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COME GLI STUDENTI IMPARANO E COME POSSIAMO AIUTARLI

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COME GLI STUDENTI IMPARANO – E COME POSSIAMO AIUTARLI

di John F. Kihlstrom,1 Department of Psychology University of California, Berkeley 2

Se vogliamo sapere “Come imparano gli studenti, è forse bene cominciare dal principio, con una definizione di apprendimento – qualcosa che gli psicologi hanno studiato fin dalla fine del XIX secolo, quando Pavlov suonò il suo primo campanello e Thorndike mise il suo primo gatto in una “gabbia problema”. Se sotto l’influenza del comportamentismo di Watson e di Skinner, gli psicologi definiscono l’apprendi- mento come “un cambiamento relativamente permanente nel comportamento che si verifica come conseguenza dell’esperienza”, dopo la rivoluzione cognitivista, la de- finizione ha avuto una revisione molto importante: ora pensiamo all’apprendimento come un cambiamento relativamente permanente nella conoscenza che si verifica a seguito di una esperienza. Questa conoscenza si riflette nel comportamento della persona, ma la cosa importante è che l’apprendimento cambia le fondamenta delle conoscenze dell’individuo.

1. APPRENDIMENTO E MEMORIA

Questa conoscenza può o no tradursi in un comportamento, ma in virtù dell’ap- prendimento diventa disponibile per l’uso, nell’archivio della memoria. Ora, gli psi-

1 J.F. Kihlstrom (2015). How students learn - and how we can help them. Scaricato il 1 ottobre 2015 dal sito web: http://socrates.berkeley.edu/~kihlstrm/GSI_2011.htm.

2 Questo contributo è fondato su una presentazione al Working Group on How Students Learn so- stenuto dal GSI Teaching and Resource Center, University of California, Berkeley, March 8, 2011.

Incorpora anche contenuti nuovi presentati al Teaching Conference per il GSI il 18 Gennaio 2013, e al seminario successivo su How Students Learn (03/06/13 and 03/19/14) – tutti sponsorizzati dal GSI Teaching and Resource Center. Ringrazio Linda von Hoene per l’invito a sviluppare questa presenta- zione e Judith M. Harackiewicz per i commenti alla sezione riguardante la motivazione intrinseca e l’interesse.

Si veda anche Teaching and Technology, una presentazione fatta al Academic Senate, University of California, Berkeley, April 23, 2013. Link per una versione scritta.

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cologi distinguono tra diversi tipi di memoria, tra le quali la “memoria a breve ter- mine” o memoria “di lavoro” e la “memoria a lungo termine”. Quando si parla di apprendimento degli studenti, si sta parlando per lo più di “memoria a lungo termine”

– anche se la memoria di lavoro non è affatto irrilevante. Distrazioni, come la musica o il controllo del numero del telefono sul cellulare durante la stesura di un testo, possono consumare parte della capacità della memoria di lavoro, con il risultato che relativamente poco può essere codificato o recuperato di quelle informazioni dalla memoria a lungo termine.

Gli psicologi cognitivisti comunemente distinguono tra vari tipi di conoscenza archiviata nella memoria a lungo termine. Vi è, in primo luogo, una distinzione tra conoscenza dichiarativa e la conoscenza procedurale. La conoscenza dichiarativa è la conoscenza dei concetti e delle idee, su ciò che è vero o falso, che può essere rappresentato in strutture sintattiche conosciute come proposizioni. La conoscenza procedurale è la conoscenza delle abilità e delle regole, del come fare le cose, rap- presentabili in affermazioni condizionali “se-allora”, conosciute come produzioni.

● Ci sono due tipi di conoscenza procedurale: le procedure di un motore, come il modo di cambiare marcia di una normale leva del cambio di una macchina, e le procedure mentali, come il modo di calcolare le radici quadrate.

● Ci sono due tipi di conoscenza dichiarativa: la conoscenza episodica è essenzial- mente una memoria autobiografica, per particolari eventi, che ha una posizione unica nello spazio e nel tempo, e la conoscenza semantica più astratta, come un dizionario mentale o un’enciclopedia. I nomi dei pianeti sono registrati nella mia memoria semantica; il fatto che li ho imparati per un progetto di scienze nella classe terza della signora Sly è registrato nella mia memoria episodica.

Molto di ciò che sappiamo sulla memoria lo conosciamo nella memoria episodica e lo generalizziamo agli altri tipi. Ma c’è un fatto speciale di conoscenza procedurale, definito in quello che Anders Ericsson, della Florida State University, ha chiamato la Regola delle 10.000-ore (resa famosa da Malcolm Gladwell nel suo best-seller, Outliers) – ci vogliono circa 10.000 ore di pratica per diventare veramente esperti in un’abilità. Sono 40 ore alla settimana, 50 settimane all’anno, per 5 anni; o 3 ore la settimana, per 7 giorni la settimana, per 10 anni; ed è la differenza tra Yo-Yo Ma (violoncellista cinese) e tutti noi. Con questo standard, la maggior parte degli stu- denti probabilmente ha bisogno di studiare molto di più.

Gli psicologi hanno studiato la memoria per circa 125 anni, da quando Ebbin- ghaus ha inventato la sillaba senza senso e sappiamo molto su come funziona – tanto che i neuro-scienziati cognitivisti possono cominciare a capire come si comporta il cervello. Ma, oggi, non ho intenzione di parlare del cervello. C’è abbastanza da dire sul processo di apprendimento a livello di analisi psicologica.

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1.1. Principi della memoria

Cominciamo col distinguere fra tre fasi di elaborazione della memoria: la codi- fica, il processo attraverso il quale una nuova traccia è definita nella memoria; l’ar- chiviazione, o ciò che accade alla traccia mnestica codificata dopo l’intervallo di ritenzione; e il recupero, ossia il trovare l’accesso alla conoscenza immagazzinata in modo da poterla utilizzare per risolvere problemi o qualche altra cosa. Il destino della memoria di ciascuna di queste tre fasi è governata da un notevole numero di principi.

La fase di codifica prevede due principi: l’elaborazione e l’organizzazione. Teo- ria originale della memoria di Ebbinghaus, fondata sull’associazionismo britannico, era che la memoria venisse conservata dalla ripetizione (rehearsal) – ripetendo sem- plicemente, più e più volte, l’elemento da ricordare. Ma ora sappiamo che la “ripeti- zione per il mantenimento” (maintenance rehearsal), ripetendo solo qualcosa a noi stessi, più e più volte, come si farebbe per un nome o per un numero di telefono, non è sufficiente a codificare tale cosa nella memoria a lungo termine. È per questo che, se siamo interrotti, la cosa che stiamo ripetendo si perde dalla mente. Invece, ciò che è necessario è quella che viene conosciuta come “ripetizione elaborativa” (elabora- tive rehearsal) che collega ciò che stiamo cercando di imparare con quello che già sappiamo. Non parlo con il mio vecchio agente di viaggi, a Madison, nel Wisconsin, da più di 20 anni, ma ancora ricordo il suo numero di telefono (256-4444), perché quando me lo ha dato ha sottolineato che 256 è uguale a 4 elevato alla 4a potenza.

Lo ha dovuto dire solo una volta. Esempi come questo ci illustrano il principio dell’elaborazione, secondo il quale la memoria è migliore quando elaboriamo un elemento in profondità, collegandolo con il nostro ricco patrimonio di conoscenze preesistente. Pertanto, ecco la prima chiave per l’apprendimento: impariamo meglio quando impariamo progressivamente, costruendo nuove conoscenze sulle vecchie.

In realtà, quasi tutto ciò che stimola il lettore a prestare molta attenzione a un testo migliora la memoria. Un recente studio di Connor Diemand-Yauman e dei suoi colleghi della Princeton (2010) ha dimostrato che presentare un testo in un carattere non familiare come il Comic Sans, che è relativamente difficile da leggere, porta a memorizzare meglio i contenuti del testo rispetto all’uso di un carattere più familiare, come l’Arial. Quanto più sforzo si impiega, meglio si ricorderà – purché non sia solo ripetizione mnemonica.

Forse per la stessa ragione, Oppenheimer e Mueller (2014) hanno trovato che le note scritte a mano prese in classe producono un ricordo migliore del materiale della spiegazione rispetto agli appunti presi su un computer portatile. Ci vuole uno sforzo maggiore nello scrivere che nel digitare su una tastiera. Uno sforzo supplementare evidentemente produce una traccia di memoria più ricca, più ricordabile. Tutto ciò è solo un motivo in più per criticare la tendenza, nell’attuale istruzione elementare, a non sostenere più l’uso del corsivo in favore della stampa o addirittura (Dio aiuti gli studenti) della tastiera.

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Il principio dell’elaborazione è supportato dall’ulteriore principio dell’organiz- zazione: la memoria è migliore quando relazioniamo tra loro le cose che stiamo cercando di imparare, per vedere come sono collegate tra loro o come condividono alcune caratteristiche. Se si raggruppano le cose in categorie o troviamo alcuni altri collegamenti tra loro, si può imparare molto più velocemente che se si studia ogni cosa come se fosse a sé stante. Il principio dell’elaborazione riguarda l’elaborazione

“di una cosa-specifica”, mentre il principio dell’organizzazione ha a che fare con l’elaborazione “tra le cose”. Ma il principio essenziale è lo stesso: impariamo meglio le cose quando stiamo attenti a vedere come le cose si relazionano tra loro.

La fase di archiviazione nella memoria è governata dal principio di dipendenza dal tempo che ha anche le sue radici in Ebbinghaus – per non parlare di vostra nonna:

la memoria peggiora nel tempo. Ma perché la memoria peggiora nel tempo? I ricordi possono sbiadirsi, come capita per una fotografia; o potrebbero essere rimossi dall’arrivo di nuovi, come quando si riempie un archivio. Entrambi questi principi si applicano ad alcune forme della memoria: se non ci si impegna in un’attiva elabora- zione, le cose saranno perse dalla memoria di lavoro; e la capacità della memoria di lavoro è limitata a qualcosa come il famoso “sette, più o meno due” cose. Ma, fino ad ora, per quanto si è detto sulla memoria a lungo termine, pensiamo che una volta codificata, la conoscenza venga memorizzata in modo permanente nella memoria e il problema è quello di tirarla fuori dalla memoria. Quello che provoca la dimenti- canza dalla memoria a lungo termine, quindi, non è né il decadimento né lo sposta- mento, quanto piuttosto l’interferenza – cioè si introducono altri pezzi di conoscenza immagazzinata. In realtà, c’è il “paradosso della interferenza”, secondo il quale più si sa su un argomento, tanto più difficile è recuperare di esso un particolare pezzo di informazione. Ma il paradosso può essere superato se avete organizzato il materiale, in modo da poterlo recuperare in modo efficiente.

La codificazione rende le conoscenze disponibili nell’archivio della memoria, ma il recupero consente di accedere alle informazioni memorizzate. Sul lato del recu- pero, forse, il principio più importante è la dipendenza dal segnale, cioè l’accessibi- lità della memoria è una funzione del valore informativo del segnale utilizzato per recuperarlo. Ecco perché i test a scelta multipla sono più facili rispetto alla risposta breve o ai cloze-test: i test a scelta multipla sono, essenzialmente, test di riconosci- mento i cui segnali sono una copia virtuale delle informazioni memorizzate nella memoria. Pertanto, se volete sapere ciò che uno studente ha davvero imparato, i saggi brevi, a risposta breve o i test nei quali si deve colmare un vuoto sono probabilmente migliori dei test a scelta multipla. Ma essi sono anche meno efficienti e meno affi- dabili nell’assegnazione del punteggio, quindi c’è un compromesso che deve essere considerato: si può affrontare molto più materiale con un test a scelta multipla e si può attribuire un voto ai test in modo molto più affidabile ed efficiente.

Il principio della dipendenza da un segnale è qualificato, in qualche misura, da un principio di specificità della codifica – la memoria è migliore quando i segnali

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utilizzati per recuperare le informazioni corrispondono a quelli che sono stati elabo- rati nel momento in cui la loro memoria è stata codificata. Per fare un esempio, dalla mia lezione di psicologia introduttiva, se si codifica AMBER come minerale, si tro- verà difficoltà a recuperare quella parola come primo nome di una ragazza. Così, ancora una volta, quando si studia si deve fare il maggior numero possibile di con- nessioni diverse per il materiale, allo scopo di garantire una vasta gamma di segnali che in modo efficace lo recuperino quando lo si vuole.

La memoria è migliore quando il contesto nel quale si tenta il recupero corri- sponde al contesto nel quale la conoscenza è stata codificata. Gli studenti rendono meglio negli esami somministrati nelle stesse aule dove hanno frequentato il corso.

Ma questa dipendenza dal contesto deve essere qualificata come dipendenza dal se- gnale. A volte i segnali contenuti nella richiesta alla memoria oscurano i segnali del contesto ambientale, cosicché i soggetti sono più propensi a mostrare una dipendenza dal contesto per domande a risposta breve, piuttosto che per domande a scelta mul- tipla.

Il contesto è sia interno che esterno, e talvolta i soggetti pensano che, se hanno studiato con una birra (o uno spinello) in mano, dovrebbero eseguire il test allo stesso modo. E invece no: alcol, marijuana e farmaci psicoattivi o simili inducono uno

“stato di dipendenza” nella memoria, ma esercitano anche un effetto negativo gene- rale su entrambi i processi di codifica e di recupero. Se si studia con un brusio, si può andare meglio in un test che si svolge anche con un brusio rispetto a quello che accadrebbe se tu fossi sobrio, ma non c’è dubbio che lo studio va meglio, e così avviene nello svolgimento di un test, se sei sobrio entrambe le volte.

Ma c’è una caratteristica molto interessante nella specificità della codifica: le at- tese sul test influenzano il modo in cui i soggetti svolgeranno il test quel giorno. I soggetti che studiano anticipando un test di ricordo libero fanno meglio se effettiva- mente viene loro somministrato un test di ricordo libero, rispetto a un test di ricono- scimento e viceversa. A quanto pare, codifichiamo i ricordi in modo diverso, a se- conda di come ci aspettiamo di recuperarli. Così, ancora una volta, gli studenti do- vrebbero essere incoraggiati a studiare per una grande varietà di test, in modo che le loro strategie di codifica non li svantaggino quando arriva la difficoltà.

Il recupero e la codifica non sono completamente separati e indipendenti: essi interagiscono tra loro in diversi modi. Ad esempio, c’è un rapporto di compensazione tra la codifica e il recupero: molti spunti di recupero (come in un test a scelta multi- pla) possono compensare una elaborazione povera (“superficiale”) al momento della codifica; ma, per lo stesso motivo, una elaborazione “profonda”, al momento della codifica può aiutare prestazioni anche su test difficili che non forniscono molti spunti.

Un altro modo nel quale la codifica e il recupero interagiscono è attraverso il principio di “usala o dimenticala”. Una delle implicazioni del principio di elabora- zione è che il test frequente migliora la memoria. Ogni volta che si recupera qualcosa

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dalla memoria, la si codifica di nuovo, lasciando una nuova traccia della memoria accanto a quella vecchia (come era), ma ogni volta un po’ diversa. Queste diverse versioni della stessa memoria, create attraverso ripetuti test, consentono di recupe- rare le informazioni rapidamente quando più tardi ne abbiamo bisogno. La mancanza di test ripetuti è quello che spiega il “crollo estivo” che affligge gli studenti (e i loro insegnanti), soprattutto in matematica e scienze, tra la fine della primavera e la fine dell’autunno. O hai avuto modo di usare questa conoscenza o la perderai, e un modo per assicurarsi che verrà utilizzata è quello di organizzare test frequenti. Lo stesso principio si applica all’interno di un semestre, come pure tra i semestri. Non produce nulla di buono per gli studenti passare un intero semestre, e poi somministrare una prova finale alla fine. Test frequenti, inclusi test ripetuti sullo stesso materiale, li aiutano a ritenere meglio le informazioni.

Le relazioni tra codificazione e recupero sono anche illustrate dal principio di elaborazione schematica: la memoria per un pezzo di informazione dipende dalla relazione di tale informazione con la conoscenza pre-esistente (organizzata sotto forma di una struttura cognitiva nota come schema). Le informazioni che sono con- gruenti con un nostro schema prevalente vengono ricordate meglio delle informa- zioni irrilevanti per esso: questo perché lo schema fornisce informazioni di segnali utili al momento del recupero, illustrando così il principio della dipendenza dal se- gnale. Ma, curiosamente, le informazioni che sono incongruenti con il nostro schema prevalente vengono ricordate meglio di tutte: questo avviene perché gli eventi di schemi-incongruenti violano le nostre aspettative ed esigono una spiegazione, e que- sta attività esplicativa crea una codifica più ricca e più profonda. Il punto qui è che il background cognitivo è critico per l’apprendimento. Pertanto l’apprendimento pro- cede meglio quando lo studente ha già qualche background sul quale, lui o lei, può costruire e può fornire un quadro di riferimento per la produzione di aspettative e di domande.

Una illustrazione degli effetti schematici di elaborazione è un effetto da test un po’ paradossale, per cui somministrare un test ad una persona prima che tenti di imparare il contenuto aumenta la sua memoria per quel contenuto dopo averlo ap- preso – anche se non riesce a dare la giusta risposta nel pre-testing. Un test antece- dente allo studio consente all’individuo di dare un qualche senso al genere di cose sulle quali sarà successivamente testato. Inoltre, tentare semplicemente di trovare la risposta nella memoria sembra migliorare la codifica di tale risposta, una volta in- contrata in una sessione di studio. Anche se è una sofferenza, sia per il docente sia per gli studenti, una buona discussione può essere fatta per testare la conoscenza degli studenti circa il contenuto del corso prima dell’inizio del corso. Non solo que- sto consente al docente di valutare ciò che uno studente ha effettivamente appreso nel corso, ma l’atto stesso di un test preliminare sembra migliorare l’apprendimento e la memoria.

Tutti i principi discussi finora illustrano ciò che noi chiamiamo la metafora della

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memoria come biblioteca. I pezzi della conoscenza sono come libri che devono es- sere acquisiti, catalogati e collocati negli scaffali da dove possono essere presi e letti.

La metafora della biblioteca vi accompagnerà per un lungo cammino, ma alla fine non è molto corretta. Si sa che l’informazione memorizzata in tracce della memoria è in genere vaga e ambigua ed ha bisogno di essere completata con inferenze basate sulla conoscenza del mondo. Una situazione simile si ottiene nella percezione, dove lo stimolo è tipicamente vago e frammentario, e colui che percepisce deve impe- gnarsi in un’attività costruttiva che colma le lacune, e consente al soggetto di, se- condo la frase immortale di Jerome Bruner, “andare al di là delle informazioni for- nite” dallo stimolo. Nella memoria ci riferiamo a questo fatto come a una ri-costru- zione, da cui il principio di ricostruzione della memoria: ricordare è meno leggere un libro ma più scriverne uno dai propri appunti.

Il principio di ricostruzione ci riporta al punto di partenza, di nuovo alla elabora- zione. Avrete sicuramente avuto modo di avere un po’ di conoscenza del mondo al fine di imparare e ricordare. La stessa conoscenza del mondo, che favorisce l’elabo- razione al momento della codifica, promuove una ricca ricostruzione al momento del recupero. E, ricordate, l’atto di recupero non si limita a rafforzare una singola traccia della memoria; codifica anche interamente una nuova traccia che in un certo senso si affianca a quella vecchia.

Si noti anche che gli psicologi distinguono tra due espressioni della memoria:

memoria esplicita, cioè il ricordo consapevole, mentre la memoria implicita è l’in- fluenza inconscia di qualche evento passato sull’esperienza, sul pensiero o sull’azione della persona. E ci sono anche due forme di apprendimento: l’apprendi- mento esplicito, ossia ciò che normalmente s’intende per apprendimento, ed appren- dimento implicito, ossia il tipo di apprendimento che avviene quando non si è con- sapevoli di ciò che si è imparato. Ritengo che in questo workshop siamo più interes- sati all’apprendimento cosciente e alla memoria, ed è a questo che si riferiscono i sette principi appena descritti. Ma l’apprendimento inconscio si svolge anche, più o meno incidentalmente, nel corso ordinario della vita quotidiana. Impariamo sempre, senza necessariamente sapere che cosa abbiamo appreso.

La memoria implicita può realmente essere un vantaggio per gli studenti nel mo- mento del test: in un test a scelta multipla, per esempio, se non conosciamo la rispo- sta, una delle opzioni può semplicemente “suonare una campana” – un effetto della memoria implicita, in assenza di memoria esplicita. C’è una strategia per affrontare i test che tutti gli studenti dovrebbero sapere: se conosci la risposta, sceglila e non tornare indietro; se non conosci la risposta, ma ti è possibile eliminare almeno un’op- zione come chiaramente sbagliata, questo aumenterà le possibilità di rispondere cor- rettamente alla domanda. Se non si conosce la risposta ma una delle opzioni ti sembra familiare, sceglila. A meno che chi abbia preparato il test sia diabolicamente astuto:

se abbiamo fatto il lavoro, frequentato le lezioni ed eseguito le letture previste quella scelta sarà più probabilmente giusta che sbagliata.

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1.2. PQ4R

Tutte queste ricerche di laboratorio hanno prodotto un sistema pratico per lo stu- dio e l’apprendimento, chiamato metodo PQ4R di John Anderson, a seguito della strategia formulata originariamente da Thomas e Robinson (1972). Si chiama anche metodo SQ3R, ma è la stessa idea.

● Pre-lettura (Preview)

Prima di leggere, date uno sguardo generale (Survey) (dove la S proviene da SQ3R) al materiale che state cercando di imparare. Guardate i titoli delle sezioni, notate eventuali nuovi termini che sono in neretto. Cercate di essere pronti ad imparare e ricordate stabilendo uno schema adeguato.

● Porsi domande (Query)

Sulla base della propria indagine, fate un elenco di domande che desiderate rice- vano una risposta dal testo, di modo che possiate leggere il testo con in mente queste domande.

● Leggere (Read)

Leggete attentamente. Non scorrete velocemente – lo si è già fatto nella pre-let- tura. Leggete con l’intento di rispondere alle domande che avete formulato.

● Riflettere (Reflect)

Dopo aver letto il capitolo (o, meglio ancora, una sezione più piccola di quel ca- pitolo), pensate a come quello che avete letto si riferisce alle domande formulate (questa è la quarta R, aggiunta da Anderson allo standard SQ3R). Andate oltre eventuali esempi utilizzati. Pensate a come il materiale si riferisce a quello che già conoscete.

● Dire ad alta voce (Recite)

Ora mettete il testo da parte e cercate di ricordare il materiale letto rispondendo alle domande formulate in precedenza.

● Rivedere (Review)

Tornate indietro e confrontate il ricordo con ciò che avete letto e vedete se ci sono discrepanze che necessitano di correzione.

● A questo punto potete aggiungere una quinta R: Ripetere (Repeat)

Ora tornate indietro e fatelo di nuovo, forse dopo aver letto il capitolo successivo o una sezione. Gli studenti tendono a pensare che se hanno letto alcuni materiali una volta, questo sia sufficiente. Non è vero. C’è una ragione per cui diciamo che dovrebbero dedicare almeno due, forse tre, ore fuori della classe per ogni ora che spendono all’interno della classe. Se uno studente prende 12 crediti (supponendo che non è pallavolo, ma anche se lo è), significa che ci vogliono 24-36 ore di studio alla settimana fuori della classe.

Andare a scuola è un lavoro a tempo pieno, ma gli studenti non sempre fanno questo. I sondaggi ci dicono che uno studente universitario medio dedica solo circa

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2-3 ore per notte a studiare. Se fate i conti, questo non basta.

Il metodo PQ4R attribuisce grande peso alle domande – sia ponendole sia rispon- dendo ad esse. In uno studio fondamentale di Frase (1975), un gruppo di soggetti lesse un testo con l’istruzione di produrre domande basate su di esso. Un secondo gruppo ricevette le domande prodotte dal primo gruppo e la consegna di leggere il testo con l’obiettivo di rispondere ad esse. Per un terzo gruppo era sufficiente leggere il testo (gruppo di controllo). In seguito, tutti i soggetti hanno ricevuto un test su alcuni elementi rilevanti del testo e su altri che non lo erano. I soggetti dei due primi gruppi hanno ottenuto punteggi migliori al test rispetto a quelli del gruppo di con- trollo.

2. L’IMPORTANZA DELL’INSEGNAMENTO ENTUSIASTA

Finora, tutto questo è ciò che ogni psicologo cognitivista potrebbe dirvi su come gli studenti imparano. Ma, come indica il mio titolo, c’è di più nella psicologia dell’apprendimento: c’è anche una psicologia sociale. Ed è per questo che l’appren- dimento non è un campo esclusivo degli psicologi cognitivisti.

In realtà, molto tempo fa, Neal Miller e John Dollard (1941) hanno avanzato l’idea della teoria dell’apprendimento sociale per spiegare il complesso comporta- mento umano. Hanno affermato che la maggior parte dell’apprendimento riguarda il comportamento sociale e la maggior parte dell’apprendimento avviene in un contesto sociale. Albert Bandura di Stanford ha ampliato questa loro visione, distinguendo tra varie modalità di apprendimento:

● Apprendere attraverso l’esperienza diretta

Questo è il solito apprendimento per “tentativo ed errore”, familiare a partire dagli studi del condizionamento classico e strumentale che si studia nel corso introdut- tivo di psicologia. Il cane di Pavlov sente un campanello e poi assaggia il cibo e subito si forma una associazione tra i due. I gatti di Thorndike vengono messi in un contenitore e subito imparano a premere un bastoncino per aprire una serratura e fuggire. Pavlov, Thorndike e praticamente tutti gli altri che hanno studiato bene l’apprendimento nel 20° secolo, tutti pensavano che l’animale fosse passivo du- rante il condizionamento – da cui il termine “condizionamento”. Una eccezione è stato Edward Tolman di Berkeley, il quale ha sostenuto che anche gli animali erano attivamente coinvolti nel processo di apprendimento, cercando di capire cosa stesse succedendo nel loro ambiente e cosa fare a questo proposito – una posizione ridi- colizzata da alcuni che caratterizzavano i ratti che correvano nel labirinto di Tol- man come “persi nel pensiero al punto di scegliere”. Ma ora sappiamo che Tolman aveva capito bene. L’organismo nell’apprendimento è attivo nel generare, nel con- trollare e nel rivedere le aspettative e le ipotesi circa il suo mondo; quando ap- prende, impara a prevedere e a controllare gli eventi nel suo ambiente. Questo è vero per cani e gatti, topi e piccioni – ed è vero anche per gli esseri umani.

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● Apprendimento per osservazione

Ma Bandura era più interessato a un diverso tipo di apprendimento, un apprendi- mento anche descritto da Miller e Dollard – l’apprendimento per osservazione, o apprendimento vicario, non per esperienza diretta, ma osservando altre persone.

Impariamo attraverso l’esperienza diretta, ma impariamo anche da altre persone, e imparare da altre persone è di gran lunga più efficiente. Se infili il dito in una presa elettrica, impari a non farlo più; ma se ti dico di non farlo, imparerai molto più velocemente. L’apprendimento per osservazione significa imparare da altre per- sone, questa è l’idea centrale della teoria dell’apprendimento sociale.

Bandura distingue inoltre tra due grandi forme di apprendimento per osserva- zione:

● Insegnamento tramite esempi

Vale a dire, osservando altre persone. Questo include varie forme di imitazione, alcune delle quali avvengono automaticamente e inconsciamente, nonché con un modellamento cosciente e deliberato.

● Imparare per obbligo

Includendo l’insegnamento sia informale sia formale, sponsorizzato, molte intera- zioni sociali coinvolgono una sola persona nel ruolo di insegnante e l’altro nel ruolo di studente. La società ha sviluppato una vasta gamma di istituzioni per generare e conservare conoscenze e trasmetterle alla generazione successiva – non ultima delle quali è il college e l’università. Non c’è modo più efficace per gli studenti di impa- rare, credo, che da un corso ben organizzato di lezioni accompagnate da un testo ben scritto.

Questo ci porta al tema dell’insegnamento, e al punto ovvio che gli studenti im- parano dall’essere istruiti. Ne consegue, a mio avviso, che gli studenti imparano me- glio se sono istruiti bene. E una delle chiavi per insegnare bene, la letteratura ci dice, è che l’insegnante abbia la padronanza del materiale che insegna e lo organizzi in modo tale che gli studenti siano in grado di dominarlo (ad es., Pascarella et al., 2008).3

Tutto questo è al servizio del mastery learning. Idealmente, gli studenti non do- vrebbero passare al materiale successivo in un corso, senza avere prima appreso bene il materiale precedente. Questo perché il materiale precedente fa da sfondo conosci- tivo – lo schema – rispetto al quale l’apprendimento successivo può avvenire.

Il Mastery Learning viene indicato dal Personalized System of Instruction (PSI),

3 A. Graesser e i suoi colleghi hanno prodotto un elenco esteso di “25 Learning Principles for Pedagogy and the Design of Learning Environments “, accompagnato da una breve panoramica sulla letteratura di riferimento. A.C. Graesser, (2009). Inaugural editorial for Journal of Educational Psychol- ogy. Journal of Educational Psychology, 101, 259-261. http://home.umltta.org/home/theories.

Per un trattamento della lunghezza di un libro di questo contenuto, si veda H.L. Roediger (2015).

Make it stick: The science of successful learning.

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sviluppato da Fred Keller (1968), un amico e collega di B. F. Skinner che ha inse- gnato per molti anni presso la Columbia University (e prima ancora, alla mia alma mater, Colgate). Il PSI può essere la cosa migliore per abbandonare tutta la tradizione comportamentista in psicologia – perché non tutto ciò è “comportamentista”, nono- stante che il PSI sia nato nel centro del comportamentismo di Skinner. Ma sto diva- gando…

Keller ha proposto che un corso – dico, per esempio, Psicologia Introduttiva – fosse diviso in moduli – parti tematicamente coerenti che sono più piccole di un capitolo di un libro di testo – sui quali gli studenti lavorano in modo indipendente in collegamento con un supervisore che può rispondere a domande e correggere gli errori. Ogni modulo si conclude con un test di padronanza e allo studente non è con- sentito passare al modulo successivo, a meno che e fino a quando, non raggiunge un punteggio di almeno il 90%. Se non raggiunge questo criterio, ritorna al modulo e riprova, e continua a riprovare finché non soddisfa questo “requisito di perfezione dell’unità”.

Si noti che, dato il requisito di perfezione dell’unità, ogni studente che completa il corso ha garantito un “Ottimo”. Keller non ha avuto alcun problema con questo, e nemmeno io. Il PSI prevede test forti, non test cronometrati: l’unico scopo del test è assicurare che lo studente domini il materiale. Ogni studente che padroneggia al- meno il 90% del materiale in un corso merita un “Ottimo”. Si potrebbero dare altri tipi di voto, suppongo, in base al numero di cicli di cui lo studente ha avuto bisogno per raggiungere il criterio di padronanza, o si può allentare il criterio per consentire agli studenti di procedere dopo aver raggiunto solo l’80%, o il 70%. Ma così si svuota lo scopo fondamentale del PSI, cioè assicurarsi che gli studenti abbiano imparato il materiale. E avrete anche violato l’assunto di base del PSI, se implicito, cioè che ogni studente può padroneggiare il materiale.

Il PSI richiede un alto livello di struttura del corso e imporre la struttura è il lavoro dell’insegnante, ma il ruolo dell’insegnante viene effettuato in anticipo. L’inse- gnante può offrire lezioni e dimostrazioni, ma queste sono per lo più allo scopo di motivare gli studenti, non fornire loro informazioni. Il contenuto del corso viene dai moduli, di modo che vi è una grande enfasi data alla parola scritta. Una volta che i moduli (e i test) sono costruiti, lo studente lavora in modo indipendente, con accesso al supervisore che segue e corregge le prove – e fornisce anche un po’ di contatto umano, migliorando così l’aspetto sociale dell’apprendimento.

Il formato “procedi secondo il tuo ritmo” significa che, per essere correttamente attuato, il PSI richiede lunghi periodi di tempo. Allo studente, per raggiungere la padronanza della materia, può richiedere più di un quadrimestre o di un semestre. E questo va bene. E poiché il PSI è personalizzato, è difficile da implementare in una classe. Ma le persone intelligenti possono probabilmente trovare un modo per inte- grare il PSI con le attività ordinarie di classe.

Ci sono ragioni per pensare che la gente dovrebbe lavorare su questo, perché il

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PSI è un sistema molto efficace di istruzione. Una meta-analisi di studi sul PSI, esa- minati da Pascarella e Terenzini (1991, 2005) mostrano che il PSI è molto più effi- cace rispetto ai metodi tradizionali – la differenza, è pari a “una ampiezza degli ef- fetti” di 0,40 o maggiore – cosa che è abbastanza grande nelle scienze sociali e nella ricerca educativa. Qualcosa di molto simile al PSI viene utilizzato in alcuni corsi nella programmazione dei corsi di base nei primi due anni di università a Berkeley, e una versione del PSI è utilizzata presso la Carnegie-Mellon University per inse- gnare il corso introduttivo di psicologia. Per coloro che sono interessati, è perfetto per una istruzione on-line.

Keller ha intitolato il suo documento sul PSI “Good-Bye, Teacher”, ma è abba- stanza chiaro che l’insegnante è ancora piuttosto importante. Spetta all’insegnante determinare il materiale da affrontare, dividere il materiale in moduli, presentare i moduli (o per iscritto o in spiegazioni pre-registrate), in modo da trasmettere il ma- teriale allo studente e creare metodi di valutazione che possano, se necessario, essere significativamente ripetuti. In alcune circostanze, l’insegnante può anche essere chiamato a servire come assistente. Come la maggior parte delle innovazioni tecni- che in materia di istruzione, sia che si tratti di PowerPoint o di Internet, si richiede più lavoro da parte dell’insegnante, non meno – soprattutto se confrontato con la facilità di tirare fuori dispense ingiallite, di lezioni vecchie di un decennio o sempli- cemente leggere ad alta voce dal libro di testo (che, lo giuro sulla mia copia dei Principles of Psychology di William James, ho visto fare in Introduzione alla Psico- logia sia da un professore assistente sia da un professore ordinario per un seminario di secondo livello universitario).

Skinner, da parte sua, è stato un rifinitore instancabile che ha inventato una prima

“macchina d’insegnamento”, sulla base della definizione e altri principi di condizio- namento strumentale. Julie Vargas, una delle figlie di Skinner e un professore di psicologia dell’Università della Virginia, hanno recentemente pubblicato un articolo riguardante il lavoro di Skinner sulle macchine di insegnamento, un precursore del PSI: si veda “What can online course designers learn from research on machine- delivered instruction?” (Academe, 5-6 / 2014). (La sorella di Vargas, Deborah, è no- toriamente cresciuta in altre invenzioni di Skinner, il “passeggino” o “culla imbottita d’aria” e Vargas ha cresciuto le proprie due figlie anche in una “culla imbottita d’aria”).

3. IMPARARE TECNICHE E STRATEGIE DIDATTICHE

C’è un numero di ricerche, crescente e sempre più rigoroso, sugli effetti di varie tecniche di apprendimento e strategie didattiche, specialmente nel contesto di corsi di scuola superiore e dell’università, e in particolare nel contesto delle cosiddette discipline STEM, scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, (dove, francamente,

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i criteri per il successo e la padronanza sono più intuitivamente ovvi).

Ad esempio, un recente articolo di John Dunlosky e colleghi (2013a) ha valutato l’utilità di dieci tecniche di apprendimento popolare, con risultati sorprendenti e un po’ sconcertanti. Due delle tecniche più preferite dagli studenti – ri-leggere e mettere in evidenza i testi – si è rivelata abbastanza inutile per i risultati educativi sia in riferimento al punteggio nel test sia per la memorizzazione a lungo termine. Due delle tecniche più utili hanno dimostrato di essere quelle più detestate allo stesso modo dagli studenti e dai docenti – vale a dire, le prove pratiche e i test distribuiti lungo il corso. Gli insegnanti non vogliono costantemente costruire, somministrare, correggere e discutere test; e anche gli studenti non vogliono essere costantemente occupati a farli. E gli insegnanti vogliono svolgere il loro programma, invece di tor- nare a materiale svolto in precedenza nel corso (molto meno prerequisiti per il corso attuale). Eppure queste tecniche sono le più utili a promuovere l’apprendimento degli studenti.

Per una versione su carta per studenti universitari di primo livello di Dunlosky, si veda “What works, what doesn’t”, in Scientific American Mind, September-Octo- ber 2013.

Le tecniche di apprendimento più efficaci non sono solo più impegnative, sono anche contro-intuitive. Un altro studio recente di Rohrer e Pashler (2010) si è foca- lizzato su tre di questi punti.

3.1. Il test per l’apprendimento

Nel PSI (Personalized System of Instruction), come nell’insegnamento tradizio- nale, lo scopo primario delle prove è valutare o dimostrare la padronanza del conte- nuto da parte dello studente. Ma è ormai chiaro che il test è fondamentale per il processo di apprendimento stesso – si apprende per essere controllati o per control- lare noi stessi. Il test migliora la ritenzione, più ancora che lo studio, in più questo è vero anche quando i soggetti non hanno alcuna risposta dal test. Questo è chiamato effetto da test (Roediger & Karpicke, 2006), ed è vero tanto per l’applicazione nei contesti educativi quanto nell’ambiente controllato del laboratorio psicologico. Ri- petere test aiuta, anche quando gli studenti rispondono in modo errato.

In uno studio condotto da Roediger e Karpicke (2006), agli studenti è stato chiesto di leggere un testo tipico. Dopo un ritardo di due minuti, hanno o riletto il testo (la condizione di studio-studio), o è stato somministrato loro un test scritto di richiamo di ciò che avevano letto (la condizione di studio-test). In seguito ricevettero un test di prova finale scritta di richiamo dopo uno spazio temporale di 5 minuti, 2 giorni o 1 settimana. Dopo il ritardo più breve, la rilettura aiutava un po’ la prestazione. Ma con ritardi più lunghi, quelli che avevano fatto il test dimostrarono punteggi di gran lunga superiori.

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Un più recente esperimento di Karpicke e Blunt (2011) presso la Purdue Univer- sity ha ottenuto la stessa cosa in modo molto più evidente. I soggetti che leggevano un brano e poi erano immediatamente testati su tale brano ricordavano circa il 50%

del brano una settimana dopo, rispetto ad un gruppo di controllo che semplicemente leggeva il brano ripetutamente – cosa che potrebbe essere definita accumulazione (cramming) per un test. Ma, cosa interessante, il gruppo del test faceva anche meglio di un gruppo con “mappe concettuali” che disegnava diagrammi per rappresentare ciò che avevano imparato. Ambedue, accumulazione e mappe concettuali, accresce- vano le stime degli studenti di ciò che avevano appreso – ma queste stime erano illusorie. I soggetti del gruppo del test pensavano di aver imparato di meno, e in realtà imparavano di più, come dimostrato dalla loro prestazione al test una setti- mana dopo. È interessante notare che l’effetto da test migliorava la prestazione su domande dirette sui contenuti del testo e anche in domande su inferenze tratte dal testo, ma in realtà non ivi specificate.

L’effetto da test è stato replicato tante volte, ma non è semplicemente una conse- guenza del fatto che il test fornisce ulteriore esposizione al materiale del test. Questo è ovvio dal confronto tra le condizioni della “pratica di recupero” e “dell’accumula- zione” nell’esperimento di Karpicke e Blunt. La somministrazione del test incorag- gia una profonda, elaborativa trasformazione al momento del test, quando il mate- riale che è testato viene nuovamente-codificato nella memoria. L’atto del testare se stessi crea percorsi diversi per il recupero, aumentando la probabilità che gli studenti trovino le conoscenze nella loro memoria quando ne hanno bisogno.

3.2. Pratica concentrata (cramming) vs distribuita (spacing)

Parlando di accumulazione, un altro dato coerente della ricerca è che le sessioni di studio e di pratica siano migliori se distanziate in intervalli relativamente lunghi di tempo. Questo è risaputo come effetto del distanziare (spacing): se la stessa quan- tità di tempo di studio è distribuita tra diverse sessioni, anziché essere compressa in una singola sessione, viene conseguito maggior apprendimento e si ha un ricordo più lungo nel tempo.

Cepeda e collaboratori (Cepeda et al., 2008) in un esperimento recente hanno dimostrato l’effetto del distanziare. Dopo che i soggetti avevano studiato un elenco di fatti sconosciuti, li hanno studiati di nuovo dopo un intervallo variabile tra i 20 minuti e i 105 giorni (avete letto bene!). Poi, da 7 a 350 giorni dopo la seconda ses- sione di studio (avete letto ugualmente bene!), i soggetti sono stati testati nel loro ricordo del materiale. I punteggi sono stati più elevati dopo intervalli di conserva- zione relativamente brevi, ma anche dopo 350 giorni la ritenzione era meglio se fosse trascorso almeno un po’ di tempo tra le due sessioni di studio. Se si vuole veramente sapere, Cepeda et al. stimano che il divario ottimale tra le sessioni di studio dovrebbe

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essere di circa il 5-10% la distanza del test di studio. Quindi, se volete che gli studenti ricordino all’esame finale qualcosa che hanno letto nella prima settimana di lezione, dovrebbero leggerlo di nuovo una settimana o due dopo. Se si desidera che qualcuno ricordi qualcosa per tutta la vita, si dovrebbe di nuovo studiare il materiale almeno un anno dopo la prima esposizione.

Come l’effetto da test, l’effetto del distanziare è stato replicato con molti tipi di- versi di materiali di studio e in contesti di classe così come in contesti di laboratorio.

Il meccanismo alla base dell’effetto del distanziare non è ben compreso, e probabil- mente ha a che fare con il modo in cui singoli eventi sono codificati nella memoria.

Ma come fatto empirico non ha potuto essere chiarito di più.

3.3. Alternanza di tipi di problemi

Un altro dato sorprendente ha a che fare con il modo in cui le cose vengono pre- sentate per lo studio. Si consideri un corso di matematica o di scienze, dove gli stu- denti stanno cercando di imparare come risolvere i problemi di tipo un po’ diversi.

Ci si potrebbe aspettare, da quello che ho detto in precedenza circa il mastery lear- ning, che la strategia migliore sia quella di chiedere agli studenti di padroneggiare un tipo di problema, prima di passare ad un altro. Ma si scopre che questo tipo di presentazione bloccata non è la migliore strategia educativa. La presentazione con alternanze è una pedagogia migliore.

In uno studio campione di Rohrer e Taylor (2007, Exp. 2), nel quale i soggetti imparavano a trovare i volumi di solidi geometrici piuttosto oscuri, come cunei, sfe- roidi, coni sferici e semiconi, alcuni soggetti hanno lavorato su problemi in modo bloccato (aaabbbcccddd), mentre per altri soggetti i problemi venivano intercalati (ad es., abcdbdcacadb). L’alternanza ha reso l’apprendimento iniziale un po’ più difficile, ma ha migliorato la prestazione in un test somministrato una settimana dopo le prove di apprendimento.

Questo effetto dell’alternanza è stato replicato con molti tipi diversi di materiali di studio tanto in contesti d’aula quanto in contesti di laboratorio. Non è solo un caso speciale dell’effetto spaziatura, perché gli effetti dell’alternanza persistono anche quando la distanza tra i problemi è equiparata tra le condizioni bloccate e le condi- zioni con alternanza. Il meccanismo di base ha a che fare con il modo in cui eventi singoli sono codificati nella memoria. Ma, come fatto empirico, non ha potuto essere chiarito di più. E soprattutto in matematica, dove entrambi i libri di testo e i compiti per casa in genere coinvolgono una pratica bloccata, anche le implicazioni non hanno potuto essere più chiarite.

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3.4. Struttura dei test

Presi insieme, questi tre effetti e l’effetto dilazione sostengono non solo molte- plici esami di medio termine ed esami finali cumulativi, ma anche la somministra- zione di test su materiale svolto nella prima parte e nuovamente nel secondo quadri- mestre. L’effetto del test è più forte quando i test ripetuti vengono ripartiti per un periodo di tempo prolungato, piuttosto che ammassati insieme. E, di fatto, una

“estensione” del programma è migliore – con il primo test subito dopo aver studiato il materiale, poi un secondo test poco dopo, un terzo test dopo un intervallo un po’

più lungo, e così via. Quindi, per ritornare al quadro di riferimento PSI, non do- vremmo voler testare gli studenti una volta soltanto, al termine di un modulo, e poi basta. Ci vuole un programma che ritorni di nuovo al materiale precedente. Natural- mente, con tutto questo eseguire test, potrebbe non esserci tempo per altro in classe.

Ma per lo meno, nel caso in cui con un libro di testo viene fornita una guida di studio, gli studenti dovrebbero essere incoraggiati a utilizzare il test di pratica – non solo per memorizzare le risposte, ma per migliorare realmente il loro apprendimento con il recupero ripetuto.

Una forma particolarmente interessante di test è la somministrazione di test dina- mici, nel quale gli studenti ricevono un feedback immediato dopo ogni domanda del test, invece che alla fine del test nel suo complesso – un feedback che non solo dice loro se la risposta è giusta o sbagliata, ma li aiuta anche a comprendere i principi coinvolti e dove hanno sbagliato. Un’idea correlata è la valutazione formativa (come opposta alla sola valutazione “sommativa”). Nella valutazione formativa, facciamo di più di un semplice segnare dei punteggi nei test e restituirli agli studenti. L’inse- gnante e gli studenti trattano allo stesso modo il destino delle domande individuali del test come un feedback che guida sia l’insegnamento del docente sia l’apprendi- mento dello studente. Quando i test sono visti come parte intrinseca del processo di apprendimento, invece di una valutazione dopo-il-fatto dei risultati di apprendi- mento, i test migliorano l’apprendimento. Questo non li rende meno fastidiosi – agli insegnanti a prepararli o agli studenti a farli; ma almeno hanno una funzione.

Lasciatemi dire qui qualcosa sulla questione di “insegnare in vista dei test”. So- prattutto in questa epoca di elevati interessi per i test, e del No Child Left Behind e dei suoi programmi analoghi nel campo dell’istruzione superiore, ci sono state molte lamentele riguardo questa pratica. Non ho mai capito questa denuncia. Se il test è un buon test, il test dovrebbe essere una guida affidabile sia per l’insegnante sia per lo studente. Sono andato a scuola a New York negli anni Sessanta (i giorni dell’insalata di Averill Harriman e Nelson Rockefeller), e se dovevi ottenere il diploma di “Re- gents” richiesto per l’ammissione all’università dovevi superare gli esami in tutto lo Stato, fissati dal Board of Regents dell’Università dello Stato di New York in diversi argomenti, tra cui letteratura e storia così come scienze e matematica. In realtà, non c’era bisogno di seguire i corsi. Tutto quello che dovevi fare era passare il test. E

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così i nostri insegnanti ci insegnarono per quella finalità e abbiamo studiato per quei test. Ma fin qui andava tutto bene, perché i test erano buoni test – erano valutazioni valide della conoscenza dello studente di qualche argomento. Se si voleva superare il test, si doveva in realtà imparare un po’di chimica o di storia o di letteratura inglese o di qualsiasi altra cosa.

E ciò che li rendeva buoni test era non solo che avevano le solite proprietà psico- metriche che ci aspettiamo in qualsiasi test – la standardizzazione, le norme, e l’af- fidabilità. Essi erano anche test validi – si aveva la sensazione che in vario modo misurassero accuratamente il tratto – le conoscenze di chimica o di storia o di lette- ratura che si supponeva misurassero. C’era una relazione simbiotica tra curricolo e test – il curricolo non solo rifletteva il test, che è quello di cui la gente si lamenta quando dice di “insegnare in vista del test”; il test rifletteva anche il curricolo.

Con una mossa di risparmio di costi incredibilmente stupida, nel 2011 Regents ha votato per l’abbandono degli esami di lingua straniera. Ma questo è stato un altro caso in cui l’esame in realtà portava ad una ristrutturazione molto positiva del pro- gramma di studi. Quando ero al liceo, nel 1960, gli esami in lingua straniera (li ho avuti in latino e tedesco) erano piuttosto semplici – vocabolario e traduzione. Ma nel 1980, gli esami Regents cambiarono: si doveva dimostrare di essere in grado di con- versare nella lingua e si doveva sapere qualcosa sulla/e cultura/e dove si parlava la lingua. E il curricolo si modificava di conseguenza – proprio perché gli insegnanti insegnavano in vista del test.

Le cose sono cambiate, però, quando New York ha adottato i Common Core stan- dard, secondo i quali 45 Stati hanno scelto di strutturare il loro curricolo primario e secondario in matematica e inglese e materie umanistiche (in futuro, i Common Core standard saranno sviluppati per altre aree di studio). I primi esami sulla base dei Common Core standard sono stati somministrati nel 2013 e hanno suscitato molta ansia tra gli studenti, tra gli insegnanti e tra i genitori, perché i test affrontavano materiale che non era stato insegnato insieme a fosche previsioni di punteggi bassi e le conseguenze per un posizionamento superiore della scuola (“A tough new test spurs protest and tears” di Javier Hernandez & C. Al Baker, New York Times, 2013/04/19). Ma, naturalmente, questo è il punto: i test rappresentano il curricolo che deve essere insegnato. Se questo è “insegnare per il test”, così sia.

Quindi, come possiamo costruire test validi? Psicometristi distinguono tra vari tipi di validità.

● Dimostrare validità

È la misura in cui le domande del test sembrano valide “per come si presentano”, o, superficialmente, come le misure del tratto (un test sulla estroversione non do- vrebbe essere composto da domande relative alla nevrosi). Questa è la forma più semplice di validità e indica semplicemente che una prova di matematica do- vrebbe contenere problemi di matematica (anche se, naturalmente, possono es-

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serci problemi con parole) e un test di storia dovrebbe contenere domande di sto- ria).

● Validità del contenuto

È la misura in cui il test indaga l’universo dei contenuti rappresentato dal tratto.

Così, in un corso introduttivo di psicologia, un test adeguato dovrebbe avere do- mande sulla personalità e sulla teoria dell’apprendimento, e domande sulla perce- zione, così come sulla memoria. Quando creo i test nei miei corsi, cerco forte- mente di assicurarmi che ci sia almeno un concetto testato proveniente da ogni mia lezione, e da ogni sezione principale del capitolo del libro di testo. Non è possibile verificare ogni concetto, ma almeno si può disegnare un campione rap- presentativo.

● Validità empirica

È la misura in cui i punteggi dei test si correlano positivamente con qualche cri- terio. Questo è, forse, il tipo più difficile di validità da stabilire perché semplice- mente noi non registriamo questo tipo di informazioni. Quando passo gli studenti dal mio corso introduttivo al corso di Art Shimamura sull’apprendimento umano e la memoria, sarebbe bello sapere se i punteggi degli studenti nei miei test – almeno quando controllano la loro conoscenza in psicologia dell’apprendimento e della memoria – si correlano con le prestazioni dei suoi test. Ma, come ho detto, non teniamo registrazioni di questo genere. Probabilmente dovremmo, ma non lo facciamo.

● Ma almeno possiamo garantire che i nostri test abbiano una sorta di coerenza in- terna (internal consistency). Questo è, tecnicamente, un aspetto della affidabilità, non validità, ma vedremo il motivo per cui ne parlo qui. Cioè, i punteggi su di- verse domande di un test dovrebbero correlarsi reciprocamente, di modo che il test nel suo complesso “sta insieme”. Nelle mie classi, preparo gli esami retro- spettivamente per eliminare domande che non si correlano con la prestazione del test nel complesso. In questo modo mi assicuro che ogni domanda del test appar- tenga davvero ad esso ed evito la maggior parte degli interrogativi su se una do- manda (o un test) è stata “giusta”.

Il punto di tutto questo è che il test pesa per tutti, studenti e insegnanti. Mi piace dare lezioni, anche quando non sono particolarmente bravo a farlo, ma odio prepa- rare i test. Ma fare test, ben fatti, è degno di tempo e di sforzo – perché il test migliora l’apprendimento.

3.5. Test di benchmark

L’effetto test è stato replicato tante volte, con una grande varietà di materiali e in classe come anche in contesti di laboratorio. Forse l’applicazione più estrema dell’ef- fetto da test è fornita da uno studio condotto da Jamie Pennebaker, Sam Gosling e i

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loro colleghi presso l’Università del Texas (Pennebaker et al., 2013). Essi hanno tra- sformato il loro corso introduttivo di psicologia in una sorta di MOOC,4 con lezioni di base offerte in continuazione agli iscritti al MOOC. Nel corso di un semestre, due lezioni a settimana, essi hanno cominciato ogni lezione con un quiz con “standard di riferimento” (benchmark) di otto-domande: sette domande erano dirette alla lettura assegnata per la giornata, e l’ottava era diretta a materiale di compiti precedenti. In altro modo, non c’erano esami intermedi o finali. Rispetto ad un’altra iterazione della classe, con le stesse letture e lezioni, tranne il fatto che alcune delle domande del quiz erano raggruppate negli esami di metà quadrimestre e negli esami finali, gli studenti che hanno completato il test di benchmark hanno dimostrato una prestazione superiore agli esami stessi – quasi metà è stato superiore di un voto. Essi inoltre, in quel semestre, sono andati meglio nelle loro altre classi al di fuori della psicologia, e anche nel successivo semestre. I miglioramenti sono stati particolarmente forti per gli studenti a basso SES (status socio-economico), con la conseguenza di una ridu- zione del 50% del divario di successo.

Ora, va detto che ci sono probabilmente altre cose in ballo qui oltre all’effetto della somministrazione del test.

● Il fatto che i quiz fossero somministrati all’inizio di ogni lezione obbligava la fre- quenza in classe.

● Ha anche costretto gli studenti a continuare con la lettura, contrastando la tendenza naturale verso la procrastinazione (su cui più avanti).

Avremmo bisogno di ulteriori controlli per determinare quanto di questo effetto fosse dovuto all’effetto del test e quanto fosse dovuto a un aumento della frequenza alle lezioni e migliorasse le abitudini di studio.

Ci sono alcuni problemi con un regime quotidiano di test di benchmark.

● È percepito dagli studenti come molto irritante.

● Non incoraggia gli studenti a distribuire il loro studio nel corso del tempo, nel modo in cui richiedono gli esami finali.

Quindi un regime quotidiano di test di benchmark, probabilmente non è per tutti;

ma è qualcosa a cui pensare.

4 MOOC (Massive Open Online Courses), (in italiano: Corsi aperti online su larga scala) sono dei corsi, aperti disponibili in rete, pensati per una formazione a distanza che coinvolga un numero elevato di utenti. I partecipanti ai corsi provengono da diverse aree geografiche e accedono ai contenuti unica- mente via rete. I corsi sono aperti, ossia l’accesso non richiede il pagamento di una tassa di iscrizione e permette di usufruire dei materiali degli stessi.

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4. IL GRANDE VALORE DEGLI ESAMI FINALI

I test sugli standard non possono essere per tutti, né per molti esami di metà qua- drimestre, ma gli esami finali dovrebbero esserlo. C’è una tendenza a rifuggire dagli esami finali, a volte in favore di un esame non-cumulativo che copre solo il materiale di medio termine, ma gli esami finali cumulativi sicuramente hanno un valore edu- cativo. In primo luogo, un esame finale cumulativo costringe gli studenti a rivedere tutto il materiale svolto in un corso e questa revisione, in se stessa e di per se stessa, migliora l’apprendimento. Inoltre, è una opportunità per lo studente per mettere in- sieme l’intero corso, per collegare il materiale della prima metà con il materiale della seconda parte del corso.

4.1. Istruzione diretta vs apprendimento per scoperta

Una polemica persistente riguarda quanto sia importante l’insegnamento, con qualcuno che sostiene in modo radicale che i bambini e le altre persone imparano spontaneamente, ed è cosa importante far imparare in un ambiente favorevole all’ap- prendimento. Non c’è dubbio che l’apprendimento per scoperta ha molti vantaggi – per dirne una, rimane con noi più a lungo. D’altra parte, è grossolanamente ineffi- ciente. Se si dedica un certo tempo a guardare i dipinti del Rinascimento, da se stessi gli studenti di psicologia introduttiva scopriranno molti principi della percezione della profondità. Ma posso insegnare loro quei principi in 20 minuti (lo so perché l’ho fatto), allo stesso tempo in cui insegno principi che non possono raggiungere solo cercando nell’arte figurativa e possiamo andare avanti con qualcos’altro. Un lavoro significativo di Lee e Anderson (Annual Review of Psychology, 2013) si oc- cupa di questa polemica nel dettaglio. Cominciano riassumendo gli argomenti a fa- vore dell’apprendimento per scoperta:

● lo sviluppo delle capacità di ricerca;

● l’utilità di apprendere da errori;

● il processo di scoperta e di individuazione e correzione degli errori, approfondisce la comprensione;

● l’auto-generazione migliora il ricordo a lungo termine e la generalizzazione;

● migliora l’atteggiamento degli studenti verso il materiale da imparare e l’appren- dimento in generale.

Allo stesso tempo, Lee e Anderson sottolineano che l’evidenza empirica in gene- rale non è riuscita a sostenere tali affermazioni – ad eccezione di quello sulla con- servazione a lungo termine. D’altra parte, l’istruzione diretta ha pure i suoi svantaggi.

Lee e Anderson forniscono un grafico di confronto tra i vantaggi e gli svantaggi dell’istruzione diretta.

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Vantaggi Svantaggi

● Fornisce soluzioni e spiegazioni cor- rette.

● I metodi di soluzione possono essere mnemonicamente appresi e poco ricor- dati.

● Guida gli studenti al materiale da ap- prendere.

● Scoraggia l’apprendimento che va oltre l’istruzione.

● Identifica le caratteristiche critiche ne- gli esempi.

● Impedisce agli studenti di testare l’ade- guatezza della loro comprensione.

● Rende efficiente il tempo, riducendo l’incertezza e la ricerca irrilevante.

● L’elaborazione dell’istruzione verbale può costituire un peso di comprensione.

● Riduce le richieste della memoria di la- voro create dalla gestione del problem- solving.

● Divide l’attenzione quando più fonti di informazione non sono integrate.

Lungi dal difendere il completo ritorno all’istruzione diretta, Lee e Anderson so- stengono che la tecnica didattica interagisce con altri fattori nell’ambiente di appren- dimento.

● La guida didattica aiuta gli studenti inesperti, ma non beneficia gli studenti esperti – e, in effetti può diventare un ostacolo. Questo è chiamato effetto inversione della competenza.

● L’auto-spiegazione può migliorare l’apprendimento, a condizione che le spiega- zioni stesse siano buone. Gli studenti poveri non offrono molte buone spiegazioni di ciò che hanno imparato, e così non si impara molto dalle loro auto-spiegazioni.

● La pratica del problem-solving è migliore per gli studenti più esperti, mentre pas- sare attraverso esempi concreti è meglio per studenti inesperti. In ogni caso, tutta- via, gli esempi non possono essere troppo difficili – cioè, dovrebbero essere co- struiti per ottimizzare (non massimizzare o minimizzare) il peso cognitivo che ca- ricano sul discente.

● Quando gli studenti sono incoraggiati a esprimersi con i propri metodi di soluzione di un problema, è importante che condividano i loro metodi con altri studenti. Que- sto approfondisce la comprensione degli studenti dello spazio del problema, ma dà anche loro l’opportunità di apprendere le migliori soluzioni da altri studenti.

Quando agli studenti sono dati esempi concreti, l’apprendimento è migliore se questi esempi sono accompagnati da spiegazioni didattiche, piuttosto che da auto- spiegazioni.

Potete vedere dove porta tutto ciò. L’istruzione diretta non è necessariamente su- periore all’apprendimento per scoperta o viceversa. La migliore istruzione combina gli approcci (è possibile ascoltare la vostra nonna che diceva: “Per questo avete bi- sogno di un assegno di ricerca?”). Lee e Anderson giustificano un periodo di “attività

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di invenzione” che offra l’opportunità di un apprendimento per scoperta poi seguita da istruzione diretta.

Va detto, come avvertimento, che quasi tutte queste ricerche riguardano l’appren- dimento della matematica. Non è affatto chiaro come sarebbe una generalizzazione ad altri ambiti educativi. La generalizzazione è probabilmente più grande nel campo delle scienze, forse meno in letteratura, negli studi sociali e in arte.

5. AUTO-REGOLAZIONE DELL’APPRENDIMENTO

Nella scuola elementare e secondaria, molto dell’apprendimento avviene all’in- terno della classe. Gli studenti hanno compiti per casa, ma la maggior parte di ciò che si suppone debbano apprendere è trasmesso, in qualche modo, da un insegnante che – anche in un contesto più radicale di “apprendimento per scoperta” – controlla il processo di apprendimento. Questo non è tanto il caso dell’università, dove il do- cente farà una serie di lezioni, ma lascerà agli studenti molto apprendimento da rea- lizzare dal proprio libro di testo. Io non svolgo metà del materiale in lezioni e mi aspetto che gli studenti di Introduzione alla Psicologia lo facciano attingendo al libro di testo. Alcuni di questi contenuti non voglio insegnarli: preferisco insegnare loro qualcosa di diverso. Così gli studenti universitari hanno da imparare molte cose da soli o, forse, in gruppi di studio, il che significa che devono controllare i propri pro- cessi di apprendimento. E questo li può mettere nei guai.

L’auto-regolazione dell’apprendimento va sotto il termine generale di metaco- gnizione – vale a dire, la cognizione sulla cognizione. Non solo conosciamo le cose, sappiamo di conoscerle; e non ci limitiamo solo ad imparare, sappiamo come il pro- cesso di apprendimento procede e possiamo usare questa conoscenza per aiutarci ad acquisire nuove conoscenze. In parole povere: se monitoriamo e controlliamo il no- stro apprendimento, siamo in grado di imparare di più, meglio, più velocemente e farlo durare più a lungo.

La metacognizione sulla memoria va sotto il nome tecnico di metamemory, che ha una serie di aspetti, appartenenti alle diverse fasi di elaborazione della memoria (si veda Nelson & Narens, 1990; Dunlosky et al., 2007; Bjork et al., 2013).

● Codifica (o acquisizione):

○ Giudizi sulla facilità di apprendimento: Lo studente deve giudicare quanto sia difficile l’argomento che sta per dover essere imparato.

○ Giudizi di apprendimento avvenuto (JOL): lo studente deve giudicare quanto bene il processo di apprendimento sta procedendo e se capisce davvero quello che sta imparando.

● Archiviazione (o ritenzione):

○ Giudizi sulla sensazione-di-sapere (FOK): lo studente deve essere in grado di giudicare se ha realmente la padronanza della materia.

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● Recupero

○ Giudizi sulla fonte di monitoraggio: lo studente deve essere in grado di giudicare dove ha imparato il materiale – da un testo autorevole o da Internet, per esempio.

○ Fiducia nelle risposte recuperate: lo studente deve avere qualche idea circa la correttezza della risposta.

Il problema è che le persone non sono necessariamente capaci ad esprimere questi giudizi. Ad esempio, come ho già detto, gli studenti credono erroneamente che con- centrare (cramming) lo studio o evidenziare il testo siano aiuti efficaci all’apprendi- mento – ciò non è vero ma questi stessi giudizi sono influenzati da convinzioni circa l’apprendimento non sempre corrette, da euristiche che non garantiscono una rispo- sta corretta e, francamente, da una serie di illusioni che influenzano la memoria tanto quanto influenzano la percezione.

Una cosa che sappiamo è che, in media, gli studenti universitari semplicemente non dedicano abbastanza tempo a studiare al di fuori della classe. Questo avviene in parte perché hanno tanto altro da fare – lo svolgimento di campagne politiche, ag- giornare la loro pagina di Facebook, praticare stage finanziati, seguire l’ultima po- stazione dei loro amici su Twitter, andare alle partite di calcio, uscire per appunta- menti dal Giovedì fino la Domenica sera. In parte, perché non hanno i genitori in grado di verificare se hanno fatto il loro dovere – o di far rispettare un coprifuoco; e in parte, perché semplicemente non credono di avere bisogno di farlo.

Bjork et al. concludono con un elenco di domande frequenti da parte degli stu- denti che vogliono sapere come studiare:

● “Qual è il formato del test imminente?”

Risposta: essi devono studiare come se si trattasse di un esame scritto.

● “È una buona idea studiare copiando i propri appunti?”

Risposta: No, ma è una buona idea studiare ri-organizzandoli.

● “Funziona concentrare l’apprendimento?”

Risposta: No, se si vuole ricordare il materiale dopo l’esame.

● “Come mai ho fatto molto peggio di quanto mi aspettassi?”

Risposta: Perché si è sottovalutato quello che si era appreso attraverso lo studio.

● “Quanto tempo dovrei dedicare allo studio?”

Risposta: Tanto tempo quanto se ne dispone, a patto di utilizzare il tempo in modo produttivo.

Per una rassegna di fattori che influenzano l’auto-regolazione dell’apprendi- mento, vedere Bjork et al., (2013).

Riferimenti

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