziato situazioni che possono essere tra loro diverse. Dall’altro lato, poi, risulterebbe vulnerato il principio di parità di trattamento con riguardo all’obbligatorietà della difesa tecnica prevista per il processo penale (a prescindere dalla scelta dell’imputato e dalla sua preparazione personale).

Tale asserita disparità di trattamento parrebbe tanto più irragionevole alla luce dei possibili esiti del procedimento disciplinare (ad es. la rimozione e la destituzione) in confronto alle conseguenze di un processo penale avente, in ipotesi, ad oggetto reati contravvenzionali: posto che in entrambi i casi il bagaglio di conoscenze tecniche del magistrato è, ovviamente, identico.

2. — È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione, richiamando le affermazioni di questa Corte circa la possibilità che il diritto di difesa sia diversamente regolato e adattato alle esigenze dei singoli procedimenti; e

sottolineando inoltre la differenza tra le situazioni poste a confronto dal giudice a quo nel richiamare il processo penale come tertium comparationis.

Considerato in diritto

1. — È denunciato l’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede – sempre o in casi determinati – l’obbligatorietà dell’assistenza difensiva dell’incolpato nel

procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura.

La norma è sospettata d’illegittimità costituzionale in quanto, nel rimettere alla discrezionalità dell’interessato se avvalersi o meno del difensore anche quando egli non sia in grado di avere piena consapevolezza della scelta, comprometterebbe l’effettività del diritto di difesa, garantita dall’art. 24, secondo comma, della

Costituzione. Inoltre risulterebbe leso il principio di eguaglianza, sia perché la norma non consentirebbe di trattare in modo difforme situazioni tra loro diverse per le

caratteristiche soggettive dell’incolpato, sia perché nel processo penale è invece esclusa l’autodifesa “indipendentemente da qualsiasi valutazione o scelta

dell’imputato e dalle sue caratteristiche e preparazione personale”.

(19)

2. — I giudizi vanno riuniti in considerazione dell’identità del problema sollevato con le cinque ordinanze di rimessione.

3. — La questione è infondata.

Questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo cui la garanzia assicurata dall’art. 24 della Costituzione non preclude che la disciplina legislativa del diritto di difesa si conformi alle speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, purché ne vengano garantiti lo scopo e la funzione, cioè il contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti (v., ex plurimis, sentenze n. 351 del 1989 e n. 202 del 1975).

Questa Corte ha inoltre in più occasioni rilevato come l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprima con modalità diverse, in conseguenza dell’ampia

discrezionalità legislativa in materia (v., da ultimo, sentenza n. 71 del 1995). E, pur ravvisando una matrice comune nel procedimento a carico dei dipendenti pubblici e dei magistrati nell’esigenza di assicurare l’interesse pubblico al buon andamento e all’imparzialità delle funzioni statali in bilanciamento con i diritti costituzionalmente rilevanti dei singoli, ha sottolineato come per i magistrati i due termini del

bilanciamento assumano una connotazione ulteriore. Da un lato, infatti, l’interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (assistito dalla speciale garanzia di autonomia ed indipendenza ex art. 101, secondo comma, della Costituzione); mentre, dall’altro lato, la tutela del singolo va

commisurata alla salvaguardia del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità collegate all’esercizio della funzione giurisdizionale (sentenza n. 289 del 1992). Di talché “l’intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell’ordine

giudiziario” (sentenza n. 220 del 1994), e nel suo quadro la possibilità di difendersi personalmente risulta coerente con il principio stesso di autogoverno della

Magistratura, atteggiandosi come uno dei tanti modi di esercizio del diritto di difesa, che si adattano alle speciali esigenze del procedimento. La scelta nel senso della possibilità dell’autodifesa (ritenuta adeguata ad assicurare un effettivo

contraddittorio) in ambito disciplinare, si giustifica appunto in considerazione della riconosciuta attitudine di chi è professionalmente investito di funzione

giurisdizionale, a far derivare esclusivamente dalla propria valutazione tecnica la linea difensiva circa i comportamenti che gli vengono contestati come illecito disciplinare.

La previsione di una difesa obbligatoriamente affidata ad altri, precludendo all’incolpato la possibilità di predisporre e gestire direttamente la propria difesa, accrediterebbe a priori la tesi secondo cui il coinvolgimento personale nella vicenda disciplinare toglie al magistrato l’idoneità a svolgere una congrua attività difensiva.

Laddove è appunto la descritta compenetrazione tra il bagaglio tecnico riconosciuto dal legislatore come proprio del magistrato, la sua posizione professionale e

l’esercizio della giurisdizione, ad escludere in partenza che si possa qualificare la di lui difesa come più o meno “idonea”, secondo logiche di mera convenienza

processuale affidate ad un controvertibile giudizio della stessa sezione disciplinare.

(20)

Quest’ultima deve invece arrestare il proprio intervento sulla soglia dell’esercizio dell’opzione dell’incolpato tra l’avvalersi o il non avvalersi di un difensore;

disponendo bensì la nomina d’ufficio in caso di scelta infruttuosa (v. sentenza n. 220 del 1994), ma astenendosi da ogni sindacato sulle attitudini difensive di colui che abbia optato per l’autodifesa.

4. — L’affermata sufficienza dell’autodifesa e l’esclusione di ogni possibilità di apprezzamenti preventivi sulle qualità soggettive dell’incolpato privano di

fondamento la censura ex art. 24 ed il primo profilo della censura mossa a stregua dell’art. 3 della Costituzione. Quanto poi al secondo profilo di quest’ultima censura, va osservato che le peculiarità del procedimento disciplinare e delle sue finalità non consentono la comparazione col processo penale, l’utilizzo dei cui moduli procedurali (d’altronde previsti solo in via integrativa dagli artt. 32 e 34 del r.d.lgs. n. 511 del 1946) non è affatto sintomatico di una coincidenza che abiliti ad assimilarne i presupposti e a confrontarne gli esiti, ma è soltanto funzionale ad una più rigorosa tutela del prestigio dell’ordine giudiziario (v. sentenza n. 145 del 1976).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura),

sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con le ordinanze di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 1995.

F.to: Antonio BALDASSARRE, Presidente Cesare RUPERTO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in cancelleria il 13 aprile 1995.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

(21)

Sentenza n. 119 Anno 1995

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. Antonio BALDASSARRE – Prof. Vincenzo

CAIANIELLO – Avv. Mauro FERRI – Prof. Luigi MENGONI – Prof. Enzo CHELI – Dott. Renato GRANATA – Prof. Giuliano VASSALLI – Prof. Francesco GUIZZI – Prof. Cesare MIRABELLI – Prof. Fernando SANTOSUOSSO – Avv. Massimo

VARI – Dott. Cesare RUPERTO – Dott. Riccardo CHIEPPA, Giudici, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), promossi con 5 ordinanze emesse il 16 settembre 1994 dal Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, nei procedimenti disciplinari a carico di Gianmarino AMALIA, iscritti ai nn. 680, 681, 682, 683, 684 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 marzo 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

1. — Nel corso di cinque procedimenti disciplinari a carico dello stesso magistrato, il Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, ha sollevato, con cinque identiche ordinanze emesse tutte il 16 settembre 1994, questione di legittimità

costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione – dell’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede – sempre o in casi determinati –

l’obbligatorietà dell’assistenza dell’incolpato.

Premette il giudice a quo che la recente sentenza n. 220 del 1994 di questa Corte non

ha direttamente affrontato il problema della legittimità costituzionale dell’autodifesa

dell’incolpato, che dunque risulterebbe sostanzialmente nuovo. Ritiene il remittente

(22)

che l’effettività del diritto di difesa rischia di risultare lesa nel momento in cui si rimette all’esclusiva discrezionalità dell’incolpato se avvalersi o meno di un difensore.

La scelta nel senso dell’autodifesa precluderebbe infatti la possibilità di nomina di un difensore di ufficio, anche quando l’incolpato non sia in grado di “avere piena

consapevolezza della scelta”. Oltre alla prospettata violazione dell’art. 24 della

Costituzione, la Sezione disciplinare ravvisa nella norma un duplice profilo di lesione dell’art. 3. Da un lato infatti la generale presunzione di adeguatezza dell’autodifesa – espressa dalla norma – non consentirebbe di trattare in modo differenziato situazioni che possono essere tra loro diverse. Dall’altro lato, poi, risulterebbe vulnerato il principio di parità di trattamento con riguardo all’obbligatorietà della difesa tecnica prevista per il processo penale (a prescindere dalla scelta dell’imputato e dalla sua preparazione personale).

Tale asserita disparità di trattamento parrebbe tanto più irragionevole alla luce dei possibili esiti del procedimento disciplinare (ad es. la rimozione e la destituzione) in confronto alle conseguenze di un processo penale avente, in ipotesi, ad oggetto reati contravvenzionali: posto che in entrambi i casi il bagaglio di conoscenze tecniche del magistrato è, ovviamente, identico.

2. — È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione, richiamando le affermazioni di questa Corte circa la possibilità che il diritto di difesa sia diversamente regolato e adattato alle esigenze dei singoli procedimenti; e

sottolineando inoltre la differenza tra le situazioni poste a confronto dal giudice a quo nel richiamare il processo penale come tertium comparationis.

Considerato in diritto

1. — È denunciato l’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede – sempre o in casi determinati – l’obbligatorietà dell’assistenza difensiva dell’incolpato nel

procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura.

La norma è sospettata d’illegittimità costituzionale in quanto, nel rimettere alla discrezionalità dell’interessato se avvalersi o meno del difensore anche quando egli non sia in grado di avere piena consapevolezza della scelta, comprometterebbe l’effettività del diritto di difesa, garantita dall’art. 24, secondo comma, della

Costituzione. Inoltre risulterebbe leso il principio di eguaglianza, sia perché la norma non consentirebbe di trattare in modo difforme situazioni tra loro diverse per le

caratteristiche soggettive dell’incolpato, sia perché nel processo penale è invece esclusa l’autodifesa “indipendentemente da qualsiasi valutazione o scelta

dell’imputato e dalle sue caratteristiche e preparazione personale”.

2. — I giudizi vanno riuniti in considerazione dell’identità del problema sollevato con

le cinque ordinanze di rimessione.

(23)

3. — La questione è infondata.

Questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo cui la garanzia assicurata dall’art. 24 della Costituzione non preclude che la disciplina legislativa del diritto di difesa si conformi alle speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, purché ne vengano garantiti lo scopo e la funzione, cioè il contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti (v., ex plurimis, sentenze n. 351 del 1989 e n. 202 del 1975).

Questa Corte ha inoltre in più occasioni rilevato come l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprima con modalità diverse, in conseguenza dell’ampia

discrezionalità legislativa in materia (v., da ultimo, sentenza n. 71 del 1995). E, pur ravvisando una matrice comune nel procedimento a carico dei dipendenti pubblici e dei magistrati nell’esigenza di assicurare l’interesse pubblico al buon andamento e all’imparzialità delle funzioni statali in bilanciamento con i diritti costituzionalmente rilevanti dei singoli, ha sottolineato come per i magistrati i due termini del

bilanciamento assumano una connotazione ulteriore. Da un lato, infatti, l’interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (assistito dalla speciale garanzia di autonomia ed indipendenza ex art. 101, secondo comma, della Costituzione); mentre, dall’altro lato, la tutela del singolo va

commisurata alla salvaguardia del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità collegate all’esercizio della funzione giurisdizionale (sentenza n. 289 del 1992). Di talché “l’intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell’ordine

giudiziario” (sentenza n. 220 del 1994), e nel suo quadro la possibilità di difendersi personalmente risulta coerente con il principio stesso di autogoverno della

Magistratura, atteggiandosi come uno dei tanti modi di esercizio del diritto di difesa, che si adattano alle speciali esigenze del procedimento. La scelta nel senso della possibilità dell’autodifesa (ritenuta adeguata ad assicurare un effettivo

contraddittorio) in ambito disciplinare, si giustifica appunto in considerazione della riconosciuta attitudine di chi è professionalmente investito di funzione

giurisdizionale, a far derivare esclusivamente dalla propria valutazione tecnica la linea difensiva circa i comportamenti che gli vengono contestati come illecito disciplinare.

La previsione di una difesa obbligatoriamente affidata ad altri, precludendo all’incolpato la possibilità di predisporre e gestire direttamente la propria difesa, accrediterebbe a priori la tesi secondo cui il coinvolgimento personale nella vicenda disciplinare toglie al magistrato l’idoneità a svolgere una congrua attività difensiva.

Laddove è appunto la descritta compenetrazione tra il bagaglio tecnico riconosciuto dal legislatore come proprio del magistrato, la sua posizione professionale e

l’esercizio della giurisdizione, ad escludere in partenza che si possa qualificare la di lui difesa come più o meno “idonea”, secondo logiche di mera convenienza

processuale affidate ad un controvertibile giudizio della stessa sezione disciplinare.

Quest’ultima deve invece arrestare il proprio intervento sulla soglia dell’esercizio

dell’opzione dell’incolpato tra l’avvalersi o il non avvalersi di un difensore;

(24)

disponendo bensì la nomina d’ufficio in caso di scelta infruttuosa (v. sentenza n. 220 del 1994), ma astenendosi da ogni sindacato sulle attitudini difensive di colui che abbia optato per l’autodifesa.

4. — L’affermata sufficienza dell’autodifesa e l’esclusione di ogni possibilità di apprezzamenti preventivi sulle qualità soggettive dell’incolpato privano di

fondamento la censura ex art. 24 ed il primo profilo della censura mossa a stregua dell’art. 3 della Costituzione. Quanto poi al secondo profilo di quest’ultima censura, va osservato che le peculiarità del procedimento disciplinare e delle sue finalità non consentono la comparazione col processo penale, l’utilizzo dei cui moduli procedurali (d’altronde previsti solo in via integrativa dagli artt. 32 e 34 del r.d.lgs. n. 511 del 1946) non è affatto sintomatico di una coincidenza che abiliti ad assimilarne i presupposti e a confrontarne gli esiti, ma è soltanto funzionale ad una più rigorosa tutela del prestigio dell’ordine giudiziario (v. sentenza n. 145 del 1976).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura),

sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con le ordinanze di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 1995.

F.to: Antonio BALDASSARRE, Presidente Cesare RUPERTO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in cancelleria il 13 aprile 1995.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

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Sentenza n. 119 Anno 1995

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. Antonio BALDASSARRE – Prof. Vincenzo

CAIANIELLO – Avv. Mauro FERRI – Prof. Luigi MENGONI – Prof. Enzo CHELI – Dott. Renato GRANATA – Prof. Giuliano VASSALLI – Prof. Francesco GUIZZI – Prof. Cesare MIRABELLI – Prof. Fernando SANTOSUOSSO – Avv. Massimo

VARI – Dott. Cesare RUPERTO – Dott. Riccardo CHIEPPA, Giudici, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, secondo comma, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), promossi con 5 ordinanze emesse il 16 settembre 1994 dal Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, nei procedimenti disciplinari a carico di Gianmarino AMALIA, iscritti ai nn. 680, 681, 682, 683, 684 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 1994.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

Udito nella camera di consiglio del 22 marzo 1995 il Giudice relatore Cesare Ruperto.

Ritenuto in fatto

1. — Nel corso di cinque procedimenti disciplinari a carico dello stesso magistrato, il Consiglio Superiore della Magistratura, Sezione disciplinare, ha sollevato, con cinque identiche ordinanze emesse tutte il 16 settembre 1994, questione di legittimità

costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione – dell’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede – sempre o in casi determinati –

l’obbligatorietà dell’assistenza dell’incolpato.

Premette il giudice a quo che la recente sentenza n. 220 del 1994 di questa Corte non

ha direttamente affrontato il problema della legittimità costituzionale dell’autodifesa

dell’incolpato, che dunque risulterebbe sostanzialmente nuovo. Ritiene il remittente

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che l’effettività del diritto di difesa rischia di risultare lesa nel momento in cui si rimette all’esclusiva discrezionalità dell’incolpato se avvalersi o meno di un difensore.

La scelta nel senso dell’autodifesa precluderebbe infatti la possibilità di nomina di un difensore di ufficio, anche quando l’incolpato non sia in grado di “avere piena

consapevolezza della scelta”. Oltre alla prospettata violazione dell’art. 24 della

Costituzione, la Sezione disciplinare ravvisa nella norma un duplice profilo di lesione dell’art. 3. Da un lato infatti la generale presunzione di adeguatezza dell’autodifesa – espressa dalla norma – non consentirebbe di trattare in modo differenziato situazioni che possono essere tra loro diverse. Dall’altro lato, poi, risulterebbe vulnerato il principio di parità di trattamento con riguardo all’obbligatorietà della difesa tecnica prevista per il processo penale (a prescindere dalla scelta dell’imputato e dalla sua preparazione personale).

Tale asserita disparità di trattamento parrebbe tanto più irragionevole alla luce dei possibili esiti del procedimento disciplinare (ad es. la rimozione e la destituzione) in confronto alle conseguenze di un processo penale avente, in ipotesi, ad oggetto reati contravvenzionali: posto che in entrambi i casi il bagaglio di conoscenze tecniche del magistrato è, ovviamente, identico.

2. — È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione, richiamando le affermazioni di questa Corte circa la possibilità che il diritto di difesa sia diversamente regolato e adattato alle esigenze dei singoli procedimenti; e

sottolineando inoltre la differenza tra le situazioni poste a confronto dal giudice a quo nel richiamare il processo penale come tertium comparationis.

Considerato in diritto

1. — È denunciato l’art. 34, secondo comma, del r.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), nella parte in cui non prevede – sempre o in casi determinati – l’obbligatorietà dell’assistenza difensiva dell’incolpato nel

procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura.

La norma è sospettata d’illegittimità costituzionale in quanto, nel rimettere alla discrezionalità dell’interessato se avvalersi o meno del difensore anche quando egli non sia in grado di avere piena consapevolezza della scelta, comprometterebbe l’effettività del diritto di difesa, garantita dall’art. 24, secondo comma, della

Costituzione. Inoltre risulterebbe leso il principio di eguaglianza, sia perché la norma non consentirebbe di trattare in modo difforme situazioni tra loro diverse per le

caratteristiche soggettive dell’incolpato, sia perché nel processo penale è invece esclusa l’autodifesa “indipendentemente da qualsiasi valutazione o scelta

dell’imputato e dalle sue caratteristiche e preparazione personale”.

2. — I giudizi vanno riuniti in considerazione dell’identità del problema sollevato con

le cinque ordinanze di rimessione.

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3. — La questione è infondata.

Questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo cui la garanzia assicurata dall’art. 24 della Costituzione non preclude che la disciplina legislativa del diritto di difesa si conformi alle speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, purché ne vengano garantiti lo scopo e la funzione, cioè il contraddittorio, in modo che sia escluso ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti (v., ex plurimis, sentenze n. 351 del 1989 e n. 202 del 1975).

Questa Corte ha inoltre in più occasioni rilevato come l’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprima con modalità diverse, in conseguenza dell’ampia

discrezionalità legislativa in materia (v., da ultimo, sentenza n. 71 del 1995). E, pur ravvisando una matrice comune nel procedimento a carico dei dipendenti pubblici e dei magistrati nell’esigenza di assicurare l’interesse pubblico al buon andamento e all’imparzialità delle funzioni statali in bilanciamento con i diritti costituzionalmente rilevanti dei singoli, ha sottolineato come per i magistrati i due termini del

bilanciamento assumano una connotazione ulteriore. Da un lato, infatti, l’interesse pubblico in gioco riguarda il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale (assistito dalla speciale garanzia di autonomia ed indipendenza ex art. 101, secondo comma, della Costituzione); mentre, dall’altro lato, la tutela del singolo va

commisurata alla salvaguardia del dovere di imparzialità e della connessa esigenza di credibilità collegate all’esercizio della funzione giurisdizionale (sentenza n. 289 del 1992). Di talché “l’intera vicenda disciplinare riflette il proprium dell’ordine

giudiziario” (sentenza n. 220 del 1994), e nel suo quadro la possibilità di difendersi personalmente risulta coerente con il principio stesso di autogoverno della

Magistratura, atteggiandosi come uno dei tanti modi di esercizio del diritto di difesa, che si adattano alle speciali esigenze del procedimento. La scelta nel senso della possibilità dell’autodifesa (ritenuta adeguata ad assicurare un effettivo

contraddittorio) in ambito disciplinare, si giustifica appunto in considerazione della riconosciuta attitudine di chi è professionalmente investito di funzione

giurisdizionale, a far derivare esclusivamente dalla propria valutazione tecnica la linea difensiva circa i comportamenti che gli vengono contestati come illecito disciplinare.

La previsione di una difesa obbligatoriamente affidata ad altri, precludendo all’incolpato la possibilità di predisporre e gestire direttamente la propria difesa, accrediterebbe a priori la tesi secondo cui il coinvolgimento personale nella vicenda disciplinare toglie al magistrato l’idoneità a svolgere una congrua attività difensiva.

Laddove è appunto la descritta compenetrazione tra il bagaglio tecnico riconosciuto dal legislatore come proprio del magistrato, la sua posizione professionale e

l’esercizio della giurisdizione, ad escludere in partenza che si possa qualificare la di lui difesa come più o meno “idonea”, secondo logiche di mera convenienza

processuale affidate ad un controvertibile giudizio della stessa sezione disciplinare.

Quest’ultima deve invece arrestare il proprio intervento sulla soglia dell’esercizio

dell’opzione dell’incolpato tra l’avvalersi o il non avvalersi di un difensore;

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