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. Se Testa ha senz’altro ragione quando sostiene che la presenza in poesia di alcune ‘novità’

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Introduzione

In questo studio si prendono in considerazione quattro raccolte poetiche pubblicate a distanza di pochi mesi l’una dall’altra. Gli strumenti umani di Sereni, La vita in versi di Giudici, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee di Caproni sono, infatti, del 1965, Nel magma di Luzi è del 1966, sebbene una prima edizione, con un numero minore di testi, fosse uscita già nel 1963. L’analisi di questi quattro libri è condotta adottando il metodo dei campioni; in ogni capitolo, uno per ogni autore, si parte dall’interpretazione e dal commento formale di una singola poesia, cercando di risalire alla postura (o alle posture) che l’io assume all’interno della raccolta e, più in generale, al rapporto che i nostri poeti instaurano con il genere lirico. Accolto il concetto di «spazio letterario», inteso come «l’insieme delle opere che gli autori di una certa epoca giudicano ragionevole scrivere e (…) ritengono all’altezza dei tempi»

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, si può dire che l’intento principale di questo studio è di ricostruire il profilo di una porzione importante dello «spazio letterario» della poesia italiana tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta.

Sulla scia di alcuni studi ormai classici, si accoglie qui una periodizzazione del Novecento poetico che di recente, a dire il vero, è stata spesso accantonata

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. Se Testa ha senz’altro ragione quando sostiene che la presenza in poesia di alcune ‘novità’

linguistiche si traduce soltanto con gli anni Sessanta in un «effetto-sistema», estendendosi a numerose raccolte di autori di generazioni e poetiche diverse

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, allo stesso tempo è indubbio che tra la prima e la seconda metà degli anni Cinquanta qualcosa in Italia è successo, e non soltanto in ambito letterario. In questa prospettiva non si può trascurare l’itinerario poetico di Montale: è con la pubblicazione della Bufera (1956), infatti, che si chiude la fase del «classicismo paradossale» e ha inizio il silenzio che precede la svolta di Satura e l’abbandono definitivo del tragico-sublime.

1 G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005, p. 9.

2 Sul ’56 come data topica P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978; R.

Luperini, Il Novecento, Loesher, Torino 1981; W. Siti, Il neorealismo della poesia italiana, Einaudi, Torino 1980. Una periodizzazione diversa in E. Testa, Dopo la lirica, Einaudi, Torino 2005, P.

Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea, Carocci, Roma 2005; AAVV, Gli anni ’60 e ’70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, S. Marco dei Giustiniani, Genova 2003.

3 E. Testa, Lingua e poesia negli anni Sessanta in AAVV, Gli anni ’60 e ’70 in Italia, cit., p. 39.

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Nel 1956, inoltre, Sanguineti pubblica la sua prima raccolta, Laborintus, che, nella sua radicalità, rappresenta probabilmente il gesto polemico più forte, compiuto in tutto il Novecento italiano, contro il genere e il soggetto lirico.

Così, collocare le nostre quattro raccolte all’interno di un quadro più vasto, che comincia a definirsi con chiarezza a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, si configura anche come una maniera per mettere in relazione, più o meno implicitamente, l’astensione dalla poesia di Montale con la parabola poetica di tre

‘montalisti’ come Luzi, Sereni e Giudici

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. Ma è pure un modo per riconoscere che oltre alle nostre quattro raccolte o alle Case della Vetra di Raboni, a Variazioni belliche (1964) e Serie ospedaliera (1969) della Rosselli, alla Egloghe (1962) e alla Beltà (1968) di Zanzotto, a Una volta per sempre di Fortini (1963), anche Laborintus, Il seme del piangere (1959) di Caproni, o alcuni titoli del 1957 come Vocativo di Zanzotto, Le ceneri di Gramsci di Pasolini e La ragazza Carla di Pagliarani sono una risposta alla

«deflazione del soggetto» di cui ha parlato la critica

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. Ed è bene precisare che, a differenza di quanto si lascia intendere spesso, la «deflazione del soggetto», in realtà, coincide con il riacutizzarsi di un fenomeno, come la crisi dell’io lirico tradizionale, che si era inequivocabilmente manifestato già all’inizio del Novecento.

Nel periodo a cui appartengono le nostre quattro raccolte, lo spazio letterario appare tanto vario ed esteso da coincidere quasi totalmente con la topografia generale della poesia moderna, descritta da Mazzoni in un suo recente saggio

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. Se, come lascia intendere la produzione di Luzi, uno dei capifila dell’ermetismo, tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta i poeti italiani considerano poco ragionevole scrivere testi ispirati alle estetiche della ‘purezza’, tuttavia ritengono all’altezza dei tempi scrivere componimenti lirici incentrati su un personaggio autobiografico, oppure monologhi pronunciati da figure distinte da sé, veri e propri romanzi in versi. Ecco allora, semplificando molto, il classicismo moderno di Luzi, Sereni e Fortini, l’espressionismo lirico di Pasolini, il crepuscolarismo di Giudici e del Sanguineti di

4 G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Pacini Fazzi, Lucca 2002, p. 22.

5 E. Testa, Per interposta persona, Bulzoni, Roma 1999, p. 20; P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea, cit., p. 42; M. A. Grignani, La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento, Interlinea, Novara 2002, p. 89.

6 G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., pp. 173-203.

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Purgatorio de l’Inferno, l’uso delle maschere in Raboni e Caproni, il romanzo in versi di Pagliarani o Cesarano, l’antilirismo di Laborintus. Sono, come si capisce, delle tipologie parziali e dai confini mobili, tutt’altro che rigidi; ed infatti, come vedremo, se i crepuscolari non respingono il ricorso a maschere, viceversa nelle Case della Vetra talvolta Raboni presenta al lettore un soggetto che somiglia molto all’io della Vita in versi di Giudici.

2. L’io autobiografico. Le prime due raccolte che si analizzano in questo studio, Nel magma di Luzi e Gli strumenti umani di Sereni, possono essere ricondotte all’area che è stata indicata con la formula classicismo lirico moderno. È un’area a cui vengono ascritti autori anche molto distanti tra loro per ideologia, ma che comunque appaiono accomunati da un rapporto di continuità dialettica con la tradizione lirica, sia sul fronte dello stile che su quello dei temi

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. Alle due raccolte di Luzi e Sereni possono essere accostati anche i componimenti che Fortini scrive negli stessi anni, come i testi poi confluiti in Una volta per sempre o come l’epigramma, Diario linguistico, indirizzato a Pasolini e pubblicato nel 1966 nella raccolta L’ospite ingrato:

Non imiterò che me stesso, Pasolini.

Più morta di un inno sacro

la sublime lingua borghese è la mia lingua.

Non conoscerò che me stesso 5 ma tutti in me stesso.

La mia prigione

vede più della tua libertà.

In opposizione alle scelte pasoliniane, l’io rivendica per sé la «sublime lingua borghese», dunque uno strumentario linguistico-formale che, pur appartenendo storicamente alle classi dominanti, può comunque essere pensato come promessa di futuro, anticipazione di un’umanità universalmente integra e liberata. È tipica del classicismo moderno la convinzione, dichiarata esplicitamente in questo componimento, che l’esperienza empirica del poeta abbia un valore di portata generale.

Conoscendo se stesso (v. 4), l’autore può ambire a conoscere gli altri uomini («tutti», v.

7 G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., p. 189.

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5); reiterare un gesto tipico della lirica, come mettere al centro il proprio io, può essere ancora la chiave per fare una poesia che contiene verità che riguardano la vita di molti.

Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, Sereni, Luzi e Fortini

«continuano a prendere sul serio la propria esperienza, a considerarla universalmente esemplare»

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. Se i fondamenti che garantiscono dignità e rappresentatività alle vicende personali di questi tre poeti variano da autore a autore, tuttavia la loro parabola poetica sembra tradire, nonostante tutto, una comune continuità con l’Erlebnislyrik tradizionale e la lirica romantica.

La rilevanza accordata dai classicisti moderni alla propria esperienza e ai contenuti autobiografici sollecita alcune considerazioni di natura teorica sulla poesia lirica. Ora, di fronte alla poesia lirica il lettore è spinto quasi istintivamente a identificare la voce e il personaggio che dice io nei singoli testi con il nome riportato in calce al libro che li contiene; e d’altronde i poeti lirici non sono soliti fare molto per dissuaderlo. In generale dunque, se chi legge un racconto o un romanzo in prima persona, per una distinzione narratologica di solito condivisa, non è portato necessariamente ad attribuire alle vicende che ha di fronte un valore autobiografico, così non avviene in poesia. Questi atteggiamenti comuni tra i lettori possono essere considerati alla luce di alcune riflessioni sui generi letterari, legate a tradizioni culturali e momenti storici ben distinti.

Com’è noto, infatti, appartiene alle poetiche romantiche l’idea secondo cui la lirica, rifuggendo la mimesis e l’imitazione, si configura come il genere dell’espressione sincera dello stato d’animo del poeta, e dunque di sentimenti veri e non fittizi

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. Quanto Leopardi scrive nello Zibaldone sembra rientrare, senza alcuna forzatura, all’interno di questa visione:

Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’

sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico10.

Al di là di evidenti discontinuità e aggiornamenti, l’antitesi lirica-mimesis trova una collocazione in alcuni importanti studi teorici novecenteschi. Semplificando molto, si

8 G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, cit., p. 389.

9 G. Bernardelli, Il testo lirico, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 78.

10 Sono i pensieri del 29 agosto 1828; sul passo cfr. G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., p. 70.

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può dire che in Die Logik der Dichtung del 1957, Kate Hamburger parla di due grandi generi interni al campo letterario, uno mimetico o della finzione e l’altro lirico. Qui la lirica, pur non essendo considerata come nelle poetiche romantiche il genere dell’espressione immediata

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, è comunque definita in contrasto alla narrativa in terza persona e al teatro, in quanto genere in cui figurerebbero un soggetto d’enunciazione ed enunciati di natura reale

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.

Confrontandosi con il saggio della Hamburger, ma sottolineando con molta forza il peso delle caratteristiche formali, alcuni anni dopo in Finzione e dizione anche Genette propone un sistema binario in cui la letterarietà è data da «due grandi tipi: da un lato la finzione (drammatica o narrativa), dall’altro la poesia lirica»

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; la lirica apparterrebbe dunque ai territori chiamati, per evitare il «goffissimo non-fiction», della dizione

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. Ora, è interessante sottolineare che, sebbene ammettano esplicitamente l’esistenza di generi misti, forme intermedie tra le due, in sostanza Hamburger e Genette pensano la fiction e la lirica secondo una contrapposizione polare

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. È una posizione che ha avuto molta fortuna nella seconda metà del Novecento, influenzando non poco lo sviluppo della teoria dei generi letterari e forse determinando anche le disattenzioni della narratologia nei confronti della poesia lirica

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. E d’altronde è indicativo che Dorrit Cohn, pur dialogando con i saggi della Hamburger e di Genette, nel capitolo che apre The distinction of fiction definisca il campo della finzione parlando di più generi letterari senza sentire la necessità di fare il minimo cenno alla lirica

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. Si può supporre, alla luce degli ultimi capitoli di Trasparent minds, che quest’ultima rientri tra i tipi che possono essere soggetti a giudizi di verità o falsità (come l’autobiografia), ma è comunque la reticenza della teorica il dato certo che fa pensare.

Per affrontare la questione del rapporto che lega la lirica alla fiction, forse però può essere utile spostare momentaneamente il fuoco su due scritti di Sereni dei primi anni Sessanta, Il silenzio creativo e Ciechi e sordi. In queste pagine, infatti, l’autore parla esplicitamente della relazione, nei testi poetici, «tra esperienza e invenzione». Qui,

11 AAVV, Figures du sujet lyrique, Presses universitaires de France, Paris1996, p. 61.

12 K. Hamburger, Logique des genres littéraires, Seuil, Paris 1986, p. 208.

13 G. Genette, Finzione e dizione, Pratiche, Parma 1994, p. 28.

14 Ibidem.

15 R. de Rooy, Il narrativo della poesia moderna, cit., pp. 45-47.

16 Ivi, p. 46.

17 D. Cohn, The distinction of fiction, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2000, pp. 1-17.

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l’invenzione, o se vogliamo la fiction, non è affatto presentata come qualcosa di nocivo per una poesia incentrata su «sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi»

del poeta

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. Anzi, essa è

decisiva rispetto alle velleità, ai moti dell’anima, alle idee stesse. Cade come di sbieco su tutto ciò, non combacia mai perfettamente con uno qualunque di questi elementi; e magari ne radicalizza qualcuno, ne allenta o ne attenua altri che in altri casi erano stati addirittura determinanti.

Con la sua potenziale duttilità («l’angolo utile»), l’invenzione agisce sui materiali autobiografici, dà più forza all’esperienza dell’io, permettendo alla poesia di «aderire meglio a quanto ha di vario il moto dell’esistenza»

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. Ciò che più colpisce di queste pagine, dall’evidente valore di dichiarazione di poetica, è il sostrato teorico su cui poggiano: Sereni, infatti, dà per assodato che la presenza della finzione nei componimenti poetici non coincida necessariamente con un’uscita dalla lirica.

Die Logik der Dichtung e Finzione e dizione offrono ancora oggi un contributo imprescindibile nella definizione dei generi letterari. Forse, però, proprio sviluppando gli spunti offerti dalle pagine di Sereni si può provare a sostenere una proposta teorica meno rigida di quelle della Hamburger e di Genette: una proposta che riconosca sempre alla poesia lirica un tasso di finzionalità, anche se minimo e nella maggior parte dei casi ben nascosto dai testi. È un’ipotesi che, non contrapponendo più a priori la poesia lirica e autobiografica alla fiction, ha il vantaggio di continuare a pensare il personaggio che dice io nei componimenti, sì, come l’analogo testuale dell’autore, di cui conserva la storia personale, la sfera emotiva, l’esperienza, ma anche, in una certa misura, come il frutto di una costruzione.

In fondo, un discorso teorico relativo alla lirica imperniato sulle categorie di fiction e non-fiction sembra inevitabilmente sollecitare una riflessione più generale su queste stesse categorie. Se la fortuna che hanno riscosso e continuano a riscuotere presso autorevoli critici spinge a non sottovalutarne le potenzialità, tuttavia fiction e non- fiction offrono un aiuto solo parziale nella definizione di che cos’è la letteratura e un

18 V. Sereni, La tentazione della prosa, Mondadori, Milano 1998, p. 69.

Aiuta ad inquadrare cosa Sereni intendesse per invenzione un passo del Silenzio creativo, spesso citato dalla critica: «Un poeta invidierà sempre a un narratore, sia questi o no di stampo tradizionale, quella specie di sortilegio evocativo con cui l’altro dà corpo, illusorio fin che si vuole, a figure, situazioni vicende, ben oltre la voce, l’accento, la formulazione lirica immediata» (Ibidem).

19 Ivi, p. 70.

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loro uso inappropriato, come dimostrano alcuni recenti dibattiti sulla narrativa italiana, può addirittura essere foriero di improduttive confusioni. A conti fatti, il caso della lirica palesa che, nei testi letterari che leggiamo abitualmente, la dominanza di una di queste due sfere non esclude la presenza dell’altra; per quanto comodo, lo schema binario che divide il campo letterario in due super-generi contrapposti tra loro è più traballante di quanto non si pensi solitamente.

E non è difficile imbattersi in conferme quando si sposta l’attenzione su altre forme quasi sempre ascritte al grande tipo della non-fiction. Il genere autobiografico, ad esempio, pur basandosi sul racconto fattuale

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e rievocando costantemente la realtà extratestuale, non può davvero essere considerato del tutto estraneo alla finzione. Tra le pagine di un noto saggio di Frye si legge che l’autobiografia «sconfina nel romanzo attraverso una serie di impercettibili variazioni», ed è spesso spinta da «un impulso creativo, e perciò inventivo, a scegliere solo quegli eventi e quelle esperienze nella vita dello scrittore che servono a costruire uno schema coerente»

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(dove «inventivo»

traduce l’originale «fictional»). A ben vedere, come finisce per ammettere lo stesso Genette, le forme pure di fiction e non-fiction, «indenni da qualunque contaminazione», non esistono se non nella «provetta dello studioso di poetica»

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. Se vista da vicino, un’inquadratura dei generi per via negativa, basata sulla netta opposizione all’egemonico super-genere della fiction, non regge perché svilisce la varietà e le peculiarità delle forme letterarie. Rinchiusa in una grande gabbia comune, la lirica sguscia via agilmente, da un lato esibendo la distanza tra il proprio linguaggio, così ritualizzato e innaturale, e le scritture che le vengono accostate, dall’altro ricordando che i generi letterari e la finzione possono vantare anche parentele nascoste.

3. Enunciatori distinti dall’io autobiografico. In poesia può anche verificarsi che, acquistando maggior peso la componente finzionale dei testi, il lettore percepisca immediatamente una distanza o un’eventuale non coincidenza tra il personaggio che

20 Ivi, p. 62.

21 N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1969, pp. 414-415.

22 G. Genette, Finzione e dizione, cit., p.75.

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dice io nei versi e l’autore. All’interno dei Canti si incontrano dei componimenti come L’ultimo canto di Saffo o il Canto notturno del pastore errante dell’Asia, in cui l’enunciazione è interamente affidata a figure distinte dall’io autobiografico. In effetti, pur avendo sempre ammesso come unica vera forma di poesia la lirica e pur avendo sempre insistito in maniera netta sulla sua estraneità alla mimesis e alla finzione, in alcuni passi dello Zibaldone Leopardi sembra prospettare dei casi in cui l’uso di procedimenti di stampo teatrale all’interno delle raccolte può essere legittimato. La condizione necessaria perché il poeta possa cedere completamente la parola è che si tratti di «un solo personaggio, o due al più, e solo in alcune scene» e che l’autore non cancelli davvero la propria individualità, ma semplicemente si nasconda sotto nome altrui:

Ma qui è sempre il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto altro nome; e quella non è veramente imitazione, ma quasi un travestimento. (…) Del resto, tali scene, dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti, passioni ecc.

attuali sotto nome di qualche personaggio storico, se si componessero staccate, potrebbero esser buona poesia: il poeta può avere buone ragioni per nascondersi sotto nome altrui; può trovarsi, se non altro, più a suo agio; ed è anche poetico in qualche modo quel rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione attuale, e quella d’alcun personaggio storico23.

Parlando di «travestimento» e di fatto negando la presenza di finzionalità, Leopardi cerca di conciliare tra loro, senza che si contraddicano, un gusto dell’epoca per le maschere e la propria fedeltà alla lirica; allo stesso tempo conferma un dato ormai largamente acquisito dalla critica, ovvero che Saffo e il pastore, più che personaggi veramente distinti, sono doppi dell’io lirico che si incontra nel resto della raccolta, sue proiezioni nella storia e nel mito

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. Possiamo allora dire che, come dimostrano L’ultimo canto di Saffo e il Canto notturno del pastore errante dell’Asia, l’affidamento integrale dell’enunciazione a figure distinte dall’autore non comporta necessariamente una fuoriuscita dai territori del genere lirico, anzi.

Così, accanto all’evidenza della finzione e al suo tasso, intuibili da eventuali indici presenti nei singoli testi (il titolo del componimento, il nome del personaggio

23 Sono le pagine datate 28 Settembre 1828, ora in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori, Milano 1983, p. 1160.

24 P.V. Mengaldo, Due forme del discorso poetico leopardiano, «Belfagor», 64, n. 6, 2009, p. 644; sul pastore come personaggio «preistorico» e più in generale sulla sua costruzione cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante, Marsilio, Venezia 2003, p. 165.

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enunciatore, allusioni al mito o alla storia, il contesto, il libro di poesia che lo contiene, ecc.), è da sottolineare anche la direzione che la fiction assume rispetto alla lirica, se punta ad avvantaggiarla o a nuocerle. Nell’ambito del rapporto che si instaura tra l’autore e un enunciatore distinto dall’io autobiografico, questa interazione può tradursi in una concessione al personaggio, da parte del poeta, di un’autonomia e un’indipendenza di grado variabile. Siamo evidentemente di fronte ad una questione di più larga portata, che va oltre l’identità della figura enunciatrice, ma riguarda in generale il vero statuto di tutti i personaggi presenti nei testi, la loro organicità o meno a ciò che Bachtin chiama «l’orizzonte dell’autore»

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.

Ecco allora che si può delineare un’altra zona dello spazio letterario, occupato dalla poesia italiana tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta; è una zona in cui si possono collocare, ad esempio, alcuni dei testi raccolti nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee di Caproni o in Case della Vetra di Raboni, caratterizzati dall’affidamento dell’enunciazione non più ad un personaggio immediatamente riconoscibile come autobiografico, ma a personaggi distinti dall’io empirico del poeta. Convinti dell’inattualità di un io forte e preoccupati di limitare il rischio di eventuali derive narcisistiche ed egocentriche dell’autobiografismo, questi autori tralasciano volentieri contenuti riconducibili alla loro esperienza empirica e alla loro sfera soggettiva, oppure li trattano di sbieco attribuendoli a personaggi marginali.

In questi testi l’incremento della finzione non nasce, come per le maschere leopardiane, per rinsaldare ulteriormente la sicurezza dell’io lirico, magari mostrando l’universalità della sua prospettiva, ma al contrario è volto a metterne in luce la fragilità. Gli esiti a cui giungono questi poeti sono vari, e coprono una gamma che va dal contenere con argini minimi fino a ridimensionare drasticamente la dimensione lirica

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. Se i personaggi caproniani posti al centro dei componimenti del Congedo del viaggiatore cerimonioso, si rivelano, per molti aspetti, ancora vincolati alla sfera della soggettività del poeta, in alcuni testi di Case della Vetra la marginalizzazione della prospettiva dell’autore è molto più radicale, come in Canzone

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:

Quando piove, fanno proprio schifo

25 M. Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002.

26 Cfr. E. Testa, Lingua e poesia negli anni Sessanta in AAVV, Gli anni ’60 e ’70 in Italia, pp. 36-38.

27 G. Raboni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2000, p. 57.

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le finestre che si coprono d’unto, la stufa che manda fumo negli angoli e in cucina il sale che si blocca, la cerata

5 che appiccica…Ma trovarsi bene o trovarsi male, questa è un’altra cosa.

I bambini che vanno su e giù

per il ballatoio schiantando rami secchi

col fianco, fanno paura, mi sembrano un po’ gnomi 10 dagli occhi: sembra che stiano per volare

sopra il tetto. Ma io dico che da qui a voler tornare dov’ero, magra per la fame, mangiata dai pidocchi, ci corre.

Il testo non fornisce sufficienti dettagli per ricostruire la parabola esistenziale del personaggio; eppure dal suo monologo si capisce che si tratta di una figura femminile («magra», «mangiata»), forse una ragazza, che vive da poco in un nuovo contesto, segnato dallo squallore e dall’indigenza, ma tutto sommato più accettabile della precedente sistemazione («a voler tornare dov’ero», v. 12). In Case della Vetra Raboni costruisce una vasta galleria di presenze, il cui statuto può oscillare da quello di «doppi, deboli o marginali, dell’io» autobiografico a quello di personaggi con un altissimo grado di autonomia, come nel caso di Canzone

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. Tuttavia, a ben vedere, a queste figure, così come alle «interposte persone» di Caproni, non è mai concesso uno spazio che superi il singolo componimento. È un dato che appare significativo, tanto più se considerato insieme ad un altro, per certi aspetti speculare e ben visibile sia in Case della Vetra sia nel Congedo del viaggiatore cerimonioso, ovvero che, nell’economia del macrotesto, le poesie incentrate su un soggetto autobiografico hanno assicurato uno spazio ancora decisamente rilevante.

Nonostante tutto, se con le raccolte della metà degli anni Sessanta Caproni e Raboni si muovono in territori, per lo più, diversi da quelli dei classicisti moderni come Luzi, Sereni o Fortini, allo stesso tempo si tengono anche alla larga da quei territori, segnati da un antilirismo radicale, che pochi anni prima Sanguineti aveva esplorato con il suo Laborintus.

28 E. Testa, Dopo la lirica, cit., p. 206.

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4. Un personaggio crepuscolare. Un altro filone di rilievo, che è possibile individuare nel panorama poetico tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, è quello crepuscolare

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. È una poesia ancora di natura autobiografica, ma che sottolinea, talvolta anche grazie alla finzione, la marginalità e l’ordinarietà dell’io lirico. Sotto quest’etichetta possono essere accomunate raccolte di poeti ben distinti tra loro per generazione, formazione, retroterra culturale. Così, alla Vita in versi di Giudici, un autore dagli esordi all’insegna del «sistema delle Occasioni», può essere affiancato Purgatorio de l’Inferno (con buona parte della produzione poetica successiva) di Sanguineti, teorico principale della neoavanguardia. E all’interno di questo gruppo è da inserire, sempre fatte salve le debite differenze, anche l’ultimo Montale, con le raccolte pubblicate dopo gli anni di silenzio

30

.

Se Giudici mette al centro del proprio libro un colletto bianco, un esponente del ceto medio diviso tra ansie e «impiegatizie frustrazioni», Sanguineti racconta la vita di un intellettuale dell’Italia contemporanea, in giro per convegni e in dialogo con i nomi noti della cultura internazionale (Calvino, Berio, Sollers, Paz). Per quanto diversi nella forma e nella struttura (basti pensare solo al rapporto con la metrica tradizionale o al peso accordato al montaggio), i loro componimenti restituiscono sempre l’idea che la sfera ordinaria dell’esistenza, e dunque la famiglia e il lavoro, sebbene grigia e dominata dall’insensatezza, abbia comunque una sua rilevanza e meriti di essere considerata anche problematicamente. Sanguineti non censura affatto quei frammenti di vita generalmente respinti dalla lirica tradizionale, come i momenti tipici del rapporto padre-figli o le scene di crisi coniugale. Senza troppe riserve o inibizioni, spesso, il suo personaggio lirico confessa le proprie piccolezze e i propri pianti, lasciando intendere che il riconoscimento del lettore nel mondo del poeta possa passare anche attraverso l’inettitudine e il lato più inconsistente dell’intimità.

Da un lato, dunque, la postura che l’io assume nel crepuscolarismo appare il rovescio speculare di quella assunta nell’espressionismo lirico

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, un altro filone portante della poesia italiana del Novecento e che risponde in maniera euforica alla perdita di

29 Cfr. W. Siti, Il neorealismo della poesia italiana, cit., pp. 160-232; G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., pp. 184-187.

30 Cfr. R. Luperini, Storia di Montale, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 195-232.

31 G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, pp. 181-187.

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saldezza e sicurezza del soggetto della tradizione. Dall’altro lato l’io crepuscolare si configura come la versione abbassata e minimizzante del personaggio lirico del classicismo moderno e, proprio per la sua importanza all’interno di quest’area, del modello delle Occasioni. Così, la maturità e l’equilibrio spesso lasciano il posto all’infantilismo; una familiarità con il vano e il mondo della middle-class subentra al senso di distanza dall’uomo comune. Ecco allora che l’io non nomina oggetti-emblema, ma si perde nell’elencazione di un’oggettistica frusta; come in Gozzano, anche in Giudici e in Sanguineti la poesia diventa lo spazio per restituire una realtà affollata di suppellettili, scarti inutili

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, merci talvolta terrificanti, tra cui si confondono anche gli esseri umani

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:

piangi piangi, che ti compero un grosso capidoglio di gomma piuma, un albero di Natale, un pirata con una gamba di legno, un coltello a serramanico, una bella scheggia di una bella bomba a mano:

piangi piangi, che ti compero tanti francobolli

10 dell’Algeria francese, tanti succhi di frutti, tante teste di legno, tante teste di moro, tante teste di morto:

oh ridi ridi, che ti compero un fratellino: che così tu lo chiami per nome: che così tu lo chiami Michele:

Dunque, per quanto sia variegata e ricca di stili, la scena poetica italiana del periodo da noi considerato può essere descritta individuando affinità e analogie a partire dalla postura che il soggetto assume nelle diverse raccolte. In questa prospettiva i nostri quattro poeti appaiono tutt’altro che isolati. Cercando di non eludere i problemi teorici, nei prossimi paragrafi vedremo alcuni aspetti legati alla dimensione narrativa e al modo in cui viene rappresentata l’interiorità in questi componimenti.

5. La narratività. Una prima distinzione che conviene prospettare subito è legata all’impianto dei componimenti. Il testo-campione che si analizza nel capitolo sul Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee di Caproni è un monologo

32 A. Berardinelli, La poesia verso la prosa, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 97.

33 Da Purgatorio de l’Inferno 9, ora in E. Sanguineti, Segnalibro. Poesie 1951-1981, Feltrinelli, Milano 1982, p. 82.

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drammatico, dunque, presenta una struttura che incastona, com’è tipico del teatro, il piano diegetico nel piano mimetico

34

. Il lettore, infatti, ha di fronte dei versi che coincidono con le battute pronunciate da un personaggio in occasione di uno scambio dialogico con alcuni interlocutori partecipi: il racconto di vicende personali risulta plasmato nella forma anche da eventuali sollecitazioni degli astanti.

Invece, nei testi-campione tratti dalle raccolte di Luzi, Sereni e Giudici è il livello mimetico ad essere subordinato a quello diegetico; l’io lirico, che copre il ruolo di narratore, racconta un frammento autobiografico e dunque un episodio in cui figura come protagonista, corredandolo con commenti o interpretazioni e riportando eventuali dialoghi con altri personaggi. A quest’altezza cronologica, Luzi, Sereni e Giudici puntano su una narratività all’insegna della distensione e della discorsività, che riconosce il diritto di parola anche a personaggi distinti dall’io; colpisce pertanto la distanza dalle soluzioni espressive tipiche della poetica epifanica delle Occasioni, un modello che, come dimostrano le loro carriere, è ben presente ai nostri autori. Ad una conoscenza per barlumi, imperniata sugli shock del miracolo e sulla frammentarietà, è così preferita una maggiore articolazione narrativa, che lascia più spazio alla descrizione e al ragionamento.

Ora, per mettere a fuoco alcuni aspetti tecnici, forse può essere utile fare riferimento, oltre che ai nostri quattro autori, anche alla produzione di un narratore in versi di rilievo come Gozzano. Se come nota Genette «un racconto, come qualsiasi discorso, si rivolge necessariamente a qualcuno, e contiene sempre, anche in negativo, un richiamo al destinatario»

35

, allora una prima questione che si può sollevare è “a chi si rivolge il narratore omodiegetico?”. Una possibilità è che l’io destini il proprio racconto ad una figura individuata; è il caso ad esempio della Signorina Felicita in cui il personaggio lirico, indirizzandosi alla ragazza, ripercorre la storia d’amore che li ha uniti, i dialoghi, l’esplorazione della soffitta di Villa Amarena. Diversi indizi (la lontananza della donna al momento della comunicazione, la disinvoltura con cui sono dette la sua bruttezza e le dicerie sul padre) suggeriscono che, come capita spesso nella poesia moderna, la destinataria non può ascoltare davvero l’enunciato dell’io; tuttavia, si capisce facilmente che l’intento di Gozzano è tenere insieme l’apertura al racconto e il modulo

34 C. Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, Torino 1983, p. VII.

35 G. Genette, Figure III, Einaudi, Torino 1986, p. 308.

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tradizionale dell’allocuzione al fine di investire di una luce parodica il tema amoroso e di trattare ironicamente alcune situazioni tipiche del codice lirico e della poesia dannunziana

36

. E d’altronde, sebbene limitato ad una strofa soltanto, qualcosa di analogo capita anche nel finale dell’Amica di nonna Speranza in cui l’io si rivolge direttamente a Carlotta, una figura femminile così lontana da appartenere ad un passato (l’età della giovinezza della nonna Speranza) non vissuto dal narratore e per questo idealizzato.

Nelle nostre quattro raccolte si incontrano dei testi in cui, come nella Signorina Felicita, l’io rivolge il proprio racconto ad un tu specifico; è il caso di Ancora sulla strada di Creva di Sereni o di Quindici stanze per un setter, in cui Giudici recupera il modulo epistolare. Ma è una soluzione che, ad esempio, Luzi in Nel magma non sfrutta, conferendo ai propri testi la fisionomia di enunciati indirizzati ad una sorta di lettore- spettatore. Non troppo diversamente rispetto al narratore luziano sembra comportarsi quello che si incontra nella Mia compagna di lavoro, il testo-campione che apre il capitolo sulla Vita in versi.

Un’altra soluzione è quella che caratterizza il modulo retorico alla base di diversi componimenti di Apparizioni o incontri, l’ultima sezione degli Strumenti umani; qui il narratore omodiegetico non dà al proprio racconto la completezza necessaria per una comunicazione efficace. Il lettore, così, finisce per somigliare ad un intruso, che accede, al contrario dei testi di Nel magma, quasi per caso ad un discorso debolmente organizzato.

I due testi di Gozzano ci permettono di introdurre alcune riflessioni sul tempo della narrazione, e dunque sul rapporto tra il piano temporale, il presente, in cui l’io racconta e il piano temporale dello svolgersi degli eventi. La Signorina Felicita è un esempio, per dirla con Genette, di narrazione ulteriore

37

; l’io ricorda fatti avvenuti l’anno prima («i bei giorni d’un autunno addietro», I, v.13), e pertanto ricorre a tempi verbali del passato («Tu civettavi con sottili schermi, | tu volevi piacermi, Signorina», III, vv. 87- 88). E non troppo dissimile è ciò che accade nell’Amica di nonna Speranza, dove il narratore alterna al passato il presente narrativo che gli permette di dare più vivezza alla ricostruzione di episodi comunque lontani nel tempo. In ambedue i casi, dunque,

36 E. Sanguineti, Gozzano, Einaudi, Torino 1966, p. 106.

37 G. Genette, Figure III, cit., p. 264.

(15)

nel momento in cui comincia a raccontare, il narratore gozzaniano sa già l’esito finale della storia

38

. Così non avviene nei testi-campione che analizziamo nei primi tre capitoli. In questi componimenti, seppure con differenze importanti nel modulo retorico, il racconto è simultaneo all’azione

39

, dunque il piano temporale dell’io che vive e dialoga con gli altri personaggi coincide con il piano temporale dell’io che narra, commenta e interpreta i fatti. Così, negando la regola elementare secondo cui la narrazione deve essere posteriore a quanto si racconta

40

, le poesie acquistano un alone di artificiosità e un taglio teatrale.

L’aumento del tasso di narratività e la presenza di personaggi con diritto di parola comportano l’apertura del testo a movenze dialogiche; anche qui può tornare utile un richiamo alla Signorina Felicita. È la sez. IV: nella soffitta di Villa Amarena, circondati da «rottami del passato vano» l’io lirico e la ragazza vivono il loro momento d’intimità. Tra i due personaggi s’instaura uno scambio dialogico, in cui l’«avvocato»

dichiara il proprio desiderio di fuga dalla realtà

41

:

205 «Avvocato, non parla: che cos’ha?»

«Oh! Signorina! Penso ai casi miei, a piccole miserie, alla città…

Sarebbe dolce restar qui, con Lei!...»

«Qui nel solaio?...» - «Per l’eternità!»

«Per sempre? Accetterebbe?...» - «Accetterei!»

Nel ripercorrere l’episodio, il narratore omodiegetico si limita a riferire fedelmente le battute pronunciate dai personaggi, rinunciando a qualsiasi commento o spiegazione.

La cornice diegetica, infatti, perde consistenza lasciando che il testo si avvicini ad una forma di tipo drammatico, e dunque non mediata. Un’eventuale assenza di virgolette o trattini può comportare per il lettore un maggiore sforzo nel riconoscere le parti mimetiche e nell’attribuire i frammenti di discorso diretto ai diversi parlanti; la ricerca di effetti stranianti può passare anche da qui, come in una certa misura dimostra Nel vero anno zero di Sereni:

Tutti alle Case dei Sassoni – rifacendo la conta.

Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato.

A mangiare ginocchio di porco? Mai stato.

38 S. Chatman, Storia e discorso, Net, Milano 2003, p. 85.

39 G. Genette, Figure III, cit., p. 264.

40 Ivi, p. 263.

41 G. Gozzano, Opere, Utet, Torino 2006, p. 197.

(16)

Ma certo, alle case dei Sassoni.

Alle Case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c’è di strano?

Altre volte il discorso dei personaggi può essere assunto dalla voce del narratore, come appare evidente nella sez. II dell’Amica di nonna Speranza, dove grazie all’indiretto libero affiora il punto di vista delle ragazze o forse dei parenti (gli zii ad esempio), preoccupati per l’esame scolastico

42

:

Entrambe hanno un scialle ad arancie a fiori a uccelli a ghirlande;

divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guancie.

25 Han fatto l’esame più egregio di tutta la classe. Che affanno passato terribile! Hanno lasciato per sempre il collegio.

Quasi per simmetria, visti sommariamente alcuni aspetti legati alla rappresentazione di ciò che i personaggi dicono, possiamo così passare ad alcune considerazioni sulla rappresentazione, nella lirica con evidenti movenze narrative, di ciò che i personaggi pensano.

6. Vita interiore. Una delle maggiori potenzialità dei testi poetici dal taglio narrativo consiste nel poter raccontare la vita esteriore dell’io lirico, mostrarlo cioè mentre parla e interagisce con altri personaggi, senza tuttavia dovere rinunciare alla rappresentazione della sua interiorità. Per introdurre alcune questioni, può essere utile ripartire dalla sez. IV della Signorina Felicita. Nella strofa citata nel paragrafo precedente, durante lo scambio dialogico, il personaggio lirico spiega alla ragazza di essere rimasto per alcuni attimi in silenzio («non parla», v. 205) perché preso dai propri pensieri. Parlando nel solaio con l’interlocutrice, l’io narrato si limita soltanto ad accennare a questi pensieri, senza soffermarsi troppo; l’anno seguente, però, ripercorrendo la scena, l’avvocato non rinuncia a riferirli in maniera profusa. Ciò che sul momento era stato presentato, con reticenza, come una semplice riflessione su di sé («Penso ai casi miei», v. 206), sulle «piccole miserie» e sulla «città» (v. 206), a ben vedere corrisponde ad un discorso mentale molto più articolato, esteso a tal punto da

42 Ivi, p. 209.

(17)

occupare, nell’economia del testo, un consistente numero di strofe. Si tratta di una trentina di versi collocati prima del dialogo tra i due personaggi:

Io risi, tanto che fermammo il passo, e ridendo pensai questo pensiero:

165 Oimè, La Gloria! un corridoio basso, tre ceste, un canterano dell’Impero, la brutta effigie incorniciata in nero e sotto il nome di Torquato Tasso!

(…)

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena, ma laggiù, oltre i colli dilettosi, c’è il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi, 185 la cosa tutta piena di quei «cosi

con due gambe» che fanno tanto pena…

Come mostrano queste due strofe, nella Signorina Felicita Gozzano restituisce l’interiorità del personaggio lirico servendosi del monologo autocitato

43

. È una soluzione tecnica che consiste nella citazione fedele da parte del narratore omodiegetico dei propri pensieri silenziosi. Si intende facilmente che la narrazione in presa diretta, così comune nelle raccolte che analizzeremo nei prossimi capitoli, comporta che le formule verbali che introducono la riproduzione dei discorsi mentali dell’io siano, non come in Gozzano al passato («pensai questo pensiero», «pensavo»), ma al presente («mi dico» «mi domando» «penso»). Sereni spesso rinuncia a queste formule celando il passaggio dalla diegesi alla mimesi, e tenta molto più di altri autori di rendere, per riprendere una nota espressione di Auerbach, il «vagare e ondeggiare della coscienza»

44

, peraltro riuscendoci con esiti molto suggestivi.

Ora, proprio alcune riflessioni dello studioso tedesco sul romanzo modernista permettono, per contrasto, di mettere a fuoco alcune peculiarità del genere lirico nella trattazione del mondo interiore. Infatti, se come mostra bene Gita al faro della Woolf, il romanzo modernista conosce la «rappresentazione della coscienza pluripersonale», ovvero si serve delle «impressioni del mondo esterno sulla coscienza» di «molti soggetti che cambiano spesso»

45

, la lirica invece, proprio per la sua natura egocentrica

43 D. Cohn, Transparent minds. Narrative modes for presenting consciousness in fiction, Princeton university press, Princeton 1978.

44 E. Auerbach, Mimesis, II, Einaudi, Torino 2000, p. 319.

45 Ivi, p. 318.

(18)

e narcisistica, si guarda sempre bene dal frugare nella mente di personaggi distinti dall’io autobiografico. I testi lirici, cioè, anche quando aprono alla narratività e dunque riscoprono degli strumenti che sulla carta permettono di raccontare a fondo più punti di vista e più vite interiori, sostanzialmente restano sempre ancorati ad «un soggettivismo unipersonale»

46

. Ad esempio, per restare ancora alla Signorina Felicita, va detto che la scelta dell’autore di costruire il testo su un impianto narrativo di tipo omodiegetico e di tenere la focalizzazione interna costantemente fissa sul protagonista maschile preclude a monte qualsiasi accesso, da parte del lettore, ai pensieri della ragazza. E a ciò si aggiunga che nel corso della poesia il narratore autobiografico non appare mai interessato ad indagare la mente altrui, né tanto meno a concedere alla resa dei movimenti della coscienza di Felicita la minima parte dello spazio che riserva per la propria.

Nella seconda metà del Novecento e dunque a distanza di diversi decenni da Gozzano, forti di nuove esperienze letterarie internazionali e lontani dal collocare l’io in un contesto abbassato e piccolo-borghese, Luzi e Sereni si mostrano, pur nelle diversità, ancora attratti da una ricerca introspettiva indirizzata sull’io e restii ad esplorare a fondo coscienze altre che valichino la sfera di un soggetto autobiografico. A sua volta nella Vita in versi, preoccupato di proporre l’immagine di un personaggio lirico tipizzato, Giudici non si addentra davvero nella rappresentazione di vite interiori che non siano, in una certa misura, riconducibili all’uomo impiegatizio in cui si riconosce e con cui si camuffa. Nella raccolta Congedo del viaggiatore cerimonioso non mancano testi dall’impianto omodiegetico (Scalo dei fiorentini, I ricordi) in cui l’autore prova a superare le disparità di trattamento relative alla rappresentazione dell’interiorità; tuttavia la soluzione per cui propende Caproni non passa per l’estensione del privilegio del personaggio lirico anche agli altri personaggi, ma significativamente punta su una parità al ribasso, che di fatto nega a chi legge pure l’accesso ai pensieri dell’io. Di fronte alle nostre quattro raccolte poetiche si ha sempre l’impressione che la poesia non voglia approfittare di uno dei grandi vantaggi che il romanzo e, più in generale, la finzione letteraria hanno rispetto alla vita reale: e cioè il

46 Ivi, p. 319.

(19)

vantaggio di poter squadernare davvero davanti agli occhi del lettore i pensieri, le sensazioni, gli stati d’animo di più individui

47

.

7. Privilegi dell’io. Si stacca da questo quadro il poemetto La ragazza Carla, che resta ancora oggi una delle prove poetiche più riuscite di ridimensionamento dei privilegi dell’io autobiografico. In questo testo Pagliarani ricorre ad un narratore problematico e inattendibile, distante da sé per ideologia e linguaggio. Parallelamente, l’autore accantona l’impianto omodiegetico e si serve della narrazione in terza persona e della focalizzazione interna variabile, così da permettere a chi legge di avere uno sguardo profondo sulla prospettiva e sulla coscienza di diversi personaggi. Queste scelte determinano la natura del testo e implicano un abbandono dei territori del genere lirico;

d’altronde, in più occasioni il poeta stesso ha avuto modo di dichiarare espressamente di voler combattere la «tirannia dell’io» e di voler superare l’«identificazione lirica=poesia» reinventando i generi letterari

48

.

Concedendoci una digressione, nel primo capitolo torneremo sul caso della Ragazza Carla di Pagliarani; per ora ci interessa sottolineare che il poemetto indica una possibile strada per superare in maniera decisa il monologismo lirico e tendere verso la polifonia su cui ha insistito Bachtin nei suoi studi su Dostoevskij. In questi studi il critico dedica poco più che accenni alla poesia, instaurando piuttosto un confronto oppositivo con il monologismo nei generi prosastici e dunque dedicando preziose attenzioni alla produzione di Tolstoij; eppure forse proprio per l’innesto nelle nostre raccolte della dimensione narrativa, di dialoghi e di presenze distinte dall’io autobiografico, i saggi su Dostoevskij con gli spunti sul rapporto tra l’autore e i suoi personaggi possono essere preferiti alla Parola nel romanzo, il noto scritto in cui sono dispiegate le tesi sulla natura monologica della lirica

49

. Nelle pagine su Dostoevskij Bachtin sostiene che nelle opere polifoniche

47 Cfr. D. Cohn, Transparent minds. Narrative modes for presenting consciousness in fiction, cit., p. 5.

48 E. Pagliarani, La sintassi e i generi, in AAVV, I novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di A.

Giuliani, Einaudi, Torino 2003, p. 199.

49 Ora in M.Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979.

(20)

la coscienza dell’autore non trasforma le altre coscienze (cioè le coscienze dei protagonisti) in oggetti e non dà loro determinazioni definitive dall’esterno.

Essa sente accanto a sé e dinanzi a sé le coscienze altrui dotate di pieni diritti, egualmente infinite e incompiute come essa stessa. Riflette e riproduce non un mondo di oggetti, ma appunto queste coscienze altrui con i loro mondi, le riproduce nella loro vera incompiutezza (giacché è appunto questa la loro essenza)50.

Il critico lascia intendere più volte che uno dei presupposti fondamentali affinché si configuri la polifonia riguarda il vero statuto dei personaggi e dunque il loro grado di indipendenza rispetto all’autore. Pertanto da una parte si trovano i testi monologici, in cui il personaggio, non riuscendo a rompere il «cordone ombelicale» che lo unisce al suo «creatore», si scopre essere un suo gregario o portavoce

51

; dall’altra le prove di Dostoevskij dove l’autore riconosce nel personaggio un tu «pienamente valido», un

«altro ‘io’ estraneo», «dotato di pieni diritti» e che può vantare una propria autonomia, una libertà interiore, forme di indefinitezza e incompiutezza

52

. È un punto importante perché proprio il rapporto paritario, non autoritario, né gerarchico tra le diverse coscienze permette che prenda piede nel testo un «atteggiamento dialogico serio, vero, e non retoricamente recitato o letterariamente convenzionale»

53

. Bachtin considera una condizione necessaria per la polifonia che l’autore non chiuda mai questo dialogo, che lo lasci aperto, che non ponga «un punto di compimento»

54

.

In quest’ottica, allora, possiamo dire che la lirica si mostra saldamente ancorata al monologismo nella misura in cui, anche quando apre alla dialogicità, affianca il soggetto con personaggi impossibilitati a sfuggire al suo «orizzonte, che tutto comprende e tutto sa». Così, più che coscienze pienamente valide e dotate degli stessi diritti dell’io autobiografico, il lettore ha di fronte un personaggio a «cui non è data l’ultima parola», che «non può rompere la rigida armatura, che lo conchiude, del giudizio esterno dell’autore»

55

. A vedere, conoscere, comprendere è ancora il soggetto, che di fatto gerarchicamente domina o soffoca la prospettiva altrui. Scrive Bachtin nel saggio L’idea di Dostoevskij:

50 M.Bachtin, Dostoevskij, cit, p. 92.

51 Ivi, p. 70.

52 Ivi, pp. 85-86.

53 Ivi, p. 86.

54 Ivi, p. 217.

55 Ivi, p. 96.

(21)

Nel mondo monologico tertium non datur: il pensiero o si afferma, o si nega, o semplicemente cessa di essere un pensiero pienamente significativo.. (…) Il pensiero altrui negato non rompe il contesto monologico, al contrario, ancor più decisamente e tenacemente viene chiuso nei suoi confini56.

Nelle prossime pagine vedremo le raccolte di Luzi e Sereni, dove si riscontrano due gradi diversi di monologismo, uno più sicuro e corroborato da energiche forze centripete, l’altro incrinato e più mosso, volto anche a mettere in luce le debolezze dell’io lirico, proiezione diretta dell’autore nel componimento. Questa sostanziale riconferma del monologismo ci dice, allora, della fedeltà al genere lirico che continua a caratterizzare, anche nella seconda metà del Novecento, la produzione poetica di autori di primo piano. Verrebbe da dire, riprendendo il titolo di un’importante antologia della poesia italiana degli ultimi decenni, dopo la lirica, ancora la lirica.

56 Ivi, p. 105.

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