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L’antropologia italiana nell’Ottocento: istruzioni, relazioni,viaggi e protagonisti C

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C

APITOLO PRIMO

L’antropologia italiana nell’Ottocento: istruzioni, relazioni,

viaggi e protagonisti

L’Ottocento costituì in l’Italia un periodo fecondo di opportunità e di risultati per la nascente disciplina antropologica. Il viaggio – lato sensu considerato – compiuto attraverso le regioni ancora scarsamente o per nulla conosciute del globo, rappresentò, indubbiamente, un grande stimolo per alimentare la fame di raccolta di dati e di materiali propri di popolazioni considerate “altre” rispetto a quelle europee.

Negli ultimi decenni del XIX secolo, il neonato Regno d’Italia, alla stregua di altri paesi, partecipò alla corsa per estendere la propria sovranità su territori e popoli stranieri. In questo periodo, inoltre, grazie alla diffusione del pensiero positivista e della teoria evoluzionista, trovarono affermazione e istituzionalizzazione accademica alcune discipline scientifiche che, innegabilmente, vedevano nei viaggi un modo privilegiato attraverso cui, da un lato, cercare una verifica empirica delle proprie ipotesi e, dall’altro, ampliare e rafforzare le rispettive basi teoriche. Il viaggio, compiuto per fini scientifici, coloniali, commerciali, esplorativi o politici che fosse, rappresentava, in ogni caso, un’esperienza conoscitiva favorita dall’incontro con popoli e culture lontane.

Spesso, questo genere di esperienza venne tradotta, da coloro che presero parte a tali spedizioni, attraverso l’elaborazione di testi scritti in forma di resoconti, relazioni o diari di viaggio. Le opere di questo tipo redatte dai viaggiatori suscitarono, nel complesso, un discreto interesse e favorirono la diffusione – all’epoca – dei romanzi d’avventura ispirati direttamente alla letteratura odeporica1.

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I viaggi che verranno presi in considerazione in questo lavoro originano, per la maggior parte, da un desiderio di conoscenza scientifica capace di abbracciare varie branche del sapere. I principali protagonisti di queste esperienze furono, infatti, naturalisti, zoologi, botanici, medici, esploratori e perfino pittori. Tra gli effetti, per così dire, collaterali che le spedizioni in terre lontane, il desiderio di conoscenza e le innumerevoli scoperte acquisite fecero scaturire, possiamo annoverare la nascita di società scientifiche e riviste specializzate2.

Inoltre, i moltissimi e variegati reperti raccolti andarono a confluire e ad arricchire le collezioni dei musei scientifici, ma la mancanza di spazi adeguati per le diverse tipologie di materiali rinvenuti costrinsero – in alcuni casi – anche a creare veri e propri nuovi musei3.

In questo contesto, alcuni fra coloro che presero parte a questo genere di spedizioni assursero a un ruolo di primaria importanza nella comunità scientifica nazionale e, in taluni casi, anche internazionale. Di natura internazionale erano, d’altra parte, i rapporti che i maggiori studiosi italiani cercavano di intrattenere con i colleghi europei. Chi si accingeva a intraprendere un lungo viaggio esplorativo, infatti, non esitava a compiere vere e proprie visite ufficiali presso i laboratori, le biblioteche, le università o i musei dei principali centri di studio sparsi per l’Europa, dove era possibile reperire informazioni vantaggiose per conoscere l’ambiente che avrebbero visitato4. Questi momenti risultavano

notare Paolo Ciampi, attinse, per alcune informazioni, agli scritti di Odoardo Beccari; vedi P. Ciampi, Gli occhi di Salgari. Avventure e scoperte di Odoardo Beccari, viaggiatore fiorentino, Polistampa, Firenze, 2007 e Id., I due viaggiatori. Alla scoperta del mondo con Odoardo Beccari ed Emilio Salgari, Polistampa, Firenze, 2010.

2 Si pensi, per esempio, alla costituzione della Società Italiana di Antropologia ed Etnologia e alla fondazione dell’«Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia», grazie all’iniziativa di Paolo Mantegazza (coadiuvato dall’assiriologo Felice Finzi). Al contributo di Cristoforo Negri si deve, invece, la costituzione della Società Geografica Italiana e la fondazione del «Bollettino della Società Geografica Italiana». Cfr. G. Landucci, L’occhio e la mente. Scienza e filosofia nell’Italia del secondo Ottocento, Leo S. Olschki, Firenze, 1987, pp. 147-148 e Id., Mantegazza e Nicolucci, in F.G. Fedele, A. Baldi (a cura di), Alle origini dell’antropologia italiana: Giustiniano Nicolucci e il suo tempo, Guida, Napoli, 1988, p. 63.

3 Penso, per esempio, alla nascita nel 1869 del Museo Nazionale di Antropologia e Etnologia, fondato da Paolo Mantegazza o al Museo di Storia Naturale di Genova fondato, nel 1867, da Giacomo Doria.

4 Su tutte, valga la fortunata esperienza avuta da Odoardo Beccari che, a seguito del giro delle principali sedi universitarie europee per studiare la botanica tropicale, conobbe – oltre a illustri colleghi come William Jackson e Joseph Dalton Hooker – sir James Brooke, rajà di Sarawak,

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preziosi anche perché erano l’occasione per chi partiva di stringere rapporti con i colleghi europei ed erano utili, soprattutto, in vista di successivi scambi di opinioni, suggerimenti e di materiali una volta rientrati dai loro viaggi.

Il «domicilio legittimo» della scienza dell’uomo

Era consueto, per certi versi, che i naturalisti italiani interessati allo studio dell’uomo guardassero con attenzione a quello che accadeva fuori dal nostro paese. Ben prima che in Italia, infatti, in paesi come Francia, Inghilterra e Germania l’uomo era stato individuato come oggetto privilegiato di studio all’interno del dominio delle scienze naturali. A Parigi, a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, Louis-François Jauffret fondò la Société des Observateurs de l’homme, con l’intento di studiare in modo rigoroso la natura umana nella sua complessità. Proprio per questo, furono invitati a farne parte specialisti di varie discipline: naturalisti, filosofi, medici, studiosi delle lingue, storici ed esploratori5;

tutti coloro che, insomma, avrebbero potuto – attraverso l’osservazione e l’analisi – offrire il loro contributo per lo studio dell’essere umano:

«sotto il triplice aspetto fisico, morale e intellettuale […]. In tal modo, l’uomo, seguito, paragonato nei diversi aspetti della vita, diverrà il soggetto di lavori tanto più utili in quanto saranno sottratti ad ogni passione, ad ogni pregiudizio, e soprattutto ad ogni spirito sistematico»6.

Solo per dare alcune coordinate geografiche e temporali, ricordo che, oltre che lo consiglierà e lo raccomanderà presso il nipote che si trovava allora in Borneo al suo posto. Il giovane Enrico Hillyer Giglioli, a Londra per una borsa di studio, ebbe l’opportunità di conoscere Charles Darwin, Charles Lyell, Richard Owen e Thomas Huxley. Elio Modogliani, poi, preparò il viaggio a Nias in Olanda, mentre Luigi Maria D’Albertis ottenne l’appoggio del governo del New South Wales per risalire il corso del fiume Fly.

5 Per una lista completa di coloro che si prestarono a realizzare questa iniziativa, vedi S. Moravia, La scienza dell’uomo nel Settecento, Laterza, Roma-Bari, 1978, p. 70, nota n° 2. Il testo di Moravia è naturalmente utile anche per gettare un ampio sguardo sulla scienza dell’uomo in quel fondamentale periodo storico. Un approfondito studio monografico su questa Società è quello di J.L. Chappey, La Société des Observateurs de l’homme (1799-1804). Des anthropologues au temps de Bonaparte, Société des études robespierristes, Paris, 2002.

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alla breve esperienza della Société des Observateurs de l’homme che entrò in crisi nel 1804 e concluse la sua attività per motivazioni tecniche, politiche ed economiche, sempre in Francia vennero fondate, nel 1859, la Société d’Anthropologie e la Société d’Ethnographie di Parigi grazie rispettivamente a Paul Broca e a Léon de Rosny. Qualche anno prima, intanto, nel 1839 William Frederic Edwards aveva dato vita alla Société d’Ethnologie di Parigi.

L’Inghilterra, del resto, non stava certo a guardare e da una costola dell’Aborigines Protection Society fondata nel 1837 da Thomas Hodgkin, che per prima colse l’impulso scientifico e umanitario dell’epoca, scaturì l’Ethnological Society of London fondata nel 1843. Nel 1863, poi, Richard Francis Burton e James Hunt diedero vita all’Anthropological Society of London, sulla scorta della Società parigina. Ethnological e Anthropological Society furono riunite, in seguito, nell’Anthropological Institute of Great Britain and Ireland nel 18717.

Similmente, a New York, Albert Gallatin e John Russell Bartlett diedero vita, nel 1842, all’American Ethnological Society8.

Questo elenco funge anche da indizio per intuire in quale ambiente culturale e scientifico si inseriva, nella seconda metà dell’Ottocento, l’interesse per lo studio della scienza dell’uomo. Studio che, con l’istituzionalizzazione della disciplina antropologica, vide l’essere umano, considerato sotto i suoi molteplici aspetti, sempre più al centro dell’attenzione degli uomini di scienza. E, come detto, all’interno di questo quadro un ruolo di primaria importanza fu attribuito al viaggio scientifico compiuto, in particolar modo, nei paesi extraeuropei (Nuova Zelanda, Australia, Borneo, Sud America) o in quelle terre abitate da «popoli destinati a scomparire in un tempo molto vicino a noi»9, come gli abitanti della

Lapponia e alcune popolazioni dell’India e dell’Australia.

Per dare un’idea di quanto, nell’Ottocento, il viaggio pervadesse lo spirito e 7 Per queste informazioni vedi G.W. Stocking jr., Antropologia dell’età vittoriana, Ei Editori,

Roma, 2000, in particolare il cap. 7, dedicato alle istituzioni antropologiche.

8 Cronologicamente più vicina alla fondazione della Società italiana di Antropologia ed etnologia è stata la Berliner Gesellschaft für Anthropologie, Ethnologie und Urgeschichte, fondata nel 1869 da Rudolf Virchow.

9 P. Mantegazza, Comunicazioni scientifiche. Relazione del suo viaggio nelle Indie, in «Archivio per l’antropologia e l’Etnologia», vol. XII, 1882, p. 346.

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gli animi riporto le parole appassionate di Cristoforo Negri – primo presidente della Società Geografica Italiana – tenute all’adunanza generale della stessa Società:

«La nostra scienza corre il gran mare dell’essere: […] invade tutti i campi del sapere e della vita civile: riceve da ogni scienza tesoro, e ad ogni scienza ne dona. Essa è nell’istinto del secolo: in quest’età l’uomo nasce viaggiatore: chi non lo può colla persona, viaggia col pensiero, entra i regni remoti, scorre i mari in procella, spazia nelle contrade della state perpetua, e sulle silenti del polo al cozzo paventoso dei ghiacci lottanti, vuol conoscere intiero il nostro pianeta, e si sdegna che ad onta del fortunatissimo successo di tanti viaggi segnatamente di Inglesi, di Russi e Tedeschi, ancora vi siano nel centro d’Asia, nell’Australia, nell’Africa, vaste regioni, la cui configurazione è molto più ignota che non lo sia quella del disco lunare»10.

Per quanto riguarda il nostro paese, un’intera generazione di giovani viaggiatori-naturalisti – in gran parte legata in qualche modo all’ambiente culturale fiorentino11 – compì una serie di esplorazioni in regioni inesplorate e

selvagge con lo scopo, principale e, per certi versi improntato anche dalla diffusione della teoria evolutiva, di provare a delineare, in maniera chiara, la storia naturale dell’uomo. Per i giovani studiosi italiani desiderosi di conoscenza e di costruire la propria identità attraverso l’esplorazione, il viaggio – capace di condurre sia in uno spazio sia in un tempo altri e lontani rispetto allo spazio e al luogo di partenza12 – costituiva lo strumento regio attraverso cui contribuire

all’indagine sulla natura e sull’uomo.

È dunque lecito affermare che se da una parte il viaggio, da sempre, era 10 C. Negri, Discorso del Comm. Negri Cristoforo presidente della Società Geografica Italiana all’adunanza generale dei membri della medesima il 15 Dicembre 1867, Stabilimento Civelli, Firenze, 1868, p. 31.

11 Per una dettagliata presentazione sulla vita intellettuale di quel periodo a Firenze, vedi G. Landucci, Darwinismo a Firenze. Tra scienza e ideologia (1860-1900), Olschki, Firenze, 1977. Vedi anche G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino, 2005.

12 Ricavo questa suggestione da S. Puccini, Andare lontano. Viaggi ed etnografia nel secondo Ottocento, Carocci, Roma, 2001, pp. 22-24, ma per approfondire queste tematiche si vedano, nel dettaglio, tutti i primi due capitoli di questo testo.

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stato capace di apportare nuove conoscenze, dall’altra fu solo a partire dal XVIII secolo che iniziò ad assumere le caratteristiche di una vera e propria impresa scientifica. Per quanto riguarda lo studio dell’uomo, infatti, in quegli anni ai filosofi naturalisti che contribuivano alla crescita teorica delle scienze umane riflettendo dai loro salotti, si associò il fondamentale contributo pratico dei naturalisti-viaggiatori, cui veniva chiesto, nelle loro relazioni e nella raccolta delle informazioni, sempre maggiore rigore e metodo. Si richiedeva, insomma, una professionalità nelle operazioni di osservazione del vivente che troppo a lungo era stata lasciata in secondo piano e aveva dato adito a resoconti fantasiosi piuttosto carenti in quanto a esattezza e precisione. Ciò era dovuto sia alla scarsa preparazione sia, in certi casi, al dilettantismo e alla non specializzazione di alcuni viaggiatori.

L’attenzione al visuale nelle istruzioni di viaggio

Fu così che – a partire dal primissimo Ottocento – l’esigenza da parte di società e istituzioni scientifiche di reperire informazioni e, quindi, collezioni che fossero sistematiche e confrontabili fra loro, richiese che gli esploratori tout court avessero una preparazione culturale, metodologica e tecnica idonea a guidarli durante i loro viaggi. Al contempo si cercò di elaborare degli scritti in cui fossero esplicitati orientamenti e guide per l’osservazione del mondo naturale il più possibile semplici e immediati, utilizzabili anche da chi non avesse una particolare preparazione scientifica (missionari, impiegati delle colonie, ufficiali militari ecc.).

Anche per quanto riguarda lo studio e l’osservazione dell’uomo è il periodo a cavallo tra Sette e Ottocento a essere cruciale. In questi anni, infatti, le istruzioni scientifiche per i viaggiatori13 – un genere che è possibile far risalire

13 Da sempre gli studiosi si sono concentrati sulle relazioni di viaggio, mentre da qualche anno si è cominciato a porre l’attenzione anche su questo genere di letteratura, grazie a una serie di studi che affrontano il tema secondo diverse angolazioni: S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche per i viaggiatori (XVII-XIX secolo). Antologia di testi, Polistampa, Firenze, 1997; S. Moravia, La scienza dell’uomo, op. cit. e Id., Il pensiero degli Idéologues: scienza e filosofia in Francia (1780-1815), La Nuova Italia, Firenze, 1974; S. Puccini, Il corpo, la mente e le passioni. Istruzioni, guide e norme, op. cit.; da ricordare anche il bel volume

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alla fine del XVI secolo e la cui produzione, attraverso cambiamenti e svolte, si esaurirà solo nel XX secolo – vennero individuate come uno dei mezzi principali attraverso cui le istituzioni cercarono di rendere il viaggio il più possibile fruttuoso in termini di risultati scientifici.

Questo genere di testi, che nel corso del tempo ha subito differenziazioni nel contenuto e nella forma14, possono essere definiti come «strumenti la cui

finalità è quella di orientare, guidare e dirigere l’operato del viaggiatore»15. I

cambiamenti dipendono dal periodo storico in cui essi videro la luce, dall’autore o dagli autori che li realizzarono, dal committente e, infine, dal pubblico cui si rivolgevano. Come detto, questi scritti iniziarono a diffondersi, in Europa, già intorno alla fine del XVI secolo. In quel primo periodo, questi testi contemplavano l’esperienza del viaggio come un’occasione unica che non doveva essere abbandonata al caso senza sprecare un momento così importante di incremento conoscitivo individuale. Successivamente – durante il XVIII secolo – in questi testi cominciò a comparire, in maniera più specifica, l’essere umano come elemento, tra i molti dell’ambiente naturale, passibile d’indagine, aprendo così la strada alle istruzioni che dalla fine del XVIII secolo formalizzeranno le loro istanze conoscitive proprio attraverso una raccolta, sempre più analitica, di dati etno-antropologici.

In questo contesto, proprio a partire dall’inizio dell’Ottocento, attraverso lo studio delle istruzioni per viaggiatori, è possibile leggere in filigrana anche quali fossero gli interessi e le aspettative delle istituzioni che le proponevano. Sul lungo periodo si può, poi, cercare di capire meglio come siano cambiati gli collettaneo di M. Bossi, C. Greppi (a cura di), Viaggi e scienza. Le istruzioni scientifiche per i viaggiatori nei secoli XVII-XIX, Leo S. Olschki, Firenze, 2005, oltre al numero monografico curato da S. Puccini, Alle origini della ricerca sul campo. Questionari, guide e istruzioni di viaggio dal XVIII al XX secolo, in «La Ricerca Folklorica», n° 32, 1995.

14 All’interno delle istruzioni è possibile rinvenire: indicazioni generali di tipo metodologico, suggerimenti per la raccolta dei dati e sulle modalità osservative, linee guida teoriche. Per quanto riguarda la forma si possono individuare: manuali generali, manuali più specifici (per disciplina o area geografica), raccolte di istruzioni redatte da vari specialisti, questionari, cfr., S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit., p. 25.

15 Ivi, p. 17. «Per il posto che in esse occupano i modi di vita dei popoli incontrati, si potrebbero definire strumenti di una etnografia per la penetrazione»: questa è, invece, la definizione di S. Puccini, Introduzione, in «La Ricerca Folklorica», n° 32, 1995, p. 6.

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orientamenti di ricerca della nascente disciplina antropologica16.

All’interno delle istruzioni di viaggio, qualunque fosse la loro natura, è possibile, dunque, rinvenire indicazioni metodologiche utili all’esploratore per le osservazioni e le puntuali descrizioni da compiersi sur le terrain. Poiché una volta raggiunto il luogo di destinazione, gli elementi da considerare erano molteplici, in generale, al viaggiatore era richiesta una preparazione di tutto riguardo. Oltre a un vero e proprio bagaglio materiale, doveva essere capace di possedere anche un bagaglio intellettuale per poter svolgere al meglio il suo compito.

Intanto, nel corso del XIX secolo, il viaggiatore riceve sempre più un riconoscimento pubblico. Coloro che, rimasti nel paese d’origine – specialisti o meno che fossero – lo ascoltavano narrare le proprie avventure al ritorno da un viaggio o leggevano i suoi resoconti, gli attribuivano, per le sue avventure ancor prima che per i risultati ottenuti, un ruolo sociale di tutto rispetto che, in alcuni casi, si avvicinava a quello dell’eroe17. In effetti, sono sicuramente degne di nota

– se ci limitiamo all’analisi dei naturalisti italiani autori dei viaggi che verranno qui considerati – le qualità umane, fisiche e intellettuali che alcuni di loro, che si trovarono giovanissimi a compiere la loro prima esperienza di viaggio, dimostrarono di fronte alla comunità scientifica e all’opinione pubblica. La loro preparazione doveva essere il più possibile estesa e variegata; oltre alla proprie competenze scientifiche – derivate dal loro particolare settore di studio – ogni viaggiatore doveva essere capace, solo per accennare a un parziale elenco fra le molte abilità richieste, di: leggere le carte geografiche, utilizzare strumenti scientifici per le varie misurazioni, usare armi da fuoco, conoscere la lingua del paese visitato, usare medicinali e curare malattie, raccogliere animali e piante e conoscere il miglior modo per conservarli, disegnare, fare fotografie e saperle sviluppare e moltissime altre cose.

Un esempio emblematico è, a mio avviso, quello di Vittorio Bottego, 16 Studio approfonditamente eseguito nei lavori e nei contributi su rivista di S. Collini e A.

Vannoni.

17 Si pensi, per esempio, all’accoglienza che Odoardo Beccari ricevette al ritorno dal suo viaggio in Nuova Guinea, cfr., P. Ciampi, Gli occhi di Salgari, op. cit., pp. 186-187.

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ufficiale d’artiglieria ed esploratore noto per le sue spedizioni nel corno d’Africa, che trovò la morte durante un combattimento con le popolazioni locali. La sua impresa geografico-scientifica più nota fu quella di aver risalito – tracciandone il percorso – il fiume Giuba e i suoi affluenti nel 1892. Tre anni più tardi la narrazione della sua avventura veniva pubblicata18. Bene, proprio

nell’introduzione egli faceva riferimento – senza però accennare in alcuna maniera alle istruzioni di viaggio – al modo di prepararsi prima di affrontare la spedizione.

Queste le sue parole: «Sapevo, per studio e per pratica, disimpegnarmi nelle varie incombenze dell’esploratore; ma non trascurai, in materia scientifica, d’interrogare gli specialisti»19. Per questo motivo si consultò con Enrico Hillyer

Giglioli che gli suggerì i mammiferi da osservare; Luigi Pigorini, invece, lo consigliò per la parte etnologica; benché avesse, poi, già trascorso un anno a studiare e a impratichirsi «nell’arte fotografica»20, Elio Modigliani lo istruì su

come conservare al meglio le lastre fotografiche; altri aiuti – che dimostrano ancora di più l’eclettismo della figura del viaggiatore – furono richiesti a Stillmann sulle pellicole da usare in quella particolare zona della terra e all’astronomo Elia Millosevich sugli strumenti scientifici; Raffaele Gestro, infine, lo aiutò ad allestire il materiale per le raccolte zoologiche21.

Risulta interessante, allora, andare a vedere all’interno delle istruzioni di viaggio quale attenzione e quanto spazio fossero riservati al disegno e alla fotografia. Poiché nessuno dei viaggi da me considerati fu direttamente istruito22

18 V. Bottego, Il Giuba esplorato, Loescher, Roma, 1895. Per un rapido resoconto del suo operato, vedi E. Millosevich, Commemorazione di Vittorio Bottego, in «Bollettino della Società Geografica Italiana», 1907, pp. 1075-1088.

19 V. Bottego, Il Giuba esplorato, op. cit., p. 9. 20 Ivi, p. 8.

21 Ivi, p. 9.

22 Come avverte Landucci, riferendosi all’esperienza italiana, «[…] è difficile valutare la loro [delle istruzioni] diffusione e la loro efficacia pratica (verificando, ad esempio, quanti viaggiatori, italiani o di altri paesi, le abbiano effettivamente utilizzate», cfr. G. Landucci, Le istruzioni per i viaggiatori della Società Italiana di Antropologia ed Etnologia, in M. Bossi, C. Greppi (a cura di), Viaggi e scienza, op. cit., p. 334. Del rapporto tra viaggio e istruzioni si occupano anche S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit., pp. 46-48. Come detto, anche se non furono redatte istruzioni specifiche per questi viaggi, erano comunque abbastanza frequenti gli scambi epistolari tra i viaggiatori e i colleghi naturalisti rimasti in

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e, di conseguenza, non è possibile fare un raffronto diretto tra i desiderata di ricerca e i risultati ottenuti, è mia intenzione rivolgere lo sguardo in maniera più dettagliata alla vita, alle opere e ai viaggi d’esplorazione di alcuni dei protagonisti della vita scientifica italiana.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento – grazie anche alla diffusione della fotografia – si intensificò la produzione di opere in cui al consueto testo scritto si associava anche un apparato iconico volto a raccontare e a integrare ciò che gli esploratori avevano visto. Non v’è dubbio, infatti, che anche i disegni e le fotografie che i naturalisti-viaggiatori riportavano dalle loro spedizioni ebbero senz’altro un’enorme valenza scientifica da una parte, ma dall’altra contribuirono in maniera determinante a modellare l’idea di viaggio e di viaggiatore nelle menti delle persone che – con sempre maggiore interesse – seguivano queste vicende. Le immagini, infatti, costituivano, in qualche modo, delle vere e proprie prove, capaci di rendere pubblica, in maniera più efficace, forse, della parola scritta, un’esperienza privata come quella del viaggio.

Un’esame delle istruzioni di viaggio, raccolte da Silvia Collini e Antonella Vannoni23, evidenzia la tendenza a riservare – con rare eccezioni – una vaga

attenzione agli aspetti legati all’esercizio grafico. Pur tenendo conto delle varie differenze formali e di contenuto che possono esserci tra i vari tipi di istruzione considerati, è piuttosto evidente che gli accenni relativi all’importanza del ruolo della descrizione visuale di quanto osservato dai viaggiatori durante le loro patria. Ne sono testimonianza le numerose missive pubblicate – quasi in tempo reale – nelle varie riviste scientifiche dell’epoca (Cosmos, Bollettino della Società Geografica Italiana e Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia, per fare degli esempi), alle quali si rispondeva accludendo, talvolta, alcuni consigli sulle ricerche da effettuare. Modigliani, ad esempio, afferma, proprio all’interno del resoconto del viaggio a Nias, che Beccari gli «impartiva utili istruzioni e calde raccomandazioni» scientifiche, vedi E. Modigliani, Un viaggio a Nias, Treves, Milano, 1880, p. 446. Scrivere, per i naturalisti in viaggio, poteva risultare – a causa di tutte le altre incombenze cui dovevano adempiere – un’attività, spesso, uggiosa. Beccari stesso, uomo dai modi ruvidi ma schietti, in una lettera all’amico Marchese Giacomo Doria ebbe a dire: «Nell’ultima mia […] ti promisi che la mia prossima sarebbe più dettagliata, ma a mala pena posso soddisfare la promessa, trovandomi sopra carico di lavoro e senza nessun aiuto, nemmeno per la parte materiale. Se quindi anche stavolta ti invio una piccola lettera, in compenso avrai grandi collezioni», O. Beccari, Recenti spedizioni alla Nuova Guinea. Esplorazioni di Odoardo Beccari, in «Cosmos», vol. III, 1875-1876, pp. 83-84.

23 Mi limiterò a segnalare soltanto i casi maggiormente significativi fra i molti esempi possibili. Per ogni altro approfondimento vedi S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit.

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imprese sono, in genere, abbastanza sommari.

Malgrado si possa evidenziare come, in generale, nelle istruzioni si spendessero pochissime parole per descrivere l’attività di riproduzione visuale che sarebbe dovuta essere praticata durante i viaggi, si nota la tendenza ad una sempre maggiore presenza di attenzione verso questo specifico ambito di conoscenza a partire dai primi anni dell’Ottocento quando i fenomeni umani cominciano a essere indagati in maniera più specifica. Anche se già Linneo aveva avvertito che la «pittura trattiene l’immagine più adeguatamente di una descrizione anche accurata»24, è in particolare con Georges Cuvier che si

comincia a delineare un’attenzione più esplicita – benché sempre circoscritta – in direzione dell’apporto che poteva arrivare dalla raffigurazione visuale dell’uomo.

Il naturalista francese, infatti, riteneva il disegno uno strumento fondamentale per agevolare la comparazione dei vari tipi razziali. «Tutti sanno che i più grandi pittori hanno spesso colto male i tratti del Negro e non hanno dipinto che un Bianco imbrattato di fuliggine», affermava Cuvier, ritenendo questi ritratti inutili per il naturalista che desideri approfondire le proprie ricerche25. La necessità di eseguire dei disegni il più possibile aderenti alla realtà

era espressa dettagliatamente e con parole efficaci che vale la pena riportare per intero:

«Dei ritratti veraci e numerosi e dei reperti anatomici: ecco tutto ciò che possiamo sperare di ricevere dai viaggiatori. Se questi dati saranno accompagnati da osservazioni fatte con intelligenza e con cura sul terreno, essi saranno sufficienti per il nostro lavoro. Occorrono studi particolari per il genere di ritratti di cui abbiamo bisogno. Tale genere deve riunire al merito dei ritratti consueti quello di una precisione geometrica, che non si 24 Vedi S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit., p. 71. Linneo afferma, inoltre,

che il disegno e l’illustrazione vanno indirizzati alle piante rare e a quelle ancora sconosciute. 25 Da segnalare che il Muséum d’histoire naturelle di Parigi, a partire da 1819, inaugurò una

scuola per naturalisti-viaggiatori. Dai documenti conservati da questo testo si apprende, per esempio, che la commissione esaminatrice della scuola selezionava i candidati in base alle conoscenze di «mineralogia, botanica e zoologia», inoltre si teneva conto anche di «conoscenze supplementari, come quella di una lingua straniera, l’abilità nel disegno e l’esperienza nella tassidermia», cfr. S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit., pp. 44-45.

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può ottenere se non in certe posizioni della testa, ma che deve essere rigoroso. Così occorre sempre che il profilo puro sia aggiunto al ritratto del volto. La scelta degli individui non è indifferente quando si rivela possibile. Bisognerà prendere individui di varie età, di sessi diversi e di diverse condizioni presso ogni popolo. I costumi, i segni coi quali la maggior parte dei selvaggi si sfigurano, e che i viaggiatori abituali hanno tanta cura di portarci, non servono che a mascherare il vero carattere della fisionomia. Sarebbe importante che il pittore rappresentasse tutte le sue teste tenendo invariata la disposizione dei capelli e che questa fosse la più semplice possibile, e soprattutto tale da nascondere il meno possibile la fronte e da alterare meno la forma del cranio. Tutti gli ornamenti estranei – anelli, pendagli, tatuaggi – debbono essere soppressi. Occorre che il disegnatore abbia studiato la celebre dissertazione di Camper sui modi di raffigurare i caratteri delle varie razze umane, per quanto imperfetta sia: essa gli fornirà idee che gli germineranno dentro se ha lo spirito indispensabile alla sua arte»26.

Come si vede, la cura anche per il minimo dettaglio è molto rigorosa. L’impostazione generale, dettata da Cuvier in questo testo, sarà quella che riscuoterà più successo almeno nella Francia del primo Ottocento e le sue indicazioni entreranno a far parte, ben presto, del modello abituale a cui i naturalisti-viaggiatori si dovevano ispirare per ritrarre gli indigeni oggetto d’osservazione. Da notare l’avvertimento di ritrarre gli uomini sia in posizione frontale che di profilo, una norma che diverrà un caposaldo della riproduzione iconografica antropologica. Di contro si segnala che il grande interesse mostrato verso il côté physique dell’uomo, porta a trascurare elementi di sicuro interesse come i costumi e gli ornamenti.

Un’altra istruzione che credo valga la pena segnalare è quella redatta da Paul Broca, fondatore, nel 1859, della Société d’Anthropologie di Parigi. Una delle novità contenute nelle istruzioni da lui redatte27, fu che una parte del lavoro

26 Cfr. G. Cuvier, Istruzioni sulle ricerche da compiere intorno alle differenze anatomiche fra le varie razze umane, in S. Moravia, La scienza dell’uomo, op. cit., 1970, pp. 362-363.

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era stata interamente dedicata alla fotografia. Essa, come il disegno del resto, doveva riprodurre in particolar modo le teste e i corpi dei vari uomini, senza dimenticare, però, di indicare il colore della pelle, degli occhi e dei capelli e di fornire tutte quelle ulteriori indicazioni che avrebbero potuto essere d’aiuto a fornire il quadro completo delle caratteristiche del soggetto raffigurato. Inoltre, poiché Broca si interessò anche allo studio del cranio e del cervello28, non

sorprenderà, dunque, che egli suggerisca – allorquando se ne presenti l’opportunità – di fotografare il cervello prima d’inserirlo nel liquido che l’avrebbe conservato29.

Le istruzioni italiane

A questo punto, vale la pena descrivere quali tipi di testi si offrivano agli specialisti, nel nostro paese. Da questo punto di vista, non è possibile trascurare il contributo teorico e concreto offerto dalla Società Italiana di Antropologia ed Etnologia nella preparazione di alcune istruzioni. Per rimanere sul genere dei manuali del secondo Ottocento, vanno ricordate le Istruzioni scientifiche pei

viaggiatori30, raccolte da Arturo Issel. L’opera, afferma il curatore, nasceva dal

desiderio di offrire una guida per dirigere le ricerche, simile al Manual of

scientific Enquiry realizzato da John Herschel in Inghilterra. Tra le varie

discipline prese in considerazione31 troviamo, riunite in un unico capitolo, la voce

Antropologia ed Etnologia, curata da Enrico Giglioli e Arturo Zannetti32. Gli

autori, per loro stessa ammissione, affermano di essersi ispirati – per la parte collections anthropologiques, (1865), in S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit., pp. 183-192.

28 Nel 1875 Broca fu autore, sempre per la Société d’Anthropologie, delle Instructions craniologiques et craniométriques.

29 L’autore invita il naturalista a fare delle fotografie a grandezza naturale del cervello, cercando di raffigurare: «1° face inférieure: 2° face supérieure; 3° face latérale ou profil», P. Broca, Instructions générales, cit., in S. Collini, A. Vannoni, Le istruzioni scientifiche, op. cit., p. 189.

30 A. Issel (a cura di), Istruzioni scientifiche pei viaggiatori raccolte da Arturo Issel, Eredi Botta, Roma, 1881.

31 Segnalo che alcune voci che compongono l’opera erano state precedentemente pubblicate, in ordine sparso, all’interno della «Rivista marittima».

32 E.H. Giglioli, A. Zannetti, Antropologia ed Etnologia, in A. Issel (a cura di), Istruzioni scientifiche pei viaggiatori, op. cit., pp. 317-358.

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fisiologica e morfologica – alle istruzioni redatte dalla Société Anthropologique di Parigi pur con qualche modifica, mentre, per la parte relativa alle osservazioni psicologiche rinviavano invece alle Istruzioni per la psicologia comparata33,

pubblicate nella rivista della Società Italiana di Antropologia ed Etnologia.

Mentre queste seconde istruzioni venivano presentate in forma di quesiti, le prime erano articolate in forma più descrittiva e nella terza e ultima parte – quella riservata ai suggerimenti sulla raccolta dei materiali per le collezioni – compariva un invito all’utilizzo del disegno e della fotografia, in cui si delineava un’importante distinzione:

«Il disegno, l’arte del formare, e soprattutto la fotografia, verranno a compensare la difficoltà del raccogliere. L’uomo deve essere fotografato di faccia e di profilo, nella posizione che abbiamo consigliato per le misure. A questa fotografia scientifica dovrebbe aggiungersene un’altra artistica che desse l’atteggiamento naturale, il carattere quasi dell’individuo o della razza»34.

Si può notare, allora, come alla fotografia scientifica che, secondo il protocollo, serviva a stimolare considerazioni di carattere antropometrico e morfologico, si dovesse integrare quella artistica, utile, cioè, a ritrarre gli usi, i costumi, il modo di vestire e gli oggetti propri dei popoli che si stavano studiando.

Anche se di poco posteriori al periodo cui mi sto riferendo, per l’interesse mostrato verso l’uso della fotografia come uno degli elementi centrali per la raccolta di informazioni sul campo, merita menzionare le istruzioni – preparate con poco preavviso – per un imminente viaggio da compiersi nella colonia eritrea 33 P. Mantegazza, E. Giglioli, C. Letourneau, Istruzioni per lo studio della psicologia comparata, in «Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia», vol. III, 1873, pp. 316-335. L’anno successivo, questo documento redatto per la Società Italiana di Antropologia e di Etnologia, fu tradotto in francese e pubblicato nella «Revue d’anthropologie». Per un approfondimento su questo testo vedi G. Landucci, Le istruzioni per i viaggiatori, op. cit., pp. 331-343.

34 A. Issel, Istruzioni scientifiche, cit., p. 358; il corsivo è mio. Per Landucci, «L’impiego della macchina fotografica rispondeva alle esigenze scientifiche dell’antropometria e della documentazione, ma poteva (anzi doveva) rispondere anche alle esigenze dell’opera d’arte», cfr. G. Landucci, Le istruzioni per i viaggiatori, op. cit., p. 339.

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in occasione del Congresso Coloniale Italiano in Asmara35. Questo «primo e

modesto tentativo di questionario»36, malgrado il suo carattere provvisorio,

scaturiva dal concorso dell’opera di molti dei principali studiosi dell’epoca37.

Nelle poche indicazioni delle Avvertenze generali, preposte al vero e proprio testo, si segnalava che avrebbero trovato conforto da questo genere di lavoro non già gli specialisti dei viaggi d’esplorazione – cui si consigliava la lettura di manuali a carattere più generale –, bensì i «numerosi e colti ufficiali» dell’esercito e della marina italiana, gli «impiegati coloniali», i «missionari», gli «insegnanti», i «medici», i «commercianti», gli «industriali» e gli «agricoltori» che «possono dedicare qualche po’ del loro tempo allo studio delle questioni alle quali si sentono più attratti»38.

Inoltre, gli autori raccomandavano accuratezza nelle osservazioni raccolte e il supporto di alcuni strumenti, tra i quali la macchina fotografica. Erano passati, ormai, più di sessant’anni dall’invenzione della fotografia e il suo impiego era così diffuso che non sarebbero servite istruzioni in proposito se non fosse stato per il particolare clima di quel paese che avrebbe potuto, senza le dovute accortezze, mandare in fumo il lavoro di raccolta e di conservazione delle immagini. Alle note scritte si dovevano sempre accompagnare figure o disegni dei fenomeni considerati. Oltre a consigli di tipo pratico relativi al trasporto e alla conservazione, venivano indicate anche le lastre e gli obiettivi migliori da usare in quelle condizioni. Infine, si ricordava che la fotografia – intesa come tentativo sia di sostituirsi e rappresentare un determinato oggetto, magari non trasportabile, sia di fare confronti e ipotizzare ricostruzioni della storia naturale dei popoli – rientrava a tutti gli effetti nel novero dei documenti su cui il ricercatore poteva fare affidamento per le proprie riflessioni:

«[…] ogni fotografia è un vero documento, e quindi è necessario che 35 Società di Studi Geografici e Coloniali e Società di Antropologia, Etnologia e Psicologia

comparata, Istruzioni per la colonia eritrea, Tipografia Galileiana, Firenze, 1907. 36 Ivi, p. 4.

37 Solo per citarne alcuni: Mantegazza, Giglioli, Sommier e Beccari.

38 Società di Studi Geografici e Coloniali e Società di Antropologia, Etnologia e Psicologia comparata, Istruzioni, op. cit., p. 8.

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vi si uniscano al momento stesso in cui si eseguisce indicazioni precise sopra i luoghi ed oggetti che ritrae, la data (e magari anche l’ora) in cui è presa, la direzione (se si tratta di paesaggi) ecc. È altresì spesso utile che nel campo della fotografia sia compresa qualche figura umana per dare un’idea delle dimensioni degli oggetti ritratti»39.

Le relazioni di viaggio e i loro autori

Le relazioni di viaggio – più o meno dettagliate e intrise di informazioni tecniche piuttosto che folkloristiche – rientrano, insieme a note, taccuini, epistolari e conferenze, in un genere letterario – quello dell’odeporica – che dall’inizio del XIX secolo produsse una cospicua quantità di testimonianze, anche di discreta diffusione. In particolare, gli autori di cui mi occuperò annoverano nella loro vasta produzione scientifica anche resoconti di viaggio stesi al termine delle loro rispettive imprese scientifiche.

Questo genere di scritti rappresentò uno straordinario canale per la diffusione, in Italia e in Europa, di conoscenze riguardanti culture e popoli extraeuropei, influenzando in maniera determinante l’affermazione delle discipline etno-antropologiche. Da una parte, infatti, i maggiori esponenti di istituzioni e di accademie scientifiche – che ebbero il merito di promuovere gran parte delle imprese a cui mi riferisco – guardavano con attenzione alle conoscenze prodotte da queste testimonianze per ottenere una conferma delle teorie sostenute; dall’altra, questo corpus di testi – seppur scevro dalle digressioni che potevano risultare troppo tecniche – individuò nei periodici40 un mezzo di

39 Ivi, p. 13.

40 Vedi M. Bossi (a cura di), Notizie di viaggi lontani. L’esplorazione extraeuropea nei periodici del primo Ottocento (1815-1845), Guida, Napoli, 1984. In Italia, Giambattista Sonzogno nel 1815 tenta, con la collana intitolata Raccolta de’ viaggi più interessanti eseguiti nelle varie parti del mondo dopo quelli del celebre Cook, di avvicinare le relazioni di viaggi scientifici a un pubblico più vasto; vedi a questo proposito S. Collini, A. Vannoni, Un’impresa editoriale del primo Ottocento: la collana Sonzogno dei «Viaggi più interessanti». I resoconti di viaggio da relazione scientifica a opera letteraria, in «Problemi», 1993, 98, pp. 218-225.

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diffusione privilegiato per un tipo di letteratura sempre più apprezzata da un pubblico relativamente ampio ed eterogeneo.

La divulgazione di ciò che Odoardo Beccari, Guido Boggiani, Vittorio Bottego, Luigi Maria D’Albertis, Leonardo Fea, Enrico Hillyer Giglioli, Paolo Mantegazza, Elio Modigliani, Gaetano Osculati e Stephen Sommier avevano osservato e vissuto durante i loro soggiorni in terre lontane, costituiva per questi personaggi – insieme alle collezioni raccolte e riportate in patria –, l’unica testimonianza tangibile delle loro rispettive imprese conoscitive.

Se da un lato, infatti, le istruzioni scientifiche suggerivano che cosa i viaggiatori dovevano osservare e in che modo, dall’altro soltanto all’interno dei resoconti di viaggio era possibile riscontrare gli effettivi esiti della ricerca sistematica effettuata direttamente sul campo che, con una tendenza sempre più crescente, si andò consolidando a partire dalla seconda metà del XVIII.

Come è stato altrove sottolineato41, la relazione di viaggio è per sua natura

un genere ibrido: il racconto, infatti, è intriso sia di elementi scientifici, sia di aspetti legati alle vicende personali e biografiche dell’autore. Questo è possibile – al di là della capacità di ogni singolo autore di esprimersi sia in chiave specialistica che in chiave più letteraria-romanzesca – anche perché, come ha spiegato bene E.J. Leed42, nell’Ottocento, per l’autore di resoconti di viaggio

esprimere anche elementi legati alla sfera della propria soggettività non è considerato indice di scarsa credibilità. E gli elementi relativi all’ambito personale emergono anche in virtù della specifica preparazione di ogni viaggiatore.

41 L. Mondada, Relazione di viaggio e scrittura del sapere, in G. Galliano (a cura di), Rappresentazioni e pratiche dello spazio in una prospettiva storico-geografica, Brigati, Genova, 1997, pp. 53-70; F. Faeta, Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media, FrancoAngeli, Milano, 1995, pp. 126-127.

42 E.J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, il Mulino, Bologna, 1992. Si veda, in particolare, il VII capitolo intitolato “Il viaggio scientifico”, in cui l’autore descrive gli sviluppi che hanno caratterizzato, nel tempo, l’esperienza del viaggio e il tipo di scrittura ad essa associata, affermando, tra le altre cose: «Le discipline d’osservazione e descrizione riplasmarono il carattere del racconto di viaggio, che, nei secoli diciassettesimo e diciottesimo, divenne la base fondamentale, la fonte delle scienze sociali e naturali», p. 211.

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Per i miei obiettivi risulta centrale, allora, avventurarsi – con un rapido

excursus – nelle biografie di questi esploratori e, quindi, soffermarsi sulle

peculiarità dei viaggi che intrapresero. La formazione culturale e scientifica, gli elementi biografici e le sensibilità di ciascuno dei protagonisti dei viaggi che esaminerò presentano, difatti, caratteristiche che vale la pena segnalare per definire meglio la natura di questi viaggi, realizzati, in ogni caso, all’interno di un contesto culturale piuttosto omogeneo. In seguito all’analisi dei testi in esame, passerò a descrivere l’apparato iconografico che li accompagna, cercando di mostrare quale relazione intercorra tra questi due tipi di comunicazione, ovvero tra l’elemento verbale e quello visuale.

Per gran parte di questi autori l’ambiente culturale di riferimento è quello che – nella seconda metà dell’Ottocento – è imperniato principalmente attorno alle attività scientifiche svolte nelle città di Genova e Firenze e ai cui vertici si possono individuare, senza ombra di dubbio, le figure di spicco di Giacomo Doria e Paolo Mantegazza. Nella città ligure, nel 1867, Doria aveva fondato il Museo Civico in cui confluirono gran parte delle raccolte zoologiche recuperate durante queste spedizioni. A Firenze, invece le collezioni etno-antropologiche furono ospitate nelle sale del Museo fondato da Mantegazza nel 1869.

Intorno ai due scienziati si costruì una feconda rete di scambi di conoscenze tra giovani naturalisti, molti dei quali presero parte a queste spedizioni. Doria e Mantegazza, dal canto loro, favorirono e supportarono – non solo a livello economico, ma anche logistico e politico – queste attività e si attivarono affinché le innumerevoli collezioni che furono ricondotte in Italia dai vari angoli della terra potessero essere studiate e trovassero uno spazio adeguato all’interno dei rispettivi musei. La fama derivata dalle scoperte e dalle imprese di alcuni di questi giovani esploratori permise loro, inoltre, di farsi conoscere anche in ambito internazionale, favorendo relazioni personali e scambi di materiali scientifici con alcuni dei maggiori scienziati europei, dando lustro, in questo modo, al nome della scienza italiana.

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Tuttavia, prima di scendere nel dettaglio delle singole spedizioni, è possibile ricordare brevemente che negli ultimi quarant’anni, circa, del XIX secolo molti zoologi, botanici, medici, militari e naturalisti si misero in viaggio verso i luoghi più remoti della terra. Al di là delle motivazioni personali che li guidarono in queste scelte43, gli ideali scientifici ispiratori avrebbero permesso

loro di visitare luoghi poco o per nulla esplorati dagli europei e di studiare da vicino – e con una certa urgenza – i caratteri fisici, gli usi e i costumi di popolazioni che rischiavano seriamente di scomparire. I viaggi effettuati dai naturalisti da me considerati offrono un ventaglio di destinazioni che copre in maniera abbastanza omogenea i diversi continenti, seppur con una predilezione verso i paesi del sud-est asiatico.

L’esplorazione del Sudamerica

Tra i numerosi italiani che visitarono il continente sudamericano44, spiccano

tra gli altri i nomi di Paolo Mantegazza, Guido Boggiani e Gaetano Osculati. Quest’ultimo compì l’attraversamento del continente sudamericano dalle coste dell’oceano Pacifico a quelle dell’Atlantico tra il 1847 e il 1848, quasi per caso. Infatti, dopo essersi imbarcato l’anno prima coll’intenzione «di percorrere le province dell’Indostan che nell’antecedente escursione non aveva potuto visitare, per quindi perlustrare quegli arcipelaghi della Polinesia che ancor lasciano tanto a desiderare al geografo e al naturalista»45, il suo progetto dovette

scontrarsi con un incendio al mercantile su cui si era imbarcato. Per questo motivo, prima prese la strada delle Americhe per cercare di raggiungere le stesse mete ma navigando verso occidente, poi abbandonò definitivamente l’impresa a causa di un violentissimo uragano che, all’altezza delle isole Bermuda 43 Tra le varie ragioni è possibile enumerare la gloria e gli onori, il desiderio di vedere di persona

“l’altro”, dilatare lo spazio e il tempo, cfr. S. Puccini, Andare lontano, op. cit., pp. 43-48. 44 Vedi G.B. Marini Bettolo (a cura di), Scienziati italiani e l’America Latina nei secoli

XVII-XIX, Accademia nazionale delle scienze detta dei XL, Roma, 1992 e T. Isenburg, Viaggiatori naturalisti italiani in Brasile nell’Ottocento, Franco Angeli, Milano, 1989.

45 G. Osculati, Esplorazione delle regioni equatoriali lungo il Napo ed il fiume delle Amazzoni. Frammento di un viaggio nelle due Americhe fatto negli anni 1846-47-48, Fratelli Centenari e C., Milano, II ed., 1854, p. X.

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danneggiando il suo carico, pose fine ai suoi proponimenti. Solo allora Gaetano Osculati si risolse – quasi sprovvisto di mezzi – a intraprendere la traversata del continente sudamericano appena al di sotto della linea dell’equatore. Quest’impresa e soprattutto la relazione che ne seguì – pubblicata nel 185046

fornirono gloria tardiva al viaggiatore brianzolo, il cui nome si cominciò a ricordare solo a partire dagli anni Venti del secolo scorso47.

Dopo aver compiuto studi ginnasiali ed essersi iscritto a medicina, Osculati lasciò i libri per conseguire, a Livorno, il diploma di capitano di lungo corso e all’età di ventitré anni cominciò a viaggiare. Nella sua vita, visitò l’Africa, l’Asia Minore, le Americhe e il Medio Oriente, spingendosi fino in India e in Cina. Egli non era un professionista del viaggio; spesso si muoveva da solo, senza avere alle spalle l’appoggio di società scientifiche e i materiali che raccoglieva venivano spediti in Italia, al Museo civico di storia naturale di Milano, per ricevere in cambio finanziamenti per le sue nuove imprese conoscitive48.

Come afferma l’autore stesso, infatti, il testo racconta di «un’avventurosa peregrinazione» compiuta da un amante delle scoperte e avvenuta senza il sostegno «di alcun Governo, non sorretto dagli eccitamenti e dai consigli di Società scientifiche»49. Il racconto si snoda attraverso le varie tappe che

condussero Osculati da una sponda all’altra del continente sudamericano. Durante il viaggio, l’autore indugia nella descrizione delle città attraversate, degli ambienti naturali ancora sconosciuti alla maggior parte degli europei e degli usi, i 46 G. Osculati, Esplorazione delle regioni equatoriali lungo il Napo ed il fiume delle Amazzoni. Frammento di un viaggio nelle due Americhe fatto negli anni 1846-47-48, Tipografia Bernardoni, Milano, 1850. Rispetto alla prima edizione, in quella del 1854 le tavole inserite nel testo sono tutte a colori e garantiscono, in questo modo, un considerevole miglioramento estetico e in termini di effettiva chiarezza di lettura delle immagini stesse.

47 A parte un ricordo affettuoso pubblicato in occasione della morte – avvenuta nel 1894 – da Lodovico Corio, direttore della «Geografia per tutti», il nome di Osculati fu a lungo trascurato per essere, poi, recuperato a partire dagli anni Venti del XX secolo, cfr. G. Bottoni (a cura di), Esplorazioni nell’America equatoriale, di Gaetano Osculati, Alpes, Milano, 1929, p. 7. 48 Gran parte delle collezioni raccolte durante il viaggio in Sudamerica andarono perdute durante

i bombardamenti della seconda guerra mondiale, vedi S. Mazzotti, Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento, Codice, Torino, 2011, p. 166. In generale, questo libro è utile per attingere informazioni relative al tipo di collezioni raccolte dai viaggiatori e per conoscere il museo in cui sono confluite.

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costumi, le lingue e le superstizioni delle tribù incontrate. In alcuni casi contribuisce ad approfondire le conoscenze dei caratteri fisici esterni (colore della pelle, capelli, occhi, corporatura) che colpiscono il suo occhio. Inoltre, ogni qual volta ne ha la possibilità, fornisce indicazioni anche sulla flora e la fauna di quei luoghi. Malgrado desideri favorire, col suo lavoro, il progresso della scienza, le sue descrizioni non sono mai eccessivamente dettagliate o troppo tecniche. Anzi, spiega questa scelta col desiderio di rivolgersi a un pubblico non specialista:

«Troppo prolissa riuscirebbe la narrazione di tutte le caccie [sic] cui assistetti come attore o quale spettatore, e la descrizione particolareggiata dei mammiferi, uccelli, insetti che ad ogni passo s’incontrano in quelle vergini foreste. Non potendo tali racconti interessare se non i cultori della zoologia, né possedendo quelle cognizioni che si richiedono per l’esattezza delle descrizioni, così mi limiterò a porgere la semplice nomenclatura di alcune specie di uccelli esistenti nel Quixos […]»50.

Data l’origine non direttamente deliberata di questo viaggio e, quindi, l’impossibilità di prepararlo in maniera particolareggiata, l’esito che, comunque, ne scaturì fu considerevole e, in chiusura del volume, Osculati tira brevemente le somme di questa sua esperienza:

«[…] l’unico pensiero che allora mi confortasse si era quello di poter riportare tale congerie di oggetti, i quali nel mentre sarebbero serviti di perenne memoria di mie peregrinazioni, avrebbero aumentato il patrimonio delle scienze e dato qualche lustro alla mia patria. Infatti, oltre a una infinità di schizzi di luoghi da me percorsi, e di disegni degli svariati costumi dei selvaggi, io mi era procurata una collezione quasi completa d’armi, ornamenti di penne, utensili, veleni delle singole tribù selvagge, ed aveva raccolto in sei grosse casse il frutto delle mie escursioni scientifiche […]»51.

50 Ivi, p. 131. In un precedente passo, dopo aver raccontato cosa era possibile osservare per le strade di Quito, afferma: «E qui do fine a tali scene svariate che tuttodì osservansi in quella città, per non dilungarmi di troppo in simili notizie, che offrono forse troppo lieve interesse al lettore», ivi, p. 57.

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Lasciando momentaneamente da parte l’analisi dell’apparato iconografico che accompagna il volume, possiamo affermare che l’occhio dell’autore era interessato allo studio dell’ambiente che attraversava, concentrando le sue attenzioni sulla descrizione di piante e di animali, che raccoglieva quando possibile. Inoltre, al volume vengono aggiunte tre appendici contenenti un catalogo delle armi, degli utensili e degli ornamenti raccolti dall’autore durante il viaggio, un dizionario e alcune notazioni sulla lingua parlata dalle popolazioni incontrate e, da ultimo, un elenco dei vertebrati raccolti da Osculati curato da Emilio Cornalia.

Guido Boggiani costituisce, senza dubbio, un personaggio sui generis nel novero degli esploratori italiani dell’Ottocento. Egli fu, infatti, prima di tutto un pittore capace di coniugare mirabilmente la sua passione artistica con spiccati interessi scientifici. Quest’insolita alchimia gli permise di dare un maiuscolo contributo alle ricerche etno-antropologiche soprattutto per quel che riguarda le popolazioni che incontrò esplorando il Gran Chaco e il Mato Grosso, nelle selve fra Brasile e Paraguay. Anche la produzione iconica relativa a queste popolazioni, che sarà esaminata in seguito, offre, quindi, punti di vista del tutto originali.

Quando, nel 1887, Boggiani partì per il suo primo viaggio sudamericano, aveva ventisei anni ed era un pittore già abbastanza affermato in Italia. Aveva frequentato per due anni l’Accademia di Belle Arti di Brera dove era stato allievo di Filippo Carcano e da cui aveva ereditato la predilezione per la pittura paesaggistica. A Roma, oltre ad aver esposto le sue opere, divenne amico di Gabriele D’Annunzio e cominciò a frequentare la buona società capitolina. Stupisce allora che, in maniera abbastanza inusuale, probabilmente in cerca di nuove ispirazioni, egli abbia intrapreso una spedizione che lo avrebbe condotto prima a Buenos Aires, dove, per circa un anno, continuerà a fare il suo mestiere d’artista e poi, come detto, sarà protagonista di un soggiorno – svolto ufficialmente per fini economico-commerciali – «sul Rio Nabilecche, presso i

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Caduvei, onde fare incetta di cuoi di cervo, de’ quali c’era molta domanda sul mercato d’Asuncion»52.

Al suo ritorno in patria, nel 1893, Guido Boggiani si dedicherà a riordinare e a pubblicare i suoi scritti, a tenere conferenze sulla sua esperienza di esploratore e ad approfondire le sue conoscenze scientifiche. Poi, dopo una breve ma rilevante crociera in Grecia con D’Annunzio e altri amici53, tornerà nel 1896 in

America Latina e tra i Caduvei, per studiarne ancora meglio la lingua, le tradizioni e l’arte, andando incontro – nel 1901 – a un destino tragico che lo vedrà ucciso dai “suoi” Ciamacoco durante un’ulteriore escursione alla ricerca di una tribù dell’interno del Chaco, in gran parte ancora sconosciuta.

Osservando da vicino l’opera più rilevante di Boggiani, ovvero quella qui in esame, possiamo affermare che la lettura che l’autore offre della sua esperienza risulti mediata, inevitabilmente, dal suo sguardo di artista. Egli non si concede al lettore attraverso – diciamo così – una scrittura aderente a quella utilizzata, tradizionalmente, dagli etnologi del tempo. Il suo stile narrativo è una combinazione tra narrazione della propria vicenda personale e cronaca di viaggio, ma senza mai lasciarsi andare a espressioni enfatiche. Non usa particolari tecniche retoriche, ma anzi la sua narrazione risulta piana e scorrevole e spesso si lascia andare a descrizioni paesaggistiche dal raffinato gusto estetico cha sanno più di affresco che non di meticolosa rappresentazione scientifica.

Del resto, lui stesso ammette nell’introduzione:

«Quanto segue non è quindi che la semplice narrazione delle cose vedute e delle osservazioni fatte giorno per giorno sugli usi e costumi sulla tribù dei Caduvei e sulla regione da essi abitata; osservazioni fatte, naturalmente, più 52 G. Boggiani, Viaggio di un artista nell’America meridionale. I Caduvei (Mbayà o Guaycurù),

Loescher, Roma, 1895, p. 3. Poco oltre ribadirà: «Pensammo dunque di trasportare in quel punto una certa quantità di mercanzie, di chiamarvi i Caduvei, spingerli a cacciare e comprare i cuoi de’ cervi che avrebbero potuto uccidere», ivi, p. 4. A conclusione della sua opera l’autore, oltre a stendere un bilancio – positivo – relativo alla parte «artistica, etnografica e geografica», stila addirittura un calcolo – negativo in questo caso – del risultato commerciale della spedizione, ivi. p. 241.

53 Sull’importanza di questa esperienza per comprendere le modalità artistiche di Boggiani e il suo atteggiamento nei confronti di ciò che osserva, vedi: S. Puccini, Andare lontano, op. cit., pp. 249-254.

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dal lato artistico che da quello scientifico: poiché, disgraziatamente, assai

limitate sono le mie cognizioni in fatto di scienza.

Non ha pretesa alcuna letteraria questo volume; […] ma leggendo queste poche e disadorne pagine si potrà avere un’esatta idea di ciò che offra di interessante quel piccolo cantuccio d’America e di ciò che può capitare ad un artista spinto ad uscire dal suo nido da un’invincibile smania di vedere mondo e gente nuova, nuove terre e nuovi orizzonti»54.

Anche nella prefazione, curata da Giuseppe Angelo Colini – paletnologo e archeologo del Museo preistorico-etnografico di Roma –, se da un lato si sottolinea come questo libro costituisca un «contributo prezioso alla scienza etnografica»55, dall’altro si ribadisce anche lo sguardo artistico che ha

caratterizzato l’autore durante la sua permanenza e che gli consente di differenziarsi dai tradizionali resoconti di viaggio. Secondo il Colini, quest’opera:

«[…] non è perciò una monografia completa e sistematica intorno ai Caduvei ed alla regione da essi abitata, ma rappresenta esclusivamente le impressioni prodotte sull’animo e sulla mente dell’autore dagl’indigeni e dai paesi visitati.

[…] Il Boggiani determina con cura il corso del Nabilecche ed i caratteri geografici della regione traverso cui scorre. Inoltre illustra il paesaggio, rappresentandocelo non solo nel suo insieme, ma descrivendo anche particolarmente gli elementi che lo compongono, la fauna e la flora, con una vivezza di colori e con una precisione come soltanto un artista può fare»56.

Non v’è dubbio, però, che la spinta propulsiva che ha guidato – almeno in

pectore – l’occhio di Boggiani durante il suo soggiorno tra i Caduvei sia stata la

pittura57. Egli, infatti, aveva sì esplicitato la propria capacità di osservatore

scientifico durante le due conferenze tenute al suo rientro a Roma e a Firenze, che 54 G. Boggiani, I Caduvei, op. cit., pp. 5-6. I corsivi sono miei.

55 Ivi, p. XXIII. 56 Ivi, p. XV.

57 «E fu appunto allora, […] che con occhio d’artista e con animo di poeta, si avventurò nel sentiero delle ricerche scientifiche», così E.H. Giglioli, Guido Boggiani, in «Bollettino della Società Geografica Italiana», vol. III, n° 12, 1902, p. 1041.

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confluirono nel suo esordio come autore58, ma, nell’opera qui in esame, sembra

prevalere il desiderio di rendere ciò che osserva tramite la lente di colui che ha come esigenza primaria quella di riprendere a dipingere. Nel testo, infatti, l’autore ribadisce a ogni piè sospinto il fatto che da quando si trova in quei luoghi ha ritrovato l’ispirazione per dipingere, come non gli accadeva da tempo59.

Inoltre, e non è un caso, ciò che colpisce di più Boggiani, tra le attività dei Caduvei, è proprio la loro arte di decorarsi il volto e il corpo con segni grafici che ebbe cura di riprodurre all’interno del suo lavoro (e su cui ritornerò più dettagliatamente).

Il terzo autore che visitò il continente sudamericano – e che si collega direttamente a Guido Boggiani per motivi che verranno analizzati più avanti – è Paolo Mantegazza. Scienziato e letterato dai più svariati interessi, «poligamo di molti amori intellettuali»60 – come si definì lui stesso – durante il corso della sua

vita visitò esclusivamente l’America Latina, la Lapponia e l’India. Tra queste destinazioni mi concentrerò quasi esclusivamente sull’analisi del viaggio compiuto in Argentina, in quanto effettuato quando Mantegazza non aveva ancora raggiunto lo status di “fondatore dell’antropologia italiana”.

Laureatosi in medicina a Pavia, nel febbraio del 1854, Mantegazza all’età di ventitré anni partì per l’Argentina nel giugno dello stesso anno, con l’esplicita intenzione di tentare la fortuna e intraprendere un’attività commerciale61. Questo

viaggio – che si protrarrà per quattro anni e che lo vide visitare anche il Paraguay, il Cile, la Bolivia e il Brasile – sarà importantissimo per Mantegazza perché rappresenterà una duplice svolta. La prima è privata; è qui, difatti, che sposerà 58 G. Boggiani, I Ciamacoco, Società Romana per l’Antropologia, Roma, 1894.

59 G. Boggiani, I Caduvei, op. cit., pp. 40, 53, 133, 172 e passim.

60 P. Mantegazza, Bibbia della speranza, Società Tipografica Editrice Nazionale, Torino, 1909, p. 1. Citato in G. Barsanti, Paolo Mantegazza: la “storia naturale” dell’uomo e le “razze” degli uomini, in «Medicina & Storia», X, 2010, p. 131.

61 È Mantegazza stesso che ne riferisce – da Parigi – in una lettera diretta al dottor Luigi Medici, un compagno di studi, citata in G. Landucci, L’occhio e la mente, op. cit., p. 161 e S. Puccini, I viaggi di Paolo Mantegazza. Tra divulgazione, letteratura e antropologia, in C. Chiarelli, W. Pasini (a cura di), Paolo Mantegazza e l’Evoluzionismo in Italia, Firenze University Press, 2010, pp. 53-78, in cui l’autrice si sofferma in maniera dettagliata ad analizzare le differenze di stile e di contenuto fra i tre racconti di viaggio di Mantegazza.

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Jacobita Tejada, dalla quale avrà quattro figli e che tornerà a riprendere in un successivo viaggio nel 186162. La seconda svolta riguarda il suo sguardo

intellettuale che durante questo viaggio si indirizzò verso la storia naturale dell’uomo, ovvero attraverso un’attenta osservazione della diversità dei popoli incontrati.

Mantegazza lascerà sedimentare nel suo animo queste esperienze abbastanza a lungo prima di pubblicarle. La prima edizione del resoconto, intitolato Rio de la Plata e Tenerife, verrà edito, infatti, nove anni dopo essere tornato dal primo viaggio63. In ogni caso, i viaggi di Mantegazza – e questo non

fa eccezione – sono in parte diversi da quelli effettuati da molti altri esploratori del periodo. I suoi testi sono quasi completamente privi, infatti, di quegli aspetti – l’avventura, il pericolo e l’ignoto – che in un resoconto di viaggio erano soliti affascinare il lettore e che costituivano, quasi sempre, il fil rouge della letteratura odeporica del tempo.

Non dobbiamo poi dimenticare che all’epoca della pubblicazione di questo testo, Paolo Mantegazza era già un deputato, un noto e fine scrittore, nonché professore di Patologia e, quindi, accanto al carattere descrittivo e accattivante che segna il suo libro64, si affianca anche l’impostazione rigorosa da scienziato, il

tutto condito con una caratteristica tecnica retorica – glossario ricercato, uso di metafore – che contraddistingue la sua scrittura. Nel racconto, dunque, le vicende personali si snodano intorno a descrizioni di scene di vita e delle caratteristiche fisiche e morali dei popoli incrociati. Colpito dalla grande moltitudine e mescolanza di razze che incontra, si soffermerà a descriverle insieme ai costumi e agli aspetti sociali che le caratterizzano, con un atteggiamento volto a studiare 62 Cui seguirà un ulteriore viaggio in quelle terre nel 1863.

63 P. Mantegazza, Rio de la Plata e Tenerife. Viaggi e studj, Brigola, Milano, 1867. È a Tenerife che, di ritorno dall’Argentina, fece tappa e riuscì a procurarsi quattro crani di Guanches, un popolo indigeno dell’isola, ormai estinto.

64 L’autore ha in mente di offrire «schizzi fedeli di uno dei più bei paesi del mondo» affinché «possano piacere a chi non ha la fortuna di vederli cogli occhi suoi», vedi P. Mantegazza, Rio de la Plata, op. cit., p. 12. Nella prefazione alla seconda edizione dirà: «Il mio libro però non è soltanto un’opera d’arte o una pagina di storia, ma, così come ho saputo, divenne anche un compagno dell’emigrante italiano che si reca al Rio de la Plata», Id, Rio de la Plata e Tenerife. Viaggi e studj, 2° ed., Brigola, Milano, 1870, p. 16.

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«tutto l’uomo preso insieme», tentando di “dipingere” i «quadri della natura umana»65, della storia e della natura di quella parte del mondo.

L’Africa

Vittorio Bottego fu un valoroso ufficiale dell’esercito italiano e il suo nome si lega, indissolubilmente, all’esplorazione del Corno d’Africa. Pur avendo avuto un ruolo di indubbio valore nell’esperienza coloniale italiana in Africa, egli deve essere ricordato anche per la sua spiccata sensibilità scientifica.

Le biografie lo descrivono come un carattere autorevole e indomito, un uomo dal temperamento autoritario e determinato, capace perfino di attacchi impulsivi. E, in effetti, queste caratteristiche emergono anche dal racconto licenziato alla conclusione dell’esplorazione del fiume Giuba66, in quanto, in

alcune occasioni, si dimostrerà capace di azioni forti e coraggiose che inclusero anche l’utilizzo di armi contro i suoi stessi uomini67. Ma la veemenza e le armi

che spesso lo aiutarono a difendersi dagli agguati di tribù indigene ostili68, lo

videro anche cadere vittima di un attacco sferrato dalle truppe abissine il 17 marzo 1897, nel corso di una successiva spedizione in Africa69.

Benché la missione di Vittorio Bottego – finanziata in parte dal Governo Italiano – sia stata «ideata e preparata dalla Società Geografica Italiana» e si sia svolta, per larga parte, su «regioni interamente nuove, non toccate mai da piede europeo»70, l’importante contributo che ne derivò non può essere ridotto

esclusivamente ai rilevamenti geografici e alle conoscenze relative al corso dei fiumi Giuba e Omo. Nella sua opera, con un po’ di modestia e con quella tecnica 65 P. Mantegazza, Rio de la Plata, op. cit., 2° ed., p. 425.

66 V. Bottego, Il Giuba esplorato, op.cit.

67 Malgrado ciò, afferma: «Le imprese scientifiche, come la mia, si debbono condurre in modo da sfuggire l’occasione di far uso delle armi, a meno che si tratti di suprema necessità, come la riuscita della spedizione o la difesa della vita», ivi, p. 101.

68 Vedi, ad esempio, la cronaca di uno sventato attacco al suo accampamento in ivi, pp. 223-226. 69 L’esplorazione del corso del fiume Omo e della localizzazione delle sue foci è raccontata in L. Vannutelli, C. Citerni, L’Omo: viaggio d’esplorazione nell’Africa Orientale, Hoepli, Milano, 1899.

70 G. Dalla Vedova, Introduzione, in «Annali del Museo Civico di Storia Naturale», XXXV, 1895, p. XVIII.

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