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CAPITOLO 3 Altri casi di emigrazione di manodopera qualificata: taglialegna, carbonai, cavatori del marmo e minatori

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CAPITOLO 3

Altri casi di emigrazione di manodopera qualificata: taglialegna,

carbonai, cavatori del marmo e minatori

3.1 I mestieri del bosco

Minatori, cavatori del marmo, boscaioli e carbonai erano mestieri diffusi sulla montagna toscana, che venivano praticati da una parte della popolazione abituata a emigrare stagionalmente fin dagli inizi del Settecento per mettere a disposizione, nei luoghi dove erano richieste, le proprie abilità. Tale continuità professionale proseguì durante il XX secolo, quando le mete divennero sempre più distanti anche per queste categorie.252 A impiegare la forza lavoro all’estero fu la popolazione che non riuscì a trovare occupazione nella sede di Campitizzoro della SMI (Società Metallurgica Italiana), che in pieno Novecento diede la possibilità ai lavoratori legati ai mestieri del settore primario di inserirsi nel sistema produttivo industriale e di migliorare la loro condizione economica senza essere costretti ad abbandonare il luogo di origine.253 Tra i migranti, invece, le destinazioni prevalenti erano dall’inizio del XX secolo gli Stati Uniti, l’Argentina e il Brasile per i cavatori, i boscaioli e i carbonai e, dalla fine del secondo conflitto mondiale, il Belgio, la Francia, la Germania e la Svizzera per i minatori. Sempre dalla metà degli anni quaranta i taglialegna si diressero con una frequenza in costante crescita anche in Canada.

I mestieri del bosco erano il carbonaio e il boscaiolo caratteristici delle zone alpine e appenniniche, che venivano tramandati di generazione in generazione, formando un bagaglio di competenze talmente ampio, da rendere le prestazioni delle persone impiegate in queste attività molto richieste in alcuni luoghi all’estero. Un esempio di professionalità nel taglio del bosco era costituito dai

252 M. R. OSTUNI, Per Lucca e Massa la speranza è l’America, in «I racconti del Tirreno», articolo pubblicato

anche sul sito http://quotidianiespresso.repubblica.it/iltirreno/speciali/emigranti/racconti/5.html.

253 È quanto racconta di aver fatto Nevio Borgognoni, ex carbonaio che, dopo una prima partenza da adolescente,

dovette nuovamente emigrare nel secondo dopoguerra con la crescita della disoccupazione seguita alla crisi della SMI (nel paragrafo 5.4 viene ricostruita la sua storia attraverso le informazioni prese dal dvd E ci toccò partire, cit., su cui è registrata un’intervista di Borgognoni rilasciata insieme alla sorella Clara).

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celebri menàus della Carnia, ricordati in tutta l’Italia nord orientale per la produttività con cui svolgevano il loro lavoro.254

I boscaioli della montagna toscana fino agli ultimi anni del XIX secolo nel periodo invernale emigravano in massa in Maremma, in Corsica e in Francia, mentre durante la stagione estiva si spostavano sul monte Amiata, da cui ricavano la legna che veniva utilizzata in tutta la città di Firenze; la loro presenza in questa zona montana continuava ancora a metà Novecento e ne parla Carlo Cassola nel lungo racconto “Il taglio del bosco”.255 Dall’inizio del secolo, però, cominciarono a usufruire delle possibilità offerte dai miglioramenti della navigazione transoceanica, individuando la meta adatta per poter proseguire la loro professione nelle aree boschive del continente americano, dove l’incremento economico stava portando allo sviluppo delle attività del settore primario. A differenza del grande numero di agricoltori che offriva la sua manodopera per qualsiasi mestiere, i tagliaboschi, al pari dei coloni e dei venditori ambulanti, erano in grado di mettere in pratica anche all’estero le abilità che avevano acquisito in patria.

La presenza dei boscaioli toscani negli Stati Uniti (in particolare presso le terre rivolte verso l’oceano Pacifico) è documentata in alcune fonti visive. In un’immagine datata 1914 Egidio Corradini256, originario di Pontremoli ma emigrato nel Nevada, si faceva ritrarre con atteggiamento orgoglioso insieme a un compagno di lavoro, come lui di origine lunigianese, ambedue seduti sul tronco di un grosso albero che avevano appena abbattuto; ai loro piedi sfoggiano la lunga sega e le asce, strumenti indispensabili per il loro mestiere.

Si era invece trasferito a Santa Rosa, in California, Luigi Berettini,257 che negli anni venti lasciava come testimonianza del suo soggiorno all’estero due foto con la moglie Elisa Bianchi e i tre figli. In uno dei documenti iconografici la

254 Cfr. www.donneincarnia.it/pianetauomo/menaus.htm; il sito descrive la figura del menaus facendola apparire

come una sorta di personaggio mitologico dei boschi alpini ma, al dì là del folklore, sono interessanti i riferimenti ai ritmi di vita dei tagliaboschi e ai loro metodi di lavoro.

255 C. CASSOLA, Il taglio del bosco (racconti lunghi e romanzi brevi), Torino, Einaudi, 1959, pp. 111-176. 256 Si fa riferimento al codice 62 (MEGT).

257 Si tratta dei codici 342 e 343 (MEGT): di Elisa Bianchi si parla nel paragrafo 5.1 in merito ai rapporti

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famiglia appare all’entrata della sua abitazione: volutamente, come è stato osservato nelle fonti di alcuni agricoltori, l’edificio non viene inquadrato per intero, ma si intuisce che è totalmente costruito in legno e lascia supporre grossi limiti economici per i proprietari. I mestieri a cui si fa riferimento in questo paragrafo non solo erano i più faticosi, ma anche quelli in cui le possibilità di migliorare il tenore di vita erano meno consistenti; professioni dure e scarsamente remunerate, che procuravano gravi conseguenze nelle condizioni fisiche degli emigranti costretti a praticarle per buona parte della vita.258

Berrettini era partito da solo e la sua presenza in California fin dall’inizio del XX secolo è provata da un’immagine in cui il pontremolese appare come membro di una squadra composta da una ventina di colleghi, che viene fotografata con alle spalle un edificio in pessime condizioni, interamente costruito in muratura. È probabile che si trattasse dell’abitazione in cui avevano trovato alloggio questi emigranti appena giunti a destinazione, successivamente sostituita con alcune case in legno nel momento in cui si erano manifestate le condizioni per il ricongiungimento con le famiglie.259

Il boscaiolo non era l’unica professione che si poteva svolgere all’interno della macchia; in tale ambito erano possibili anche i mestieri del carbonaio e del tagliatore di canne, altre occupazioni che, oltre alla notevole fatica fisica, prevedevano lunghi periodi di isolamento, in cui persone di diversi settori lavorativi potevano avere dei contatti. In un’immagine del 1928 si notano alcune famiglie di taglialegna e carbonai originarie di Gavinana, emigrate a Mato Grosso in Brasile; il documento è anche una dimostrazione della presenza dei lavoratori della macchia pistoiese nel Sud America.260

I carbonai, che fino ai primi del Novecento avevano condiviso con i boscaioli gli spostamenti stagionali in inverno tra la Maremma, la Sardegna, la Corsica e,

258 Per capire la durezza dei mestieri che vengono descritti basta osservare le condizioni di abitazione e di lavoro

testimoniate nel materiale iconografico citato.

259 La fotografia è catalogata con il codice 345 (MEGT).

260 Nell’intestazione della foto, codice 174 (MEGT), dei componenti del gruppo vengono nominati solo i coniugi

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dal pieno Ottocento, la Francia, producevano carbone per mezzo di un processo di lenta combustione dalla legna.261 Era un lavoro semplice ma con lunghi tempi di esecuzione, che costringeva a vivere anche per sei mesi consecutivi nel bosco, adattandosi a dormire nelle capanne che i migranti costruivano vicino alle loro carbonaie (cumuli di legno bruciato). La tradizione del fare carbone nella macchia, che risaliva al medioevo, proseguì attraverso i secoli, diventando una delle professioni svolte all’estero anche dai toscani più giovani, fino alla seconda metà del Novecento quando andò a scomparire. La fatica di questo mestiere viene descritta ne “La canzone del carbonaio”, una sorta di inno della categoria che la contraddistingueva per le difficoltà che i suoi membri dovevano sopportare, condannati all’esilio dalla società civile: “Io canterò la vita strapazzata / di chi alla macchia va per lavorare, / vita tremenda, vita tribolata, / chi non la prova non può immaginare.”262

Racconta il signor Arturo di essere emigrato presso la macchia corsa per la prima volta a tredici anni con il padre e i fratelli maggiori e di essere ritornato sull’isola altre due volte, in totale tre lunghe stagioni da carbonaio ancora minorenne.263 “Il mestiere era veramente molto faticoso, - spiega il migrante - anche un ragazzo lo capiva appena arrivava nel bosco e doveva subito iniziare a lavorare con lo stesso impegno degli adulti; si tagliava e si bruciava per tutta la durata del giorno senza concedersi delle pause, tranne i pasti consumati velocemente. Dopo dodici mesi dalla mia prima esperienza in Corsica, quando raggiunsi l’età di quattordici anni e mezzo, ero in grado di produrre lo stesso quantitativo di legname di mio padre e dei miei fratelli”.

La prima necessità era quella di costruire un rifugio sufficientemente accogliente per prepararsi a trascorrere un lungo periodo di tempo nel bosco. Il

261 L’emigrazione dei taglialegna in Maremma è ricordata anche nei primi due versi di un sonetto di Policarpo

Petrocchi del 1876, in cui si dice che: “Con l’accetta in ispalla e ‘l capo basso / quel montanin s’avvia per le Maremme”. L’opera è riportata per intero in M. R. OSTUNI, Storia / storie dell’emigrazione toscana nel

mondo, cit., p. 52.

262 La canzone è pubblicata su www.orsigna.org/viadelcarbone.html. Il sito, oltre ad alcune fotografie degli

alloggi dei carbonai nella macchia, riporta utili informazione sul lavoro di questi emigranti nella montagna pistoiese, che partivano per la Maremma, la Sardegna e la Corsica a fine novembre, una volta terminata la raccolta delle castagne.

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signor Arturo continua spiegando che: “Appena arrivati dovevamo mettere in piedi la capanna e fare i letti con i rami degli alberi; era una sistemazione scomoda, ma era l’unica soluzione possibile per trascorrere molti mesi nella macchia. Mi ricordo che un giorno di Pasqua, adesso non saprei dire in quale delle tre permanenza prolungate in Corsica, improvvisamente si alzò un vento fortissimo, talmente intenso da alimentare in modo eccessivo il fuoco e renderlo incontrollabile. Bruciarono la capanna e le attrezzature: in pochi minuti perdemmo tutto ciò che eravamo riusciti a costruire a costo di tante fatiche. Purtroppo la vita del carbonaio prevedeva anche questi inconvenienti e per sopravvivere era necessario saper ricominciare tutto dall’inizio, senza mai abbandonarsi alla disperazione.”264

3.2 Dinamiche migratorie di scultori, scalpellini e cavatori del marmo

La necessità di investire all’estero le proprie abilità professionali fu avvertita anche dagli scultori originari di Massa e Carrara, che si trasferirono in varie località europee e del continente americano fin dall’inizio dell’Ottocento. Alcuni di loro erano diplomati presso l’Accademia di Belle Arti e, quindi, avevano una formazione sia pratica che teorica, ma altri provenivano dai laboratori del marmo e, senza titoli di studio, potevano fare affidamento solo all’esperienza maturata sul posto di lavoro.

All’emigrazione degli scultori erano legati gli spostamenti di varie figure professionali impiegate nelle cave del marmo, indispensabili per consentire a questi artisti di realizzare le commissioni a loro assegnate. Si formavano così ampi gruppi migratori di cui facevano parte responsabili alla direzione dei lavori di estrazione, cavatori e scalpellini, che si dirigevano nelle località estere dove si trovavano grossi quantitativi di marmo di buona qualità o anche solo dove esistevano associazioni di scultori toscani in contatto con i laboratori in patria per l’importazione del materiale. Per avere l’impressione del grande numero di

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persone impiegate nell’estrazione e nella lavorazione del marmo nel XX secolo è sufficiente ricordare che già nel 1926 gli addetti ammontavano a 10461 unità, ma venti anni dopo, a causa degli effetti portati dalla crisi del settore e dall’emigrazione, la cifra era scesa a 4072 unità e continuò a diminuire ulteriormente fino agli anni compresi tra il 1961 e il 1971, quando la categoria era giunta rispettivamente a 3455 e a 1500 unità.265

Al tempo questi lavoratori rimasero ignoti, infatti a prendersi i meriti furono gli artisti che realizzarono le opere, ma per la storia dell’emigrazione il loro contributo risulta di grande interesse perché, al pari degli scultori, anche cavatori e scalpellini offrivano manodopera specializzata. I loro spostamenti all’estero, che si manifestarono fin dalla prima età moderna266 quando tali mestieri iniziarono a essere sempre più presenti, si possono ricostruire attraverso le vicende che portarono alla realizzazione delle opere di maggiore rilievo.

Nel 1806 arrivarono negli Stati Uniti Giuseppe Franzoni e Giovanni Andrei, artisti carrarini che furono considerati da Jefferson i primi scultori sul suolo statunitense, non essendo al tempo ancora praticate le arti figurativi negli stati della federazione.267 Il presidente, che era venuto a conoscenza delle qualità dei due artisti attraverso il toscano Filippo Massei, suo ispiratore e confidente, diede loro una prestigiosa commissione: realizzare le statue ornamentali del Campidoglio di Washington.268 Era un lavoro monumentale, in cui Franzoni si impegnò a fondo realizzando, tra le numerose opere, l’aquila per il fregio della Hall of Representatives, la Libertà per la Chamber of Representatives e la Giustizia per la Court Room. La prematura scomparsa dell’artista seguì alla totale distruzione della sua opera da parte delle truppe inglesi durante la guerra

265 Per le cifre degli addetti al settore marmifero nel Novecento vedere R. LIPPI, Assetto territoriale, condizioni

socio-economiche e prospettive di sviluppo di un’area problema. La provincia di Massa-Carrara, Massa

Carrara, edito dall’Amministrazione provinciale, 1982, p. 88.

266 Cfr. M. DELLA PINA, La famiglia Del Medico: cavatori e mercanti a Carrara nell’età moderna, Carrara,

Edizioni Aldus, 1996.

267 N. GUERRA, L’emigrazione apuana lungo le strade le marmo, in AA. VV., Quaderni dell’emigrazione

toscana, cit., pp. 10-13.

268 Da una veduta panoramica si nota l’imponente stile classicheggiante del Campidoglio, con al centro due serie

circolari di colonne sormontate da una cupola, una struttura simile a quelle delle cattedrali e dei battisteri rinascimentali. La fonte, catalogata con il codice 15 (MEGT), è datata inizio del XIX secolo.

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anglo-americana. I nemici incendiarono la sede del Congresso degli Stati Uniti il 24 agosto 1814, ma lo stesso ufficiale britannico a capo della spedizione espresse profondo dispiacere per la perdita di un patrimonio culturale di così elevato valore. L’anno successivo Giuseppe Franzoni fu inumato nel cimitero di Oak Park, con una cerimonia di stato che rappresentò un ringraziamento da parte del governo americano per il suo lavoro.

Nel 1816 a ricostruire le opere del Campidoglio giunse il fratello Carlo, affiancato dall’ornatista Francesco Iardella;269 è a loro che si deve la conclusione del “Carro della storia” (iniziato da Giuseppe e chiamato anche “Orologio Franzoni”), la scultura più prestigiosa realizzata dagli artisti toscani su commissione di Jefferson e ancora oggi collocata nella Statuary Hall, raffigurante una divinità antica dentro un carro alato mentre scrive le gesta dell’umanità.270 Si pensa che per scolpire il suo capolavoro Carlo Franzoni prese come modella la nipote Virginia, una ragazza particolarmente delicata nei tratti del volto; a lei andò il 17 febbraio 1836 un corrispettivo di mille dollari come ultimo pagamento del governo americano per i servizi degli scultori carrarini.271 L’impresa della famiglia Franzoni e dei suoi collaboratori aprì la strada ad altri artisti che, tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento, emigrarono negli Stati Uniti per conseguire dei riconoscimenti e avere maggiori possibilità di guadagno rispetto a quanto potevano sperare lavorando in patria. Già dal 1825 era giunta la prima nave che trasportava un grosso carico di marmo in California, la “Flaminio Agazzini”, a cui seguirono nel 1834 la “Rosa”, nel 1837 la “Città di Genova” e nel 1850 la “Democrazia”.

Nella prima metà del XIX secolo nei passaporti e nelle domande di espatrio non veniva ancora indicata la località specifica richiesta dai partenti diretti negli Stati Uniti; i dipendenti degli organi burocratici si limitavano a scrive

269 Di Carlo Franzoni resta un ritratto con il codice 19 (MEGT), mentre con il codice 17 (MEGT) è catalogata la

foto di un capitello realizzato da Iardella.

270 L’immagine del “Carro della storia” presenta il codice 18 (MEGT).

271 N. GUERRA, Partir bisogna. Storie e momenti dell’emigrazione apuana e lunigianese, Massa, Comunità

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genericamente America, quindi è impossibile stabilire dai documenti quanti fossero a spostarsi negli stati orientali della federazione e, in particolare, in California. Si ha, però, notizia dal segretario consolare Federico Biesta che già a metà Ottocento si era sistemato a San Francisco un emigrante che possedeva un laboratorio, in cui il marmo veniva lavorato per mezzo di un macchinario all’avanguardia, alimentato dall’energia del vapore.272

Anni dopo un gruppo numeroso si diresse presso le cave di Proctor nel Vermont, località che fu denominata la Carrara americana, dove la gran quantità di materiale da estrarre, indirizzata al settore dell’arte funeraria, richiedeva la manodopera specializzata di cavatori e di scultori. Quanti giunsero dal nord della Toscana fondarono nel 1894 l’associazione “Italian Aid Society Amongst Italians”, che rappresentava il simbolo della loro presenza sul territorio statunitense, poi ribattezzata il 20 aprile 1917 “Italian Aid Society Amongst Italians of the Province of Massa-Carrara”, per infine recuperare il nome originario soltanto il 30 aprile 1942.

A metà Novecento lavorarono a Proctor anche il professor Luigi Telara e lo scultore Fabrizio Tonelli,273 a cui fu commissionata la copia delle statue del Campidoglio di Washington sotto la supervisione del Soprintendente alla Belle Arti per la scultura Paul Manship e del Soprintendente per l’Architettura dottor Campioli, discendente di emigranti di origine torinese. Alla fine dei lavori gli originali furono collocati in un museo per la loro migliore conservazione, mentre le copie furono destinate alla sede del Congresso Americano.

Tra gli artisti che portarono all’arrivo di un numero rilevante di cavatori e scalpellini nel Sud America si ricordano lo scultore Tebaldo Brugnoli, giunto in Cile nel 1874 a venticinque anni nella zona ricca di marmo di San Rosedo274, e

272 A. F. ROLLE, Gli emigrati vittoriosi. Gli italiani che nell’800 fecero fortuna nel west americano, Milano,

BUR, 2003, pp. 235.

273 Su Tonelli e Telara vedere i codici 201 e 202 (MEGT). La prima immagine rappresenta Tonelli impegnato su

un cavallo alato, ripreso nel momento in cui sta rifinendo un particolare della fronte, mentre nel secondo documento Telara lavora alla statua della Dea della Pace; si notano le grandi dimensioni dell’opera rispetto allo scultore posizionato ai suoi piedi.

274 R. SALINAS MEZA, Profilo demografico dell’immigrazione italiana in Cile, in AA. VV., Il contributo

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Ademaro Pellacani, che emigrò a Santiago nel 1922. Quest’ultimo nel primo periodo di vita all’estero si adattò al ruolo di dipendente nel laboratorio di marmi gestito dalla famiglia Bianchi, ma una volta raggiunta una sistemazione sicura nella capitale cilena aprì una propria impresa dove, a causa della difficoltà sia nel reperire il materiale in loco, sia nel farlo importare da Carrara per la crisi economica, lavorava i resti recuperati dall’abbattimento dei palazzi cittadini.275 La sua attività fu rilevata dal figlio, Ademaro jr., che seguendo l’esempio del padre si impegnò a lungo con lo scopo di accrescere la produzione del suo laboratorio, riuscendo a fondare altre aziende per l’estrazione e la lavorazione tutt’oggi esistenti, situate nelle città di Santiago e Pudahuel.

Nel 1948 alla ditta di Ademaro Pellacani jr, grazie alla collaborazione dell’azienda Coggiola, vennero commissionati i lavori per il “Banco de Chile” a Santiago, una costruzione di grosse dimensioni e di elevato valore, che richiese non solo l’importazione da Carrara di grandi quantitativi di marmo, ma anche l’arrivo di quaranta emigranti specializzati nel settore lapideo, accorsi a causa della crisi occupazionale che si stava affermando in Italia. Nei primi anni i nuovi arrivati si adattarono ai metodi artigianali arretrati dei laboratori cileni, avendo la necessità di rendere la loro opera produttiva fin dall’immediato, ma con il passare del tempo si resero autonomi e riuscirono a rinnovarsi grazie alle conoscenze che avevano acquisito a Carrara, da cui fecero importare macchinari all’avanguardia per tagliare e lavorare la pietra.

Nello stesso periodo un’area del Dipartimento di Maldonado in Uruguay, ricca di marmo bianco con caratteristiche simili al materiale estratto dalle Alpi Apuane, venne battezzata Nueva Carrara.276 Gli artisti toscani erano arrivati in questa località a inizio secolo, quando era stata commissionata loro la decorazione del “Palacio legislativo”

275 Le notizie sulla vita di Ademaro Pellacani e sulla storia della sua famiglia sono state prese da un’intervista

eseguita dallo storico Nicola Guerra il 31 agosto 1999 al discendente Giuseppe Pellacani.

276 N. GUERRA, Partir bisogna, cit., pp. 185-188. Oltre a parlare di Nueva Carrara riportandone la precisa

ubicazione (il centro, distante undici chilometri da Piriapolis, è situato su un antico sentiero per Minas), l’autore presenta due fonti iconografiche di inizio Novecento in cui appaiono cavatori e scalpellini toscani.

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In Europa e nel Nord Africa la presenza di massesi e carrarini specializzati nella lavorazione del marmo è dimostrata sia dai documenti iconografici ed epistolari prodotti da questi emigranti, sia da testimonianze indirette come le lettere di Adolfo Piroli, imprenditore del settore lapideo originario di Roma, che si diresse a Gerusalemme negli anni venti per fornire parte del materiale marmoreo per la realizzazione di un edificio religioso di grosse dimensioni.277 Piroli scriveva al fratello Guido della concorrenza delle imprese carrarine, accorse numerose nel giardino dei Getsemani dove stavano per iniziare i lavori di costruzione della struttura, e si lamentava che: “…come vedi si comincia a vedere qualcosa (lo scrivente alludeva ai primi guadagni arrivati attraverso i contatti commerciali)…. ma sono rimaste invendute le colonne, la vendita in generale non è stata brillante perché la piccola spedizione doveva rappresentare una goccia d’acqua nel deserto (inizialmente i Piroli credevano di essere tra i pochi imprenditori del marmo ad avere avuto informazioni sui lavori che si stavano eseguendo a Gerusalemme e speravano di trarre il massimo profitto da questa opportunità)….il deserto pare che non esista….con il nuovo veliero vedremo quello che ci sarà da fare”.278

In Francia l’emigrazione da Massa e Carrara si concentrò a Marsilia, Nizza e nella capitale, in Spagna a Madrid e a Barcellona e in Germania a Berlino, Francoforte e Stoccarda, ma gruppi meno rilevanti si indirizzarono anche verso la Romania e l’Ungheria. In Germania, sull’altura della Donaustauf coperta dai boschi, posta lungo le sponde del Danubio, si erge il tempio del Walhalla con il suo severo stile classicheggiante, voluto nel 1807 dal principe Ludovico I di Baviera (incoronato re nel 1825) a memoria dei grandi uomini tedeschi.279 La struttura doveva essere un tributo al popolo germanico (ancora privato dell’unità nazionale) per sollecitare il rafforzamento dell’orgoglio patriottico dopo la

277 È probabile che si trattasse della Nuova Basilica dell’Agonia, realizzata tra il 19 aprile 1922 e il 15 giugno del

1924, anche se nelle lettere non viene specificato il nome del tempio.

278 Codice 4987 (AC), lettera di Adolfo Piroli al fratello Guido, Gerusalemme, 10 ottobre 1921. Altri documenti

scritti dall’emigrante, però, sono disponibili con i codici che vanno dal 4975 al 4997 (AC).

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sconfitta dell’Austria e della Prussia contro l’esercito francese. Fu iniziata nel 1830 e completata il 18 ottobre del 1842; al suo interno il tempio custodisce novantasei busti e sessantaquattro lapidi in memoria di filosofi, musicisti, poeti e altri intellettuali che hanno dato prestigio alla cultura mitteleuropea.280

A selezionare gli artisti per la realizzazione delle opere fu nominato C. D. Rauch, uno degli scultori più in vista presso i principati di lingua tedesca, proprietario anche di uno studio a Carrara, che dalla città toscana decise di chiamare i maestri del marmo con una preparazione sufficiente, a suo parere, per realizzare la commissione a lui assegnata.281 Fu così che emigrarono in Baviera portandosi un lungo seguito di cavatori e scalpellini Gaetano Sanguinetti, con i figli Francesco e Alessandro, Aloisio Lazzarini, Ceccardo Gilli, Francesco Corzavini, Carlo Baratta e Giuseppe Iardella; furono loro gli artisti a cui vennero date le maggiori responsabilità nella decorazione del tempio, un impegno che li costrinse a vivere una parte della loro esistenza tra la Germania e l’Italia.

Dalle fonti iconografiche che rappresentano i professionisti del marmo sul posto di lavoro si possono comprendere le dinamiche dei loro spostamenti e il completo isolamento in cui erano costretti a vivere. Le loro condizioni non differivano da quelle dei boscaioli e dei carbonai e sicuramente tutte e tre le categorie professionali sopportavano privazioni simili già nel luogo di origine, a dimostrazione di una continuità non solo lavorativa, ma anche nello stile di vita richiesto da un mestiere impegnativo a livello fisico.

Nelle foto di gruppo compaiono i cavatori riuniti in momenti di pausa, che non temono di rendere noto l’aspetto delle località dove estraevano la pietra: per i soggetti le immagini erano una prova della possibilità di poter sopravvivere all’estero, ma per i destinatari rappresentavano l’occasione per rendersi conto di quanto poco fossero cambiati emigrando i loro ambienti abitativi. Da

280 Sullo stile architettonico del Walhalla e per i nomi dei personaggi storici rappresentati dai busti e dalle lapidi

custodite nel tempio vedere il sito http://it.wikipedia.org/wiki/Walhalla_(tempio), dove si ricorda che la struttura è collocata su un’altura non troppo distante da Ratisbona.

281 Ulteriori informazioni sugli emigranti che parteciparono alla realizzazione del Walhalla sono disponibili

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un’immagine della cava Carnet in Belgio si nota fino a che punto potessero essere numerose queste comunità lontane da ogni forma di civilizzazione. Nel documento si raccolgono di fronte alla macchina fotografica una cinquantina di soggetti, tra i quali sono presenti nella prima fila del gruppo alcuni bambini, un particolare da cui si deduce che anche in questo settore l’impiego della manodopera minorile era largamente diffuso.282

Altre immagini delle cave sono presenti nelle fotografie dei lavoratori all’opera; è il caso di una fonte del 1940283 scattata a La Paz in Uruguay, dove molti scalpellini e cavatori toscani erano emigrati negli anni trenta. Nell’immagine un dipendente si stava accordando con un committente (dall’abbigliamento è facile intuire il ruolo dei soggetti), a cui stava mostrando il materiale che aveva selezionato per un lavoro da svolgere in breve tempo.

3.3 Le caratteristiche del mestiere di minatore tra l’Europa e il continente americano

Presente già nel XIX secolo e sviluppatasi con le partenze di massa, l’emigrazione dei minatori tese a espandersi ulteriormente con la fine del secondo conflitto mondiale e la ricostruzione dei Paesi dell’Europa Occidentale, iniziata con largo anticipo rispetto all’Italia e condotta grazie all’energia generata dal carbon fossile.284 In questi anni l’intenso sviluppo dell’estrazione mineraria a livello continentale, che interessò in modo maggiore la Germania, la Svizzera, la Francia e il Belgio, mise in crisi l’industria metallifera toscana, attiva fin dall’Antichità.285 Dagli ultimi due stati negli anni cinquanta si estrassero le più elevate quantità di materiale dal sottosuolo a livello europeo.

282 Sulle aree abitative dei cavatori toscani vedere i codici 478, 479 e 480 (MEGT): si tratta di immagini datate

inizio Novecento di toscani emigrati a Ecaussinnes, in Belgio, messe a disposizione dall’Associazione Lucchesi nel Mondo. È nella fonte archiviata con il codice 480 che compaiono alcuni bambini impegnati nella lavorazione del marmo.

283 Si tratta del codice 180 (MEGT).

284 F. CUMOLI, Dai campi al sottosuolo. Reclutamento e strategie di adattamento al lavoro dei minatori in

Belgio, www.storicamente.org/07_dossier/emigrazione-italiana-in-belgio.htm.

285 Alcuni musei e parchi ricordano lo sviluppo che ha caratterizzato il settore dell’estrazione mineraria in

Toscana, presente nelle aree vicino alla costa nella parte sud della regione, sull’isola d’Elba per il ferro e in alcuni paesi montani, come Gavorrano, dove fu scoperto un filone di pirite. Tra le strutture note i due musei di

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Da questo momento l’emigrazione dei minatori non fu più in prevalenza emigrazione di lavoratori specializzati come accadeva a inizio Novecento: a differenza delle altre professioni trattate nelle pagine precedenti, la grande domanda di manodopera spinse molti contadini che non conoscevano assolutamente il mestiere a partire per le aree di estrazione del carbon fossile e ad affiancarsi ai minatori di professione, che pur sempre permanevano anche a metà secolo nella grande massa dei partenti. Difficile stabilire fino a che punto gli agricoltori fossero in grado di lavorare a molti metri di profondità e quanto si potesse notare la differenza tra questi minatori per bisogno di sopravvivenza e un vero professionista, ma sicuramente incontrarono difficoltà nell’adattarsi al nuovo mestiere, anche a causa dell’arretratezza degli impianti minerari che determinò alcune tragedie rimaste nella memoria storica.

Tra il tramontare del XIX secolo e i primi anni del XX secolo per i minatori toscani, originari dei paesi collocati tra la Lunigiana e la montagna pistoiese, una delle mete ricorrenti furono gli Stati Uniti,286 dove misero a disposizione la loro abilità professionale in bacini di estrazione di grosse dimensioni, come a Monongah nel West Virginia, dove il 6 dicembre del 1907 un’esplosione causò il maggiore disastro avvenuto in un bacino di estrazione.287

Sulla continuità con cui i minatori toscani di inizio Novecento svolsero la loro professione, iniziando da giovanissimi e spesso ereditando il mestiere di padre in figlio, si può citare il caso di Amedeo Mucci, che già all’età di quindici anni portava alla luce minerali in un impianto vicino alla città di Shiekstimny in Pennsylvania. Del ragazzo, originario del paese di Mammiano in provincia di Pistoia, resta un ritratto del 1912288, dove in uno dei rari momenti di pausa concessi dal ritmo estenuante di lavoro compare accanto a un compagno: due

Massa Marittima, il centro di documentazione delle miniere di lignite di Cavriglia e il Museo di Santa Fiora, all’interno del Parco Minerario del Monte Amiata.

286 La tendenza dei minatori toscani a inizio Novecento a emigrare nel continente americano è dimostrata anche

dalle fonti iconografiche del Museo dell’Emigrazione della Gente di Toscana: in particolare vedere il codice 69 (Adolfo Lisoni con un compagno di lavoro negli Stati Uniti, ambedue originari di Pontremoli) il codice 70 (un gruppo di cinque minatori del paese di Mammiano fotografati nel 1916, emigrati in Pennsylvania) e il codice 274 (Lino e Giovanni Tonelli di Succisa minatori in Oregon, 1915).

287 Sulla tragedia di Monongah si può consultare il sito www.emigrati.it/Tragedie/MONONGAH.asp. 288 La fonte è archiviata con il codice 68 (MEGT).

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adolescenti dal volto e dagli abiti completamente anneriti dalla fuliggine che, come accadeva in altre professioni diffuse tra i migranti, dovevano essere in grado di lavorare con la stessa produttività degli adulti.289

Solitamente il soggiorno dei minatori all’estero era temporaneo, o tanto meno era questa la loro intenzione al momento dell’espatrio, riservandosi la possibilità di potersi dirigere più volte nel continente americano anche per brevi periodi, malgrado la continuità lavorativa. Ma la necessità di guadagnare il più possibile per poi investire il denaro americano nel luogo di origine spingeva molti toscani legati al settore dell’estrazione mineraria a prolungare la loro permanenza sul suolo straniero e a sollecitare le mogli e i figli a raggiungerli.

È quanto fece Ermenegildo Mucci,290 partito per lavorare nelle miniere di Filadelfia, che nel 1921 ricevette il foglio di rimpatrio per sé, la consorte Palmira e i suoi otto figli dal consolato italiano; data la presenza nel Nuovo Mondo di tutta la numerosa famiglia dell’emigrante, è ipotizzabile che quest’ultimo fosse di ritorno da un lungo soggiorno negli Stati Uniti. La tendenza a voler lasciare il luogo di origine solo per un periodo di tempo limitato, ritenendo il lavoro all’estero un investimento per migliorare la condizione di vita in patria, accomunava i minatori professionisti e le altre categorie citate nei precedenti paragrafi alla grande massa di contadini che lasciavano la montagna toscana per compiere mestieri di vario tipo. Gli emigranti che non possedevano particolari abilità lavorative erano giustificati dalla spesso estrema difficoltà di emergere a livello economico, problema a cui i dipendenti delle miniere di carbone (sempre poco retribuiti, anche nei casi in cui avevano maturato una lunga esperienza professionale) aggiungevano la durezza di un mestiere dannoso a livello fisico.

In due foto prive di datazione si notano alcuni minatori che svolgono il loro lavoro a torso nudo a causa dell’elevata temperatura presente nel sottosuolo,

289 Quest’ultimo documento conferma la presenza del lavoro minorile anche nelle professioni più dure e permette

di approfondire un tema che già è stato trattato nelle pagine precedenti per i mestieri degli ambulanti.

290 Vedere la fonte iconografica con il codice 163 (MEGT). È interessante notare che nel documento sono

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mentre in ginocchio si piegano di lato per riuscire a estrarre materiale da un’apertura della larghezza di una trentina di centimetri.291 Le condizioni di lavoro non erano migliorate nei primi anni che seguirono l’ultimo conflitto mondiale, in base anche a quanto si può constatare da una fonte datata 1950, in cui Giorgio Mori originario di Carrara veniva fotografato mentre lavorava in un impianto minerario di Liegi, in Belgio.292 Il soggetto era costretto, ancora per l’elevata temperatura, a spalare a torso scoperto in ginocchio sui detriti di un’esplosione, in una posizione estremamente scomoda e faticosa.

A metà del Novecento la sicurezza e le tecnologie di estrazione delle miniere belghe erano all’incirca rimaste ai livelli di inizio Ottocento e non si manifestavano ancora le prerogative per effettuare gli interventi di avanzamento di cui si sentiva in modo estremo la necessità. L’incidente di Marcinelle dell’8 agosto 1956 dimostrò quanto fosse rischioso lavorare in questi bacini minerari;293 infatti, al di là della probabile inesperienza del minatore che, spostando un carrello, spezzò un filo elettrico causando l’incendio e la successiva esplosione in cui morirono oltre duecento persone rimaste intrappolate nel sottosuolo, le maschere antigas (in quel momento non previste tra gli strumenti in dotazione in nessun impianto del Belgio) avrebbero potuto permettere a una parte delle vittime di sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi. La storia porterà per sempre memoria della triste frase che si sentì gridare quando fu raggiunta l’area sotterranea interessata dalla catastrofe: “Tutti morti”. In totale le vittime furono duecentosessantadue, di cui centotrentasei italiani e quindici toscani. L’impianto di Marcinelle, inaugurato nel 1822, non era mai stato sottoposto a un’adeguata opera di ammodernamento.

L’incidente spinse il governo italiano a chiudere le trattative con il Belgio per l’importazione in massa di manodopera nelle miniere, accordi che erano stati

291 Vedere i codici 1567 e 1572 (AC). Queste foto sono certamente tra le fonti citate nella tesi che rappresentano

le condizioni di lavoro peggiori.

292 Si fa riferimento al codice 329 (MEGT); il documento è stato donato dallo stesso Giorgio Mori.

293 Sulla tragedia di Marcinelle vedere I. GRECO, Panorama storico dell’emigrazione italiana nel secondo

dopoguerra. Le migrazioni verso Belgio, Francia e Olanda, www.cestim.it/07emigrazione.htm (si tratta di un

sito con alcuni testi sulla storia dell’emigrazione italiana), pp. 1-4 e, per un approfondimento sulla vita dei minatori in Belgio, pp. 14-17.

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stabiliti fin dal 1946, quando i due stati avevano pattuito che il Belgio, in cambio della manodopera, avrebbe rifornito all’Italia materie prime indispensabili per promuovere la ricostruzione postbellica anche nell’area mediterranea. Per ogni gruppo di operai disposti a emigrare nelle miniere belga, da queste ultime si faceva partire un carico di carbon fossile. Contemporaneamente sempre il governo italiano aveva raggiunto accordi per gli spostamenti dei lavoratori disoccupati nei bacini minerari francesi, dove le condizioni di estrazione erano pur sempre dure, anche se migliori rispetto al Belgio.

Ricorda Valentino Simonelli,294 emigrato a metà Novecento per lavorare in miniera prima in Francia e poi a Mons, che: “Nelle strutture francesi ci fornivano anche l’elmetto dotato della luce a pila sulla parte anteriore, mentre in Belgio si faceva ancora utilizzo come nell’Ottocento delle lanterne. Lavorare in Francia era molto meno pericoloso per una serie di precauzioni che dovevano garantire, per quanto poteva essere possibile nel mestiere di minatore, l’incolumità del dipendente, però la produzione era sensibilmente minore rispetto agli impianti minerari del Belgio, dove non solo si estraeva più carbon fossile, ma si guadagnava almeno il triplo. Per tale motivo, dopo essermi fatto una buona esperienza in Francia, nel 1951 decisi di andare in Belgio, dove mi feci assumere nella dix-neuvième midi, ritenuta la peggiore miniera dell’area di Mons. L’alta temperatura del sottosuolo dovuta all’eccessiva profondità rendeva il lavoro estremamente duro, ma i migranti che riuscivano a resistere in questo angolo infernale in seguito trovavano occupazione in qualsiasi bacino minerario volessero. Anch’io, dopo aver fatto questa terribile esperienza, decisi di trasferirmi in un impianto dove le condizioni di lavoro erano migliori, anche perché prolungare la permanenza nella dix-neuvième midi poteva portare a conseguenza fisiche veramente gravi.”

I contadini decisi a emigrare per lavorare come minatori e i professionisti del settore si recavano inizialmente a Milano, dove venivano sottoposti a due cicli di

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visite effettuati dal personale sanitario italiano, ma al secondo controllo erano presenti anche i medici belgi; infine l’ultimo accertamento avveniva a destinazione. Questo procedimento aveva lo scopo di evitare che uomini non in perfette condizioni di salute potessero accedere a un mestiere estremamente pericoloso. Solo dopo che i migranti avevano superato i controlli medici veniva rilasciato loro il permesso di lavoro.295 Come accadeva nelle selezione di Ellis Island nei primi decenni del Novecento, però, gli uomini che non riuscivano ad avere il consenso di partire per le miniere in Belgio, se si creava l’occasione, cercavano di varcare i confini in modo clandestino per non rimpatriare.

Malgrado lo scrupoloso controllo della manodopera, spesso riuscivano a farsi accettare persone che, una volta sul posto, risultavano inadatte a lavorare nel sottosuolo o, addirittura, non avevano nemmeno il coraggio di prendere servizio. Racconta ancora Simonelli 296: “Non era facile accettare la vita in miniera, anche perché a molti faceva paura. Pensate che alcuni appena vedevano l’ascensore che li doveva condurre in profondità si terrorizzavano e rinunciavano senza nemmeno scendere. Altri si facevano forza e per un giorno o due provavano a impegnarsi in una professione molto diversa rispetto alla condizione che avevano immaginato prima della partenza, ma alla fine, delusi ed estremamente provati dalla fatica, decidevano di abbandonare il loro posto di lavoro. Solo i migranti che riuscivano a superare la prima settimana si abituavano a stare nel sottosuolo e iniziavano a produrre quanto i più esperti.”

Tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta gli stranieri appena giunti negli impianti minerari, anche nei casi in cui l’emigrante in precedenza aveva svolto una professione che non presentava alcun collegamento con quella del minatore, venivano fin dal primo giorno messi a lavorare, ricevendo soltanto alcune indicazioni di base. Con i primi incidenti dovuti anche agli errori dei dipendenti

295 Nel permesso di lavoro rilasciato al già citato Giorgio Mori, emigrato nel 1956 a Liegi, si legge che si tratta di

un esempio di tipo A; la fonte, donata come il precedente codice 329 dallo stesso proprietario, è archiviata con il codice 429 (MEGT). Questo tipo di certificati avevano l’aspetto di un semplice documento personale, con la foto tessera dei minatori e le loro generalità.

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non esperti, però, questi ultimi furono impiegati in un breve periodo di apprendistato, durante il quale il loro stipendio veniva sensibilmente ridotto. Nei contratti dei bacini minerari del Belgio297 si stabiliva che al lavoratore straniero venisse assegnata un’abitazione dignitosa fin dal suo arrivo, anche se all’atto pratico le condizioni di vita di queste persone risultavano assai precarie. I minatori, infatti, vivevano in grandi alloggi298, che spesso erano stati ricavati dalle strutture dei campi di concentramento tedeschi, dove la privacy non era nemmeno presa in considerazione. Tale situazione ritardava il ricongiungimento degli emigranti con le loro famiglie, infatti non tutti erano disposti a chiamare all’estero moglie e figli per farli vivere nelle baraccopoli. Molti preferivano attendere il momento in cui, avendo raggiunto un livello avanzato di inserimento nella società ospitante, avrebbero potuto permettersi di prendere in affitto un’abitazione nei pressi della miniera in cui prestavano il loro servizio.299

Dopo la tragedia di Marcinelle il governo italiano decise di favorire gli spostamenti dei minatori verso la Svizzera e la Germania, una nuova corrente di emigrazione che proseguì fino al tramontare degli anni sessanta, quando si concluse il lungo periodo delle partenze di massa. L’ultima miniera belga, a Zolcer nel Limburgo, fu chiusa il 30 settembre del 1992, ma in tutto il Paese l’attività di estrazione si era ridotta già da molto tempo.

297 La copia in tre fogli di un contratto di lavoro del 1951 per i minatori in Belgio è archiviata con i codici 430,

431, 432 e 433 (MEGT); da notare che è scritto sia in italiano che in belga.

298 Nella fonte con il codice 330 (MEGT) datata 1956 è raffigurato un alloggio di Liegi.

299 Due immagini del Museo dell’Emigrazione della Gente di Toscana rappresentano minatori che vivono in

appartamenti con le loro famiglie; si tratta dei codici 331 (Giorgio Mori con la moglie Cesarina a Liegi, nel 1950) e 735 (Amedeo Tesconi con la moglie e il figlio a Mons, nel 1954)

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