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Avv. Renato Ambrosio

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Academic year: 2022

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RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE IN CASO DI ERRORE DI DIAGNOSI ECOGRAFICA IN CORSO DI GRAVIDANZA

Avv. Renato Ambrosio*

La decisione di far precedere la trattazione in chiave giuridica del caso in esame dal parere del medico legale corrisponde a precise esigenze metodologiche.

In tema di responsabilità professionale del medico qualsiasi attività risarcitoria che l’avvocato intenda intraprendere, non può che essere sostenuta, con assoluta priorità, dal responso dell’esperto in punto di nesso causale tra il danno lamentato dai clienti e la condotta dei sanitari.

Dopo l’analisi medico legale che mi ha descritto la malformazione congenita del feto, la natura delle cure e dell’assistenza di cui la minore abbisogna, l’erroneo operato dei sanitari durante la gestazione, le conseguenze di ordine psichico sui genitori, giunge per me il momento dell’istruzione della vicenda, nel senso di proporre per conto dei danneggiati una domanda risarcitoria tesa al giusto ristoro del danno subito: al giurista compete, infatti, non solo l’apprezzamento ma anche la qualificazione giuridica all’indicazione fornita dal perito, ossia la decisione circa l’esistenza del danno risarcibile secondo le tre note categorie giuridiche (danno biologico, danno patrimoniale e danno non patrimoniale).

Il primo problema è quello di stabilire se si tratta in via esclusiva di responsabilità contrattuale oppure, altrettanto esclusivamente, di responsabilità extracontrattuale o aquiliana, ovvero se possa trattarsi di una sorta di concorso tra le due forme di responsabilità.

Nel caso in esame indubbio è il fatto che l’affidamento della paziente alla struttura sanitaria, che direttamente e contemporaneamente assume di prestare la propria opera, generi un contratto tra le parti.

L’accettazione, infatti, del paziente nella struttura sanitaria al fine di una visita ambulatoriale comporta la conclusione di un contratto di opera professionale.

(Cass. 21.12.1978 n. 6141 in Giur. It. 1979, I, 1 Col 953; Cass. 24.3.1979 n. 1716 in Foro It. 1980, I, Col. 1115).

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E non vi è poi chi non come veda la diagnosi con ecografia e la sua conseguente lettura possano, se errate, innescare un meccanismo distorto, senza ritorno e peraltro del tutto prevedibile, quale la non conoscenza in tempi accettabili di eventuali malformazioni e la non messa in atto di correttivi idonei.

La questione va però affrontata anche sotto un altro aspetto: nella vicenda di Anna e dei suoi genitori non risulta violato solo il dovere primario della correttezza della prestazione ma anche quello più lato della protezione della parte debole (la paziente) da rischi di danni, peraltro verificatasi, risultando leso il diritto assoluto dell’integrità psicofisica, e che si sarebbero potuti evitare con la comune diligenza, prudenza e perizia.

La giurisprudenza dell’ultimo decennio ha ribadito la configurabilità del concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ogni volta che il medesimo comportamento, risalente al medesimo autore, abbia inciso contemporaneamente sui diritti derivanti dal contratto e su quelli spettanti al soggetto danneggiato in via assoluta ed indipendente dal rapporto obbligatorio.

(crf: Cass. Sez. un. 14.5.1987, n. 4441, in Giust. civ. 1987, I, e Cass. sez. lav., 5.10.1994 n. 8090).

Senza dubbio, ripeto, siamo di fronte a due diversi ordini di diritti lesi: il diritto alla correttezza della prestazione da parte del medico ecografo che avrebbe dovuto portare a termine il suo compito senza errori ed il diritto alla salute ovvero all’integrità psicofisica (ribadisco: diritto assoluto e tutelato in sede costituzionale, crf. art. 32 Cost.) irrimediabilmente ridotta quale conseguenza dell’errore commesso.

Nel caso che ci impegna ritengo come i sanitari rispondano anche per colpa lieve, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma c.c., in quanto, trattandosi di un caso ordinario, non hanno osservato per inadeguatezza od incompletezza della preparazione professionale, ovvero per omissione della media diligenza, quelle regole precise che si sono acquisite, per comune consenso e consolidata sperimentazione, alla scienza ed alla pratica e quindi costituiscono il necessario corredo del professionista che si dedichi ad un determinato settore della medicina (Cass. 29.3.1976 n. 1132).

Di conseguenza concludo sul punto invocando la condanna dei sanitari preposti all’indagine ecografica sotto il duplice aspetto della responsabilità.

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Il secondo problema che mi si pone è quello di individuare i danni risarcibili in relazione sia alla legittimazione attiva dei singoli danneggiati sia alle singole categorie o tipologie di danno.

Apprenderò che nei primi tempi, durante i numerosi colloqui in studio, i genitori avevano trovato a stento le forze per affrontare la disgrazia che li ha colpiti, per organizzare le numerose difficoltà pratiche della vita quotidiana, perdendosi in uno straziante passaggio da un ospedale all’altro nel duplice tentativo di curare la piccola e di capire le ragioni della malformazione.

Sin dal primo colloquio i clienti mi riferiscono che Anna è la loro prima ed unica figlia e mi espongono la dolorosa “cronistoria” delle ecografie, che poi sarà di fatto confermata dal medico legale come abbiamo appreso dell’intervento che mi ha preceduto.

Emerge subito un primo dato significativo della tragedia, di cui però i genitori non hanno, nell’immediatezza, conoscenza né coscienza non ricevendo dai sanitari alcun segno di preoccupazione: in ogni ecografia la gestazione è retrodatata di due settimane, al feto, cioè, peraltro sempre definito normale e sano, viene attribuita un’età inferiore a quella effettiva rispetto al concepimento.

Solo alla 31° settimana di gestazione un altro centro diagnostico cui la madre si rivolge evidenzia il dramma in tutta la sua gravità: Anna sarebbe nata senza le gambe!

La certezza di veder nascere un bimbo portatore di grave handicap avviene in un momento storico che non consentiva più l’aborto, così come regolamentato dalla nota legge 194/78.

Occorre notare come da un punto di vista strettamente clinico e codificato dai protocolli dell’Istituto Italiano di Ostetricia e Ginecologia (cfr. Macchiavelli - Feola, Medicina Legale Ed. Minerva medica, pag. 1321) l’età minima della sopravvivenza del feto sia di 180 giorni dal concepimento ovvero 26 settimane più due giorni, anche se si ammettono addirittura possibilità di sopravvivenza anche inferiori (Tedeschi, Trattato di med. For. Piccin, Padova 1984, vol. 1, pag. 532): decorso tale temine non potrà più parlarsi di aborto consentito dalla legge o di aborto terapeutico, ma solo di parto prematuro eseguibile solo in caso di pericolo di vita per la madre e a seguito del quale, se adeguatamente curato e trattato, il neonato è in grado di sopravvivere.

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I genitori dunque non hanno avuto scelta: la bimba gravemente menomata sarebbe nata.

Altro sarebbe stato se i sanitari, adottando il corretto protocollo diagnostico e leggendo accuratamente i risultati degli esami, avessero subito individuato la malformazione in quanto la madre avrebbe potuto far ricorso all’aborto, anche secondo le previsioni dell’art.

6, lett. b della legge 194/78. (Val la pena di rammentare che la madre era affetta da importante sindrome depressiva sin da prima del concepimento, il che le avrebbe consentito di usufruire della interruzione di gravidanza).

Dopo aver ultimato la raccolta dei dati e dei documenti l’attività giuridica deve effettuare la scelta giudiziaria su cui operare.

A parte casi estremi, ove l’aspettativa risarcitoria si cumula con l’astio quasi viscerale che nasce dalla consapevolezza del torto subito sino a far nascere nel danneggiato il desiderio di tentare di screditare professionalmente e nella vita il medico, non ritengo che la scelta primaria dell’azione penale sia a lungo ma anche a breve termine pagante e risolutiva.

Ritengo anche doveroso cercare di fornire al danneggiato quello strumento primariamente necessario alla sua sopravvivenza dopo il fatto dannoso: cioè un adeguato e tempestivo aiuto economico che potrà consentirgli di migliorare la qualità della sua vita, di affrontare il futuro forse con maggior serenità, di sostenere le spese per le cure e le terapie riabilitative.

E quale migliore strada di quella civile ove l’organo giudicante adito, una volta accertata la fondatezza in punto di fatto delle ragioni vantate e l’esistenza giuridicamente fondata dei danni, può definitivamente e univocamente procedere alla liquidazione? (Senza contare poi che non vedo la necessità di infierire su una categoria oggi assai esposta a denunce spesso anche immotivate, né tantomeno di appesantire ancor più un meccanismo giudiziario già gravato di immane lavoro senza le necessarie risorse umane e strumentali).

Questo approccio metodologico, ossia privilegiare l’azione civile senza coltivare l’azione penale, è frutto della mia esperienza professionale, in ogni caso direttamente concordata con il cliente.

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Tornando al caso in questione in seguito all’errore sorge in capo ai sanitari un obbligo risarcitorio principalmente nei confronti dei genitori, cui spetta il ristoro del danno patrimoniale, del danno non patrimoniale e del danno biologico.

- Il danno patrimoniale nella duplice forma di danno emergente e lucro cessante quale ulteriore conseguenza delle lesioni personali, che ha nell’art. 1223 c.c. il suo referente normativo.

- Il danno non patrimoniale che è pure un danno conseguenza derivando anch’esso della lesione personale regolato dall’art. 2059 c.c..

Il danno Biologico, è il danno evento e che si identifica nella lesione personale e quindi nella violazione dell’integrità psicofisica di qualsiasi essere umano, e che ha per referente normativo l’art. 2043 c.c. letto alla luce dell’art 32 della Costituzione.

E’ onere degli attori provare per quanto concerne la responsabilità contrattuale l’esistenza del contratto ed il non esatto adempimento dell’obbligazione a carico dei sanitari ed i danni sofferti.

Per quanto concerne la responsabilità extracontrattuale oltre che ai danni subiti dovrà darsi prova di chi sia stato l’autore dell’intervento, il dolo e la colpa del medesimo ed il nesso causale tra intervento e danno.

Sul punto entità ed esistenza dei danni l’attività anche stragiudiziale che l’avvocato deve svolgere, specialmente dopo la riforma del codice di procedura civile (cfr. Artt. 163 e 164 c.p.c.), è intensa: consiste soprattutto nella ricerca di tutte le prove necessarie a sostenere la domanda.

I genitori di Anna hanno sicuramente diritto al rimborso delle spese mediche sostenute e da sostenersi nel futuro nel tentativo di curare la figlia, o meglio di porre alcuni deboli correttivi alla sua malformazione, hanno diritto al rimborso delle spese di assistenza, non essendo ella in grado di compiere autonomamente le più elementari attività umane, al rimborso anche delle spese relative a protesi, carrozzella e quant’altro, nonché delle spese per l’abolizione delle barriere architettoniche all’interno dell’abitazione.

Ma non solo: per assistere la bambina, ma anche come vedremo più avanti, per il totale azzeramento patologico della vita relazionale, non avendo essi la forza di trovar ragione dell’accaduto, riducono l’attività lavorativa e vedono così diminuire il proprio reddito.

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Ma tali danni devono essere provati, pena la non accoglibilità della domanda stessa, essendo, come è, quantomeno sotto l’aspetto extracontrattuale, tesa a ripristinare la situazione antecedente all’illecito: occorrerà quindi fornire al giudice le fatture di spesa, i preventivi per le spese future, la documentazione sul reddito che i genitori producevano prima del fatto e quella relativa agli anni successivi alla nascita della bambina, nonché dedurre idonea CTU medico legale tesa alla descrizione della realtà della menomazione della figlia ed all’indicazione dell’assistenza e cure mediche future in termini di tempi e costi.

Sotto l’aspetto non patrimoniale e cioè la risarcibilità del danno morale ex art. 2059 c.c.

in relazione diretta con l’art. 185 c.p., il discorso è più complesso.

In linea di massima la risarcibilità del danno morale in capo ai congiunti del gravemente leso è stata negata non trattandosi di danno direttamente conseguente all’illecito salvo il caso delle lesioni gravissime comportanti la perdita delle principali funzioni vitali, assimilabili alla morte, sul presupposto che l’illecito compiuto abbia conseguenze dirette anche sul minore (crf. Cass. Pen. 2 novembre 1983, n. 9113, in Dir. prat. Ass., 1984, 697).

La questione in un’ottica risarcitoria potrebbe essere utilmente trattata prendendo in considerazione le indubbie sofferenze cui i genitori sono stati ingiustamente sottoposti e sul presupposto che l’operato dei medici ravvisi gli estremi della colpa, nei confronti degli stessi, la cui graduazione potrà consentire al giudice l’individuazione del fatto come reato.

Inoltre così come recentemente evidenziato in un articolo dell’Avv. Berti, pubblicato sull’ultimo numero di luglio di Tagete, giova ricordare come, tra l’altro, il Tribunale di Bologna con ordinanza del 13.6.1995 ha rinviato alla Corte Costituzionale una questione di incostituzionalità dell’art. 2059 c.c. nella parte in cui escluderebbe, al di fuori di certe ipotesi normative, la risarcibilità del danno morale in tutti i casi ci sia stato un turbamento psichico.

Come ho accennato più sopra nei vari colloqui con i clienti emerge disagio, sofferenza, panico, paura del futuro, di cosa sarà della bambina quando loro non ci saranno più.

La clinica psichiatrica descrive una precisa sindrome dei genitori del gravemente handicappato, descritta con suggestiva espressione “sindrome QUISA” (Quando Io Sarò Andato), riferita alla preoccupazione per le sorti del figlio non autonomo quando essi

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Alla luce delle aperture dottrinali e giurisprudenziali recenti in punto riconoscibilità e risarcimento del danno psichico del congiunto ritengo che nelle voci di danno risarcibile, nel caso in questione, debba essere compreso anche il danno psichico, quale danno biologico di squisita natura psichica derivato in via diretta ed immediata ai genitori della piccola Anna.

Il danno psichico trova il proprio riconoscimento nel concetto di danno biologico, quale menomazione dell’integrità fisica e psichica della persona in sé e per sé considerata, come specifica la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 14 luglio 1986.

Il presupposto logico di tale definizione, come ormai a tutti è noto, è quello per cui il valore uomo non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza ma esprime tutte le funzioni naturali afferenti al soggetto nella integrazione delle sue dimensioni biologiche, psicologiche e sociali.

Così come il danno biologico comunemente inteso è lesione dell’integrità fisica della persona, il danno biologico psichico è lesione dell’integrità psichica, e consiste nel turbamento, nella rottura dell’equilibrio psichico della vittima del fatto illecito.

I requisiti essenziali per la risarcibilità del danno biologico si individuano nell’esistenza del nesso causale e nell’ingiustizia del danno da liquidarsi in via di equità ex art. 1226 c.c.

previa la valutazione in sede di C.T.U.

In punto nesso causale l’accertamento è ancora una volta demandato all’esperto medico psichiatra: a lui stabilire la natura e l’entità, nonché la permanenza in termini di irreversibilità, del turbamento psichico della vittima.

Sottoposti ad indagine specialistica i genitori di Anna sono risultati affetti da importante sindrome di angoscia e panico per il futuro, sono incapaci di razionalizzare la vicenda che li vede così direttamente coinvolti, hanno azzerato la vita sociale e relazione, non hanno più preso in considerazione l’ipotesi di avere altri figli, la stessa vita di coppia risulta seriamente compromessa.

Non affronto in questa sede la questione della valutazione del danno biologico psichico in termini percentuali, in quanto di squisita competenza medica pur sottolineando però come l’esercizio della domanda risarcitoria e la successiva liquidazione operata dal Giudice non possano prescindere da una valutazione medico legale espressa in via meramente

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indicativa, almeno in fasce di numeri, non potendosi altrimenti calcolare quell’entità sostitutiva compensatoria e consolatrice dell’offesa che è il risarcimento.

Relativamente all’atto di citazione la domanda è stata proposta dai genitori di Anna in proprio e in qualità di genitori esercenti la patria potestà sulla figlia minore.

Mi sono infatti posto il problema, come ritengo sia mio dovere professionale, se il comportamento negligente ed errato dei sanitari non abbia prodotto riflessi giuridicamente diretti e rilevanti anche sulla piccola Anna.

In altre parole: Anna, costretta a vivere in grave infermità, è titolare di diritti che in quanto tutelati dall’ordinamento siano risarcibili?

In altre parole: Anna aveva diritto “a non nascere”, posto che la sua infermità deriva da fattori congeniti e non dall’operato dei medici?

La questione è spinosa e rimandata all’ampio dibattito, oggi più che mai vivo, sul diritto alla vita ed alla salute in relazione ai diritti del concepito.

Sono perfettamente cosciente che l’art. 1, comma 2 c.c. dispone che i diritti dalla legge riconosciuti al concepito sono subordinati all’evento nascita (fuori dei casi previsti in materia di successione, donazione e tutela aquiliana a seguito di un fatto lesivo sofferto anteriormente alla nascita, nella vita endouterina).

A tutto rigore quindi ad Anna nulla spetterebbe in risarcimento, per essere costretta a vivere con così grave handicap, dovuto esclusivamente a fattori genetici ed indipendenti da fatto altrui, riversandosi il danno esclusivamente in capo ai suoi genitori.

D’altra parte se la mamma fosse stata messa al corrente di quanto stava accadendo avrebbe indubbiamente nel caso in esame abortito e nulla di questa immane tragedia si sarebbe verificata.

Ammettendo un nesso di causalità diretta tra l’errore posto in essere dai sanitari e l’handicap, perché allora non concedere ad Anna la possibilità di una vita migliore, confortandola almeno sotto l’aspetto economico?

Il discorso è forte e mi rendo conto che potrà suscitare perplessità e forse scandalizzare qualcuno.

La morale corrente privilegia la vita, sotto qualsiasi forma, a volte definendo vita quella che vita proprio non è: possiamo forse immaginare le sofferenze di Anna, i suoi tormenti, il

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ipogenesia degli arti inferiori, importa la malformazione degli organi genitali esterni con conseguente azzeramento della vita sessuale e la difficoltà nell’espletare le più normali attività fisiologiche).

Non vi pare forse che un corretto operato dei sanitari volto ad identificare con tempestività le sue gravi malformazioni avrebbe evitato ad Anna di nascere e conseguentemente di soffrire, consentendo alla madre di abortire in tempo utile e nel rispetto della legge?

Siamo in tempi di ampio sviluppo dottrinale e giurisprudenziale, di grosse spinte sociali, dove il terreno dei diritti umani trova sempre più ampia specificazione, dove in termini di diritto alla vita si discute se conferire capacità giuridica al feto (se non erro esiste una specifica proposta di legge sul punto).

Su tale presupposto ho ritenuto di proporre la domanda anche in favore della minore per non precludere la possibilità di ottenere un risarcimento qualora, proprio in vista dell’evoluzione concettuale in atto, venisse in un prossimo e comunque non lontano futuro riconosciuto il diritto al risarcimento oggi richiesto.

Sotto l’aspetto giuridico penso che la questione sia da affrontare in relazione da un lato alla normativa sull’aborto (interruzione della gravidanza anche dopo 90 giorni dal concepimento) dall’altro in relazione alle norme costituzionali a tutela non solo della vita, ma della vita in pienezza di salute e di integrità.

Del resto la mia posizione non è isolata, a riprova dell’attualità del tema.

La Prima Camera della Corte di Cassazione francese in data 26.3.1996, in una fattispecie analoga a quella oggi in esame, ha cassato una pronuncia d’appello affermando il principio per cui è risarcibile il danno subito dal bambino nato portatore di handicap (congenito) nel caso in cui tale handicap fosse evitabile solo con la sua non messa al mondo (Rev. Franc. Dommage corp. 1996 4, 419, 420).

L’Avv. Patrice Jourdain in un commento alla sentenza (contenuto nella rivista trimestrale di diritto civile francese RTDF 1996, n. 3, 621, 641) sostiene l’incontestabilità del presupposto logico di questa decisione volta a ritenere che vi sono certamente molti più inconvenienti a vivere con gravi danni fisici e/o intellettuali che a non vivere.

Colui che non nasce non potrà beneficiare delle opportunità della vita, ma certamente

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Intendiamoci, comunque: il danno non consiste nel nascere (come si tenta di far credere) ma nel nascere portatore di conseguenze gravi ed irreversibili di una malattia congenita.

Per concludere non credo che mi si possa accusare di lite temeraria o di infondatezza della domanda: comunque in ogni caso l’avvocato di parte attrice ha il dovere di percorrere tutte le strade possibili che abbiano anche solo una minima possibilità di trovare un riconoscimento nel diritto.

Sarà poi il magistrato che eventualmente rigetterà la domanda.

Non bisogna poi dimenticare come la materia, in seguito al lungo lasso di tempo necessario all’emanazione della sentenza, non possa non evolversi sul punto così come è già avvenuto per altre voci di danno.

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