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Dove si trova il Delirious Museum? A New York con Joseph Cornell

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Academic year: 2022

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Dove si trova il Delirious Museum? A New York con Joseph Cornell

La Visitatrice è a New York con una vecchia copia della prima edizione di Delirious Museum. È convinta che proprio qui, in quella che è la capitale del xx secolo, dovrebbe riuscire a sperimentare in prima persona lo scambio reciproco tra la città e il museo descritto dall’autore. New York

compare nel volume, ma in modo disarticolato, con dei riferimenti alla Art of This Century di Peggy Guggenheim e alla spirale del Guggenheim sulla Fifth Avenue.

In questo esordio di xxi secolo Manhattan custodisce sicuramente altri frammenti e tracce residue di questo museo nascosto. Dove si trova oggi, sull’isola, il Delirious Museum? La Visitatrice decide di provare a rintracciarlo in mezzo al frastuono della città: lei è al tempo stesso un occhio, una macchina fotografica e una testimone.

Pensa che forse il Delirious Museum si possa annidare nel reticolo urbano, l’inesorabile schema rettilineo delle strade e dei viali che, da Houston Street, a sud, sale per Midtown e Central Park giungendo fino a Harlem; lo cerca percorrendo a piedi una sorta di spirale partendo da Union Square, in particolare dal Decker Building (conosciuto anche come Union Building), che per un periodo fu la sede della Factory di Andy Warhol e dello studio di Saul Steinberg. Warhol era chiaramente interessato alle suggestioni che questo luogo evocava, e scrisse:

Fred ci fece notare che lo Union Building era menzionato in un racconto di Francis Scott Fitzgerald intitolato May Day, ed effettivamente all’ottavo piano c’erano ancora gli uffici del partito comunista. Quando andammo a vedere com’era prendemmo l’ascensore con Saul Steinberg, che ci disse di aver preso in affitto l’ultimo piano.

Forse questo episodio era solo una fantasia di Warhol. Deirdre Bair, nella biografia di Steinberg, racconta infatti:

Il palazzo acquisì un ulteriore fascino quando [Steinberg] seppe che la Factory di Andy Warhol si trovava tre piani sotto il suo studio, anche se si rammaricava di non incontrare mai Warhol o qualcuno dei suoi frequentatori abituali in ascensore poiché non avevano i suoi stessi orari di lavoro.

In ogni caso è innegabile che fosse uno spazio occupato da mondi differenti.

La Visitatrice aveva letto due resoconti distinti di persone che avevano passeggiato con Steinberg e Warhol, e ciascuna diceva che accompagnarli era come vedere la città con occhi nuovi. Non riesce a collocare questi ricordi ma spera che in qualche modo, ripercorrendo o quantomeno incrociando i loro passi, riuscirà a trovare il Delirious Museum avviluppato nel tessuto della città.

Forse è proprio lì, ma in questa passeggiata non riesce a individuarlo. Osserva molte cose. Ben

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presto trova uno scontrino sul marciapiede su cui è scritta la parola ludens, quasi un invito a giocare. Si rende anche conto del fatto che le entrate di servizio e i loro anonimi spazi interstiziali nelle strade laterali sono concepiti per restare invisibili, una città dietro la città, come caverne scavate nelle pareti di un dirupo. Ma nulla le fornisce la prova che sta cercando: la sovrapposizione tra la città e il museo. Forse il Delirious Museum è una vittima dell’incessante gentrificazione di New York, o forse i suoi occhi europei semplicemente non sanno scorgerne i segni.

Cerca rifugio nei musei veri e propri e nella passeggiata tra i due Whitney: la “vecchia” versione, nella parte settentrionale di Manhattan, e il nuovo edificio di Renzo Piano a Downtown, affacciato sull’Hudson. Di recente ha letto un’intervista all’artista Liam Gillick. Alla domanda su quale fosse il suo museo preferito e perché, Gillick ha risposto così:

Il mio lavoro è una costante sfida ai musei. Non è questione di preferenze, ma di una serie di domande, richieste e continui slittamenti.

La Visitatrice pensa che alcuni di questi slittamenti potrebbero fornirle un indizio sulla posizione del Delirious Museum.

Il Whitney su Madison Avenue è ora noto come Met Breuer, dal nome del suo architetto Marcel Breuer (offerta consigliata per il biglietto d’ingresso: venticinque dollari), ma prima di venire assorbito dal Metropolitan Museum of Art, era la terza iterazione del Whitney Museum of American Art. […]

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La nestra dall’esterno e la vista dall’interno del Met Breuer (ex Whitney Museum), New York.

Progetto di Marcel Breuer, 1966.

Questo edificio è una specie di fortezza eretta all’angolo della strada, come a occupare una posizione da baluardo difensivo. La Visitatrice attraversa un ponte sospeso sullo spazio interrato che costeggia la facciata – praticamente un fossato come si usava nei castelli – e poi varca un portale da cui

sembra poter calare da un momento all’altro un’enorme saracinesca. Le mura esterne del museo si articolano perlopiù come dei vuoti: la forma di una ziggurat sezionata e capovolta aumenta il senso di inespugnabilità.

La Visitatrice alza gli occhi e vede una grande finestra strombata che si protende dalla facciata in alto sopra di lei. L’ingresso è privo di atrio, l’elemento che negli ultimi anni è diventato un simbolo del museo di arte contemporanea. Una volta dentro, si fa strada nell’edificio attraverso una serie di ascensori e una scalinata delimitata da due pareti, e raggiunge le sale espositive. Il soffitto a

cassettoni e l’elegante schema di illuminazione conferiscono un certo carattere architettonico all’ambiente; ogni piano è un unico grande silo, un contenitore orizzontale riempito di arte.

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In queste sale, l’unico elemento di disturbo all’ortodossia del white cube è l’intrusione delle finestre:

imbattersi in una di quelle che si affacciano sulla 75th Street è uno choc per la Visitatrice, che avverte l’irruzione di un linguaggio alieno nel raffinato vocabolario del museo moderno più convenzionale.

Sporgendo ad angolo verso lo spazio esterno, le finestre rompono il piano della parete, e i vetri trapezoidali vanno a moltiplicare quest’e etto disorientante. La vista da questa prima apertura da cui si affaccia la Visitatrice è limitata: viene incorniciato soltanto un frammento della facciata

dell’edificio di fronte. In una sala piena di quadri disposti in le ordinate e di disegni incorniciati, la struttura tridimensionale di queste finestre è un’evidente deformazione: lo scarto tra i due lati impone una falsa prospettiva su una veduta in realtà bidimensionale. La profondità non è tale da consentire di entrare nello spazio che si proietta verso l’esterno, ma guardandola dalla sala la finestra sembra una stanza separata e distorta.

A cosa serve dunque questa stanza inutilizzabile, inabitabile? Per la Visitatrice è un modo per

tornare improvvisamente al mondo esterno: a prescindere dai contenuti della sala, dalle esposizioni, dalle opere, questa stanza- nestra le ricorda che si trova in una fortezza, e da qui sta guardando fuori, dove si vede la vita quotidiana della città. Il fatto di incorniciare con una finestra quel

panorama di finestre trasforma la Visitatrice in una voyeuse, quasi fosse la stessa vetrata dietro cui è immobilizzato James Stewart nella Finestra sul cortile di Alfred Hitchcock: anche la Visitatrice

guarda fuori quasi desiderando che si verifichi qualche evento significativo. In realtà questa apertura è solo una delle tante che dalle varie sale si affacciano sulla strada latera

Il piano più alto tra quelli dedicati alle esposizioni ospita l’unica finestra che guarda su Madison Avenue, molto più grande delle altre. Qui la vista cambia man mano che la Visitatrice si muove nello spazio: all’inizio l’effetto è simile a quello prodotto dalle finestre più piccole, una scena incorniciata della facciata del prospiciente palazzo residenziale. Ma spostandosi su una linea che corre parallela rispetto alla finestra strombata, la vista si apre su un panorama urbano fatto di tetti e cisterne dell’acqua: e lei non guarda più tanto come una voyeuse ma con la prospettiva di un cineoperatore;

vede la scena contenuta in una sorta di diorama urbano. È l’occhio ciclopico di un museo che reagisce alla luce rifratta e riflessa della città.

Se la Visitatrice girasse a destra del Met Breuer, potrebbe recarsi al Metropolitan Museum of Art e sedersi sugli ampi gradini che si affacciano sulla Fifth Avenue; salendo ancora, potrebbe visitare il Guggenheim Museum, l’ostile reazione di Wright al modernismo europeo e al reticolo di New York.

Invece svolta a sinistra, verso sud, scende su Madison Avenue per entrare in un mondo di vetro e cromature dove, nei riflessi che rimbalzano sulle vetrine, l’architettura si smaterializza nel trionfo del commercio. Diciotto isolati più a sud, svolta sulla 57th Street per vedere l’edificio dove ai numeri 28-30 sorgeva Art of This Century, ma il suo percorso è ostacolato dalla massiccia presenza della polizia intorno alla Trump Tower: è il giorno che precede la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente. […]

La Visitatrice si dirige verso l’ingresso posteriore del moma sulla 54th Street. […] In questo spazio di circolazione interna si avverte la promessa di una collezione museale ma, al di là della folla in la per vederla, di essa non vi è traccia. Per tutto l’edificio si articola una serie di intriganti vuoti, ma è necessario comprare un biglietto (altri venticinque dollari) per poter salire la scalinata che dà accesso alle opere esposte. Questa iterazione del moma, progettata dall’architetto giapponese Yoshio Taniguchi, è stata inaugurata nel 2004, ed è costituita da una serie di sale in stile white cube disposte intorno a un intrico di rampe di scale e ascensori. Qui le vedute sull’esterno sono molto meno controllate di quelle del Met Breuer e non instillano affatto il desiderio di illusione suggerito da quelle finestre, fungendo piuttosto da semplici panorami incorniciati. Questi incontri con il mondo esterno culminano al quinto piano con una spettacolare vista sul giardino delle sculture, vertiginosa

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per altezza e dimensioni. Nel 2009 Charlotte Klonk ha scritto:

Non è più concepibile che il museo sia presentato come un santuario isolato sconnesso dal resto del mondo. Per questa ragione, molti più musei d’arte oggi hanno finestre, collocate in modo tale che lo spettatore possa situare la sua esperienza artistica in una sorta di contesto geografico.

Per certi versi al moma quel contesto diventa il moma stesso.
La Visitatrice si domanda se a questo punto non debba riorientarsi: considera la possibilità di chiedere al banco informazioni se nelle sale sia esposto Object (Roses de vent) di Joseph Cornell, un’opera del 1942. Questa scatola contiene ventuno bussole incassate in un ripiano di legno che ricopre una serie di scomparti con vari oggetti trovati e carte nautiche: somiglia al tempo stesso a una guida per viaggiatori e all’espositore di un gioielliere. La Visitatrice si rende conto che, solo visualizzandolo nella propria mente, questo oggetto ha già svolto la propria funzione di orientamento, e capisce inoltre che Cornell è l’ombra sulle cui tracce sta camminando nel corso di questo suo viaggio.

Le passeggiate dell’artista in giro per la città sono il precedente illustre della sua ricerca

dell’inafferrabile Delirious Museum, ma più che i musei, a Cornell interessavano soprattutto i parchi e la ferrovia sopraelevata, destinata presto a scomparire. C’era tuttavia qualcosa nel suo modo di vedere, nel suo vagabondare per le strade di New York, che combaciava perfettamente con il progetto della Visitatrice, che dal moma percorre la 54th Street fino alla Third Avenue: era proprio qui che fino al 1955 passava la ferrovia sopraelevata, la cosiddetta “El”, soggetto di due film realizzati da Cornell e Stan Brakhage. Il tratto di ferrovia che passava per Manhattan stava per chiudere, quando Cornell si rese conto di voler documentare non solo l’architettura, ma la propria personale relazione con il contesto dell’El. Brakhage raccontò:

Amava stare sulle banchine dell’El sulla Third Avenue, dove si era vicini alle finestre delle operaie e le si poteva vedere al lavoro.

Cornell sottopose a Brakhage l’idea del film e poi gli spedì sei gettoni della metropolitana, in modo che potesse cominciare i sopralluoghi, a cui seguì un pacco contenente una bobina di pellicola. Fu a questo punto che Brakhage capì che gli era stato commissionato il lavoro, ma il film a colori di quattro minuti che realizzò a Cornell non piacque: mostrava i riflessi cangianti di specchi e vetri delle carrozze del treno e delle stazioni, più che le vedute negli appartamenti adiacenti che tanto lo affascinavano.

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Stan Brakhage, Wonder Ring, 1955.

Nel 1947, durante una visita a un laboratorio cinematografico, Cornell parlò proprio dell’effetto fugace e della visione affascinante del rapido succedersi di stanze che sarebbero rimaste per sempre inaccessibili:

Salii con un montacarichi e vidi di sfuggita diversi piani non serviti dal comune ascensore (fuori servizio) pieni di lavoratori in sudici stabilimenti industriali.

E ancora, durante un viaggio verso Utopia Parkway, dove viveva:

Guardo dentro ogni salotto delle case a schiera di Hillside quando ci passo davanti con la macchina: sono tutte uguali ma una luce diversa illumina ogni stanza e ogni ingresso.

Indugiare su queste vedute avrebbe dissolto il mistero che si parava di fronte a un’occhiata fugace.

Sulla El la visuale era sempre disturbata dal movimento e guardare dai finestrini dei treni in corsa offriva un’altra serie di vedute su degli spazi privati. Brakhage distribuì il film che aveva girato con il titolo Wonder Ring e, sebbene non soddisfacesse le richieste di Cornell, era in tema con un’altra delle sue ossessioni. Ecco un’annotazione dell’artista risalente al 1944:

La sensazione che un momento particolare del passato stesse trasformando un momento presente con un non so che di imprecisato ma significativo. […] Una volta a Bayside durante un viaggio in macchina sentivo un’insopportabile tristezza nel passare davanti a una casa blu + da Westhampton una casa in particolare evocava un mondo di emozioni tanto inatteso quanto significativo.

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Joseph Cornell, Gnir Rednow, 1970.

È forse per questo che, alcuni anni dopo, Cornell rimise mano al film di Brakhage, e nel 1970 ne presentò una nuova versione intitolata Gnir Rednow: invece di rielaborare la pellicola, ne presentò una proiezione speculare aggiungendo alla fine la scritta: “In the end is the beginning” (Nella fine è l’inizio). Riconosceva in tal modo il lavoro di Brakhage e invitava alla visione dei due film l’uno accanto all’altro, un omaggio alla sopraelevata con i suoi treni che correvano avanti e indietro su linee parallele sopra la strada.

Oggi la Visitatrice può solo immaginare quelle vedute che Cornell voleva documentare. Tenta con un esperimento mentale di riprodurre il viaggio in ferrovia mentre scende per la Third Avenue. […]

Pubblichiamo un estratto da Delirious Museum di Calum Storrie (Johan & Levi editore) Immagine di copertina: ph. Robin Garnier da Unsplash

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