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CAPITOLO 3 GLI AGRI MARMIFERI 3.1 Disciplina degli agri marmiferi

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CAPITOLO 3

GLI AGRI MARMIFERI

3.1 Disciplina degli agri marmiferi

Il diritto minerario è l’istituto giuridico che ha come oggetto di studio le miniere, le cave e le torbiere. I prodotti delle cave, delle miniere e delle torbiere vengono qualificati come frutti, come i prodotti degli alberi, delle messi e degli animali, anche se a differenza di questi ultimi non sono distinti nettamente dalla cosa madre, ma la loro estrazione altro non è che la riduzione della cosa stessa, fino al consumo completo; in altre parole viene applicata ai beni minerari una disciplina appartenente ai beni non consumabili, quando invece essi non sono riproducibili. È poi possibile applicare istituti di diritto privato come l’affitto e l’usufrutto a dei beni che, sono consumabili. In sostanza le miniere, cave e torbiere sono l’unico bene immobile consumabile che si conosca, perché a differenza degli altri immobili non è ne ristrutturabile ne ripristinabile.

La legislazione mineraria può essere divisa tra generale e speciale. È considerata legge mineraria generale il decreto legislativo 29 luglio 1927, n. 1443, il quale detta le disposizioni generali relative all’attività di ricerca e coltivazione dei giacimenti minerari. Questa legge, che a suo tempo aveva unificato la legislazione di tutto il territorio nazionale, ha perso la sua funzione originaria a seguito della introduzione delle leggi regionali e delle leggi speciali. La legislazione speciale è quella che riguarda alcuni particolari settori, come gli idrocarburi (liquidi e gassosi), le risorse geotermiche, le acque minerali e termali e gli Agri marmiferi pubblici di Massa e Carrara.

La distinzione tra il settore delle miniere e il settore delle cave e torbiere è disposta dall’art. 2 della c.d. legge mineraria; le sostanze appartenenti alla categoria delle miniere sono un numero chiuso, e sono: giacimenti di minerali utilizzabili per l’estrazione di metalli e metalloidi, giacimenti di combustibili (idrocarburi, uranio, carboni), di pietre preziose, fosfati, feldspati. Tutte le altre

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sostanze industrialmente utilizzabili che non rientrano in questa categoria appartengono a quella delle cave e torbiere (torbe, materiali per le costruzioni edili, per le costruzioni stradali ed idrauliche, le terre coloranti, il quarzo, le sabbie silicee, ecc.).

Ai fini della distinzione non ha alcuna influenza la modalità di estrazione utilizzata, per cui non necessariamente una miniera deve essere coltivata in sotterraneo, così come una cava deve essere coltivata a cielo aperto, anche se sono più frequenti le cave a cielo aperto.

I giacimenti appartenenti alla categoria miniere, in base all’art. 826 c.c., sono pubblici, cioè appartengono al patrimonio indisponibile dello stato, mentre quelli appartenenti alla categoria delle cave e torbiere sono pubblici solo nel caso in cui siano sottratti alla disponibilità dei privati, sempre sulla base del solito articolo50.

Cenni storici:

L’attività delle cave di marmo risale all’epoca romana, più precisamente all’epoca della Repubblica. Durante quel periodo le cave erano di proprietà delle colonie o di privati, mentre a partire dal regno di Tiberio (17 d.c.) passarono nel patrimonio imperiale, per cui l’estrazione del marmo divenne quasi totalmente monopolio imperiale, con dei funzionari imperiali che controllavano l’estrazione e il trasporto dei marmi, cosa che si deduce da sigle e iscrizioni su marmi non lavorati.

Inizialmente le cave facevano parte del patrimonio personale dell’imperatore, che per un certo periodo fu distinto da quello del fisco imperiale, per poi confluire in quest’ultimo. Erano di proprietà imperiale le cave della Grecia, dell’Asia, dell’Africa, quelle di Imetto nell’Attica, di Karystos nell’Eubea, di Paro, del Mons Claudianus in Egitto e quelle di Luni, dalle quali si estraevano i marmi più importanti come il porfido, il granito, il giallo antico, il cipollino, il pavonazzetto, l’africano e il lunense.

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Merusi Fabio e Giomi Valentina, “La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia”, Torino, G. Giappichelli editore, 2007, pag. 69-88

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Nel 382 d.c. con la Costituzione Cuncti di Teodosio viene riconosciuto il diritto di scavare pietre in un fondo altrui, con l’obbligo di corrispondere un decimo del prodotto al fisco ed un altro decimo al proprietario del fondo. Le scelte fatte nella legge Cuncti, non ravvisano una volontà dell’imperatore di innovare i principi fondamentali del diritto minerario, ma che si trattasse di scelte dettate da opportunità politiche del momento è dimostrato dalle statuizioni successive dello stesso imperatore, che con ultima legge, la Costituzione del 393 d.c. indirizzata a Rufino, prefetto pretorio nell’Oriente, vietava l’escavazione di marmi da parte dei privati nei loro fondi, pena la confisca del materiale escavato; tutto ciò a tutela delle cave fiscali, le quali divennero le uniche produttrici.

Non è chiara la condizione giuridica del sottosuolo durante le dominazioni barbariche, poiché nel caos che si era creato non c’erano le condizioni per sviluppare una qualsiasi industria; comunque secondo alcuni autori, vi era la libertà di scavare marmi e pietre di cava nel fondo proprio e altrui, dato che un diritto dominicale sarebbe stato in contrasto con il carattere collettivo della proprietà fondiaria nel diritto barbarico.

Intorno al mille iniziò a formarsi quel diritto signorile e feudale che si sarebbe affermato nei duecento anni successivi, nei quali è documentato il diritto di signoria sulle miniere che esercitavano i magnati laici e gli ecclesiastici.

La costituzione dell’imperatore Federico del 1185 colloca le miniere fra i diritti e le cose regali; sulla base di essa, per tutta l’età feudale, i vari sovrani hanno fondato il loro diritto sulle miniere, utilizzandolo per darne l’investitura ai

feudatari subalterni51.

Anche a Carrara, durante il periodo feudale, si affermò che il privilegio dell’estrazione del marmo poteva essere attribuito ad estranei alla signoria o a privati non proprietari della superficie del terreno, solo con la decisione del signore feudale, che era il vescovo di Luni e Sarzana, conte di Carrara.

Nel 1273, il vescovo aveva introdotto la dogana sui marmi, sulla base delle regalie concesse da Federico I; per cui, una volta ottenuto il permesso di estrarre

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Marchetti Fausto, “Le cave, dal diritto romano alle leggi regionali”, Carrara, Casa di edizioni in Carrara, 1995, pag. 7-12

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il marmo, vi era l’obbligo di versare, all’uscita dal territorio, in unica soluzione, una gabella, che riguardava i diritti feudali connessi alle regalie. Pertanto la disciplina dell’attività era riservata al sovrano beneficiario della regalia sui marmi, e riguardava tutti i giacimenti, sia pubblici che privati, per i quali non esisteva una specifica concessione.

Tuttavia con il “livello statutario”, previsto dallo Statuto del 1574, l’apertura delle cave veniva concessa alle vicinanze. Le vicinanze di Carrara, di origine medioevale, consistevano in comunità agrarie che gestivano “agri collettivi” (il termine agro nel carrarese designa una zona marmifera di proprietà del comune) secondo un’economia elementare e con una struttura amministrativa regolata dagli Statuti di diritto consuetudinario. Si trattava di associazioni di famiglie, simili ad enti territoriali autonomi, proprietarie di beni indivisibili ed

inalienabili52.

A Carrara gli agri più importanti erano quelli dei migliori giacimenti marmiferi; alla fine del XV secolo le vicinanze più influenti erano quelle di Torano, Bedizzano e Miseglia, oltre a Carrara. Il potere di disciplina e di amministrazione dei beni collettivi spettante alle vicinanze emerge solo con l’attenuazione dei poteri del vescovo. Il livello statutario, consisteva in un versamento, in denaro o in natura, che i forestieri dovevano effettuare per l’attività di estrazione, alla vicinanza, che dopo lo Statuto concedeva il diritto al posto del principe.

La normativa estense:

L’editto del 1 febbraio 1751 di Maria Teresa Cybo, rappresenta la prima disciplina specifica sulle cave di marmo, nata per risolvere le frequenti controversie sul diritto di aprire cave e per dare una disciplina scritta, completa ed uniforme, agli agri marmiferi di Carrara, materia sino ad allora regolata dal diritto consuetudinario e dalla prassi.

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Piccioli Cesare, “Storia e dogmatica del sistema minerario estense- Carrara: 1751-1995, Pisa, Edizioni il Borghetto, 2004, pag. 95

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L’editto contiene una rinuncia indiretta alla regalia sui marmi, dato che consente alle vicinanze di concedere il diritto di estrazione del materiale ai membri della comunità, in quanto partecipanti della proprietà collettiva sugli agri marmiferi, con la stipulazione dell’atto di livello, contratto simile alla concessione di beni pubblici.

In sostanza, la normativa consiste in una codificazione scritta delle norme consuetudinarie, in particolare, per quanto riguarda l’obbligo del privato di richiedere in concessione la cava alla vicinanza proprietaria del bene. Le conseguenze più importanti sono l’abolizione della regalia sui marmi e il riconoscimento della proprietà delle cave alle vicinanze, ed inoltre la suddivisione delle stesse secondo tre categorie, con l’intento di legittimare le occupazioni di fatto e per considerare giuridicamente rilevanti le posizioni ormai consolidate.

La distinzione essenziale riguarda le cave già aperte negli agri delle vicinanze del Principato, le quali andranno poi distinte tra quelle già iscritte negli Estimi dei Particolari e quelle che non vi sono iscritte, e quelle da aprire successivamente all’entrata in vigore del regolamento.

Per quanto riguarda le cave già aperte, quelle estimate, cioè iscritte all’estimo, da parte di privati da oltre venti anni, prima del 1751, dovevano rimanere, senza limiti di tempo, di proprietà privata e in disponibilità del proprietario del fondo, senza possibilità di rivendicazione da parte della vicinanza; relativamente alle cave estimate da meno di venti anni da parte di privati, questi potevano scegliere se abbandonarle oppure stipulare un contratto di livello con la vicinanza, con l’obbligo di corrispondere, “una certa annua prestazione discreta e moderata”, basata sul reddito agrario della superficie; per le cave già aperte ma non iscritte all’estimo è previsto l’obbligo della stipulazione dell’atto di livello. In tutti i casi la proprietà della superficie è destinata all’esercizio dell’attività di cava, la quale è lasciata ai rapporti instaurati tra i privati e le vicinanze, che prevedono la costituzione di un vincolo di servitù, in senso proprio, sulla superficie, in cambio del versamento di un canone al proprietario della superficie, stabilito a seguito di accordo tra privati o secondo tariffe governative.

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Per le cave non ancora aperte è previsto un particolare procedimento, il quale prevede che “chiunque vorrà negli Agri della sua vicinanza cercarvi coi suoi lavori all’azzardo della cava, possa farlo con piena libertà, purchè osservi la giusta moderazione di farla in luogo ove non possa derivarne pregiudizio all’altrui”. Una volta terminata con esito positivo la ricerca, che consiste nella verifica della qualità del materiale, l’interessato doveva provvedere alla marcatura dell’area con le iniziali del nome e alla denuncia all’autorità della vicinanza, da cui ne derivava la detenzione dell’area. Dopo la denuncia, la procedura prevedeva un accertamento da parte dell’amministrazione della vicinanza tramite periti con funzioni di ispezione e di determinazione del canone annuale; riguardo alla sua determinazione, l’editto prevede che “la quantità di tal canone non dovrà però misurarsi dallo stato presente della cava, ma sul merito di quella porzione di Agri sulla quale sarà stata aperta, e la quale sarà di pertinenza della cava, avuto però riguardo all’uso per cui è stata destinata”.

L’esito positivo dell’accertamento consentiva un periodo di prova di due anni con la facoltà di scegliere tra la concessione deliberata dalla vicinanza, la stipulazione del contratto di livello e la dismissione della cava. Tuttavia il controllo sull’attività di estrazione attribuito alle vicinanze non evitò il verificarsi di episodi di abusi da parte di soggetti particolarmente potenti all’interno della comunità.

Durante il periodo di Napoleone, l’unico provvedimento rilevante è il Decreto del Principe di Lucca del 17 luglio 1812, il quale prevede l’abolizione delle vicinanze di Carrara, ed il trasferimento degli agri al comune.

In seguito con la restaurazione gli stati di Massa e Carrara furono attribuiti a Maria Beatrice d’Este, che con l’editto del 15 dicembre del 1815, ripristinò l’editto del 1715 oltre a confermare l’abolizione delle vicinanze, con la conseguenza della proprietà comunale degli agri e la competenza del comune per la concessione ai privati.

Con l’editto 30 maggio 1820 fu introdotto un nuovo sistema di catasto, che consentì un elenco accurato delle proprietà e delle cave, e, l’intestazione catastale con finalità di inventario e di ricognizione, ma non costitutivo di diritti; gli agri

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vennero intestati al Comune come proprietà e la superficie allora corrispondeva a 1774 ettari di concessioni attive ed agri liberi. Un nuova e sostanziale riforma ci fu con le notificazioni del 14 luglio e del 3 dicembre 1846 ad opera del Duca di Modena e Reggio Francesco V d’Este, che si presentavano soprattutto come regolamento dell’attività estrattiva.

Le leggi contengono una disciplina particolare sulla procedura per l’apertura delle cave e riguardo a diritti ed obblighi del comune e del livellario (coltivatore delle cave che è indicato anche come conduttore o enfiteuta), che può sfruttare la cava, appropriarsi dei frutti e disporre, escluse le ipotesi di trasferimenti a titolo di successione; il diritto del livellario di sfruttare gli agri marmiferi può essere qualificato come vero e proprio diritto reale di godimento su cosa altrui, frazionabile dalla proprietà piena ed autonomo dal diritto di proprietà del comune.

Il livellario, a pena di decadenza, è tenuto a coltivare la cava, a versare il canone, a stipulare l’atto di ricognizione della proprietà comunale ogni ventinove anni, a corrispondere un laudemio al momento dell’investitura della cava, dell’alienazione o per successione, assumendo, infine, le spese del contratto. Con la notificazione del 14 luglio venne previsto una regolamentazione dell’attività estrattiva delle cave già aperte o da aprirsi, organizzando meglio i principi già vigenti con le precedenti fonti. Per quanto riguarda le cave già aperte, il comune doveva verificare l’effettivo utilizzo sulla base delle concessioni e dei termini di decadenza previsti nei relativi contratti.

Il rinnovo del livello per le cave esistenti o attivabili era previsto entro un termine di trenta giorni dalla decadenza e con preferenza per i primi concessionari decaduti; le possibilità di ricerca di nuove cave negli agri comunali era assai ampia, a patto di seguire la regola di non creare danno a terzi.

L’art. 2 individuava alcuni particolari poteri della pubblica amministrazione e condizioni vincolanti riguardo alla concessione dei livelli, con l’introduzione del termine di decadenza per l’inattività della cava, per il mancato versamento del canone per due anni o in caso di debito coincidente con l’ammontare del canone di un biennio.

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Venne ribadito il principio per cui il livello era trasmissibile a chiunque per successione o per alienazione, ma in caso di cessione a forestieri è necessaria l’adesione governativa, mentre è necessario il consenso del comune per l’alienazione e la cessione.

Con la notificazione del 3 dicembre 1846 viene riconosciuta la facoltà di aprire cave ovunque ad ogni suddito domiciliato nello stato e, quindi, in Massa e in Carrara, ed inoltre, secondo la legge del 1 febbraio 1751, oltre alla “marca” è necessaria l’effettiva apertura, con la particolare condizione per gli stranieri che intendevano acquistare cave di ottenere prima il permesso del sovrano.

L’editto del 4 aprile 1851 di Francesco V, riconosceva il carattere di pubblica utilità e l’applicazione dell’espropriazione forzata per la costruzione di strade di collegamento tra cave di marmi o miniere, attività che potevano essere finanziate dallo stato o da privati; la disciplina sull’espropriazione veniva applicata quando i proprietari dei terreni da occupare si rifiutavano di cederli o richiedevano somme non adeguate a titolo di indennizzo; l’istituto era previsto anche per la lavorazione del marmo.

Con l’entrata in vigore del codice civile estense del 1852 veniva abrogato il diritto statutario e la disciplina sui livelli, tranne che per le cave di Massa, normativa contenuta nel Rescritto Sovrano del 25 giugno 1852, dove l’istituto veniva mantenuto in quanto si trattava di una fonte speciale che doveva rimanere in vigore come tale.

Infatti, il codice civile estense riportava una disciplina diversa relativa all’enfiteusi, ma non abrogava implicitamente la normativa sui livelli di cave, trattandosi di materiali di singolare natura e che non possono essere confusi con i fondi.

La legislazione, dopo l’intervento del 1852, aveva carattere di completezza, in quanto disciplinava non solo il diritto di estrazione, ma anche la viabilità, i pedaggi, le espropriazioni e gli edifici utilizzati nell’attività.

Alla luce di questi elementi il regime speciale era definito “Sistema Estense limitato”, poiché disciplinava solo le cave di marmi di proprietà dei comuni di Massa e Carrara, e resterà in vigore anche nel sistema giuridico moderno; la

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disciplina mineraria generale era contenuta nel “Sistema Estense illimitato”, che regolava il settore secondo il criterio della disponibilità del fondo per il

proprietario privato53.

In Toscana, e più precisamente: ad Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno (esclusa l’isola d’Elba), Lucca (solo Seravezza, Stazzema, Pietrasanta e Barga), Massa e Carrara (solo Fivizzano, Terrarossa, Albiano), Pisa (escluso Piombino), Siena; per l’Emilia nel circondario di Rocca S. Casciano e per la Liguria nel comune di Calce, vigeva il motu proprio granducale del 13 maggio del 1788, ad opera del Granduca Leopoldo.

La normativa leopoldina, riconosceva ad ogni cittadino la facoltà di scavare liberamente, cioè senza un preventivo permesso, nelle proprie terre e di appropriarsi di quanto vi fosse stato ritrovato.

Il motu proprio non conteneva disposizioni per le cave, per cui era consentito a chiunque, senza alcuna licenza governativa, di intraprendere scavi e ricerche minerarie nei propri terreni o, col consenso scritto del proprietario del suolo, in quello del confinante.

All’interno della disciplina non esiste alcuna distinzione tra miniere e cave; infatti, essa abolisce “ogni regalia o qualunque altro diritto privativo della […] Corona sopra ogni e qualunque specie di miniere e minerali, gemme e pietre preziose, nessuna eccettuata” e statuisce che “sia lecito e permesso in avvenire a chiunque senza alcuna preventiva […] licenza […] l’intraprendere scavi e ricerche per estrarre, ritrovare e ritrovati far propri, tutti i metalli, semimetalli, marmi e pietre di qualunque sorta non escluse neppure le gemme, pietre dure o preziose”.

La conferma che si è voluto assimilare il regime delle cave a quello delle miniere viene confermato dall’iter formativo del motu proprio; con il motu proprio si affermò il regime fondiario, realizzando un brusco taglio rispetto alla tradizionale toscana, nella quale il sottosuolo minerario era sempre stato una entità a se, distinta dalla superficie.

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Merusi Fabio e Giomi Valentina, “La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia”, Torino, G. Giapicchelli editore, 2007, pag. 98-116

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Nelle province di Parma e Piacenza e in gran parte del circondario di Pontremoli vigeva il decreto di Carlo III di Borbone, detto anche legge parmense, del 21 giugno 1852, in base al quale appartenevano allo Stato “tutti i minerali metallici, i fossili, i bitumi diversi, lo zolfo, i cristalli, i marmi, le pietre dette monumentali, tutte le rocce insomma che non sono di uso comune e costante, che si trovano nel seno della terra o alla superficie, qualunque sia la giacitura, o in ammassi, o in filoni, o in strati, o sparsi, od in mucchi, qualunque sia lo stato loro o solido o liquido o fluido, i quali formino ciò che comunemente dicesi cava, miniera o sorgente di acqua minerale”.

Nel Piemonte, in Liguria, in Lombardia, in Sardegna e dal 1861 anche nelle Marche vigeva la legge sardo - piemontese del 20 novembre 1859; la legge distingueva la coltivazione delle sostanze minerali in due classi: le miniere, cioè i giacimenti di minerali metalliferi, di zolfo, di fosfati, di carboni fossili e di bitumi, e le torbiere e cave di sabbia e terre metallifere e di materiali litoidi. Per le miniere molti autori sostengono che era previsto il sistema industriale anziché quello demaniale, tesi rafforzata dall’art. 15, per il quale “dalla data dell’atto di cessione la miniera diventa una proprietà nuova, perpetua, disponibile e trasmissibile, come tutte le altre proprietà”, quando di solito la concessione è un titolo traslativo di diritti temporanei.

Le cave e le torbiere non potevano che essere coltivate dal proprietario del terreno o da terzi col suo consenso; era tuttavia necessario fare una dichiarazione all’intendente del circondario (art. 131); però le cave sotterranee erano soggette alla vigilanza degli ingegneri del Regio Corpo delle miniere.

Per i lavori sotterranei, la dichiarazione dell’art 131 doveva essere accompagnata da un piano del terreno, che prevedeva la presentazione, nel mese di gennaio, di uno stato indicante i lavori sotterranei eseguiti nell’anno precedente da parte del coltivatore (art. 138).

Gli art. 139, 140, 141 prevedevano le distanze minime da osservarsi dalle abitazioni, dalle strade pubbliche, dai canali, dagli acquedotti, dalle sorgenti minerali e dettavano prescrizioni per la sicurezza dei lavoratori.

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L’art. 141 prevedeva che “nei casi di pericolo imminente il sindaco darà tutte le disposizioni che giudicherà atte a farlo cessare e ne renderà conto immediatamente al’intendente”.

Nel Veneto, nel Friuli Venezia Giulia, a Trento e a Mantova vigeva la legge montanistica austriaca del 23 maggio 1854; tale legge era in vigore anche in Lombardia fino alla pubblicazione della legge piemontese del 20 novembre 1859; successivamente, dopo la guerra del 1945-1918, venne applicata anche nelle province redente. La legge opera una distinzione tra sostanze minerali riservate e non riservate; sulla base di questa distinzione si può affermare che solo la coltivazione di quelli appartenenti alla prima categoria poteva essere definita miniera.

Sono minerali riservati quelli utilizzabili per il loro contenuto di metallo, zolfo, allume, vetriolo o sale comune, inoltre le acque cementifere, la grafite, il bitume ed ogni specie di carbone fossile e di lignite. Il requisito determinante per la classificazione di un minerale di tale categoria è la utilizzabilità del suo contenuto e non il contenuto stesso.

L’art. 5 affermava che “la ricerca e lo scavo di minerali riservati” non poteva “intraprendersi se non che previo ottenuto permesso”; viceversa, per i minerali non riservati, era lasciata libera disponibilità al proprietario del suolo.

Nelle province di Roma e Perugia la materia era regolata dal regio decreto del 17 giugno del 1872, il quale rappresenta le prime norme che offrivano un riferimento certo al cittadino, che per la prima volta era sottratto al completo arbitrio che caratterizzava il regime pontificio. Infatti durante il regime pontificio vigeva un assoluto sistema di regalia, nel quale i modi e le condizioni di ricerca erano lasciati interamente all’arbitrio della Pubblica Autorità, che li variava da caso a caso; le concessioni non di rado erano vincolate al soddisfacimento di determinate tasse o prestazioni, non c’era parità di trattamento tra gli assegnatari, e quasi sempre il procedimento non era pubblico.

Nel Regno delle due Sicilie vigeva la legge napoletana o borbonica del 17 ottobre del 1826, la quale prevedeva per le cave di pietra, marmi, graniti, arene, crete, argille, porzolane, lapilli e “di tutte le altre sostanze non espresse nell’art.1”

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ovvero il proprietario del suolo poteva, senza alcuna limitazione, coltivarle o non coltivarle.

Le miniere invece potevano essere coltivate dal proprietario del suolo, ma se questi non curava lo scavo, il governo poteva concederle a terzi, con preferenza per lo scopritore, il quale comunque aveva diritto ad un premio se la concessione veniva attribuita ad altri; il governo determinava durata e condizioni della concessione.

Dalla legge mineraria all’emanazione del regolamento comunale:

La legge 14 aprile 1927 n. 571 autorizzò ad emanare norme aventi carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere del Regno, integrando, modificando, e sopprimendo le disposizioni vigenti; la legge delega dava l’autorizzazione per disciplinare solo la ricerca e la coltivazione delle miniere e non anche delle cave. Viceversa il R.D.L. 29 luglio 1927 n. 1443, che fece seguito alla legge delega, disciplinava anche la materia delle cave, anche se nella relazione ministeriale alla legge non vi era alcun accenno alle cave.

Il fatto venne confermato dalla sentenza costituzionale n. 20 del 1967, per la quale “le cave formano, è vero, una categoria di beni distinta dalle miniere”. Ma l’art. 2 del predetto R.D. 29 luglio 1927 n. 1443 le riunisce alle miniere sotto la denominazione di lavorazioni minerarie, delle quali le cave costituiscono la seconda classe.

Tale unificazione trova riscontro nella legge di delegazione 14 aprile 1927 n. 571, la quale autorizzava il governo ad emanare norme aventi carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere, intendendo riferirsi anche all’assetto delle cave, e indusse a dare un comune fondo alla disciplina delle due categorie di beni”.

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Il decreto legislativo, prevedendo l’abrogazione delle legislazioni degli stati preunitari, realizzò l’unificazione legislativa nazionale, troppo a lungo ritardata,

in un settore strategico come quello delle miniere54.

Tutte le cave venivano assoggettate al sistema fondiario, che le lasciava nella disponibilità del proprietario del fondo, fosse un soggetto privato o un ente pubblico territoriale. L’art. 64 impose ai comuni di Carrara e di Massa di emanare appositi regolamenti per la concessione dei rispettivi agri marmiferi, regolamenti soggetti ad approvazione governativa. La norma lasciava spazio alle più diverse interpretazioni sulla sopravvenienza delle leggi Estensi. Veniva così mantenuto, nell’ambito del nuovo sistema minerario nazionale, un micro-sistema

per gli agri marmiferi di Carrara e di Massa55.

L’inapplicabilità delle norme contenute nella legge mineraria agli agri marmiferi massesi e carrarini, mette in luce il doppio profilo di anomalia del regime minerario di questi luoghi. Da un lato, il riconoscimento della validità, seppur limitata al periodo necessario ai due comuni per disciplinare la materia, del regime minerario precedente alla legge del ’27, evidenziava una prima particolarità: il sistema minerario estense rimane l’unico regime minerario locale preesistente alla legge di unificazione mineraria a restare in vigore, a fronte dell’abrogazione di tutti gli altri regimi presenti in Italia. Dall’altro lato, la previsione di un separato regime giuridico coesistente alla legge mineraria nazionale, rappresenta una anomalia rispetto alla logica stessa della legge, considerata l’unica fonte di riferimento per le differenti attività minerarie esercitate nelle varie zone dell’Italia.

Il Regio Decreto n. 1443 del 1927 nacque proprio col fine di assoggettare ad un’unica disciplina giuridica l’attività mineraria condotta nelle varie miniere, cave e torbiere esistenti sul territorio nazionale, regolata da differenti sistemi spesso poco omogenei tra di loro; proprio la varietà dei sistemi ha certamente

54 Marchetti Fausto, “Le cave- dal diritto romano alle leggi regionali”, Carrara, Casa di edizioni in Carrara, 1995, pag. 23-37 e pag. 71-77

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Piccioli Cesare, “Storia e dogmatica del sistema minerario estense- Carrara: 1751-1995, Pisa, Edizioni il Borghetto, 2004, pag. 19

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rappresentato una delle cause che resero laboriosa e complessa, ritardandola di oltre mezzo secolo, l’unificazione della legge mineraria.

La ragione dell’inapplicabilità della disciplina generale risiede nella particolarità del regime proprio delle cave; infatti, i giacimenti non appartengono ai proprietari dei suoli, ma ai comuni che per l’utilizzazione rilasciano la concessione ai privati e, pertanto, non possono essere oggetto di confisca da parte dello Stato, nel caso di inattività, secondo il sistema demaniale adottato dalla legislazione del 1927.

Le cave sono beni patrimoniali del comune inalienabili e, quindi, non possono ritenersi demaniali, dato che non sono inclusi nelle categorie di cui all’art. 822 cc., né sono soggette ad un regime demaniale che sarebbe del tutto incompatibile con il sistema della concessione, sulla base del livello perpetuo e trasmissibile, per lo sfruttamento da parte del privato; ne deriva la natura di beni pubblici del patrimonio indisponibile del comune come per le altre cave concesse a terzi. Tuttavia la disciplina estense si fondava su una distinzione che esiste ancora oggi: gli agri possono essere di proprietà privata oppure comunale. Sono agri di proprietà privata, quelli insistenti sui terreni di proprietà privata esclusiva oggetto della sanatoria del 1751 (beni estimati).

Il numero di questi agri è marginale, ma la loro importanza non può essere trascurata ai fini di un definitivo riassetto del sistema dato che, a volte, questi insistono al centro o in punti strategici delle aree di coltivazione o di quelle di accesso alle cave di proprietà comunale.

Per questi agri valgono le disposizioni codicistiche sulla proprietà. Gli altri agri sono attribuiti alla proprietà comunale.

In giurisprudenza prevalse un orientamento in base al quale la legge mineraria aveva mantenuto in vigore il sistema estense fino a che non si fosse provveduto, con apposito regolamento comunale, al coordinamento di esso con quello generale dettato dalla stessa legge; inoltre, la disciplina estense doveva essere interpretata sulla base dei principi generali di diritto minerario desumibili dalla stessa legge.

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Sempre sulla base delle leggi estensi, per le cave e le miniere passate alla proprietà dello Stato, gli agri marmiferi comunali dovevano essere considerati beni del patrimonio indisponibile del comune; tali beni erano oggetto di un atto pubblicistico di concessione amministrativa, secondo lo schema della concessione del contratto; da tale atto sorgeva in capo al privato un diritto reale di godimento di natura privata, affine all’enfiteusi, ma non affrancabile né soggetto all’obbligo del miglioramento; il diritto comunale sugli agri, in quanto concernente beni indisponibili, non era usucapibile; il comune era titolare di poteri di autotutela, compreso quello di caducare i concessionari inadempienti, revocando o disponendo la decadenza delle concessioni, e di imporre agli occupanti senza titolo la regolarizzazione delle loro posizioni; per l’aspetto riguardante la giurisdizione, tutte le controversie tra ente pubblico e privato, riguardanti le cave in concessione, erano devolute al giudice amministrativo. Tuttavia la giurisprudenza non aveva affrontato alcuni punti fondamentali; in primo luogo, l’ammissibilità o meno dell’affitto di cava; in secondo luogo, la disciplina specifica delle concessioni, riguardo alla durata e all’onerosità; inoltre, la questione dell’individuazione dei limiti che avrebbero incontrato i comuni in sede di approvazione dei regolamenti; infine il problema dei regolamenti comunali ad incidere sui diritti soggettivi dei concessionari di cava preesistenti alla data di approvazione.

Su questo argomento si è pronunciata la giurisprudenza amministrativa, stabilendo che gli agri marmiferi di Massa e di Carrara sono sottoposti ad una normativa speciale di antica formazione, le leggi estensi.

Del resto, data la diversità dei principi ispiratori delle due discipline minerarie, di ispirazione privatistica quella estense, di ispirazione pubblicistica quella della legge mineraria, non sarebbe stato agevole estendere in modo automatico la legge nazionale agli agri marmiferi Apuani, senza alterare la struttura dell’attività mineraria che da oltre due secoli regolava l’estrazione del marmo in quei luoghi. Una volta accertata la vigenza del diritto preunitario, restava da ricostruire in modo corretto la disciplina applicabile; infatti la disciplina estense, individuata con l’editto di Maria Teresa Cybo Malaspina d’Este emanato il 1 febbraio del

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1751, aveva subito diverse modifiche apportate dai successivi regnanti, dando luogo ad una pluralità di fonti in cui a volte la fonte successiva, di rango non sempre analogo a quella in vigore, modificava solo alcuni aspetti della previgente normativa, lasciando invariato il contenuto delle norme in vigore; detto ciò, si può affermare che il sistema minerario estense è regolato da un gruppo di norme di vario rango e di differente contenuto, che disciplinano ogni aspetto del diritto

minerario degli agri di Massa e Carrara, ma non in modo unitario56.

Il comune di Carrara, a cui la legge del 1927 imponeva di adottare entro un anno il regolamento per le concessioni dei suoi agri marmiferi, affidò la pratica del regolamento per le concessioni dei suoi agri marmiferi, affidò la pratica del regolamento al vice segretario comunale Dott. Giuseppe Santoni, il quale l’11 maggio 1928 presentò al Potestà una relazione, ove si evidenziava la necessità di uniformare il regolamento ai principi della legge mineraria, pur conservando quanto di buono esisteva nel sistema estense; il tutto doveva essere in funzione dell’incremento dell’industria marmifera, salvaguardando al tempo stesso gli interessi del comune.

Tuttavia il progetto di regolamento sottoscritto dal Podestà il 1 ottobre del 1932, ignorava i principi del nuovo diritto minerario e sopprimeva o vanificava molti dei poteri attribuiti al comune dal sistema estense: veniva abolita l’autorizzazione preventiva per le alienazioni delle concessioni; veniva mantenuta la figura del livello di cava, incompatibile con le concessioni amministrative di beni pubblici; veniva mantenuto il canone simbolico pari al reddito agrario; non veniva vietato l’affitto delle cave in concessione; era stata soppressa la caducazione nell’ipotesi di inattività biennale.

Con l’approvazione di questo regolamento, il comune si sarebbe ridotto a muto spettatore dell’attività estrattiva nei suoi agri marmiferi, perdendo i poteri incisivi che erano stati introdotti da Francesco V d’Este nel 1846, tutti finalizzati all’incremento della pubblica economia.

56

Merusi Fabio e Giomi Valentina, “La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia”, Torino, G. Giappichelli editore, 2007, pag. 152-154, pag.144-147, pag. 158-159, pag. 161-162

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Il Ministero dell’Economia Nazionale, cui era devoluta l’approvazione del regolamento, chiese il parere del Consiglio Provinciale dell’Economia, il quale istituì un’apposita commissione presieduta e composta dai più importanti concessionari o detentori di agri comunali; la loro relazione, assai discutibile, fu trasmessa al Ministero dove la pratica si arenò e cadde nell’oblio.

Nel dopoguerra, superate le difficoltà della ricostruzione, le amministrazioni comunali, si resero conto di dover affrontare i vecchi problemi (legittimità degli affitti delle cave comunali da parte dei concessionari; clausole vessatorie imposte ai conduttori) a cui se ne aggiungevano di nuovi; a questo punto il comune decise di avvalersi di un’apposita commissione consultiva.

Il Consiglio comunale, con la deliberazione n. 17 del 3 ottobre 1952, nominò una commissione avente l’incarico di studiare la legislazione degli agri marmiferi e di compilare il regolamento previsto dalla legge mineraria.

Furono nominati componenti, S.E. Emanuele Piga, Primo Presidente della Corte di Cassazione, il Prof. Filippo Vassali, preside della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, ed il Prof. Severo Giannini, docente di Diritto Amministrativo all’Università di Pisa.

La commissione tenne numerose riunioni a Roma, al termine delle quali, il 10 dicembre 1954, elaborò una relazione, che, assieme al testo del progetto di regolamento, furono pubblicati a cura del comune di Carrara il 16 agosto del 1955.

La relazione puntualizza che la particolare condizione riservata agli agri marmiferi del comune di Carrara e di Massa da parte dell’art. 64 della legge mineraria, è legata alla presenza del sistema estense, poiché l’art. 64 non avrebbe senso senza l’esistenza di detto sistema, in mancanza del quale le cave di Carrara e di Massa avrebbero seguito il destino degli altri bacini marmiferi comunali. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1679 del 24 maggio 1954, aveva fissato importanti ed innovatori principi sul regime; per prima cosa gli agri marmiferi comunali venivano considerati come beni del patrimonio indisponibile, al pari delle miniere dello Stato e come le cave passate allo Stato sulla base dell’art. 45 legge mineraria; di conseguenza il livello di cava estense

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veniva definito come un diritto reale di godimento di natura privata, ancorchè creato da un atto pubblicistico di concessione amministrativa, affine all’enfiteusi ma non affrancabile e senza obbligo di miglioramento; inoltre veniva affermato che il diritto di proprietà sugli agri non è usucapibile.

La commissione accolse la definizione degli agri marmiferi come beni del patrimonio indisponibile e quella sulla natura giuridica del livello di cava estense come concessione amministrativa, definendola una concessione-contratto; non ravvisò nel diritto del livellario una enfiteusi atipica, ma le attribuì dei caratteri affini all’enfiteusi.

La relazione della commissione si concluse dicendo che il regolamento doveva rispettare le linee essenziali del sistema estense, modificandole dove si rivelassero insufficienti allo scopo o fossero incompatibili con i principi fondamentali del nostro diritto; a tal fine si potevano applicare per analogia norme relative all’esercizio delle concessioni minerarie.

Il comune insoddisfatto delle proposte della commissione, chiese chiarimenti al Prof. Massimo Severo Giannini, il quale rispose in data 16 aprile 1957, enunciando i seguenti principi: il termine annuale fissato dall’art 64 della legge mineraria per l’emanazione del regolamento non è perentorio ma acceleratorio; il regolamento è autonomo in senso proprio, non è un regolamento di esecuzione della legge estense, ha un grado pari ad essa e trova i propri limiti nella legge mineraria.

La sua funzione è quella di coordinare in un unico testo le norme estense uniformandole ai principi della legge mineraria, le cui norme possono essere applicate perché anche le cave sono beni indisponibili; la nuova normativa sarà applicata purché anche alle concessioni in vigore, adottino norme transitorie che prevedano una sanatoria per le occupazioni abusive.

Il comune approvò, con deliberazione del 30 aprile 1959, un testo di regolamento che fu trasmesso al Ministero per l’approvazione.

Il Ministero, pur ammettendo che il testo era accettabile nelle sue linee guida, rinviò il regolamento perché venisse adeguato alle sue osservazioni sulla

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violazione di alcuni principi di diritto estense, il più importante dei quali era quello sull’applicazione della nuova normativa alle vecchie concessioni.

Sulla base di alcune proposte elaborate nel 1979 da un’apposita commissione consiliare, la giunta comunale, con deliberazione n. 198 del 22 gennaio 1986, affidò all’Avv. Cesare Piccioli l’incarico di redigere il testo definitivo del regolamento; passati due anni, il consiglio comunale approvò il regolamento con la deliberazione consiliare n. 122 del 30 settembre 1988, che fu inviato alla regione, titolare del potere di approvazione ai sensi dell’art. 62 del D.P.R 616/1977.

Il consiglio regionale trattenne la pratica per sei anni, rinviando, con deliberazione n. 456 dell’11 ottobre 1994, il testo al comune affinchè fosse aggiornato con le disposizioni legislative intervenute dopo la sua presentazione. Il comune provvide all’aggiornamento con la delibera consiliare n. 88 del 29 dicembre 1994. Nel frattempo la regione aveva approvato una legge che innova in senso pubblicistico il regime delle concessioni, riconoscendo agli agri marmiferi comunali la condizione di beni del patrimonio indisponibile, oggetto di concessioni amministrative onerose e temporanee; veniva demandato ai comuni di Massa e Carrara di emanare appositi regolamenti per la disciplina delle concessioni, con la precisazione che fossero redatti in conformità alle disposizioni della legge stessa.

La regione riapprovò la legge, mantenendo lo stesso testo, con delibera consiliare del 28 febbraio 1995; nella stessa seduta approvò il regolamento del comune di Carrara del 29 dicembre 1994, che era conforme ai principi della legge regionale anzidetta e a quelli della legge mineraria.

Da quel momento il regolamento del comune di Carrara era operante, e la sua adozione rese definitiva l’abrogazione del sistema estense.

Il governo impugnò il regolamento davanti alla Corte Costituzionale, la quale lo rigettò con la sentenza n. 488 del 20 novembre 1995; successivamente, il 5 dicembre 1995, la regione promulgò la legge n. 104; a seguito della Corte

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Costituzionale e dell’emanazione della legge regionale, l’art. 64 della legge

mineraria esaurì la sua funzione57.

La Corte, nella sentenza di rigetto del ricorso, spiegò alcuni punti controversi relativi all’assetto delle competenze e al regime giuridico degli agri marmiferi e dei rapporti che sorgono dal loro sfruttamento.

Relativamente allo sconfinamento della regione dalle sue funzioni di controllo all’amministrazione attiva, poiché aveva fissato apposite regole per l’approvazione dei regolamenti degli agri marmiferi, la Corte stabilì che “niente vieta e anzi risponde a criteri di certezza del diritto e di economia dell’attività giuridica che l’autorità investita della funzione di approvazione di determinati atti prestabilisca alcuni criteri di valutazione ai quali si atterrà nell’esercizio della funzione”.

Il ricorso avanzato dal governo si basava su di una interpretazione secondo cui l’art. 64 della legge mineraria avrebbe conservato in vigore la legislazione speciale estense con il limite del coordinamento affidato al potere regolamentare dei comuni interessati.

Tale ragionamento non è sostenibile, in quanto parte della legislazione estense è incompatibile con i principi fissati dalla legge dello Stato, e perciò non coordinabile con quest’ultima; per esempio la regola estense della perpetuità della concessione, si oppone al principio della temporaneità stabilito dall’art. 21 della legge mineraria, applicabile anche alle cave in concessione o di cessione del suo esercizio senza l’autorizzazione dell’amministrazione concedente, nella legge estense è sanzionato col potere del comune di risolvere il contratto col concessionario per inadempimento, mentre nella legge mineraria (art. 27) è sanzionato con la nullità dell’atto di alienazione o di cessione.

I due sistemi si differenziano in miniera profonda riguardo al perseguimento delle finalità di interesse pubblico; il sistema estense, improntato su schemi privatistici, lascia all’arbitrio del concessionario le modalità tecniche e la misura dello sfruttamento della cava, mentre la legge mineraria, improntata su schemi

57

Piccioli Cesare, “Storia e dogmatica del sistema minerario estense- Carrara: 1751-1995, Pisa, Edizioni il Borghetto, 2004 pag. 31-32, pag. 20-25, pag. 32-35

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pubblicistici, finalizzata a massimizzare l’utilità generale, che comporta l’assoggettamento della coltivazione della cava alla vigilanza della pubblica amministrazione, che prevede lo svolgimento dell’attività con modalità tecniche e con mezzi economici adeguati, con l’obbligo per l’imprenditore, sia esso proprietario del suolo o il terzo concessionario, di mettere a disposizione dei funzionari delegati tutti i mezzi necessari per ispezionare i lavori.

Per quanto riguarda il carattere oneroso e temporaneo delle concessioni stabilito dalla legge regionale, la sentenza n. 488 del 1995 ha precisato che, il primo requisito è una regola comune sia alla legge estense che alla legge mineraria, anche se il criterio per determinarne il canone, la rendita agraria del terreno, porta a cifre non proporzionate al valore venale dei marmi scavati.

La legge n. 724 del 23 dicembre 1994 ha stabilito che, a partire dal 1 gennaio 1995, i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in rapporto alle caratteristiche di beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato; i comuni di Massa e Carrara sono tenuti ad uniformarsi a questi criteri.

Relativamente al requisito della temporaneità, la sentenza ritiene legittima la sua previsione nella legge regionale, lasciando però ai comuni il potere di verificare caso per caso la sua applicazione immediata, che deve essere giustificata da esigenze di pubblico interesse o di ordine pubblico.

Regolamento del comune di Carrara:

Il regolamento per la concessione degli agri marmiferi del comune di Carrara, dopo la prima approvazione del 29 dicembre 1994, è stato successivamente modificato più volte: la prima modifica risale alla deliberazione n. 59 del 4 maggio 1999, la seconda alla deliberazione n. 123 del 19 dicembre 2003, la terza ed ultima modifica alla delibera comunale n. 61 del 21 luglio 2005, che contiene rinvii alle leggi regionali n. 104 del 1995 e n. 78 del 1998.

Il comune di Massa non ha ancora adottato un proprio regolamento, ed applica ancora la disciplina estense del 1846 e del 1751 per il rilascio delle concessioni,

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la legge regionale n. 78 del 1998 per l’autorizzazione alla coltivazione di cava, e le indicazioni della legge regionale n. 104 del 1995 per la stesura del regolamento.

La prima cosa che viene chiarita dal regolamento è l’appartenenza degli agri marmiferi (definiti dal comma 1 dell’art. 1 del regolamento, come “tutte le zone montane del comune di Carrara intestate a quest’ultimo come piena proprietà, o come dominio diretto, nel catasto estense approvato con editto sovrano del 27 novembre 1824”) al patrimonio indisponibile del comune.

I commi successivi dell’art. 1 specificano che l’esercizio delle cave di marmo avviene attraverso concessioni amministrative regolate dalle seguenti disposizioni e, che “oggetto della concessione è l’area appartenente al patrimonio indisponibile del comune data in uso al concessionario, dietro corresponsione di apposito canone, da destinarsi all’attività estrattiva e all’attività di supporto alla medesima”.

La ricerca di cava è disciplinata da un complesso sistema di permessi e concessioni pubbliche che rappresentano la condizione necessaria per poter iniziare i lavori, a differenza del regime estense che permetteva la ricerca di cave senza la necessità di alcun provvedimento amministrativo; per iniziare l’attività di escavazione è necessario munirsi di un permesso di ricerca, temporaneo e rinnovabile per una sola volta, rilasciato dalla giunta comunale a seguito di domanda di parte e redatto sulla base delle procedure previste dalla legislazione regionale toscana in materia di autorizzazione ad effettuare lavori di ricerca ai fini delle attività estrattive; se la ricerca ha avuto esito positivo e sono presenti tutti gli elementi stabiliti dalla legge, a questo punto il comune, sempre su domanda del privato, rilascia la concessione per la coltivazione delle cave. Il diritto del concessionario, che ha durata di ventinove anni ed è rinnovabile alla scadenza, sebbene creato da un atto pubblicistico di concessione amministrativa, è un diritto reale di natura privata che può essere oggetto di pignoramento immobiliare e di esecuzione forzata in caso di fallimento.

Il concessionario è tenuto al pagamento al comune di un canone, determinato sulla base del valore di mercato della produzione della superficie in concessione.

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Il contributo regionale si applica alle cave attive in Toscana, ed è destinato principalmente ad interventi infrastrutturali e ad opere di tutela ambientale correlati alle attività estrattive.

Il contributo è rapportato alla quantità e qualità del materiale estratto, con un limite massimo del 5% del prezzo di vendita per i materiali ornamentali, ed un limite del 10% per i materiali estratti per uso industriale, per costruzioni e per opere civili.

Il tributo è a favore dei comuni, ai quali spetta il compito di stabilire gli importi, facendo riferimento all’ammontare medio annuale delle spese che deve sostenere per gli interventi e gli adempimenti cui è destinato il contributo.

Il comune e le associazioni di categoria hanno raggiunto un accordo il 30 dicembre del 2003, nel quale le parti concordano che il sistema degli oneri che gravano sul settore marmo, a partire dall’1 gennaio 2004, sia fondato sul canone di concessione e sul contributo regionale, con conseguente rinuncia all’applicazione della tassa marmi.

Nell’accordo viene stabilito che il canone di concessione e il contributo regionale debbano essere applicati con modalità differenti per tipologia di prodotto, basandosi sul valore dei materiali estratti; al termine di un lavoro di analisi svolto sui valori medi dei materiali estratti, sono state individuate tre fasce di valori medi con conseguente classificazione di tutte le cave all’interno di una delle tre fasce.

La tariffa di ciascuna è pari alla somma delle percentuali concordate rispettivamente per il canone di concessione e per il contributo regionale.

Le tariffe, previste nella tabella A allegata all’accordo, sono le seguenti:

Fascia Valore unitario

medio Concordato (£/tonn.) Canone concessione Contributo L/R 78/98 Tariffa (£/tonn.) 1 80.000 5% 5% 8.000 2 133.500 5% 5% 13.350 3 156.000 5% 5% 15.600

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Sono state previste delle riduzioni per quelle cave che comprendono beni estimati, in funzione della loro incidenza rispetto alla superficie complessiva della cava.

Viene anche stabilito come definire le pendenze, all’epoca ancora aperte davanti agli organi della giustizia tributaria ed amministrativa, riguardanti debiti non adempiuti o pretese di rimborso, in prevalenza riguardanti debiti non adempiuti o pretese di rimborso, in prevalenza riguardanti l’applicazione della tassa marmi per gli anni 2001, 2002, 2003, per le quali viene previsto il seguente procedimento:

 Per l’anno 2001 sulla base delle fatture già emesse dal comune di Carrara;  Per l’anno 2002 sulla base della tariffa unica (comprensiva della tassa marmi

del 2002, contributo regionale 2002 e canone concessorio 2001) di 11.500 £ a tonn. per i blocchi;

 Per l’anno 2003 sulla base della tariffa unica comprensiva di tassa marmi 2003, contributo regionale 2003, canone concessorio 2003, di £ 10.400 a tonn. per i blocchi;

Successivamente alla sentenza 9 settembre 2004, con cui la Corte di Giustizia CE aveva dichiarato incompatibile con il diritto comunitario la tassa marmi, il 25 novembre 2004 sono state apportate delle integrazioni all’accordo precedente, con cui il comune si impegna a rilasciare le autorizzazioni all’escavazione per una durata assimilabile al massimo stabilito dalla legge regionale 78/98, in modo da consentire alle aziende una adeguata programmazione economico-finanziaria, a destinare le entrate derivanti dagli oneri gravanti sul settore a spese direttamente connesse all’attività estrattiva, a non utilizzare la riduzione prevista per i beni estimati per contestare l’esistenza di tale regime fin qui conosciuto. Un nuovo accordo integrativo è stato sottoscritto il 28 febbraio 2008, in cui sono state rideterminate le tariffe per tipologie di materiali prodotti nel seguente modo:

 Blocchi 1 fascia € 4,60 a tonn.

 Blocchi 2 fascia € 7,80 a tonn.

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A cui vanno aggiunti i seguenti nuovi importi:

 Scaglie bianche € 3,60 a tonn.

 Scogliere € 3,60 a tonn.

 Scaglie scure e colorate € 1,20 a tonn.

 Terre e tout venant € 1,20 a tonn.

Sempre nell’accordo il comune rinnova l’impegno al rilascio del titolo di concessionario.

In questo periodo, inizio 2011, il comune e le associazioni di categoria stanno portando avanti una nuova trattativa per la rivisitazione delle tariffe; le parti sono alla ricerca di un accordo che porti da un lato all’aumento delle tariffe, non più basate su di un valore convenzionale, ma sulla base di un valore di mercato, da attuarsi anche tramite l’ampliamento delle fasce dalle attuali tre e quattro, suddividendo la fascia mediana in due, per un prelievo più equo, in cambio del quale il comune si impegnerebbe a rilasciare il titolo di concessione ai concessionari.

Il comune ha inviato alle categorie la seguente bozza di accordo, che prevede le seguenti tariffe a decorrere dal 1 gennaio 2011:

o Prima fascia (marmi scuri a cui attribuire un valore medio fra 50€ e 70 a

tonn.) € 5-7 a tonn.;

o Seconda fascia (marmi bianchi e venati ordinari con valore medio di produzione oscillante fra €80 e 100 a tonn.) €8-10 a tonn.;

o Terza fascia (marmi bianchi e venati superiori con valore medio di produzione oscillante fra €120 e 150 a tonn.) € 12-15;

o Quarta fascia (marmi di particolare pregio come statuario e calacatta, con valore medio di produzione fra € 300 e 450 a tonn.) € 30-45.

Vengono confermate le riduzioni del canone per le cave che hanno al loro interno dei beni estimati, per i quali il comune non intende contestare il regime che deriva da atti storici. La bozza prevede anche la rivisitazione delle tariffe per i detriti e le scaglie:

 Scaglie bianche, anche miste a terre, per produzione di carbonato di calcio

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 Massi informi per scogliere a 3,36 € a tonn.;

 Scaglie scure per riempimenti e opere civili a 1,20 € a tonn.;

 Terre e tout-venant a 1,20 € a tonn.;

Le associazioni hanno respinto la prima proposta del comune, dando come motivazione “l’eccessiva discrezionalità dell’amministrazione nell’applicare le tariffe alle divisioni”, ribadendo la disponibilità al confronto e alla discussione di tutti i punti della bozza di accordo.

La disciplina della decadenza della concessione è regolata dall’art. 11, che la prevede nei casi: mancato pagamento del canone riferito ad una annualità; cessione, non autorizzata, dalla concessione; inattività della cava, del regolamento (cava non lavorata con più operai per almeno otto mesi continui nel biennio); affitto della cava o di parte di essa; gravi inadempienze previste dalle leggi in materia della regione Toscana.

Le cave oggetto di rinuncia, di decadenza o di abbandono per scadenza della concessione, vengono nuovamente date in concessione, mediante pubblica gara, le cui modalità sono fissate in un apposito regolamento del consiglio comunale (approvato con delibera n. 126 del 25 settembre 2000).

L’art. 13 prevede che le concessioni livellarie stipulate dal comune di Carrara e dalle soppresse vicinanze sono soggette alle disposizioni del regolamento comunale, come previsto dalle leggi della regione Toscana.

Il regolamento del 1995 aveva lasciato senza soluzione la problematica relativa alla con- titolarità della concessione, in particolare quale fosse la disciplina giuridica da applicare nel caso in cui il medesimo agro fosse intestato a più contitolari e quella in cui un agro fosse oggetto di più concessioni.

Sulla base del regolamento antecedente il 2005, siccome il concessionario è titolare di un diritto reale parziario, nel caso in cui il diritto reale sull’agro fosse spettato a più soggetti co-concessionari, si sarebbe dovuta applicare la disciplina generale sulla comunione di diritti.

Con il regolamento del 2005, il nuovo art. 15 ha dettato disposizioni specifiche sul punto, prevedendo che nel caso in cui sia titolare di concessione una società prevista dal Libro V, titoli V e VI del c.c. (società di persone, società di capitali,

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società cooperative), ovvero se più soggetti sono contitolari di una concessione, anche con quote diverse, la coltivazione può essere attuata da un socio o da un contitolare della concessione o da un co-concessionario esperto del settore.

L’articolo prevede anche la possibilità che la coltivazione sia delegata ad un socio esperto titolare di quote o azioni della società concessionaria pari almeno al venticinque per cento, o che sia attuata da una società di capitali il cui capitale sia per intero proprietà dei concessionari; la produzione è acquisita dalla società o comunione concessionaria ad un prezzo pari almeno al suo costo di produzione e che non ecceda il costo medesimo per oltre il venticinque per cento.

Questa normativa, da un lato ricompone i bacini di cava frammentati da una pluralità di piccoli concessionari, dall’altro riammette la disciplina degli affitti di cava, vietati dall’art. 7 dello stesso regolamento, che prevede l’esercizio diretto da parte del concessionario dell’agro della coltivazione, vietando l’affitto, la sub concessione in qualsiasi forma e l’appalto della coltivazione (l’art. 15 del regolamento del 1995 disponeva la continuazione dei contratti di affitto in essere fino ad un massimo di nove anni; qualora la scadenza fosse stata più breve potevano essere rinnovati fino a compiere un novennio.

La norma era stata prevista per tutelare gli affittuari, dando loro il tempo per

rientrare delle spese investite in lavori preparatori58)59.

Nel novembre del 2010, una sentenza del commissario degli usi civici di Roma, ha respinto il ricorso, presentato nel 2003, di un gruppo di cinque cittadini, a cui si erano unite varie associazioni ambientaliste, contro il comune, che aveva l’obiettivo di far riconoscere quale demanio civico gli agri marmiferi.

Il ricorso invocava il rispetto delle ancora vigenti ma inapplicate norme di uso civico vicinale previste dal sistema estense, che permetterebbero ai cittadini carraresi di avere diritti a pieno titolo sulle cave, che significherebbe la possibilità per il comune, che sarebbe comunque rimasto titolare degli agri marmiferi, di imporre la trasformazione in loco di parte della produzione, oppure

58 Piccioli Cesare, “Storia e dogmatica del sistema minerario estense- Carrara: 1751-1995, Pisa, Edizioni il Borghetto, 2004, pag. 42

59

Merusi Fabio e Giomi Valentina, “La disciplina degli agri marmiferi fra diritto e storia”, Torino, G. Giappichelli editore, 2007, pag. 136-139, pag. 121-122, pag.148-150, pag. 202, pag. 214-215

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di prevedere un contingentamento della produzione, o ancora di rivedere la normativa sui beni estimati.

3.2 Tassa Marmi

Il diritto delle autorità a percepire denaro o quote di prodotto a seguito dello sfruttamento del suolo e del sottosuolo risale ad epoche lontane.

Fin dall’epoca imperiale romana era presente a Carrara, nella località di Vezzala, una dogana dei marmi; da qui comincia la storia della tassa marmi carrarese, che nel corso dei secoli si configurerà con termini e modalità diverse.

Già dal XII secolo, il vescovo di Luni poteva riscuotere un assegno o diritto di uscita sui marmi che venivano esportati.

Nel XIII secolo, il vescovo Enrico, in seguito alle regalie concesse dal Barbarossa, istituì una dogana dei marmi, grazie alla quale ebbe un utile di 50 lire l’anno.

Il 7 giugno del 1385 i carraresi, chiedendo di far parte della Signoria Viscontea, sottoposero al Conte Gian Galeazzo Visconti alcuni “capitoli e convenzioni”, di cui uno dei capitoli riguardava l’istituzione di un “pedaggio su tutte le merci che attraversano il comune di Carrara e un dazio sui marmi scavati, pedaggio che dovranno servire alla manutenzione delle vie e dei ponti”; da quell’anno si hanno numerose conferme della riscossione della tassa. Anche durante la dominazione fiorentina venne riconosciuta, nel 1430, al comune di Carrara “una dogana sui blocchi di marmo estratti sulle alpi del territorio comunale”, con l’esclusione dei marmi destinati a Firenze, che non pagano “pedaggio o gabella”.

Il comune continuò a riscuotere la gabella anche sotto la dominazione lucchese, la quale, di fronte alle lamentele di alcuni artisti genovesi, rispose di non poter fare diversamente, perché queste tasse spettano al comune di Carrara per una consuetudine datata, già riconosciuta dal Duca di Milano e confermata in seguito dalla repubblica di Firenze.

Durante la dominazione Cybo Malaspina, il Marchese Alberico concordò con quattro rappresentanti dei marmisti un aumento della gabella, che passò dal 10%

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al 21% del prezzo di costo, forse per ristabilire il doppio canone di epoca romana di un decimo della produzione al fisco e altrettanto al proprietario.

Sembra che non venisse pagato alcun canone sull’autorizzazione all’estrazione del marmo, come recita una espressione del 1270, secondo la quale chi aveva ottenuto il permesso di estrarre marmo era “recuperato” all’uscita e pagava in un’unica soluzione, attraverso la gabella, tutti i diritti feudali connessi alle regalie.

Anche sotto la dominazione estense, nonostante il comune fosse stato sollevato dalle spese per il mantenimento delle strade, il commercio continuò ad essere gravato dalla tassa marmi, che i duchi esigevano come tassa governativa.

L’art. V n. 24 della Notificazione Governatoriale del 14 luglio 1846, relativa alle cave di Massa, ma estesa anche a Carrara con Notificazione Governatoriale del 3 dicembre 1846, conferma l’esistenza della tassa, ma dispone anche che la costruzione ed il mantenimento delle “strade principali o comuni a tutte le cave o alle cave di una intera vallata” competono all’Amministrazione dello Stato, la quale “se ne indennizza con una tassa che si impone proporzionata al trasporto dei marmi”.

Con il rescritto sovrano del 23 agosto 1853 le strade destinate solo al trasporto dei marmi vennero cedute dallo Stato al comune, il quale, per il mantenimento di dette strade, percepiva la tassa dei carratori o del bestiame, mentre con il rescritto sovrano del 1857 viene respinta la richiesta del comune di Massa che chiedeva di essere esonerato dall’obbligo di mantenere le strade dei marmi, ed anzi veniva autorizzato ad alzare la tassa che doveva essere un equivalente della spesa che il comune stesso sosteneva per le strade dei marmi.

Dopo l’unità d’Italia i comuni di Massa e Carrara decisero di sostituire la tassa estense con un dazio sui marmi in esportazione; solo il comune di Carrara raggiunse l’obiettivo a seguito dell’emanazione del regio decreto n. 4428 del 19 settembre 1860, il quale approvava “la provvisoria istituzione a favore del comune di Carrara di un diritto di pedaggio sulla strada della Carriona dei marmi che escono dal comune”. Il decreto prevedeva le seguenti tariffe:

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 £ 5 la tonnellata di 25 palmi cubi o kg. 1125 per i marmi statuari di prima qualità, tanto in blocchi riquadrati quanto informi, ed anche per gli informi di mediocre qualità;

 £ 2 la tonnellata di chilogrammi 1125 per marmo ordinario, venato, bardiglio e statutario macchiato riquadrato;

 £ 1 per ogni paia di buoi o £ 0,50 per ogni cavallo, per marmi lavorati o segati in tavole, lastre, quadrette, mortai.

Nel 1911 il comune aumentò le tariffe della tassa, diversificando le aliquote per i marmi grezzi, per quelli segati e per quelli lavorati, suscitando l’opposizione di alcuni industriali, i quali sostenevano che il comune riscuoteva una tassa non dovuta, soprattutto per quanto riguarda i lavorati, e che non poteva essere presa alcuna decisione senza aver prima consultato gli interessati.

Il 21 giugno del 1911 veniva discussa alla Camera dei Deputati la proposta di legge del deputato Eugenio Chiesa per consolidare con legge la vecchia tassa locale, che avrebbe consentito al comune, secondo la proposta, “di tener fronte ai maggiori impegni che il continuo aumento della sua popolazione ed in specie dalla massa operaia adibita alla lavorazione del marmo, il moltiplicarsi delle spese di manutenzione stradale, di spedalità e di medicinali ai poveri hanno imposto e vanno imponendo ogni anno alle finanze del comune”, aggiungendo che avrebbe permesso “alla locale classe industriale e commerciale del marmo di mantenere l’impegno già da molti anni assunto in confronto della classe operaia, che ne reclama l’adempimento, di provvedere alla pensione per la vecchiaia dei lavoratori da quella dipendenti”.

Il consiglio comunale aggiungeva che le maggiori entrate avrebbero consentito di “provvedere alla costruzione e all’esercizio del porto a Marina di Carrara”.

In sostanza si trattava di assicurare al comune le entrate necessarie per la realizzazione dell’infrastruttura portuale, ormai indispensabile di fronte allo sviluppo dell’industria marmifera, e di adempiere agli impegni minimi assunti nei confronti dei lavoratori in seguito alle lotte sindacali del primo decennio del secolo.

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L’iter parlamentare della legge terminò l’11 luglio 1911 con l’approvazione da parte del Senato.

La legge n. 749 fu emanata il 15 luglio; con tale legge il diritto di pedaggio venne trasformato in una tassa di esportazione, che veniva riscossa all’uscita del marmo dal territorio comunale.

La misura della tassa veniva fissata dal consiglio comunale, tenendo conto di un tetto massimo fissato dalla legge in:

 £ 8 a tonnellata per i marmi statuari e paonazzi tanto in blocchi riquadrati quanto informi;

 £ 5 a tonnellata per i marmi greggi ordinari, venati, bardigli;  £ 2 a tonnellata per i marmi segati in tavole e lastre;

 £ 1 a tonnellata per i marmi lavorati, quadrette, mortai e granulati.

Una parte del provento era destinata alle spese per la costruzione del porto di Marina di Carrara, l’altra per l’iscrizione degli operai dell’industria marmifera alla Cassa nazionale di previdenza per gli operai.

Con l’entrata in vigore della legge era abrogato il Regio decreto del 19 settembre 1860.

In breve tempo le tariffe fissate si rivelarono inadeguate, e , soprattutto a causa della guerra, nel 1917 fu necessario procedere ad un aumento del 30%.

Tuttavia anche questo aumento si rivelò insufficiente, così dal 1920 il comune e gli industriali concordarono una serie di aumenti convenzionali delle tariffe, anche se nel periodo tra la fine del 1921 e il giugno del 1923 fu necessario applicarvi una riduzione a causa della diminuzione dei prezzi di vendita del marmo.

Tutti questi aumenti furono convalidati con il decreto legge n. 1045 del 3 luglio 1930, convertito nella legge n. 85 del 6 gennaio 1931; le tariffe della tassa marmi in vigore sui marmi scavati nel comune di Carrara erano le seguenti:

 Marmi paonazzi, tanto in blocchi riquadrati quanto informi; limite massimo per tonnellata £ 63

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