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RESPONSABILITÀ PER INFEZIONI OSPEDALIERE: RESPONSABILITÀ DEGLI OSPEDALI O DEI SINGOLI MEDICI?

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RESPONSABILITÀ PER INFEZIONI OSPEDALIERE:

RESPONSABILITÀ DEGLI OSPEDALI O DEI SINGOLI MEDICI?

Avv. Barbara Porta*

Preliminarmente, prima di rispondere al quesito se, in caso di infezioni nosocomiali sia responsabile la struttura od il singolo medico occorre rilevare alcuni dati che serviranno meglio a comprendere i termini del problema:

1) come posto recentemente in luce nel marzo del 2005 dal precedente Ministro della Salute On. Sirchia in Italia sono circa 500.000 i pazienti su 9 milioni e mezzo di ricoverati all’anno che contraggono un’infezione ospedaliera in ospedale, con percentuali che oscillano tra circa il 5 ed il 17% dei degenti; la mortalità raggiunge il 3%;

quindi, un paziente, che, dopo un’operazione, accusa i sintomi e le patologie tipiche di un’infezione nosocomiale, ha un’elevata probabilità, corroborata a livello scientifico-statistico, di rientrare nella classe di soggetti colpiti dal fenomeno;

2) nella maggior parte dei casi è impossibile stabilire quale sia stato il momento esatto in cui si è interrotto il circuito di sterilità e/o di asepsi;

3) parimenti in un elevato numero di casi è impossibile stabilire, perlomeno con precisione, la misura di prevenzione omessa, idonea ad evitare l’infezione;

4) la giurisprudenza, nei pochi casi in cui si è occupata della questione, (TRIBUNALE TORINO, 01.03.1999 N. 1188- TRIBUNALE ALBA, SEZIONE

* Studio Legale Ambrosio & Commodo, Torino

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2 DISTACCATA DI BRA, 19.01.2005 N. 4) ha, nel riconoscere la fondatezza della domanda risarcitoria, affermato, ad esempio, che

“sarebbe irragionevole chiedere al CTU di indicare quale pratica non fosse stata effettuata in modo corretto, atteso che il CTU a distanza di tempo dal fatto non può certo controllare se gli strumenti utilizzati nella medicazione e le condizioni in cui era avvenuta erano ottimali”1; ( Trib.

Torino, 01.03.1999)

5) “la mancata individuazione della causa precisa e specifica dell’infezione”

non è stata ritenuta tale da precludere l’accertamento della responsabilità in capo ad una struttura sanitaria dalla giurisprudenza (così il Tribunale di Alba, Sezione Distaccata di Brà, nel caso Circelli c.

Casa di Cura “Città di Brà”, 2005)2;

6) la giurisprudenza intervenuta sul tema ha considerato il nesso causale dimostrabile in via presuntiva ex art. 1218 c.c. a fronte dei una serie di indici – CITO QUELLI INDICATI DAL TRIBUNALE DI (cfr. Trib. Alba, Sez.

Dist. Brà, 19 gennaio 2005, n. 4): a) riconducibilità dell’infezione “nel novero delle possibili complicazioni degli interventi di chirurgia generale e, quindi, anche ortopedica”, quale l’intervento subito dalla vittima; b)

“l’infezione post-chirurgica può essere in via generale determinata da fattori connessi all’ambiente operatorio (contaminazione della sala operatoria e degli strumenti utilizzati), al personale in contatto con il paziente”; c) assenza “di patologie analoghe in epoca anteriore all’intervento”, nonché “l’età e le condizioni fisiche generali” del paziente inducevano “ad escludere con ragionevole certezza” la riconducibilità dell’infezione “a fattori costituzionali del paziente (come diabete, immunodepressione, malnutrizione”); d) “la stretta connessione temporale tra l’intervento e la comparsa dei primi sintomi della patologia infettiva” (per il Tribunale tale fattore era tale da porre “a carico dell’ente

1 Farinelli c. Casa di Cura Major, Trib. Torino, 1 marzo 1999, n. 1188, ined.

2 Trib. Alba, Sez. Dist. Brà, 19 gennaio 2005, n. 4, G.U. Solombrino, ined.

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3 convenuto una presunzione de facto, ex art. 2727 C.C., di connessione causale tra l’evento chirurgico e l’evento lesivo lamentato”, presunzione rispetto alla quale, come sottolineato dallo stesso magistrato del merito, non risultava allegata “alcuna prova contraria”).

Ciò premesso, dalla considerazioni sopra svolte e dalla giurisprudenza citata emerge come da un lato vi siano indicazioni, anche a livello statistico- scientifico, di riconducibilità di determinate patologie all’ambiente nosocomiale, e dall’altro lato sussistano difficoltà nell’individuazione della causa specifica, del momento esatto o delle determinate misure omesse nel caso concreto. Non solo. Dalla giurisprudenza menzionata sopra emerge altresì come, del resto in linea con l’orientamento giurisprudenziale in materia di causalità medica, il paziente sia solo tenuto a fornire degli indici di riconducibilità/compatibilità.

Stando così le cose e dovendo rispondere al quesito se la responsabilità per infezioni sia da inquadrarsi tra le responsabilità a carattere individuale oppure della struttura, mi sembra che sul punto possa essere fornita una risposta duplice, ossia una astratta ed una di carattere pratico.

La prima, quella astratta, ci porta a sostenere che sia ovviamente il medico a doversi attivare per prevenire i rischi dell’infezione, in tutte le fasi ed in particolare:

a) Fase antecedente all’operazione

Senza ombra di dubbio il medico, che esegue l’intervento sul paziente, non può essere indifferente alle condizioni igieniche della sala in cui opera, così come di quelle del personale presente in sala.

Alcune sentenze della Cassazione3, sebbene con riguardo a casi diversi, hanno affermato il principio per cui è onere del medico tenere conto di eventuali carenze di dotazione della struttura sanitaria, nonché, laddove la

3 Cass., 27-07-1998, n. 7336, in Resp. civ. prev., 1999, 996. Conforme: Cass., 19-05-1999, n. 4852, in Resp. civ. prev., 1999, 995.

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4 strumentazione disponibile non consenta di eseguire l’operazione entro margini di sicurezza accettabili, il medico deve prendere in seria considerazione l’ipotesi di effettuare l’intervento altrove, a pena di incorrere in negligenza ed imperizia.

Non è, pertanto, diligente il medico che esegua l’operazione o in situazioni di carenza igienica o, comunque, senza avere accertato, entro margini ragionevoli, la salubrità dell’ambiente in cui viene effettuato l’intervento o l’asepsi della strumentazione con cui opera. Ad esempio: nell’ipotesi in cui il medico si accorga che il liquido disinfettante (ammonio quaternario o ipoclorito di sodio) utilizzato dal personale sanitario è già stato usato, contro le più elementari norme di igiene e sterilità, in precedenti interventi, egli sarà responsabile se avvierà l’operazione malgrado i rischi che tale fatto può comportare.Ovviamente, e pare superfluo rilevarlo, il medico dovrà accertarsi di non essere egli stesso o i componenti della sua equipe un veicolo di germi.

b) Fase operatoria

Anche durante questa fase il medico non può tralasciare il controllo sull’igiene degli strumenti, che si trova ad utilizzare. Si deve rilevare come il medico possa in questa fase adottare delle misure idonee a prevenire eventuali processi infettivi. Si pensi, ad esempio, ad accorgimenti quali l’inserimento di tubi di drenaggio alla ferita. Oltre alla prevenzione, il medico deve certo anche evitare, usando la diligenza che gli è propria, di cadere in errori essi stessi produttivi di infezioni quali, ad esempio, dimenticare garze o altri corpi estranei all’interno del paziente.

c) Fase post-operatoria

Tuttavia è nella fase che segue l’operazione che il medico deve prestare ogni tipo di cautela e particolare attenzione e ciò poiché molti germi patogeni sono ospiti abituali nell’uomo e possono svilupparsi in particolari condizioni, quali appunto quelle che si presentano dopo l’intervento.

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5 Vale, infatti, la pena ricordare che la prestazione del medico non si esaurisce con l’operazione. Anzi, le corti sono molto attente al tipo di cura che viene impiegata da questi nel seguire il paziente nel decorso postoperatorio.

Ad esempio, in un caso di infezione generatesi per imperita, negligente ed imprudente assistenza post-operatoria il Tribunale di Torino4, ha dato particolare rilievo al comportamento del medico, che non si era curato di fare effettuare un antibiogramma, non si era preoccupato di modificare la terapia antibiotica in atto, né si era attivato per effettuare quei minimi esami clinici allo scopo di individuare la causa dell’infezione ai fini di rimuoverla.

Oltre a predisporre gli eventuali esami del caso ed attentamente monitorare il decorso post-operatorio, il medico deve altresì verificare la qualità dei servizi offerti dalla struttura ospedaliera, presso cui si svolge la degenza del suo paziente, intervenendo laddove vi siano delle carenze.

Sempre in via astratta va considerato che la struttura ospedaliera deve ovviamente attivarsi per controllare costantemente la qualità e sicurezza dei suoi ambienti, nonché monitorare che tutto il personale sanitario (medico e paramedico, dipendente e occasionale) sia attento ai profili di igiene ambientale. E’ poi noto che la struttura ospedaliera risponde dell’operato dei medici.

Va inoltre rilevato come vi siano tutta una serie di casi in cui i germi si sviluppano a causa di problemi strutturali degli ospedali, quali, ad esempio, controsoffittature che non permettono la totale asepsi degli ambienti di lavoro, mancanza di aspiratori, ecc. Al riguardo, si pensi solo all’emblematico caso, verificatosi a Torino nell’estate del 2000, delle infezioni che si erano venute a sviluppare in un reparto di un ospedale torinese per il fatto che, mancando impianti di condizionamento dell’aria, i pazienti, per non rimanere soffocati dalla calura estiva, si erano trovati nella necessità di tenere aperte le finestre.

Finestre che davano su un cantiere aperto, da cui provenivano, insieme alla polvere, agenti biologici. Ma anche in questi casi è ravvisabile la concorrente

4 Trib. Torino, 1 marzo 1999, n. 1188, ined.

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6 responsabilità del medico che dovrebbe sempre curarsi della salubrità dell’ambiente in cui si trovano i pazienti.

In astratto, dunque, nella maggior parte dei casi è possibile ipotizzare una responsabilità concorrente di medico e struttura, e quindi evocare in giudizio entrambi i soggetti responsabili. Unica eccezione può essere quella dello studio medico privato, ad esempio il dentista, il ginecologo, il dermatologo, ecc.

Venendo alla risposta pratica, però, occorre tenere conto delle difficoltà, sopra rilevate, di individuare le cause e le colpe specifiche generanti l’infezione accusata dal paziente, e dunque i problemi ad indirizzare una domanda risarcitoria nei confronti di uno o più soggetti determinati. Se a ciò si sommano sia esigenze di ordine pratico-processuale e sia l’orientamento giurisprudenziale, che negli ultimi anni ha condotto ad impostare la responsabilità civile da attività sanitarie come una questione non già di singole responsabilità personali, bensì di allocazione del danno in capo a strutture nosocomiali (questo il senso della responsabilità da contatto sociale), diviene del tutto intuitivo come la responsabilità per infezioni nosocomiali sia tendenzialmente una responsabilità della struttura. Il che, pare non solo rispondere ad esigenze di ordine pratico, ma costituire un sistema efficiente di incentivi alla precauzione, allocando infatti il danno sul soggetto che indubbiamente è meglio organizzato e preposto a prevenirlo.

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