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Il mio segreto

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Academic year: 2021

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Il mio segreto

Se ti confido un segreto, sei in grado di mantenerlo? Voglio dire di mantenerlo veramente, solo per te, senza condividerlo con nessuno?

Neanche con tuo marito, la tua migliore amica o un fratello maggiore? Neanche con uno sconosciuto incontrato alla fermata dell’autobus o al bancone di un bar?

Se telo chiedo così, senza giri di parole, è perché io so benissimo che non ce la farei, tanto vale confessarlo subito. Basta che uno mi dica qualcosa di interessante, di intimo, soprattutto, che io vado a ripeterlo al primo venuto. Le confidenze mi fanno bruciare la lingua come l’alcool su una ferita. Devo condividerle, è più forte di me.

Non ne vado molto fiero, certo, ma alla mia età non si cambia più. Ormai uno ha preso le sue piccole abitudini e le conserva, perché le abitudini, quelle almeno ti sono fedeli. E così non hai molta voglia di abbandonarle, per paura di ritrovarti solo come un cane.

D’ogni modo – mi dico io per tranquillizzarmi – ripetere un segreto non è poi così grave. Certo, tradisci un po’ la fiducia di chi te l’ha confidato.

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Ma non fai un torto che a quella persona in particolare. Con tutte le altre, con il resto dell’umanità, ti mostri generoso. Così facendo rendi possibile un miracolo in miniatura. Metti a disposizione di tutti un piccolo mistero, fino ad allora privo di pubblico. Dai vita ad una storia che fino a quel momento non esisteva che per un essere umano. Tanto vale dire per nessuno.

Perché in fondo è vero che tutto ciò che facciamo da soli, quello che pensiamo nella nostra testa, quello che facciamo in bagno, le caccole mangiate di nascosto, gli yogurt trangugiati in piedi davanti al frigo, i rumorini sotto le lenzuola, insomma, tutto questo non esiste. Ogni cosa scomparirà insieme a noi il giorno in cui andremo a riposare sotto terra.

Se vogliamo che le cose abbiano un po’ di spessore, dobbiamo sbarazzarcene e offrirle agli atri. Come con i pidocchi o la tonsillite.

Dev’essere per questo che ci piace così tanto confidarci, anche con gli sconosciuti. Sì, perché anche un segreto, finché non lo condividi non vale niente. Un segreto mantenuto è come un cartoccio di patatine non mangiate, un’isola paradisiaca sulla quale non hai mai messo piede. In breve, non è di alcun interesse. Non più di un pesce morto in un acquario senz’acqua.

Io non mi faccio mica tanti scrupoli. Sono proprio il tipo che si mangia le sue patatine e racconta le sue storie.

Soprattutto quando non sono mie.

Ma di questi tempi non è che me ne raccontino più molte.

Quando ero giovane era diverso, mi bastava tendere l’orecchio accanto alla macchinetta del caffè e facevo il pieno per tutta la settimana.

(3)

Ma da quando mi hanno cacciato dall’ufficio non sono più così ben informato. Quando uno lavora vede della gente, e quando vede della gente sente delle storie, e quando uno ha delle storie da raccontare, c’è sempre qualcuno che le ascolti e gliene offra altre in cambio.

Ma quando sei vecchio, pensionato e solitario, allora non c’è più nulla di tutto questo. Sei consunto come un vecchio paio di pantaloni, e non serve a niente che ti dai da fare, perché tanto quell’aria nuova di zecca non ce l’avrai più. Sei buono solo ad aspettare che le tarme ti divorino tutto, fino all’ultimo brandello. Stai in ascolto a destra e a sinistra, ma il tuo udito è debole e non senti più nulla. O semplicemente non c’è più nulla da sentire. Perché accanto a te non c’è più nessuno.

A dire il vero, nella mia mansarda mi sento un po’ solo. Ma con quello che prendo al mese di pensione, non ho scelta. Non ho abbastanza soldi per passare il tempo a cianciare intorno a un campo da tennis, o per scappare in pullman a visitare vecchie pietre in compagnia di vecchi raggrinziti. E neanche per offrire la merenda ai bambini o il thè alle vecchie signore. In camera mia, ho l’impressione di essere seduto in fondo a un vicolo cieco in capo al mondo, in una zona contaminata. Ci sono sempre e solo io, e il mio sguardo rasato male nello specchio sopra al lavandino.

È per questo che vado al bar. Per vedere della gente. Mi siedo al bancone, qui, sullo sgabello di destra, accanto alla macchinetta degli arachidi, con una birra bionda che lascia il suo solito alone umido sul cartoncino quadrato.

Vengo qui tutti i giorni, appendo la giacca al gancio sotto la tivù e mi piazzo sul mio sgabello. Con gli altri tipi del bancone non ci parlo. Quelli sono dei poveracci. Come me.

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Non hanno nulla di interessante da dire. Vogliono soltanto attirare un po’ l’attenzione, trattenere la cameriera e il suo seno, per qualche secondo, solo per loro. Nessuna grande ambizione, no, solo il bisogno di testare la differenza tra il vuoto completo e l’impressione di esistere. Differenza che deve misurarsi così, in secondi di seno orientato nella giusta direzione.

Lo so che, dentro di me, non mi va di crederci che le cose stanno così. Non mi va di accettare questa regola. Perché così vorrebbe dire che, quando a ora di cena la cameriera versa sulla superficie dell’acqua la solita dose di cibo in polvere, allora l’acquario, con i suoi neon violetti e i pesci a righe, ha più esistenza di me.

Non mi va di crederci, ma forse in fondo è vero che non valgo più di un acquario.

Quello, almeno, qualcuno ha pagato per averlo.

Mentre io, ci sono giorni in cui sono convinto che il mondo pagherebbe per sbarazzarsi di me. La gente i pantaloni consunti preferisce buttarli via prima che attirino la tarme.

A volte ho l’impressione di fare paura alla gente solo perché sono vecchio. Di essere buono soltanto a mandare a puttane il loro umore. Preferirebbero non vederci, a noi vecchi. Non siamo divertenti, non siamo giovani, non siamo pieni di energia. Non siamo come la gente delle pubblicità. Neanche i giovani lo sono, ma questo noi l’abbiamo già capito e abbiamo gettato la spugna, mentre gli altri, quelli che lavorano, quelli che sono giovani e bellocci, quelli credono che un giorno o l’altro quella vita sarà la loro. Allora davanti fanno gli occhi dolci a tutti, e dietro sono pronti a passare sul tuo cadavere.

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Si comprano tutto quello che bisogna comprarsi per non sembrare poveri, per non sembrare degli sfigati, per non mostrare chi sono veramente. Arrivano persino a comprare del denaro più caro per potersi comprare le cose finché costano poco. Sì, perché non devono mai e poi mai sembrare chi sono veramente, ma solo chi vorrebbero essere. Finché non sarà troppo tardi e si renderanno conto che anche loro sono invecchiati. Come tutti. Senza quella felicità patinata che vedevano nelle pubblicità. Senza quella vita rosea in cui il sole brilla dalla sera al mattino, senza il bucato steso ad asciugare in giardino e la macchina nuova nel vialetto. Ma con le tutte le vene varicose, le occhiaie, le piaghe da decubito e le ore di silenzio.

Ben inteso, anche i vecchi hanno i loro sogni e desideri. Gli altri tipi che stanno al bancone, intorno a me, loro vogliono sempre raccontare delle storie incredibili. Dei pettegolezzi che fanno girare le teste e i corpi intorno al bancone, il tempo di ascoltare una rivelazione fuori dal comune, un aneddoto spaventoso. La storia di una ragazzina fatta a pezzi, di un bambino senza gambe, di un tizio che ha attraversato il tunnel della morte e raccontato degli angeli alla televisione. Ma questo non succede mai. Ce ne restiamo lì sui nostri sgabelli, senza dire nulla, parliamo di che tempo ha fatto, che tempo farà e che tempo sta facendo, del tempo che passa e cha ha sempre fretta di tagliare la corda, di avvicinarci un po’ di più al momento in cui non avremo più nulla da dire a nessuno, nemmeno a noi stessi. E le lancette dell’orologio Stella Artois continuano a girare, le une sopra alle altre.

Come nella vita, quelle alte e magre vanno più veloce di quelle basse e grasse. Ma visto che sono sceme tutte e due, ecco che ritornano senza sosta alla casella di partenza. Non avanzano mica, no: girano in tondo.

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Io devo essere uno di quelli bassi e grassi. Uno lento, molle. Ascolto il tempo che passa e giro gli occhi verso la televisione, ma neanche lì c’è niente che mi interessi. Solo immagini e rumore, suoni e colori che ti impediscono di pensare nella tua testa. Che ti evitano di guardare lo specchio di fronte o il fondo del tuo bicchiere vuoto. E sporco.

Eppure quello che vorrei non è molto complicato. Anzi, è semplicissimo. Vorrei che lei, la cameriera, mi chiedesse di restare al momento della chiusura. Non perché io la prenda sul bancone, no, ho già passato l’età e poi non ho voglia di ritrovarmi col culo per aria in questo bar che puzza di birra e sigaretta. No, voglio solo che lei si sieda di fronte a me, con un bicchiere di Martini o un altro super-alcolico e che, mentre lo fa girare nella mano per sentire i cubetti di ghiaccio che si sciolgono, mi racconti la sua vita. Forse non tutta dall’inizio, con i dettagli e tutto il resto, ma comunque una buona parte. Quella che fa male quando cerchi di strapparla via, il dente cariato, il foruncolo sulla chiappa che nascondi sotto i vestiti ben stirati, evitando di sedertici sopra. Vorrei semplicemente che mi parlasse. A me solo. Che si lasciasse andare a raccontarmi cosa la fa stare male e cosa la fa ridere. Per quale ragione lavora in un posto del genere e come mai ha un seno tanto sodo. Forse mi spiegherebbe perché si tinge i capelli del colore della birra senza bolle e come mai porta delle scarpe con i tacchi, quando a guardarle le gambe sono solo dei vecchi rifiuti come me.

Forse mi darebbe un pezzo del suo cuore. Un pezzo sanguinante che non ha mai condiviso con nessuno, e me lo rivelerebbe qui, sotto l’orologio, singhiozzando un po’.

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E io starei ad ascoltare tutto questo, e le direi delle parole dolci, per farle capire che sono felice di farla felice. Poi le accarezzerei la guancia e me ne ritornerei nella mia mansarda, mi metterei a letto tutto vestito e lì mi addormenterei, con la finestra aperta.

Ah, sì, il mio segreto, me ne stavo dimenticando! Bè, ecco, è proprio questo il mio segreto, che dormo tutto vestito con la finestra aperta.

È la prima volta che lo racconto. Se ti va, puoi ripeterlo al mondo intero. Tanto nessuno sa chi sono io.

Valgo meno di un pesce in un acquario. E lo so.

Forse è questo il mio vero segreto.

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