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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Corso di specializzazione in Patologia Clinica
Sede di Genova
EFFICACIA DELLA LENALIDOMIDE NEI PAZIENTI CON
SINDROME MIELODISPLASTICA E PRESENZA CONCOMITANTE DI
del(5q) E MUTAZIONE DEL GENE JAK2:
CASO CLINICO E REVISIONE DELLA LETTERATURA
Relatore: Prof. Gino Tripodi
Correlatore: Dott. Pellegrino Musto
Tesi di Specializzazione di:
Dott.ssa Filomena Nozza
Anno Accademico
2015/2016
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a Papà, Mamma E Canio
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INDICE
1.
INTRODUZIONE
31.1 Sindromi mielodisplastiche 3
1.2 Inquadramento diagnostico delle sindromi mielodisplastiche: aspetti clinici e molecolari 5
1.3 Classificazione WHO e stratificazione prognostica 11
1.4 Sindrome 5q- 20
1.5 Neoplasie Mieloproliferative Croniche: diagnosi, classificazione prognostica e trattamento 23
1.6 Terapia farmacologica 28
1.7 Lenalidomide 31
2.
SCOPO DELLA TESI
333.
MATERIALI E METODI
34 3.1 metodiche di laboratorio 344.
RISULTATI
375.
DISCUSSIONE
416.
CONCLUSIONI
477.
BIBLIOGRAFIA
48- 3 -
1.
INTRODUZIONE
1.1 Sindromi Mielodisplastiche
Le Sindromi Mielodisplastiche (SMD) rappresentano un gruppo eterogeneo di disordini clonali del midollo osseo caratterizzato da un’emopoiesi inefficace di tipo displastico e, da un rischio variabile di trasformazione in Leucemica Mieloide Acuta (LMA) [1].
L’emopoiesi mielodisplastica nasce da un danno genetico iniziale, spontaneo o indotto da cause ambientali, che induce modifiche dell’attività proliferativa, aumento dell’apoptosi e rende il clone mielodisplastico suscettibile a successive mutazioni. L’avvento di nuove
mutazioni spiega poi la progressione a fasi più avanzate della malattia fino alla sua eventuale trasformazione in LMA [1].
Le SMD interessano soggetti al di sopra dei 70 anni di età con tasso annuale tra 3-12 su 100.000 abitanti/anno, con prevalenza del sesso maschile [2]. L’incremento dell’incidenza degli ultimi decenni può essere dovuto da un lato al progressivo aumento dell’età media delle popolazioni occidentali e dall’altro all’affinamento delle metodiche diagnostiche [2]. Le SMD possono insorgere de novo o essere secondarie all’esposizione di agenti tossici, quali il benzene o sostanze tossiche ambientali legati a esposizione lavorativa, o possono insorgere dopo trattamento di radioterapia e chemioterapia.
Il modello eziopatogenetico più comune considera l’esistenza di un’interazione tra
esposizione a fattori di rischio e predisposizione genetica. Vi sono infatti evidenze del ruolo svolto non solo da cancerogeni esterni, ma anche da una predisposizione genetica basata sul polimorfismo di geni che controllano i sistemi del DNA repair e la stabilità cromosomica [1].
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Gli individui possono, inoltre, differire nella struttura e nell’attività di proteine enzimatiche coinvolte nel processo di detossificazione; queste differenze possono spiegare la differente sensibilità individuale agli agenti mutageni. Nel processo multistep che conduce alla successiva evoluzione in LMA vanno considerati i meccanismi che favoriscono l’evoluzione del clone displastico quali i fenomeni di neoangiogenesi, la secrezione di
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1.2 Inquadramento diagnostico delle Sindromi Mielodisplatiche: aspetti clinici e molecolari
Le SMD rappresentano un capitolo problematico dell’ematologia sia per quel che concerne la diagnosi, sia per gli indirizzi terapeutici. Il sospetto clinico di mielodisplasia va posto ogni qualvolta ci si trovi di fronte a una citopenia, più spesso anemia, in un soggetto adulto-anziano. Qualora in anamnesi risulti un’esposizione ad agenti cancerogeni ambientali o a una pregressa radio/chemioterapia, il sospetto clinico di SMD viene ulteriormente rafforzato.
Il sospetto clinico di SMD è, dunque, strettamente correlato all’età del paziente nonché, alla presenza di anemia, macrocitosi, neutropenia e piastrinopenia. L’anemia, definita come livello di emoglobina (Hb)<13g/dL per il maschio e <12g/dL per la femmina, e i sintomi ad essa correlati, costituiscono il motivo che induce più frequentemente a sospettare una SMD; occorre sempre escludere cause secondarie quali disordine cronico, carenza marziale, deficit vitaminico, protesi valvolari. Nel paziente anziano l’anemia,
spesso, è parte di uno scenario clinico complesso in cui più cause possono coesistere e contribuire a determinare i sintomi. In corso di SMD l’anemia è più spesso normocitica o
macrocitica, senza reticolosi periferica. La macrocitosi può essere lieve o marcata e, impone indagini diagnostiche approfondite poiché può essere il primo e unico segno di mielodisplasia, precedendo il dispiegarsi della malattia vera e propria talvolta anche di anni [3]
Talvolta il quadro di esordio di una SMD è una neutropenia isolata che perdura nel tempo e tende a un progressivo peggioramento. All’esordio circa il 2/3 dei pazienti sono neutropenici. La neutropenia viene definita come riduzione del numero assoluto dei neutrofili circolanti (<1500/mm3). In relazione alla conta granulocitaria, la neutropenia può essere definita lieve, moderata, grave. Questa classificazione ha un significato clinico nel
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predire il rischio di infezioni batteriche, in quanto per valori <1000/ mm3 il rischio è elevato; infatti, le infezioni rappresentano l’esordio clinico di un’elevata percentuale di SMD. L’esclusione di cause secondarie di neutropenia è di fondamentale importanza, e, qualora fossero escluse è necessaria l’esecuzione di indagini di secondo e terzo livello quali l’agoaspirato midollare, la biopsia ossea e lo studio del cariotipo.
La piastrinopenia isolata è una modalità poco frequente di presentazione di una sindrome mielodisplastica all’esordio; viene definita come riduzione della conta piastrinica al di sotto di 100.000/mm3 ed è classificata in lieve, moderata e severa a seconda del valore. Di fronte a una piastrinopenia isolata occorre escludere cause farmacologiche, autoimmuni, una coagulazione intravasale disseminata o una microangiopatia, una malattia virale, un’epatopatia cronica con ipertensione portale e sequestro splenico [3].
Nel percorso diagnostico di una SMD l’esecuzione dell’agoaspirato midollare e della biopsia ossea permettono di valutare la presenza di anomalie morfologiche. Il campione midollare è indispensabile per la diagnosi di certezza di SMD.
Dal punto di vista morfologico la displasia si presenta con alterazioni morfologiche a carico del nucleo e del citoplasma evidenziabili nello striscio di sangue periferico e midollare. Fondamentale è la quantificazione delle cellule blastiche, espressa come valore percentuale, che rappresenta un parametro di riferimento per un corretto inquadramento diagnostico e prognostico. L’aumento della percentuale dei blasti in corso di follow-up da inoltre ragione dell’esistenza di un continuum tra la condizione di mielodisplasia e
leucemia acuta, che rappresenta la fase finale di circa il 30% delle MDS con evoluzione clonale [4]. La diagnosi corretta delle SMD richiede oltre alle informazione della morfologia anche delle informazioni ottenute dall’analisi del cariotipo.
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Il cariotipo, previo bandeggio cromosomico, consente di rilevare riarrangiamenti numerici (monosomie e trisomie) e strutturali (delezioni, traslocazioni e inversioni). Dal punto di vista biologico ciò che differenzia le SMD dalle altre neoplasie ematologiche è la prevalenza di delezioni cromosomiche rispetto ad altri riarrangiamenti come le traslocazioni bilanciate che si riscontrano tipicamente nelle leucemie acute e nelle neoplasie mieloproliferative. L’aplo-insufficienza, intesa come riduzione del prodotto dl gene mancante fino al 50% del normale, è un risultato biologico ampiamente confermato nelle delezioni associate a SMD, in particolare nella Sindrome 5q- e ha un ruolo fondamentale nell’inattivazione di geni determinanti nella patogenesi della malattia, inclusi
geni soppressori [5]. A questo proposito è importante ricordare che il processo di inattivazione genica nelle SMD è correlato anche a fenomeni epigenetici quali metilazione e acetilazione [6]. Oltre alla citogenetica convenzionale altre metodiche molecolari svolgono un ruolo importante per la definizione diagnostica delle SMD.
La FISH (Fluorescence in Situ Hybridization) è utilizzata sia per la ricerca di alterazioni criptiche nei nuclei in interfase a completamento di una citogenetica incompleta o fallita, sia per definire con maggiore precisione la grandezza del clone includendo le cellule non proliferanti; inoltre, con la FISH l’interpretazione molecolare è più precisa poiché vengono utilizzate sonde specifiche per singoli geni.
Lo SNP array è un tipo di analisi che permette di ottenere un cariotipo molecolare ad altissima risoluzione che utilizza sequenze polimorfe a copertura dell’intero genoma. L’approccio è informativo per identificare la perdita o l’acquisizione di marcatori genomici
(CNV, copy number variations) [7]; si ottengono informazioni su un particolare meccanismo che, in seguito a ricombinazione somatica, vede perdita di eterozigosi senza perdita di materiale genomico. Nelle SMD CNV neutrali a livello del cromosoma 4q, 7q, 11q, sono associate rispettivamente a mutazioni dei geni TET2,EZH2,CBL [8-10].
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La dimostrazione di un’anomalia citogenetica costituisce un elemento determinante per la
diagnosi di SMD perché dimostra clonalità della patologia e identifica anomalie citogenetiche che rappresentano fattori predittivi indipendenti della risposta e dell’andamento clinico [11,12]. Il monitoraggio del cariotipo durante il follow-up clinico
terapeutico, inoltre, è necessario per definire la qualità della risposta alle diverse terapie, dimostrare un’eventuale malattia residua e rilevare l’insorgenza di altre anomalie cromosomiche che possono precedere l’evoluzione in LMA [13,14]. Diversi studi
dimostrano che l’insorgenza di un’anomalia cromosomica in un clone displastico sia un evento tardivo; ciò potrebbe spiegare in parte il riscontro di un numero più elevato di alterazioni cromosomiche nelle SMD in fase avanzata e/o durante la progressione della malattia. La citogenetica convenzionale, infatti, mostra un cariotipo normale nel 40%-50% delle nuove diagnosi di SMD [15]. I pazienti con cariotipo normale hanno una prognosi favorevole, benché, alcuni di essi mostrano una rapida progressione in leucemia acuta; è ipotizzabile che in tale gruppo il clone displastico presenti anomalie citogenetico-molecolari non rilevabili con le metodologie routinariamente utilizzate.
Le alterazioni più frequenti nelle mielodisplasie interessano i cromosomi 5, 7, 8, 20, 17. Il tipo e la distribuzione delle anomalie sono riportate nella figura 1. La delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 può presentarsi isolata o nell’ambito di un
cariotipo complesso e rappresenta il riarrangiamento più frequente nelle SMD de novo ed è osservata nel 15% dei casi totali e nel 30% dei casi con cariotipo alterato [11,15,16]. La presenza isolata di questa alterazione è associata nel 10% dei casi a un’entità clinica ben
definita nella WHO denominata “Sindrome5q-” che verrà dettagliatamente approfondita nei paragrafi successivi.
La monosomia-delezione del cromosoma 7 è riscontrabile come unica anomalia in circa l’8% dei pazienti adulti con SMD de novo [15,16,17], nel 50% dei bambini con SMD e nel
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30% dei pazienti con SMD secondaria; in queste ultime, del(7q) si associa ad altre anomalie del cariotipo. Tale anomalia è correlata a esposizione ad agenti tossici mutageni e la prognosi è sempre sfavorevole. La monosomia del cromosoma 7 identifica anche una particolare entità clinico-biologica del giovane; è più frequente nel sesso maschile e spesso è caratterizzata da leucocitosi, piatrinopenia e epatosplenomegalia [18]. Il midollo ipercellulare presenta una displasia trilineare. La monosomia del 7 è l’anomalia
cromosomica più spesso osservata nei pazienti candidati a sviluppare patologie quali l’anemia di Fanconi, la neurofibromatosi di tipo 1 e la neutropenia congenita grave.
La trisomia del cromosoma 8 rappresenta una delle alterazioni più frequenti nelle SMD; Può essere costituzionale o acquisita e la sua percentuale può variare durante il decorso della malattia. Si pensa che questa alterazione possa determinare una variazione globale del livello di espressione di alcuni geni [19]; è stata osservata un’up-regolazione del gene c-MYC che potrebbe essere responsabile dell’incremento della proliferazione e della sopravvivenza delle cellule con trisomia dell’8 rispetto alla controparte normale.
La delezione del braccio lungo del cromosoma 20 si osserva nel 5-7% dei casi di SMD con alterazioni del cariotipo [15,20]. Le caratteristiche dei pazienti con del(20q) sono quelle delle SMD a basso rischio e lunga sopravvivenza, se presente come unica anomalia non è sufficiente per formulare diagnosi certa di SMD.
L’anomalia a carico della banda 11q23 si osserva in circa il 5% dei casi con SMD e si
associa spesso a cariotipo complesso sia nelle forme de novo, sia nelle forme secondarie [12,21]. Altre alterazioni coinvolgono il cromosoma Y, la sua perdita è associata ad un incremento dell’età del paziente, non è un’alterazione specifica delle SMD e, quindi, se
presente come unica anomalia non è sufficiente per formulare diagnosi certa di SMD in assenza di evidente displasia. La prognosi è buona [22]. Tra le alterazioni a prognosi sfavorevole emergono la delezione del braccio corto del cromosoma 17 con conseguente
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perdita di un allele del gene oncosoppressore TP53, clinicamente associata a malattia aggressiva con resistenza al trattamento e breve sopravvivenza [23], e alterazioni a carico del braccio lungo del cromosoma 3 associate ad alterazione del gene EVI [24] che codifica per fattori trascrizionali e esercita un ruolo di controllo dei meccanismi che regolano la differenziazione cellulare.
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1.3 Classificazione WHO e stratificazione prognostica
Il primo sistema classificativo delle SMD fu messo a punto nel 1982 da un gruppo di ematologi europei e americani (French American-British, FAB) [25] sulla base di criteri esclusivamente citologici e fissava nel 30% di blasti midollari il limite tra SMD e LMA. (Tab.1)
TAB.1 CLASSIFICAZIONE FAB SINDROMI MIELODISPLASTICHE
PATOLOGIA BLASTI CONTA MONOCITARIA SIDEROBLASTI *
Anemia refrattaria Sangue periferico <1% midollari <5%
Normale <3% -
Anemia refrattaria con sideroblasti ad anello (ARSA)
Sangue periferico <1% Midollari <5%
Normale >15% -
Anemia refrattaria con eccesso di blasti (AREB) sangue periferico <5% midollari 5-20 % Normale +/- - Anemia refrattaria con eccesso di blasti in trasformazione leucemica (AREB-T) sangue periferico>5% midollari 20-30% Normale +/- - Leucemia mielomonocitica cronica (LMMC) sangue periferico <5% midollari 5-20% >1X109 +/- -
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La classificazione FAB non permetteva di predire la sopravvivenza o la probabilità di evoluzione in LMA nei singoli pazienti per mancanza di informazioni citogenetiche e molecolari. Successivamente, nel 1999, è stata introdotta la classificazione della World Health Organization (WHO) [26,27] che ha apportato importanti modifiche in quanto è stato ridotto al 20% il valore soglia di blasti midollari per discriminare tra SMD e LMA, è stato eliminato il gruppo AREB-t, si è distinta la leucemia mielomonocitica cronica dalle altre SMD includendola in un nuovo sottogruppo, è stata identificata la “sindrome 5q-” come entità a se stante, è stato introdotto il sottotipo delle SMD inclassificabili (SMD-U) e si è distinta l’anemia refrattaria dalla citopenia refrattaria con displasia multilineare. Nel 2008 la classificazione WHO è stata ulteriormente revisionata [28] con l’introduzione della citopenia refrattaria con displasia unilineare (RCUD), nel cui contesto si distinguono l’anemia refrattaria (AR), la trombocitemia refrattaria (TR) e la
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PATOLOGIA SANGUE
PERIFERICO
MIDOLLO
Citopenia refrattaria con displasia unifilare (CRDU) Anemia refrattaria (AR) Neutropenia refrattaria (RN) Piastrinopenia Refrattaria(RT)
Citopenia unilineare o bilinere (1)
Assenza o rari blasti <1%
Displasia unilineare; >=10% delle cellule della linea interessata
Blasti < 5%
Anemia refrattaria con sideroblasti ad anello (ARSA)
Anemia Assenza di blasti
Solo displasia eritroide Blasti < 5%
Sideroblasti ad anello <=15% Citopenia Refrattaria con
displasia multifilare
Citopenia
Assenza o rari blasti <1%
Assenza di corpi di auer Monociti< 1X 109/L
Displasia > 10% delle cellule in 2 o più linee mieloidi
Assenza di corpi di auer Sideroblasti ad anello +/-15%
Anemia refrattaria con eccesso di blasti 1 (AREB 1) Citopenie Blasti<5% Assenza di corpi di Auer Monociti< 1X 109/L
Displasia unilineare o multilinere Blasti 5-9%
Assenza di corpi di Auer
Anemia refrattaria con eccesso di blasti 2 (AREB 2)
Citopenie Blasti 5-19% Monociti< 1X 109/L Corpi di Auer (2)
Displasia unilineare o multilinere Blasti 10-19%
MDS non classificabili (U-MDS) Citopenie
Assenza o rari blasti <1% 3)
Assenza di corpi di Auer
Displasia non equivoca in <10% delle cellule in una o più linee mieloidi
Blasti < 5%
MDS associate a del(5q) isolata Anemia
Assenza o rari blasti<1%
Conteggio piastrinico di solito normale o aumentato
Megacariociti con nucleo ipolobulato normali o aumentati
Blasti < 5% Isolata del (5q)
Assenza di corpi di Auer
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La classificazione WHO 2008 è stata ulteriormente revisionata, l’edizione rivisitata del 2016 rappresenta un tentativo di considerare nuovi dati clinici, prognostici, morfologici, immunofenotipici e genetici emersi dal 2008 a oggi. In particolare, per le SMD la classificazione è stata rivisitata introducendo perfezionamenti nell’interpretazione morfologica, nella valutazione delle citopenie e dell’accumularsi delle alterazioni genetiche. Se la citopenia rappresentava una condizione indispensabile per la diagnosi di mielodisplasia, la nuova classificazione si basa principalmente sul grado di displasia e sulla percentuale dei blasti, mentre, le citopenie hanno un impatto minore sulla classificazione delle SMD. (Tab. 3).
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Le stesse anomalie citogenetiche elencate nel WHO 2008 definiscono la diagnosi di SMD nei pazienti citopenici anche in assenza di displasia morfologica alla diagnosi [29]. La presenza della trisomia del cromosoma 8,-Y o del(20q) non è considerata sufficiente per formulare la diagnosi di SMD in assenza di caratteristiche morfologiche diagnostiche di SMD. La presenza isolata della delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 rimane l’unica alterazione citogenetica e molecolare che definisce un particolare sottotipo
di SMD. Dati recenti hanno dimostrato che la presenza di un’alterazione cromosomica aggiuntiva a del(5q) non modifica la prognosi, pertanto, la diagnosi di “sindrome 5q-” può essere fatta anche in presenza di un’anomalia aggiuntiva salvo che l’alterazione sia
-7/del(7q) [30-32]. Così come nelle altre neoplasie mieloidi, anche nelle SMD sono ricorrenti le mutazioni puntiformi; i geni più frequentemente mutati nelle SMD sono: SF3B1, TET2, SRSF2, ASXL1, DNMT3A, RUNX1, U2AF1, TP53 e EZH2 [70,71]; poiché, in alcuni casi, le mutazioni acquisite sono identiche a quelle osservate in individui sani, la presenza isolata di mutazioni somatiche non è considerata diagnostica di SMD e, ulteriori studi sono necessari per migliorare la gestione e il monitoraggio nei pazienti con specifiche mutazioni [33,34]. La mutazione di TP53 è associata a malattia aggressiva ed è predittiva di una cattiva prognosi e perdita di risposta alle lenalidomide nei pazienti con del(5q) isolata, pertanto la sua identificazione è raccomandata in questi pazienti al fine di identificare un sottogruppo con prognosi sfavorevole nel gruppo di SMD a prognosi molto buona [35-37].
Nelle SMD con sideroblasti ad anello (SMD-RS) è ricorrente la mutazione del gene SF3B1 che sembra essere un evento primario nella patogenesi delle SMD e correlare con una buona prognosi [72-74]. Nell’attuale classificazione, se viene identificata la mutazione di
- 16 - SF3B1 la diagnosi di SMD-RS può essere fatta anche con sideroblasti ad anello è < 5%, mentre, in assenza di mutazione è richiesta una percentuale pari ad almeno 15%.
Le SMD possono essere suddivise in differenti gruppi di rischio sulla base della sopravvivenza e dell’incidenza di evoluzione in LMA. La stratificazione prognostica
segue le indicazioni del Sistema Internazionale di Scoring (International Prognostic Scoring System-IPSS) [39], che, in relazione alla percentuale dei blasti, alle caratteristiche del cariotipo e al numero di citopenie periferiche, attribuisce uno score di rischio a ciascun paziente. (Tab. 4)
TAB. 4 CLASSI DI RISCHIO IPSS (International Prognostic Scoring System)
La stratificazione prognostica IPSS definisce 4 classi di rischio (rischio basso, intermedio-1,intermedio-2, e alto) caratterizzate da una prognosi progressivamente peggiore e da una probabilità crescente di evoluzione in LMA.
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Le anomalie del cariotipo vengono distinte in tre gruppi di differente significato prognostico (favorevole, intermedio e sfavorevole) (Tab.5).
Tab. 5 CLASSI DI RISCHIO DELLA CITOGENETICA IPSS
Il sistema IPSS ha avuto un’ampia validazione clinica e ha anche costituito la base per linee-guida terapeutiche [40], tuttavia, è stato rielaborato considerando altri parametri quali l’esigenza trasfusionale e il grado di anemia come importanti fattori prognostici insieme
alle categorie citogenetiche indicate dall’IPSS [41]. La più moderna stratificazione prognostica ha ulteriormente rivisitato il ruolo della citogenetica nell’IPSS-R [42] (Tab.6)
che continua a basarsi su citogenetica, numero di citopenie periferiche, percentuale di blasti midollari ma con una citogenetica ampliata da tre a cinque sottogruppi.
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Sono stati introdotti i sottogruppi di SMD a prognosi molto buona corrispondenti ai cariotipi -Y e del(11q), e SMD a prognosi molto sfavorevole corrispondenti a cariotipi complessi con più di 3 anomalie strutturali (Tab. 7); a completamento, altre variabili che possono influenzare la prognosi, sono rappresentati dai livelli serici della lattatodeidrogenasi (LDH), della ferritina, della β2-microglobulina, nonché della fibrosi midollare e dalle comorbidità del paziente [42].
Ulteriori importanti contributi alle precisazioni prognostiche sono fornite dalla definizione del cariotipo monosomico e dall’integrazione dell’analisi molecolare della del(5q). Si
definisce cariotipo monosomico un cariotipo anormale che contiene o la perdita di due autosomi, o la perdita di un autosoma associato a un riarrangiamento strutturale; questa nuova definizione deriva da una sottoclassificazione dei cariotipi complessi e la prognosi è molto sfavorevole [43].
Nel versante delle SMD a prognosi favorevole, in particolare quelle associate a del(5q) isolata, il decorso viene cambiato dalla presenza alla diagnosi di un clone midollare con mutazione a carico del gene TP53 [44]. Il clone con la mutazione si espande nell’evoluzione leucemica e non è più sensibile a lenalidomide, la molecola che è capace di
indurre un miglioramento della crasi eritrocitaria e togliere la dipendenza dalle trasfusioni nei paziento con MDS e del(5q) isolata.
- 19 - TAB. 7 CLASSI DI RISCIO CITOGENETICA IPSS-R
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1.4 Sindrome 5q-
La delezione del braccio lungo del cromosoma 5 è un’aberrazione cromosomica che può essere associata a diverse condizioni cliniche e molecolari; può presentarsi come unica anomalia o in combinazione con altre alterazioni del cariotipo, rappresenta il riarrangiamento citogenetico più frequente nelle SMD de novo ed è osservata nel 15% dei casi totali e nel 30% dei casi con cariotipo alterato [11,15,16].
La presenza isolata di questa anomalia è associata a un’entità clinico-ematologica specifica ben definita nella classificazione WHO denominata “sindrome 5q-”. E’ più frequente nei soggetti di sesso femminile (1:2) e mostra un picco di incidenza tra i 60 e i 65 anni. I soggetti presentano generalmente un’anemia macrocitica, il midollo è ipercellulare con
caratteristiche mielodisplastiche a carico delle serie megacariocitaria.
Quando isolato, il 5q- correla con una buona prognosi, mentre la sua presenza in un cariotipo complesso conferisce una prognosi severa con elevato rischio di trasformazione leucemica; quindi, il contesto citogenetico in cui si configura un 5q- è di fondamentale importanza ai fini del corretto inquadramento clinico-ematologico del paziente in termini di stratificazione prognostica e conseguente scelta terapeutica. Pertanto, la diagnosi di 5q- è imprescindibile dal contesto genomico in cui l’evento molecolare si inserisce.
Malgrado il 5q- sia caratterizzato da una grande variabilità di estensione da paziente a paziente anche nell’ambito della stessa malattia [45], gli studi in FISH hanno identificato
due distinte regioni di delezione minima comune (Fig.2), che possono essere perse simultaneamente o alternativamente. In particolare nella sindrome del 5q- è tipicamente deleta la banda 5q33 mentre nelle altre SMD/LMA è deleta la banda 5q31. L’analisi di FISH, sebbene molto valida nella valutazione della dimensione del clone e nell’identificazione di cloni molto piccoli, non può essere considerata un surrogato alla
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citogenetica convenzionale alla diagnosi, perché, sebbene permetta di identificare la del(5q) non documenta se l’anomalia è isolata o associata ad altre anomalie.
Da questo punto di vista l’analisi di SNP potrebbe dare informazioni più utili ma non
documentare la presenza di traslocazioni bilanciate aggiuntive, pertanto a tutt’oggi il mezzo più potente per la diagnosi dell’entità WHO con del(5q) isolata rimane la
citogenetica convenzionale.
La FISH è stata di enorme aiuto nella caratterizzazione molecolare del 5q-, permettendo di identificare i geni critici nell’aploinsufficienza determinata dalla perdita del 5q, quali
interleuchina 5 (IL)-5, l’IL-4, l’IL-9, l’IL-3, l’IRF1 (Interferon regulatory Factor) e l’EGR1 (Early Growth Factor).
I principali geni localizzati all’interno della regione comune di delezione (CDR) e
potenzialmente responsabili della patogenesi della sindrome 5q- sono rappresentati dal gene SPARC (secreted protein, acidic, costei-rich, osteonectin) e dal gene RPS14 (ribosomal protein S14). La perdita del gene SPARC determinerebbe un aumento dell’adesione delle cellule staminali emopoietiche allo stroma midollare favorendo l’espansione del clone alterato a discapito della controparte cellulare normale; la riduzione
di espressione del gene RPS14, invece, sarebbe responsabile del blocco della differenziazione cellulare in senso eritroide [53-54]. L’andamento dei pazienti con sindrome 5q- è particolarmente favorevole, con lunga sopravvivenza, buona risposta alla terapia con eritropoietina e lenalidomide e ridotta percentuale di trasformazione leucemica. È di fondamentale importanza riconoscere questa forma di SMD poiché è stato dimostrato che un farmaco, la lenalidomide, è in grado di determinare una indipendenza trasfusionale nei due terzi di questi pazienti, talora con remissioni citogenetiche complete [55]. Si sottolinea che altre forme di SMD con del(5q) isolata o in associazione ad altre anomalie possono rispondere al trattamento con lenalidomide [56]. Il monitoraggio del cariotipo
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durante il follow-up clinico-terapeutico è necessario per valutare la risposta alle diverse terapie e rilevare l’insorgenza di altre anomalie cromosomiche che possono precedere l’evoluzione in LAM [13,14].
Fig.2 A. Cariotipo con bandeggio G di un caso di SMD con del(5q) isolata. B. Ideogrammadel cromosoma 5 con indicazione dei geni rilevanti nella patogenesi e appartenenti alla regione comune di delezione. C. Esempio di FISH in nuclei in interfase con una sonda fluorescente che riconosce il gene RPS14 deleto nelle cellule con del(5q): 2 segnali=nucleo con 5q normale; 1 segnale=nucleo con del(5q) D. Esempio di cariotipo con SNP array in un caso con del(5q) isolata.
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1.5 Neoplasie Mieloproliferative Croniche: aspetti clinici e molecolari
Le neoplasie mieloproliferative croniche (NPM), sono disordini clonali della cellula staminale emopoietica caratterizzati dalla proliferazione di una o più linee mieloidi. Le NPM comprendono la Leucemia Mieloide Cronica (LMC), caratterizzata dalla presenza del cromosoma Philadelphia (Ph) e dal gene di fusione BCR- ABL prodotto dalla nota traslocazione t(9;22), e le NPM negative per la presenza del cromosoma Philadelphia quali Policitemia Vera (PV), Trombocitemia Essenziale (TE) e Mielofibrosi (MF) [58]. La classificazione diagnostica WHO delle neoplasie mieloproliferative è stata influenzata dalla recente scoperta che le anomalie genetiche sono influenti nella patogenesi e che gli aspetti istologici del midollo osseo possono essere usati come criteri classificatori [59]. Gli aspetti fondamentali sono l’incremento della massa eritrocitaria per la PV, l’aumento del numero delle piastrine per la TE e l’eccesso di fibrosi midollare per MF, tutte caratteristiche che si associano a
iperproliferazione midollare, predisposizione alla trombosi e all’emorragia, nonché al rischio di trasformazione leucemica a lungo termine [59].
Dal punto di vista molecolare vengono diagnosticate sulla base della presenza di mutazioni puntiformi a carico di diversi geni. La mutazione V617F del gene Janus Kinase 2 (JAK2) è uno dei criteri diagnostici principali per le NPM Philadelphia negative. È mutato in quasi la totalità delle PV e nel 50% dei pazienti con TE e MF. Nel 2005 numerosi gruppi di ricercatori hanno descritto la presenza di una mutazione puntiforme acquisita del gene JAK2 nella maggior parte dei pazienti affetti da MPN [60-63]. JAK2 è una tirosina chinasi citoplasmatica, essenziale per la trasduzione dei segnali intracitoplasmatici. La più comune mutazione di JAK2, coinvolge l’esone 14 e consiste nella sostituzione amminoacidica di una valina al posto di una fenilalanina in posizione
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617 del gene stesso (V617FJAK2)[61]. In un secondo tempo sono state descritte altre mutazioni di JAK2 a carico dell’esone 12, presenti in alcuni casi di PV [64]. Dal punto di vista biochimico, quando JAK2 è mutato la proteina è costituzionalmente attivata ed è responsabile dell’attivazione di citochine che inducono a loro volta una
iperproliferazione midollare di globuli rossi e piastrine [61].
La PV ha un’ incidenza maggiore negli uomini con età mediadi 60 anni. Per la definizione della diagnosi è necessario che i valori dell’emoglobina siano superiori a
18,5 g/dL negli uomini e superiori a 16,5g/dL nelle donne e che vi sia un documentabile aumento del volume dei globuli rossi, presenza di JAK2 V617F. Sono invece criteri minori biopsia del midollo osseo che mostra ipercellularità; eritropoietina sierica al di sotto dei livelli di riferimento. I sintomi non specifici sono vertigini, mal di testa, disturbi visivi, parestesia, sudorazione [59]. I pazienti con PV corrono il rischio di emorragie e sanguinamenti gastrointestinali. La terapia della policitemia vera cerca di evitare la prima comparsa e/o reiterazione di complicanze trombotiche e sanguinamento, di evitare la trasformazione in leucemia acuta o mielofibrosi post-PV, gestire le complicanze e le situazioni di rischio. Il primo approccio terapeutico è il salasso, il secondo è costituito da basse dosi di aspirina per ridurre gli eventi trombotici. Nei pazienti ad alto rischio di trombosi, è indicato il trattamento citoriduttivo con idrossiurea. In uno studio di fase II del Polycythemia Vera Study Group (PVSG) in pazienti precedentemente non trattati, l’idrossiurea è stata in grado di ridurre l’incidenza di trombosi rispetto ai controlli storici trattati con salasso. L’idrossiurea può riportare
più o meno gravi effetti collaterali: macrocitosi, neutropenia, ulcere cutanee o mucose, rash cutaneo secchezza della pelle, cistite, febbre e sintomi gastrointestinali. Inoltre, è stato riportato un lieve aumento del cancro della pelle e non è possibile escludere una possibile relazione tra terapia a lungo termine con idrossiurea e la trasformazione
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leucemica. Farmaci alternativi all’idrossiurea sono gli interferoni, il radiofosforo, il busulfano e il pipobromano. L’interferone pegilato alfa 2, come è stato dimostrato in
studi di fase II, possiede efficacia clinica misurata in termini di normalizzazione della proliferazione, mancanza di eventi vascolari e diminuzione del carico allelico JAK2V617F. Nel complesso la tollerabilità è buona, con tasso di sospensione della terapia per tossicità inferiore al 10%.
L’anagrelide può controllare la conta piastrinica, tuttavia gli effetti collaterali e la
potenziale tendenza emorragica in associazione con aspirina controindicano il suo utilizzo nella PV.
L’interferone alfa pegilato dovrebbe essere considerato in pazienti con età inferiore a
65-70 anni. Basse dosi di busulfano rappresentano una opzione terapeutica di seconda linea nei pazienti anziani che necessitano di modificare la terapia iniziale per grave intolleranza o estrema refrattarietà [65].
La TE è caratterizzata da iperplasia megacariocitica. La trombocitosi e l’attivazione piastrinica rappresentano le caratteristiche bio-cliniche della TE. La clinica della TE è prevalentemente trombotica per la iperfunzione piastrinica, più raramente emorragica quando la piastrinosi è eccessivamente elevata. La TE ha un’incidenza maggiore nelle
giovani donne o ad un’età media di 60 anni. La diagnosi necessita la presenza di conta piastrinica superiore a 450X 109/L, biopsia del midollo osseo che mostra proliferazione dei megacariociti con aumento del numero di elementi maturi di grandi dimensioni. (Tab. 8) [66].
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Tab. 8 criteri WHO 2016 per la trombocitemia essenziale
I pazienti presentano sintomi trombotici e/o emorragici. Le principali cause di morte sono le complicanze trombotiche o emorragiche correlate alla malattia ematologica e la trasformazione in mielofibrosi o leucemia acuta sia per la storia naturale della malattia o, possibilmente, per l’uso di agenti chemioterapici. Nella TE l’obiettivo della terapia è di
evitare gravi complicanze trombotiche e sanguinamento. Il trattamento della TE deve essere adattato in base al profilo del rischio vascolare [67]. Nei pazienti a basso rischio può essere usata aspirina a basse dosi se sono presenti disturbi microvascolari, nei pazienti ad alto rischio è indicato l’uso di idrossiurea in tutti i casi [68].
Nella terapia di seconda linea, per grave intolleranza all’idrossiurea o resistenza clinico-ematologica, dovrebbe essere considerato un farmaco non leucemogeno come anagrelide o interferone nei pazienti di età inferiore ai 70 anni. Busulfano non è raccomandato nei pazienti giovani a causa del rischio di leucemia e dovrebbe essere considerato nei pazienti anziani [66].
La MF è una malattia con morbilità e mortalità molto più elevata rispetto a PV e TE. La mediana di sopravvivenza è di circa sei anni, quelli ad alto rischio non superano i tre anni ed ha un aumentato rischio di trasformazione leucemica [69]. I segni clinici sono grave anemia, epatosplenomegalia, gravi disturbi addominali, più rari ematopoiesi
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extramidollare non epato-splenica, ipertensione portale. La diagnosi necessita della presenza di proliferazione megacariocitica accompagnata da aumentata cellularità del midollo osseo con proliferazione granulocitaria e diminuita eritropoiesi; devono essere assenti i criteri diagnostici che permetterebbero di classificare la patologia come policitemia vera, come leucemia mieloide cronica BCR-ABL1 positiva, come sindrome mielodisplastica o altre neoplasie mieloidi; deve esserci la dimostrazione della presenza JAK2V617F o in mancanza di un marcatore clonale, è necessario escludere che la fibrosi del midollo osseo sia secondaria ad infezioni, disordini autoimmuni o altre infiammazioni croniche o anemia o splenomegalia [59]. L’obiettivo della terapia è quello di prolungare la sopravvivenza dei pazienti, l’unica possibilità è il trapianto
allogenico di cellule staminali, che è però associato a elevato rischio di mortalità. La terapia cerca di migliorare la qualità della vita trattando anemia, splenomegalia e altri sintomi costituzionali [65].
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1.6 Terapia farmacologica
Nei casi di SMD il giudizio clinico deve assumere un peso fondamentale nella scelta di misure terapeutiche, le quali non potranno che essere calibrate paziente per paziente. Le opzioni terapeutiche per ogni singolo caso di SMD sono pesantemente influenzate dall’età del paziente e da fattori di ordine prognostico.
La trasfusione di eritrociti e piastrine costituisce il cardine della terapia di supporto, insieme alla terapia ferrochelante, alla profilassi e al trattamento delle complicanze infettive.
I farmaci approvati per il trattamento dei pazienti affetti da SMD comprendono i fattori di crescita emopoietici (eritropoietina e G-CSF), farmaci demetilanti quali azacitidina, ferrochelanti quali deferasirox e deferoxamina e deferiprone e immunomodulanti quali lenalidomide e talidomide [75].
L’eritropoietina (EPO) costituisce il più importante fattore regolatore dell’eritropoiesi, modulandone l’attività proliferativa e i processi apoptotici e rappresentando un
fondamentale fattore di sopravvivenza cellulare. Un terzo dei pazienti affetti da SMD possiede valori di EPO endogena non adeguati rispetto al grado di anemia. Gli studi clinici finora condotti hanno evidenziato che questi pazienti hanno le maggiori possibilità di rispondere a un trattamento con r-HUEPO. I fattori di crescita G-CSF e GM-CSF sono stati usati in profilassi, per migliorare la neutropenia e ridurre il rischio infettivo. Nel 76-90% dei pazienti trattati è stato possibile ottenere un incremento significativo del leucociti e in particolare dei granulociti [76,77].
E’ noto che il sovraccarico marziale correla con una prognosi peggiore nei pazienti
trasfusione-dipendenti. La terapia ferrochelante costituisce il principale strumento terapeutico per prevenire e correggere il sovraccarico marziale, in quanto l’organismo da
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solo non riesce a eliminare il ferro in eccesso. Ad oggi, i farmaci ferrochelanti sono tre: deferoxamina,deferasirox e deferiprone [78].
I farmaci inibitori delle DNA-metiltransferasi sono agenti in grado di bloccare i processi di ipermetilazione responsabili del silenziamento genico; è stato dimostrato che un’aumentata metilazione del DNA a carico di geni oncosoppressori rappresenta uno dei meccanismi molecolari responsabili della genesi e progressione dei tumori, ematologici e non, e sembra ampiamente coinvolta nella patogenesi delle SMD [79,80]. L’Azacitidina è stata indagata nell’ambito delle SMD per la sua azione demetilante; l’AZA, infatti, sembra interferire con l’attività dell’enzima DNA-metiltransferasi bloccando definitivamente i processi di
ipermetilazione. Il suo impiego clinico per il trattamento delle SMD è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 2004 [81].
Gli approcci immunoterapeutici comprendono l’induzione di risposte immunitarie sistemiche anti-tumore; la modulazione delle risposte immunitarie regolatorie dell’ospite e dei meccanismi soppressori mediati dalle cellule tumorali (mAb, agenti immunomodulanti), la somministrazione al paziente di effettori linfocitari anti-tumore, (trasferimento adottivo dei linfociti T anti-tumore) [82].
La talidomide è il capostipite della famiglia degli agenti immunomodulanti , è dotata di attività pleiotropica sulle diverse componenti cellulari dell’emopoiesi normale e neoplastica e su altri elementi coinvolti nei processi di proliferazione e differenziazione, in particolare sulle cellule del microambiente midollare [83].
Negli anni novanta è stata dimostrata l’attività anti-TNF e anti-angiogenica della
talidomide e questo ne ha successivamente suggerito l’utilizzo nella patologia neoplastica. La talidomide è risultata particolarmente efficace nel trattamento del mieloma multiplo e, attualmente, rappresenta uno dei farmaci di riferimento per tale patologia [84]. In virtù della dimostrazione in vitro di ulteriori capacità di immunomodulazione, di regolazione
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dell’espressione di molecole di adesione che determinano i contatti tra le diverse componenti cellulari midollari e, soprattutto, di inibizione dell’apoptosi cellulare, a partire
dal 2001 sono stati condotti numerosi studi clinici di fase 1/2 sull’efficacia della talidomide in pazienti con SMD [85,86]; la durata della risposta si è rivelata molto variabile, in genere è stata mantenuta con un appropriato aggiustamento della dose, dopo averne individuato quella minima efficace; il principale problema dell’uso della talidomide nei pazienti con SMD è rappresentato dagli elevati effetti collaterali osservati, talora gravi e occasionalmente permanenti che sono causa dell’interruzione del trattamento per una
elevata percentuale di pazienti anche in caso di risposta positiva.
Un analogo della talidomide che è stato a lungo testato e risulta più potente e più sicuro è la lenalidomide.
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1.7 Lenalidomide
La lenalidomide è un farmaco immunomodulante, con potente attività di inibizione del TNF-alfa (Tumor Necrosis factor-alpha), VEGF (Vascular Endoteliumgrowth factor), IL-6 (interleuchina-6) e dell’angiogenesi, in grado di stimolare la proliferazione T cellulare, l’attività citotossica delle cellule NK e la produzione di IL-2 e
interferone-gamma (Fig.3). La sua efficacia è stata dimostrata, nell’ambito delle SMD, da uno studio preliminare in fase I/II, in cui la lenalidomide è stata somministrata al dosaggio di 10 mg/die in 10 su 12 pazienti con alterazione citogenetica del(5q) rendendoli trasfusione indipendenti e inducendo risposte citogenetiche complete e parziali [87]. La FDA ha approvato nel Dicembre 2005 l’uso delle lenalidomide per i pazienti affetti da SMD trasfusione-dipendenti a rischio basso o intermedio, con del(5q)(q13-33) isolata o associata a altre anomalie del cariotipo [88]. Poiché la lenalidomide viene prevalentemente eliminata per via renale, sono necessari un attento monitoraggio della funzionalità d’organo ed eventuali aggiustamento del dosaggio in pazienti con valori di
creatinina elevati e/o ridotta clearance. Non è noto con quali modalità la lenalidomide esplichi la sua azione nei soggetti mielodisplastici e, in particolare, in quelli con delezione 5q; al di là di possibili attività sul microambiente midollare, è evidente che il farmaco esercita un importante effetto sul clone neoplastico. La modulazione indotta da lenalidomide sui geni oncosoppressori dotati di attività proteinchinasica, modulante i processi apoptotici o codificanti per proteine ribosomiali, potrebbe essere alla base della particolare sensibilità al trattamento di questi pazienti, fornendo in tal modo un nuovo possibile esempio di “target-therapy” molecolare [89].
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2.
SCOPO DELLA TESI
Lo scopo di questa tesi è quello di studiare gli effetti della Lenalidomide, farmaco ampiamente utilizzato nel trattamento dei pazienti con “sindrome 5q-”, nei pazienti che presentano altre alterazioni molecolari, nello specifico la mutazione del gene JAK2 al fine di poter essere in grado, in futuro, di identificare i pazienti con caratteristiche cliniche e molecolari peculiari per i quali utilizzare un trattamento mirato.
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3. MATERIALI E METODI
3.1 Metodiche di laboratorio
CITOGENETICA CONVENZIONALE
Il sangue midollare prelevato mediante puntato sternale o da cresta iliaca giunge in laboratorio in provette contenente sodio citrato come anticoagulante. Viene effettuata la conta dei globuli bianchi mediante sistema automatizzato e vengono allestite colture cellulari con 25 milioni di cellule circa in 10 ml di terreno in sterilità. Di routine presso il nostro laboratorio si utilizza il terreno RPMI 1640 (LifeTechnologies) già completo di glutammina, arricchito al 30% con siero fetale bovino scomplementato, glutammina (200mM) e penicillina-streptomicina (100mM).
Vengono allestite, quando possibile, due colture diverse per paziente e incubate a 37oC in incubatore al 5% di CO2 per 24 ore. Il giorno dopo al termine della coltura si aggiunge la colchicina alla concentrazione finale di 10µg/ml che determina il blocco delle cellule in profase, prometafase, o metafase. Le cellule vengono raccolte mediante centrifugazione a bassa velocità, e sottoposte a trattamento con soluzione ipotonica con KCl 0,075 M per 15 minuti a 37oC, quindi centrifugate e risospese nel fissativo formato da una miscela di metanolo/acido acetico glaciale 3:1, il pellet ottenuto dopo centrifugazione viene sospeso in un volume di fissativo pari a 5 ml ed utilizzato per l’allestimento dei vetrini.
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ALLESTIMENTO VETRINI
Il pellet ottenuto alla fine del processo viene opportunamente diluito, quindi due gocce della sospensione cellulare vengono fatte cadere sul vetrino in presenza di umidità, l’espansione della goccia viene assecondata attraverso un movimento delicato del vetrino,
quando il fissativo viene completamente evaporato il vetrino è fissato su una piastra calda, osservato in contrasto di fase e lasciato in stufa a 60oC per tutta la notte.
COLORAZIONE, BANDEGGIO G E ANALISI CITOGENETICA
I vetrini vengono bandeggiati attraverso il passaggio in una soluzione di HCl 0,2 N per sei minuti e, successivamente, dopo essere stati sciacquati sotto acqua corrente vengono messi in una soluzione di SSC1X a bagnomaria a 60oC per 23 minuti.
In seguito, ogni vetrino viene colorato in 4ml di colorante Wright per circa tre minuti. I vetrini vengono analizzati al microscopio Nikon, il sistema di cariotipizzazione utilizzato è Genikon.
Il cariotipo è scritto secondo le linee guida europee e ISCN.
FISH
La FISH viene eseguita su pellet citogenetico previo trattamento con pepsina, formaldeide e disidratazione con alcoli. Per la valutazione del clone 5q- sono state utilizzate le sonde di DNA LSI EGR1/5q31 e LSI CSF1R/5q33 (Vysisi/abbot) e sono stati analizzati 200 nuclei per ciascuna sonda.
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ESTRAZIONE DI DNA
Il DNA è stato estratto a partire da cellule di sangue periferico con l’estrattore automatico
MagNA Pure Compact (Roche). Il DNA estratto viene quantizzato mediante misura spettrofotometrica con NanoDrop 2000/2000c che permette l’analisi di acidi nucleici e proteine. La purezza dell’estrazione viene valutata automaticamente tramite un software che misura la relazione tra l’assorbanza e la concentrazione di DNA usando la formula 1OD260= [50μg/ml].
METODICA PCR REAL TIME
Per lo screening mutazionale è stata impiegata la High Resolution Melting.
Si tratta di una tecnica di Real Time che consente di scoprire rapidamente e con efficienza variazioni genetiche come SNPs, mutazioni e metilazioni fornendo sensibilità e specificità. Per quantificare in modo sensibile, accurato e altamente riproducibile la mutazione di JAK2V617F è stata utilizzato il kit MutaQuant (Ipsogen).
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4.
RISULTATI
Nella nostra casistica di laboratorio la presenza della delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 è stata identificata come unica anomalia o all’interno di un
cariotipo complesso nei pazienti con sospetto diagnostico di SMD o LMA. È stato approfondito il caso clinico di un paziente con diagnosi di SMD in cui tale alterazione risultava associata alla presenza della mutazione del gene JAK2, rara nelle SMD.
Il paziente è afferito al nostro istituto nel 2011, con diagnosi di SMD associata a del(5q) e TE associata a mutazione puntiforme di JAK2, effettuata presso un altro centro. Il valore dell’ Hb era 66g/L, il volume corpuscolare medio 100 Fl, la conta delle piastrine 1,021L, i
globuli bianchi 4,6X109/L; non presentava ingrandimento delle milza e del fegato. L’aspirato midollare era moderatamente ipercellulare con numerosi megacariociti atipici caratterizzati da nuclei ipolobulati (Fig.4).
Fig. 4 (A e B) IMMAGINI DELL’ASPIRATO MIDOLLARE ALLA DIAGNOSI CHE MOSTRANO MEGACARIOCITI ATIPICI E MONOLOBULATI (A: ingrandimento 50;B: ingrandimento 100)
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La percentuale dei blasti era inferiore all’1% e la colorazione di Perls non evidenziava la presenza di sideroblasti ad anello. L’esame istologico del midollo confermava una marcata iperplasia di megacariociti morfologicamente anomali simili a quelli osservati nella sindrome 5q- con una leggera riduzione dell’eritropoiesi e granulopoiesi e blasti<5%. La citogenetica convenzionale e la FISH confermavano la presenza della delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 come unica anomalia nel 25% delle metafasi analizzate e nel 50% dei nuclei in interfase (Fig. 5).
Fig.5 delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 al cariotipo e in FISH
Dal punto di vista molecolare il paziente era positivo per la mutazione puntiforme di JAK2 identificata mediante RT-PCR con un carico allelico pari al 26,28%. In accordo con le indicazioni WHO è stata elaborata diagnosi di SMD con del(5q) isolata e mutazione di JAK2.
Il paziente, inizialmente, è stato sottoposto a trasfusione di globuli rossi e trattamento con anagrelide scarsamente tollerata.
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A ottobre 2011 il paziente ha iniziato il trattamento con lenalidomide con una posologia di 10mg al giorno per 21 giorni, ogni 28 giorni, somministrati per via orale. Il farmaco è stato ben tollerato, la conta piastrinica si è ridotta abbastanza rapidamente e i livelli di emoglobina si sono normalizzati nel primo mese di trattamento. Nei tre mesi successivi si è normalizzata la conta dei bianchi con scomparsa della macrocitosi (Fig. 6).
Fig. 6 cambiamento dei valori dell’Hb, WBC, e piastrine durante il trattamento con lenalidomide. Cambiamenti della risposta molecolare e citogenetica per del(5q) e molecolare per JAK2
Dopo 6 mesi di trattamento con lenalidomide il paziente ha ottenuto una remissione completa citogenetica e molecolare per la delezione interstiziale del braccio lungo del
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cromosoma 5 e una marcata riduzione del carico allelico del gene JAK2 (0,0215%) (Fig. 6).
L’analisi dell’aspirato midollare ha mostrato l’assenza di megacariociti atipici, riduzione
della cellularità midollare e la presenza di infiltrazioni linfocitarie policlonali sparse (Fig7).
Fig. 7 immagine dell’aspirato midollare dopo 6 mesi di trattamento con lenalidomide con assenza di megacariociti atipici
Da controlli effettuati nei mesi successivi i valori ematologici erano nella norma e il monitoraggio della mutazione di JAK2 evidenziava una remissione molecolare completa con il carico allelico praticamente nullo (0%). Nell’ultimo follow-up, dopo due anni di trattamento con lenalidomide i valori ematologici erano stabili e la mutazione di JAK2 non più rilevata.
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5.
DISCUSSIONE
La presenza concomitante della mutazione V617F del gene JAK2 e della delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 è un evento piuttosto raro nelle SMD ma è possibile che si manifesti in pazienti con caratteristiche morfologiche, molecolari, cliniche e citogenetiche peculiari. In questi pazienti la terapia farmacologica con la lenalidomide induce una risposta rapida, profonda e duratura, anche se il meccanismo di azione rimane ancora non completamente noto.
La delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 è l’anomalia citogenetica più frequente nelle SMD; la lenalidomide induce una risposta molecolare nei pazienti con mielodisplasia a medio e/o basso rischio in cui del(5q) è presente come unica anomalia; la lenalidomide ha anche un’attività nelle MF con mutazione JAK2V617F generando una
significativa risposta clinica e una riduzione del carico allelico di JAK2V617F [51,52]. La mutazione di JAK2 è ampiamente osservata nei pazienti con neoplasie mieloproliferative negative per la fusione BCR/ABL con una percentuale pari al 95% nelle PV e 40-60% nelle TE e MF. Tra le altre neoplasie mieloidi, è ricorrente con alta frequenza nelle anemie refrattarie con sideroblasti ad anello associate a una marcata trombocitosi; la mutazione di JAK2 è invece infrequente nelle mielodisplasie. La mutazione di JAK2 è stata identificata per la prima volta in sei pazienti con SMD associata a del(5q) isolata, cinque dei quali presentavano citopenia refrattaria con displasia multilineare e uno anemia refrattaria con sideroblasti ad anello [90]. I casi in cui era presente la mutazione di JAK2 mostravano elevati valori di piastrine e globuli bianchi, nonché un’aumentata cellularità midollare. Due di questi pazienti, trasfusione dipendenti, non rispondevano a trattamento con eritropoietina , mentre idrossicarbamide o anagrelide sono state utilizzate in pazienti con elevata trombocitosi.
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In un’altra serie di studi della Mayo Clinic, la mutazione di JAK2 è stata identificata in 5 su
78 pazienti con diagnosi di SMD e del(5q) isolata, il carico allelico variava dall’1% al 10% e non aveva effetti rilevanti né clinici, né prognostici [91]; uno di questi pazienti mostrava, inoltre, la mutazione a carico del gene MPL. Lo stesso gruppo in uno studio successivo ha dimostrato che l’incidenza della mutazione di JAK2 in 138 pazienti con del(5q) inclusi SMD ad alto rischio, leucemie acute e neoplasie mieloproliferative, era di circa il 15%. Geyer at al. hanno dimostrato la presenza della mutazione in eterozigosi del gene JAK2 in 4 di 17 pazienti con nuova diagnosi di SMD associata a del(5q) [92]; solo in uno di questi pazienti del(5q) era presente come unica anomalia; un altro paziente con citopenia refrattaria e displasia multilineare presentava trisomia del cromosoma 8 come anomalia aggiuntiva; gli altri due pazienti, uno con diagnosi anemia refrattaria con eccesso di blasti-2 e uno con diagnosi di SMD correlata alla terapia, mostravano del(5q) nel contesto di un cariotipo complesso.
Tra le neoplasie mieloproliferative, la delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 è raramente riscontrata solo nelle mielofibrosi. In uno studio retrospettivo effettuato su 939 pazienti solo 8 presentavano la delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 e tre di questi anche la mutazione a carico di JAK2 [93]. Tutti e tre questi pazienti avevano cariotipo complesso, soltanto due mostravano una buona risposta al trattamento con inibitori anti-JAK.
La revisione della letteratura ha evidenziato che la presenza della delezione interstiziale isolata del braccio lungo del cromosoma 5 è un evento piuttosto raro anche nei pazienti con diagnosi di TE con mutazione di JAK2 [94]; in questi casi la malattia presenta caratteristiche comuni della TE e della sindrome del 5q-. In un’analisi retrospettiva effettuata in un singolo centro a Hong Kong la frequenza della mutazione di JAK2 è risultata abbastanza alta (3 su 8) nelle donne cinesi anziane con diagnosi di SMD associata
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a delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5, suggerendo un possibile effetto etnico [95]. Due di queste pazienti avevano la “sindrome 5q-” e una citopenia refrattaria con displasia multilineare.
Ingram et al. hanno studiato i pazienti con diagnosi di SMD e presenza concomitante della mutazione di JAK2 e della delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5 da un punto di vista biologico processando colture cellulari di cellule progenitrici così come popolazioni separate di CD34+ con metodiche di citogenetica convenzionale e molecolare [90]. Sebbene, i risultati di questo studio supportano l’ipotesi che alcune cellule CD34+ potrebbero presentare entrambi i difetti genetici, la derivazione genetica dei cloni non è stata indagata; infatti, sebbene questi autori hanno evidenziato che la mutazione di JAK2 potrebbe essere l’evento primario nelle cellule staminali pluripotenti di questi pazienti e
che del(5q) potrebbe essere presente nelle stesse cellule, hanno anche notato che non tutte le cellule positive per del(5q) erano positve per la mutazione di JAK2.
Sokol et al. hanno studiato l’origine clonale della mutazione di JAK2 in un paziente con del(5q) che presentava trombocitosi e livelli normali di emoglobina [96]. Questi autori hanno identificato la presenza di entrambe le lesioni genetiche in una fase precoce della malattia, prima ancora del manifestarsi dell’anemia. Inoltre, sebbene, l’analisi citogenetica mostrava la presenza di del(5q) nel 15-30% delle metafasi analizzate da midollo, la FISH non rivelava la presenza dell’alterazione nelle colonie delle cellule progenitrici
dimostrando, invece, la mutazione di JAK2. In questo studio la mutazione di JAK2 è stata identificata in due diverse cellule staminali pluripotenti che non avevano del(5q) suggerendo che le due lesioni genetiche derivino da cloni indipendenti. L’evidenza che i cloni con la mutazione di JAK2 perdono del(5q) implica l’acquisizione indipendente delle lesioni genetiche in cloni diversi; tuttavia ciò non esclude la possibilità che entrambe le lesioni genetiche potrebbero insorgere in cellule staminali geneticamente instabili.
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Il trattamento con lenalidomide è molto efficace nei pazienti con SMD a basso rischio con del(5q) isolata; tuttavia, l’efficacia della lenalidomide come unico agente terapeutico nei pazienti che oltre a del(5q) presentano anche la mutazione di JAK2 è stata descritta solo in due pazienti [97-99]; è stato interessante notare che oltre ad avere una buona risposta alla lenalidomide questi due pazienti presentavano caratteristiche morfologiche, cliniche e molecolari del tutto simili al caso clinico da noi approfondito, quali, anemia macrocitica, marcata trombocitosi, assenza di splenomegalia, midollo ipercellulare con aumento dei megacariociti atipici ipolobulati, assenza di fibrosi e di sideroblasti ad anello nonché prognosi favorevole.
Per quel che riguarda i pazienti con altri tipi di diagnosi, una transiente risposta ematologica e remissione citogenetica si è avuta solo nelle donne anziane con SMD e presenza concomitante di del(5q) e mutazione di JAK2 [100]. Il trattamento è stato somministrato per 5 mesi ma è stato seguito da progressione con evoluzione clonale. Il trattamento con lenalidomide ha indotto un remissione molecolare e citogenetica in due pazienti con diagnosi di MF positivi per la mutazione di JAK2 due dei quali con del(5q) isolata e uno con monosomia del cromosoma 5 nell’ambito di un cariotipo complesso [101]; un evidente miglioramento dell’anemia è stato osservato in questi pazienti e la splenomegalia, quando presente, si è notevolmente ridotta. Uno di questi pazienti ha ottenuto una risposta citogenetica completa e uno remissione parziale. Il carico allelico di JAK2 è diminuito in due pazienti. La remissione è stata mantenuta per più di un anno in due casi, mentre il terzo paziente ha sviluppato leucemia acuta che non rispondeva al trattamento con lenalidomide. Un paziente con MF successiva a PV con mutazione di JAK2 e del(5q) in un cariotipo complesso non ha risposto al trattamento con lenalidomide, e ha sviluppato un peggioramento della citopenia e della splenomegalia [93].
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Una risposta ematologica completa con miglioramento della fibrosi midollare è stata osservata dopo il trattamento con lenalidomide in una paziente con MF secondaria a TE che al cariotipo presentava come anomalia aggiuntiva a del(5q) la t(1;12) e la mutazione a carico di MPL anziché JAK2. La risposta è durata tre anni sebbene la paziente non ha mai raggiunto una risposta citogenetica e la presenza di del(5q) è stata sempre identificata nei controlli successivi [93].
Le revisione recente della letteratura ha evidenziato lo studio di altri due casi; uno è il caso di una donna di 77 anni con diagnosi di SMD e presenza concomitante di del(5q) e mutazione di JAK2 [99]. La paziente ha iniziato il trattamento con lenalidomide, 10mg/die per 21 giorni ogni 28 giorni e dopo il primo mese di terapia è diventata trasfusione-indipendente. L’unico effetto avverso osservato è stata una neutropenia di grado 3 che è stata gestita co un’interruzione transiente del trattamento e una riduzione della dose alla
ripresa. La paziente ha ottenuto una risposta citogenetica e molecolare completa entro i sei mesi in cui ha ricevuto il trattamento. Dopo un anno la paziente ha mostrato riluttanza nel continuare il trattamento e la lenalidomide è stata interrotta. La paziente ha comunque mantenuto la risposta ematologica nei 5 anni successivi. Questo caso conferma ulteriormente gli effetti benefici del trattamento con lenalidomide nei pazienti con SMD e del(5q) associata a mutazione di JAK2, dimostrando che la risposta può essere mantenuta anche dopo interruzione del trattamento. Nel secondo caso, una donna di 73 anni con le stesse caratteristiche cliniche e morfologiche e molecolari ha ricevuto il trattamento con lenalidomide raggiungendo remissione clinica e molecolare. La mutazione di TP53 correla con un’over espressione della proteina; la paziente, alla diagnosi mostrava una forte localizzazione nucleare di p53 nel 2% delle cellule emopoietiche.[102].
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La paziente, infatti, dopo 92 mesi di trattamento ha mostrato progressione della malattia e aumento della localizzazione nucleare di p53 dal 2% al 10% correlata ad un evoluzione del cariotipo che ha evidenziato la presenza di un’anomalia aggiuntiva a del(5q);
L’evoluzione leucemica ricorre in circa il 10% dei pazienti con del(5q) isolata. Va comunque sottolineata l’importanza e la necessità di effettuare lo screening per la mutazione e/o delezione di TP53 in questi pazienti a basso rischio cosi come raccomandato dalla WHO 2016, in quanto la presenza di questa alterazione è predittrice di prognosi sfavorevole con rapida evoluzione della malattia e non risposta alla lenalidomide. In questo caso preciso, probabilmente la mutazione di TP53 potrebbe aver giocato un ruolo cruciale nella trasformazione leucemica.
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6.
CONCLUSIONI
La presenza concomitante di del(5q) e la mutazione di JAK2 è un evento raro. I casi riportati, tuttavia, fanno ipotizzare la possibilità di identificare pazienti con particolari caratteristiche cliniche e molecolari con una prognosi favorevole nonché buona risposta a trattamento con lenalidomide; il meccanismo attraverso cui la lenalidomide induce una risposta a lungo termine in questi pazienti ad oggi non è ancora stata chiarito.
Cosi come nelle altre neoplasie mieloidi, la lenalidomide potrebbe sopprimere il clone maligno attraverso un effetto citotossico diretto o attraverso un’attività
immunomodulatoria indiretta. In accordo con l’ipotesi che le due lesioni genetiche siano presenti nello stesso clone, l’efficacia della lenalidomide nella soppressione del clone del(5q) potrebbe indurre una riduzione del carico allelico di JAK2. Alternativamente, nel caso di un’acquisizione indipendente delle lesioni potrebbe essere ipotizzata un’azione
differente della lenalidomide sulla mutazione di JAK2 così come si verifica nei pazienti con MF positivi per JAK2 o con RARS associata a marcata trombocitosi in cui è stata osservata una risposta clinica e molecolare anche in assenza della delezione interstiziale del braccio lungo del cromosoma 5. Probabilmente sarà possibile caratterizzare le SMD con la presenza concomitante di del(5q) e la mutazione di JAK2 come una distinta entità e somministrare un trattamento mirato.
Questi dati suggeriscono l’importanza di effettuare lo screening citogenetico e molecolare di queste lesioni nei pazienti con precise caratteristiche cliniche, morfologiche e molecolari come quelle descritte e che il trattamento con lenalidomide è benefico ed efficace in questo gruppo di pazienti.