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Sisifo 1

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Academic year: 2021

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idee r i c e r c h e p r o g r a m m i dell'Istituto G r a m s c i p i e m o n t e s e g e n n a i o 1984 G O s i )

PERCHE SISIFO

di Mario Dogliani

P

er questa pubblicazione, che non vuole essere una rivista, ma, più semplicemente, una raccolta di brevi testi che indicano i temi sui quali stiamo lavorando, abbiamo scelto un nome mitico che, prima di essere banalizzato ne! ritratto moralistico della sofferenza di una pena, era simbolo del lavoro: non di un lavoro trasfigurato, felice e pacificato, ma del lavoro così com'è, con la sua durezza e la sua

«alienazione» (la terra che Sisifo lavora è quella degli eroi; i cui frutti non possono essere raggiunti — da Tantalo — per saziarsi).

Questo titolo ci sembra contenere un messaggio chiaro: che concepiamo il nostro lavoro come uno sforzo continuativo, che sa di non avere altro senso che quello di aggiungere un granello infinitesimo, e forse precario, al patrimonio del sapere. Potrà essere giudicato più o meno bene, a seconda dei punti di vista, ma ci sforziamo che sia preciso, e senza la superbia dì chi pensa di avere un qualche grande compito da svolgere.

Non è solo una questione di atteggiamento. Bisogna riconoscere che oggi è particolarmente difficile dare una netta e univoca valenza

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di «politica della cultura» al lavoro, sia di ricerca che di sua organizzazione, e di divulgazione, che facciamo. Certo esistono discipline più o meno «motivate» e — nell'oggi — consapevoli del loro senso, anche nei confronti dei processi reali di trasformazione in atto e dei problemi di

comunicazione, tra le scienze e con la politica, che si pongono.

Ma questo non toglie valore ad una considerazione più generale (che non è frutto di stanchezza o di anomia): che troppo spesso si è creduto, nel passato, che il mondo fosse fatto di materiale facilmente malleabile, e che la politica e la cultura, la forza (e il consenso) e gli specialismi potessero plasmarlo.

Che ciò sia possibile resta vero, o almeno deve continuare ad essere considerato vero, ma in un quadro estremamente più complicato e soprattutto meno certo.

La sensazione è che si stiano chiudendo (o si siano già chiusi, e solo oggi ce ne accorgiamo) dei periodi: è finito il jus publicum

europaeum? sono finiti i due

secoli dell'industrialismo? è finito (per accorciare

l'orizzonte in una domanda tragica) il periodo post-bellico?

Rispondere a queste domande con un invito al paziente lavoro di ricerca, è

una fuga?

Forse sì, se si pensa che ciò che più conta è la volontà di volere.

Ma se la «complessità» sembra ricollocarci nella situazione di chi si sentiva avvolto da una natura ancora da decifrare, dominata da forze difficili da controllare e capire, allora diventa, se non l'unica risposta possibile, almeno una risposta sensata.

T

INTERVISTA

a Luciano Gallino a cura di Fiorenzo Ferrerò

IL LAVORO OGGI:

TRASFORMAZIONI

NELLA SUA

ORGANIZZAZIONE

E NEL SUO

SIGNIFICATO

Nella sua introduzione alla ricerca su occupati e bioccupati (Il Mulino), lei parla di «futura società premoderna» ed osserva che,

nonostante le critiche semisecolari mosse all'idea di evoluzione unilaterale, il processo di modernizzazione viene tuttora considerato un'evoluzione da stadi inferiori a stadi superiori di organizzazione, verso una complessità crescente. La centralità della formazione economico-sociale

contemporanea, rispetto ai rapporti di produzione dominanti in epoche precedenti, appare, senza sfumature, destinata ad affermarsi, sostituendo via via il nuovo al vecchio, il formale all'informale, il

moderno al primitivo. Non sarebbe più opportuno parlare di integrazione e di complementarietà, accanto ai conflitti ed alle

contraddizioni inevitabili? Che direzione hanno i processi di destrutturazione e di ristrutturazione dei modi di produzione e dei rapporti sociali?

Come lei ha fatto notare, il problema della

modernizzazione soffre di un «vizio» originario concettuale ed ideologico. Tale vizio consiste nel credere che gli aspetti più sgradevoli delle formazioni sociali del passato (ad esempio il clientelismo politico o i rapporti familistici che entrano oggi in conflitto con qualsiasi idea di comunità politica) debbano essere eliminati dallo sviluppo economico ed in particolare dalla industrializzazione delle aree arretrate.

Più a fondo troviamo un secondo vizio concettuale nell'idea di modernizzazione: si pensa che tutti gli aspetti del passato debbano essere rimossi, a favore di strutture sociali e tecnologiche inventate negli ultimi anni. È un errore affermare che la tradizione debba essere eliminata, cosi come è un errore pensare che la patologia, ereditata dal passato, possa essere sconfitta dal progresso sociale, tecnologico ed economico.

Si tratta di idee importanti, diffuse, che pensano e guidano sia i programmi dei partiti, sia l'educazione, sia i mezzi di comunicazione di massa. Si tratta di idee che caratterizzano la crisi attuale: un'analisi anche superficiale della situazione mostra un'enorme diffusione di rapporti sociali sovente patologici (illegalità diffusa, rapporti clientelari e mafiosi, ecc.); parallelamente si scopre che le nuove tecnologie, i prodotti socio-tecnici della modernità 2

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hanno incrinato e disperso rapporti sociali, culturali, collaudati da centinaia o migliaia di anni.

Vogliamo fare qualche esempio concreto? Stanno emergendo in questi mesi le disfunzioni, i limiti dell'assistenza sanitaria, anche per precisi interventi della magistratura che si è assunta compiti di supplenza, dì fronte ad un vuoto di intervento amministrativo e progettuale. È solo un esempio, tra tanti, della crisi dello Stato assistenziale, in presenza di risorse scarse, di vincoli e rigidità

burocratiche, della diffusione di atteggiamenti e

comportamenti che fanno pensare alla vitalità di quella che lei definisce /'«illegalità diffusa».

L'idea che lo Stato possa assumersi ogni immaginabile compito di assistenza (a bambini, ad anziani, ad handicappati) è micidiale. L'assistenza sociale nella forma tradizionale passava attraverso la famiglia allargata, la comunità del vicinato ed era

complessivamente più efficace (lasciando ovviamente da parte l'assistenza medica). L'assistenza burocratica, per sua natura, suddivide l'assistenza in compartimenti: per età, per condizione, per tipo di disturbi; ciò significa violentare la vita, perché la vita è integrazione di età diverse, di sessi, di esperienze. È vero che non si deve esagerare in questa direzione: ci sono casi in cui la compartimentazione è utile, come nel caso delle malattie infettive, ma nella maggior parte dei casi (bambini, anziani, handicappati) l'assistenza tradizionale è ben più efficace.

Si tratta di integrare i vantaggi delle due forme di assistenza, non di contrapporle.

Gli aspetti patologici del passato non possono essere rimossi dal progresso, dalla modernizzazione: vanno combattutti in quanto tali, in tutti i punti della struttura sociale, ove si presentano. In caso contrario dobbiamo assistere alla demodernizzazione,

all'inquinamento di ciò che è moderno a tutti i livelli: partiti, economia, Stato.

Intanto i rapporti socio-tecnici mutano impetuosamente sotto la spinta delle trasformazioni tecnologiche (automazione, flessibilità) ed organizzative (interdipendenza, policentrismo, riconversioni e ristrutturazioni). L'applicazione di sempre nuove tecnologie ai processi produttivi migliora la qualità

del lavoro o impoverisce il lavoro umano? Si tratta delle tendenze che connotano la «modernità», ed un impoverimento della qualità della vita, della qualità del lavoro non favorisce certamente lo sforzo necessario per resistere all'inquinamento patologico, alla destrutturazione del moderno di cui lei parla. Lei ha trattato tali tematiche in un recente saggio edito da Einaudi: Informatica e

qualità del lavoro,

soprattutto nella postfazione 1983. Il tema della qualità del lavoro è oggi veramente «fuori tempo»?

I tempi per discutere di , qualità del lavoro e di democrazia nelle organizzazioni produttive sono ben poco propizi, di fronte all'incalzare della crisi economica.

I lavoratori privilegiano la difesa del posto di lavoro ed i dirigenti la sopravvivenza delle aziende: la democrazia sarebbe un «lusso» che nell'ultimo decennio ha accentuato la disaffezione al lavoro, il calo di produttività e l'indisciplina. Eppure la qualità del lavoro è migliorata in alcune sue dimensioni nell'ultimo decennio, come quella ergonomica, mentre per altre dimensioni superiori, come la complessità, l'autonomia, il controllo sulle condizioni del proprio lavoro, i

miglioramenti avvengono assai più lentamente ed occorrerà attendere con pazienza il superamento della crisi.

II metodo democratico, che ha favorito il dibattito dentro e fuori le aziende sulla qualità del lavoro, è una particolare forma di prassi collettiva, che può crescere e rafforzarsi soltanto attraverso i necessari rapporti quotidiani tra persone che condividono finalità comuni e lavorano in vista di queste; tale metodo non può che realizzarsi in modo graduale e, se espone l'impresa stessa a rischi di inefficienza, può anche liberare capacità creative e

rinnovative da parte di tutti gli addetti, compensando con la produttività la parziale inefficienza.

Dunque vale la pena di continuare a parlare e a discutere di qualità del lavoro, anche per mettere a fuoco l'ambiguità strutturale di uno degli strumenti di innovazione tecnologica più potenti, l'informatica, i cui effetti si estendono dal mercato del lavoro alle strutture organizzative, decisionali delle aziende, alla qualità del lavoro.

La «rivoluzione de! microprocessore» si fonda su nuove architetture delle macchine e su nuove tecniche di programmazione, che permettono

l'elaborazione di più flussi di informazioni simultanei. Lei ha parlato e scritto di ambiguità strutturale, ma risolvibile, dell'informatica: si pongono dì continuo nuove possibilità per l'asservimento delta persona, non meno che possibilità di affrancarla. L'«esperto» può essere eliminato, ma può anche essere indefinitivamente potenziato nella sua professionalità e creatività. In quale di questi futuri paralleli ci andiamo inoltrando?

II divaricamento di opzioni è evidente nel campo delle tecnologie informatiche che abbraccia sistemi diversi: i sistemi naturali e sociali, i sistemi biologici, i sistemi fisici. Siamo nell'ambito delle ricerche sull'intelligenza artificiale, ricerche che hanno ricadute importanti sul problema della qualità del lavoro: da un lato c'è chi considera l'elaboratore come uno strumento che potrà consentire di fare a meno del geologo, dell'esperto economico, del medico, dell'ingegnere di produzione. E c'è chi assegna invece all'elaboratore il ruolo di organo capace di espandere, di ingrandire le conoscenze dell'esperto, rinviandogli le conseguenze dinamiche delle sue scelte. Analogamente la meccanizzazione dei lavori

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T

manuali complessi può essere

perseguita sia mediante la robotica, sia mediante apparati telechirici (mani che agiscono a distanza): è comunque un computer che governa e regola i movimenti, amplificando la forza umana o intervenendo su circuiti integrati di pochi millimetri quadrati. Si possono usare sagacemente robot ed apparati telechirici negli ambiti a ciascuno più congeniali, o se ne può promuovere la diffusione per sopprimere posti di lavoro qualificati.

L'evoluzione delle tecnologie informatiche si avvia verso soluzioni sempre più flessibili: la rigidità della informatica è ancora una realtà, ma potrà diventare ben presto un alibi. In un ambiente socio-tecnico permeato di informatica, troviamo al centro un programma: dipende da questo la definizione degli spazi di autonomia entro i quali le singole persone possono scegliere gli obiettivi, le alternative di azione, le variabili esterne di cui tener conto. La possibilità di essere dentro ai programmi dovrà essere riguadagnata giorno per giorno con la richiesta della massima trasparenza del linguaggio, degli obiettivi, dell'architettura del programma stesso; la democrazia elettronica consisterà sì nell'esprimere le proprie preferenze, ma soprattutto nello sviscerare le dimensioni, la topologia, la discontinuità dello spazio reale delle decisioni da prendere.

Lei ha accennato al rapporto tra sviluppo della democrazia e qualità del lavoro. Più in generale qual è il rapporto tra democrazia «esterna» alle organizzazioni, qualità del lavoro e democrazia «interna» ed esse? La democrazia appare in crisi non soltanto all'interno delle imprese, ma anche

all'esterno. Negli anni Settanta abbiamo vissuto un periodo di violenta polemica contro la democrazia rappresentativa, contro l'élitismo democratico ed a favore della democrazia diretta. Tale polemica è in parte caduta, ma l'individuo si sente estraniato dalla dinamica politica e dai processi di regolazione economica. Quali sono le prospettive dello sviluppo della democrazia nelle imprese e nella società?

Continuare ad accrescere il tasso di democrazia interna alle organizzazioni non significa insistere per aprire tali organizzazioni ai meccanismi di espressione del

consenso collaudati nel sistema politico. Questa idea è tuttavia ancora fortemente presente nel dibattito sulla democrazia industriale in Europa, pur risalendo a Stuart Mill.

Non c'è stata una positiva trasformazione morale, ma piuttosto un declino dell'uomo pubblico; la

democrazia appare un pessimo sistema politico, a paragone del quale gli altri appaiono però peggiori. Nelle imprese la psicologia del suddito è stata

soppiantata da una crescente consapevolezza della possibilità di influire sul corso delle proprie azioni da parte dei lavoratori. L'informatica offre un'occasione fondamentale sia per sviluppare il processo democratico attivo nelle organizzazioni produttive, sia per evitare che tale processo democratico assomigli a quello operante nel sistema politico esterno alle imprese. L'ambiguità dell'informatica può risolversi in una mostruosa capacità di controllo totalizzante e minuto sull'individuo di stampo orwelliano, ma può anche favorire il controllo dell'intreccio tra lavoro e politica, tra decisioni micro e decisioni macro, tra operazioni di breve periodo e piani di lungo periodo.

Le prospettive aperte dall'informatica appaiono però in larga parte interne ad una logica del sistema economico e delle strutture organizzative che contrasta profondamente con la logica degli ecosistemi naturali, in particolare di quelli biologici. La divaricazione tra sistema economico ed ecosistemi naturali è crescente: ne sono un sintomo la presenza diffusa di movimenti ecologisti di «verdi» in tutti i Paesi occidentali, ma anche gli avvertimenti pressanti ed inascoltati di tecnici e scienziati di campi de! sapere molto diversi tra loro, come geologi, medici, biologi, sociologi e psicologi. Di tale divaricazione molti

hanno una percezione confusa, percezione che alimenta nostalgie preindustriali, accuse alle multinazionali ed una crescente «moda» ecologistica, vissuta come alibi.

Quale fondamento e quali prospettive hanno tali atteggiamenti?

Il problema della

divaricazione tra logiche del sistema economico e logiche degli ecosistemi naturali è mal posto se viene ridotto alle logiche malvagie delle multinazionali, che pure operano.

Esiste un altro versante altrettanto importante: si tratta dei comportamenti individuali che solo in parte sono determinati dalle influenze dei gruppi multinazionali.

Il comportamento economico individuale appare oggi altamente razionale: è un prodotto ammirevole dell'evoluzione biologica, determinato in larga parte dall'immenso aumento della durata media della vita umana, avvenuto nell'ultimo secolo. All'inizio del secolo la vita mediana (non la media) era di meno di vent'anni per metà della popolazione; oggi supera i settant'anni.

Il successo riproduttivo, l'aumento della «idoneità riproduttiva» è enorme; si vive più a lungo e meglio di quanto non si sia mai verificato nella storia, sfruttando a fondo le possibilità della scienza e della tecnica. Tale

orientamento, soprattutto per i Paesi industriali, ha modificato l'ambiente tecnico in cui viviamo, interferendo sempre più a fondo con l'ecologia. Il paradosso è che comportamenti di origine evolutiva, che hanno avuto tanto successo, debbono ora essere modificati, in quanto hanno intaccato la propria base di sopravvivenza. Il problema è difficilissimo da risolvere: si tratta di modificare comportamenti che per tempi lunghissimi sono risultati razionali e vincenti.

Occorre ora diffondere l'idea che il comportamento delle persone è sostanzialmente razionale, ma va modificato profondamente per evitare le conseguenze nefaste dell'interazione. Occorre diffondere l'approccio evoluzionistico, per capire da dove veniamo e dove andiamo ed è indispensabile che la gente si approprii di tale quadro, di tale contesto, per modificare via via il proprio comportamento anche individuale.

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MATERIALI DI

DISCUSSIONE

LE RIFORME

ISTITUZIONALI:

QUALI ASPETTATIVE

DALLA POLITICA?

Politica

per innovare

o politica per

convivere ?

di Mario Dogllani

ranne i pochi casi nei quali l'intervento dello Wr studioso si autolimita a ordinare e sistematizzare la gran massa delle posizioni espresse, la discussione sulle riforme istituzionali — anche se condotta da professionsiti della cultura che si avvalgono delle loro conoscenze per formulare le proposte che sostengono — è una discussione politica, nel senso che consiste in interventi propositivi o normativi intorno a ciò che è considerato utile o inutile al perseguimento di questo o quel fine. È quindi nella natura stessa dell'oggetto della discussione che le contingenze pesino su di essa, ed è anche inevitabile che esercitino un influsso talora negativo, gonfiandola di prese di posizione di consistenza effimera, ed imprimendole un andamento sussultorio che la espone ai fuochi di paglia delle mode. Fino a qualche tempo fa, comunque, le sue costanti apparivano abbastanza chiare: da un lato chi si muoveva in continuità con la tradizione positivistica dello studio del diritto pubbico (per non risalire, in questa sede, a precedenti più antichi e illustri) riteneva l'ordine politico fondato

sulVimperium dello stato, e conseguentemente proponeva misure atte a concentrare nelle istituzioni un potere che si giudicava disperso tra troppi soggetti sociali, mirando nel contempo a riequilibrare, all'interno di queste, la legittimazione elettiva attraverso una espansione di quella fondata sul principio di competenza. Dall'altro lato chi si richiamava — nel solco di una tradizione risalente all'origine delle

socialdemocrazie europee — all'idea della diffusione e socializzazione come strumenti per mutare la natura della politica, facendone da funzione speciale e artificiale per l'esercizio dell'autorità, un canale per la partecipazione all'esercizio del potere da parte di soggetti sociali nel passato esclusi, proponeva misure atte, al basso, a distribuire competenze tra il maggior numero di sedi di partecipazione (sia di interessi diffusi che corporativi) e, dall'alto, mirava a configurare, sotto il tema della

programmazione, una sintesi tra i tradizionali mezzi di autorità, l'apporto degli specialismi e il confronto con le grandi organizzazioni degli interessi.

Non richiede certo molto spazio la dimostrazione del fatto che la seconda impostazione è stata, negli anni settanta, quella

vincente, per lo meno per la prima parte dei suoi obiettivi, quelli relativi ai rami bassi del sistema. Dall'ordinamento regionale all'amministrazione locale, dall'ordinamento giudiziario alla scuola, alla sanità, alla polizia, alle carceri, al pubblico impiego, la direzione delle riforme attuate o proposte è stata quella di far leva sugli interessi coinvolti e, coerentemente con una concezione rigida che conglobava tutta l'amministrazione nella politica vista come conflitto immediato di interessi che permea tutto l'iter delle decisioni pubbliche, si è tentato di spostare la maggior parte del potere decisionale negli organismi rappresentativi, in

deperimento dei ruoli fondati sul principio formale di competenza. La delega delle questioni economiche al sindacato rispecchia la stessa concezione.

/

a dissoluzione della politica — interpretata come funzione di repressione degli interessi nemici, variamente dissimulata sul piano ideologico — attraverso la diffusione di quest'altra forma di

politica-partecipazione, era un esito ricercato e previsto da questa strategia.

E certo che la prospettiva che stava all'orizzonte, quella di una riforma, o rifondazione, della politica per cui si sarebbe passati, attraverso mediazioni razionali e scalari tra interessi concreti, ad un modello di loro

generalizzazione discorsiva, non si è realizzata. Quello che stupisce però è che, in questi casi e di fronte all'emergere

dell'immediatezza degli interessi, ci siano stati solo tentativi minoritari (il neocontrattualismo) per costruire una prospettiva di politica razionale che partisse dal dato acquisito (o perseguisse l'intento iniziato) della critica alla politica come funzione specializzata. C'è stato invece o un arrembaggio allo scambio voti/risorse

amministrativamente controllate, condotto fino a forme delinquenziali, oppure una invocazione alla «politica» fondata su urta interpretazione tutta e solo negativa (e scandalizzata) del contrasto degli interessi grezzi, e concepita come rimedio ai loro

particolarismi, agli egoismi, alle corporazioni... Una politica ricercata come manifestazione di una razionalità a priori, e quindi

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Istituto Gramsci p i e m o n t e s e : La biblioteca di nuovo come una

interpretazione delle domande, e non come una loro generalizzazione procedimentale realizzata attraverso l'intervento dei loro portatori. i delineano — dentro ^ ^ questa ricerca di un superamento della frammentazione — due posizioni, apparentemente antitetiche ma in realtà vicinissime, e che anzi si rovesciano immediatamente l'una nell'altra. Da un lato quella dell'autonomia del «politico», e dall'altro quella della cancellazione del politico attraverso la tecnocrazia.

11 ritrarsi della ragione forte, totalizzante (ancora presupposta nelle impostazioni

programmatone), di fronte alla società complessa, da un lato induce a prospettive di specializzazione della politica, che non essendo più fondata su ipotesi di ragione universale, diventa una politica per pochi.

Ma mentre sembra celebrare, attraverso la distruzione delle premesse razionalistiche del governo di tutti, del governo del quisque e populo, il massimo della sua autonomia e specificità, la politica così intesa immediatamente si cancella, perché si consegna e si identifica con la tecnica. Che cosa è infatti il governo dei pochi se non

l'applicazione di un sapere che produca regole più certe e misurabili di quelle caduche e contraddittorie prodotte dai meccanismi rappresentativi e partecipativi? La ragione debole, che non pretende più di governare in modo onnisciente, porta sì a limitare la politica espansiva e totalizzante, e a renderla autonoma come funzione specifica, ma

immediatamente identifica questa specificità con il sapere, e la politica non è più, per nulla, autonoma; è la garanzia, la porta tenuta aperta, agli specialismi; la forza che ne rende effettive le decisioni tecniche. La pretesa della innovazione dall'alto, attraverso la politica, si tramuta immediatamente in quella della sua realizzazione attraverso la scienza.

/

a questione, da qualunque parte la si rigiri, è tremendamente complicata. Da un lato la consapevolezza che esistono alcuni obiettivi generali non raggiunti che riguardano non problemi di frontiera, di mutamenti di civiltà, ma «solo» un più decente funzionamento degli apparati

pubblici e la attenuazione di ingiustizie persistenti e profonde, farebbe individuare nel reticolo degli interessi minuti il cui peso è amplificato dai meccanismi politici ed elettorali, l'ostacolo che impedisce, con i suoi veti, il loro

raggiungimento. E da una tentazione di critica alla politica diffusa e pervasiva, come ostacolo e remora alla innovazione, è anche attratto chi non ritiene accettabile che qualunque idea o progetto sia svuotato del suo contenuto proprio e schiacciato, funzionalizzato, nell'unica prospettiva — che appare considerata — dei rapporti di forza. D'altro lato la irrinunciabilità del considerare la ragione dei singoli individui come la base dell'ordine politico, per le conseguenze in termini di libertà che ha questa pretesa, porta a valorizzare

l'elemento consensuale e discorsivo delle decisioni politiche.

Che fare? Le perplessità, le oscurità e i rischi che sono evidenziati dai tentativi di ridefinire i concetti di rappresentanza e legittimazione, dimostrano che le riforme istituzionali non devono spingersi fino al punto di rimettere in discussione questi loro fondamenti. Più che di riforma istituzionale, termine ambizioso e con pretesa di globalità, si deve parlare di riforme di alcune istituzioni, senza che con questo si debba cadere nell'angustia delle piccole cose e delle visioni «meccaniche» (e di meccanica rozza: ingranaggi da oliare, meccanismi inceppati, ruggine e simili...). Immagini che non possono non far sorridere se si pensa che N. Bobbio f u accusato di avere una visione «tecnologica» della democrazia per aver sostenuto che essa consiste in poche e chiare regole di procedura. Non si tratta di accontentarsi (seppur nel senso forte indicato da Kelsen) delle istituzioni esistenti, ma di evitare di caricare sulla politica fatta nelle e dalle istituzioni, eccessive attese di innovazione sociale e, conseguentemente, di considerare le istituzioni più come gli strumenti della convivenza che gli acceleratori del mutamento. E può darsi che, in questo modo, si finisca anche con il prestare maggiore attenzione ai veri acceleratori, che operano nella società, nella scienza e nell'apparato produttivo, e dei quali la politica oggi si limita a registrare, sempre in ritardo, gli effetti.

In termini quantitativi la Biblioteca raccoglie circa 900 testate di riviste italiane e straniere che possono essere raggruppate secondo i seguenti argomenti:

Problemi degli enti locali e della

amministrazione pubblica:

riviste e periodici contenenti dati legislativi, giurisprudenziali, amministrativi e di riflessione teorica; Bollettini ufficiali delle Regioni (raccolta Inesistente a Torino, anche presso gli Uffici regionali) per un totale di circa 100 testate; avvio della raccolta ragionata degli atti

parlamentari.

Problemi del lavoro:

mercato del lavoro; formazione professionale; organizzazione del lavoro, ecc...; pubblicazioni periodiche del sindacati e degli imprenditori (sono circa 70 le testate raccolte su questi temi).

Problemi dell'industria, del commercio, del credito, e della finanza:

circa 180 periodici provenienti da: Associazioni della piccola e media industria; Confederazione dell'artigianato; Federazioni degli industriali; Enti governativi; Statali; Parastatali; Regionali; Uffici studi di industrie; Confindustria; Camere di Commercio; Banche; Istituti di Credito; Centri e Istituti di ricerca, quali: CERIS, CESPE, ASFOR, CEEP, CIRIEC, CEDIS, ecc...;

Sezione storica:

circa 300 testate di: periodici riguardanti la storia e le problematiche attuali del movimento operaio e del sindacato; periodici di storia orale, di cultura popolare e di studio delle tradizioni; periodici correnti o cessati di partiti politici.

Sezione piemontese:

circa 100 testate di: periodici locali della regione Piemonte, indipendenti, cattolici e di partiti politici.

Altri periodici:

di attualità politica e di studi politologici; riviste di sociologia e di diritto, insieme ad altre testate riguardanti problemi europei ed internazionali, o temi quali: l'informazione, la cooperazione, l'istruzione, l'agricoltura; bollettini e notiziari di fondazioni, centri studi e organizzazioni culturali italiani. Per quanto riguarda il materiale monografico, sono circa 12.000 i volumi e documenti, opuscoli, atti di convegni, studi e rapporti, schedati non solo per autore, ma anche per soggetti. Sono stati sviluppati inoltre due settori di documentazione su «Relazioni industriali, politica e classe operaia negli Stati Uniti» e sull'«lnnovazlone

tecnologica». Per quest'ultimo rinviamo alla »Guida» preparata da Roberto Maglione.

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T

Il «dilemma di Ingrao»

dì Michele Salvati

V

orrei fare solo un esercizio, parassitario rispetto alle categorie introdotte nel pezzo d'apertura di questo dibattito, e deludente nei suoi risultati. Esso consiste nell'incrociare le categorie di concentrazione e diffusione del potere politico adottate in quel pezzo con un'altra gamma categoriale, ad un estremo della quale sta un intervento esteso dello stato nell'economia e nella società civile, quale avviene nelle forme più sviluppate di Stato di Benessere e di Economia Mista, mentre all'altro estremo ci sta un intervento ridotto, qual era tipicamente quello dello Stato liberale nella seconda metà dell'ottocento. Ne risulta la semplicistica matrice di sotto disegnata

sembrano contraddittori: un elevato grado di diffusione del potere politico, e un elevato grado di intervento dello Stato nel mercato e nella società. Le riflessioni di Pietro Ingrao — la sua aspirazione non solo a «tenere insieme» quei due obiettivi, ma addirittura a vedere nel primo (una più diffusa e intensa

partecipazione democratica) un necessario metodo di controllo efficiente del secondo (una forte responsabilità pubblico-politica nei confronti degli esiti del processo economico) — sono un esempio da manuale della debolezza di proposta di cui dicevamo.

intervento ridotto

intervento esteso dello Stato nella società ed economia concentrazione liberalismo «continentale» tradizionale «statismo» (es. Francia) «neo corporativismo» es. Austria) diffusione del potere politico liberalismo anglosassone (USA, soprattutto) Italia oggi? La natura è semplicistica perché ben altre dimensioni dovrebbero essere aggiunte per affrontare i problemi suggeriti nel pezzo di apertura; rispetto a questo ha però il vantaggio di introdurre in modo pesante una dimensione che non può

mai essere tenuta sullo

sfondo: cioè l'ampiezza dell'intervento dello Stato nella società. Non lo può perché gran parte delle disfunzioni che oggi si lamentano nel processo democratico — quelle dovute alla complessità, soprattutto — sono intimamente legate a questa dimensione, anche se non solo ad essa. Non lo può perché ci sono grandi variazioni — certamente su un asse diacronico, ma

anche su un asse sincronico

— nella ampiezza dell'intervento dello Stato. Non lo può perché il suggerimento oggi dominante al fine di ridurre la complessità è quello di ridurre l'estensione dell'intervento (l'altro, ovviamente, è quello di ridurre il grado di diffusione del potere politico: com'è ben noto, i due

rappresentano modalità complementari più che alternative). E non lo può perché le debolezze di proposta della sinistra oggi derivano in larga misura dal volere tenere insieme due obiettivi che a prima vista

^ e caselle della matrice t meriterebbero f / innumerevoli qualificazioni, frutto di altri assi categoriali che abbiamo omesso. Per evitare l'equivoco maggiore, sottolineiamo subito che l'ambito principale su cui è giocata l'opposizione «concentrazione-diffusione» è quello centro-periferia: l'esempio degli USA è il caso canonico di una società civile forte, che ha nei processi di democrazia locale il nucleo fondamente della legittimità del potere politico. C'è ovviamente un altro ambito su cui può giocarsi quella opposizione, quello

corporativo-autogestionario: di diffusione del potere politico, o invece di avocazione da parte del centro, all'interno di diversi gruppi legati funzionalmente, invece che legati

territorialmente. Ad esempio, tra diverse categorie di produttori (democrazia industriale); o tra produttori e fruitori di un servizio (la democrazia nella scuola, ad esempio; o la «democrazia sanitaria): una soluzione neo-corporativa fortemente centralizzata come quella austriaca — al di là delle differenze rilevanti secondo altri profili — è un caso di «concentrazione» di potere politico altrettanto forte dello «statismo» francese. Alla sinistra democratica non

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piace la concentrazione e piace invece la diffusione del potere politico

(partecipazione), sia a livello locale sia a livello

funzionale. E non piace una limitazione «da Stato minimo» nell'ampiezza dell'intervento: sia

nell'ambito della produzione dei servizi e del controllo e direzione dell'attività produttiva privata, sia nell'ambito dei consumi e della redistribuzione del reddito, essa vede con favore che l'autorità politica si occupi di rettificare gli esiti prodotti dall'operare spontaneo della Società e del mercato.

Questa coppia di

orientamenti («il dilemma di Ingrao») è realmente contradditoria? Per salvare l'ampiezza dell'intervento

meravigliose proprietà che essi gli attribuiscono. Le loro convinzioni vanno però discorse seriamente, ciò che qui non posso fare, limitandomi ad avvertire che anche chi nega a livello di alta teoria l'ottimalità della loro soluzione può essere costretto ad accettarla in casi specifici come un second

best\ lasciare al mercato e

alla spontaneità sociale un determinato ambito di vita associata (l'istruzione, ad esempio, o la sanità, o la fornitura di qualsiasi servizio) è sempre una alternativa possibile anche per chi ritiene che quell'ambito possa essere organizzato meglio in modo politico, ma di fatto viene organizzato peggio. Il liberalismo di ritorno di molti intellettuali e tecnici

cui una organizzazione politica democratica funziona tanto meglio quanto maggiore è il consenso sugli orientamenti di fondo dello Stato, in particolare su ciò che va ritenuto come oggetto di orientamento pubblico (e secondo quali fini), e su ciò che va lasciato alla autonomia dei privati. A questa osservazione si aggiunge una specificazione ulteriore: una volta definiti i confini, e isolati gli ambiti di orientamento pubblico, i criteri di fondo mediante i quali ognuno di questi ambiti è organizzato, e la proporzione di risorse ad essi destinata, non devono essere soggetti a continui mutamenti a seguito di pressioni politiche

contingenti. Il «pubblico» va difeso dal

«politico-delio Stato nella società (Io stato di benessere e la programmazione economica) va necessariamente ridotto il grado di partecipazione democratica, o attraverso una pista «statista», o attraverso una pista «neo-corporativa»? Insomma: una partecipazione più diffusa è una «palla al piede» o è una «marcia in più» per uno Stato di benessere e ad economia mista?

/W m er rispondere a È t r questa domanda M occorre anzitutto aver superato o contenuto le obiezioni liberali contro lo Stato di benessere come economia mista, obiezioni che si collocano prima che si possa porre un problema di organizzazione (accentrata o diffusa) del potere politico. Gli odiatori dello Stato e della politicizzazione della società e dell'economia sono una tribù variegata i cui membri vanno dalla conservazione più autoritaria all'anarchia più sfrenata: sono però tutti i convinti che più spazio si lascia al mercato e alla spontaneità sociale, e più se ne toglie allo Stato e alla politica, tanto più alto è il benessere collettivo. Personalmente non condivido queste convinzioni, e penso che la «società» e il «mercato» ipostatizzati dai liberali non abbiano le

italiani oggi non discende da una vera fede liberale, che da noi non è mai stata e non è molto vigorosa, ma da un semplice giudizio di convenienza tra alternative possibili: il mercato com'è oggi, lo stato e la politica come sono oggi.

questo ci riporta al dilemma di Ingrao, che poi è un dilemma per tutti noi. Un servizio, e più in generale un ambito sociale, può essere organizzato meglio su base pubblica che non mediante ricorso all'autonomia degli interessi privati quando si danno le seguenti tre condizioni: (o) un diffuso e stabile consenso politico sulla natura pubblica del servizio (o ambito sociale), sui fondamentali criteri di organizzazione, sulla proporzione di risorse ad esso destinabili; (6) una burocrazia efficiente, devota alla logica del servizio, ed estranea a logiche politiche più contingenti; (c) se il caso lo consente, una

partecipazione attiva (politica in senso lato, naturalmente, ma non partitica) dei soggetti che fruiscono del servizio o che sono coinvolti nell'ambito sociale

organizzato politicamente. La prima condizione ci riporta alla fondamentale osservazione di Heller per

contingente». È naturalmente la politica che definisce il pubblico e i suoi criteri di organizzazione: ma non deve ridefinirli in continuazione, con sterzate frequenti e distruttive delle routines organizzative.

(ti) Questo ci porta alla

seconda condizione, poiché una delle ragioni, certo non l'unica, della inefficienza delle nostre strutture amministrative pubbliche consiste proprio nell'instabilità e continua mutazione del quadro normativo in cui si trovano ad operare: affinché i pubblici amministratori possano essere devoti alla logica del servizio, una logica del servizio deve anzitutto esserci.

Naturalmente questa è una sola delle condizioni — per quanto importante. Ce ne sono altre, purtroppo anch'esse assenti nel nostro Paese, e presenti invece in altre tradizioni culturali-politiche. Nell'argomento non posso entrare ora: ma non credo di esagerare se affermo che un progetto di lunga durata di riforma della Pubblica Amministrazione è il vero «Hic Rhodus» della sinistra. È la sinistra che ha interesse a rafforzare la mano pubblica: l'inefficienza dello Stato è una vera bazza per i liberali, e finora ne hanno profittato politicamente molto poco.

(10)

T

(c) Circa la terza condizione,

mentre sono convinto che molti servizi e molti ambiti di intervento pubblico devono essere organizzati all'interno di una rigorosa delimitazione di risorse - su base locale/funzionale, ho poi parecchi problemi sul modo in cui funziona la «partecipazione politica» in queste sedi. Affinché la «partecipazione politica» sia uno strumento per adattare la macchina amministrativa pubblica alle esigenze dei fruitori di un servizio (e comunque dei cittadini coinvolti nell'ambito considerato) costoro devono essere indotti a partecipavi come tali ancor prima di sentire l'atto di

partecipazione come espressione di un orientamento politico-partitico. Ed affinché possano essere indotti a parteciparvi «come tali», il rapporto tra esiti della partecipazione e risorse ad essa destinate deve essere avvertito come un rapporto favorevole. Come è ben noto, le condizioni in cui quel rapporto è favorevole non ricorrono tanto facilmente. La partecipazione costa, e costa tanto di più a chi ha meno risorse in generale. E gli esiti della partecipazione sono spesso deludenti. Sia perché la posta in gioco è spesso poco elevata (altrove, genitori poco soddisfatti di un insegnante possono rapidamente indurne

l'allontanamento: è possibile e si vuole arrivare a questo nel nostro Paese?). E poi perché la logica binaria del sistema democratico mal si adatta a tenere conto di esigenze particolari: vi saranno sempre minoranze, anche notevoli, insoddisfatte. Inevitabilmente (o no?) la logica politico-partitica e / o l'assenteismo verranno a dominare le istanze rappresentative, cosi frustrando lo scopo vero della partecipazione di base.

crivevo all'inizio che il ^ ^ mio intervento sarebbe stato deludente nei suoi risultati. Il «dilemma di Ingrao» (palla al piede o marcia in più?) non solo non può ricevere risposta, ma non può neppure essere correttamente impostato in poche paginette. Ma forse sono riuscito a dare l'idea che un dilemma esiste. E forse è trapelato tra le righe anche un orientamento di fondo. Per distorsione professionale, sono portato ad essere più attento agli

outputs di un processo

politico-economico (gli esiti di una politica economica, l'efficienza di u n a prestazione di consumi pubblici...) che non ai suoi

inpusts in termini di risorse

di consenso; oppure, con evidente peccato di illuminismo, credo che tra

outputs ed inputs debba

esistere una qualche correlazione per cui i destinatari di un buon servizio o di una buona politica debbano ripagare col loro consenso chi li ha intrapresi. Sia come sia, credo che oggi la sinistra debba essere molto preoccupata del grado di disfunzione delle attività gestite od orientate dal settore pubblico, e debba fare di tutto perché la sostanza e l'immagine dello Stato cambino radicalmente. Se e nei contesti in cui questo potrà essere fatto riuscendo a stimolare una vera partecipazione democratica che sfugga agli ostacoli che ho appena discusso, tanto di

guadagnato. Se no, va fatto lo stesso, avendo il coraggio — se è il caso — di riconsegnare al settore privato ciò che questo può fare meglio (ma anche estendendo il settore pubblico laddove il pubblico funziona meglio del privato); avendo il coraggio di togliere la «politica contingente» laddove disturba la logica del servizio; avendo il coraggio di intervenire decisamente

nell'organizzazione del lavoro e nei rapporti di impiego della Pubblica

Amministrazione.

Scorciatoia

decisionista?

di Gian Enrico Rusconi

(11)

cordatola

^ decisionista» è una ^ ^ singolare espressione che circola nel gergo politico di chi si sta interrogando sui prolemi delle riforme istituzionali. È un'immagine efficace indubbiamente, ma che presume di essere anche una critica fulminante a chi vorrebbe accentuare i momenti della decisione politica per rendere più precisa, definita,

identificabile la responsabilità di chi governa, accelerare i processi del governare e quindi la sanzione (politica) per i suoi errori.

Poche parole nella nostra cultura politica sono positive quanto «decisione», cui spesso e volentieri associamo la qualifica di «razionale». Viceversa estremamente sospetto suona

«decisionismo», cui spesso si attribuisce un che dì arbitrario e irrazionale. II tutto potrebbe rimanere circoscritto in un dibattito di semantica politica, se non stesse diventando parte integrante della discussione in corso sulle riforme istituzionali.

In realtà, se vogliamo rimanere nella logica istituzionale attuale, le cose da fare sono relativamente poche (sistema

monocamerale, rafforzamento dell'esecutivo secondo le indicazioni già presenti nella Costituzione). Quand'anche ci spingessimo a ipotizzare riforme più consistenti (abbandono del sistema proporzionale o addirittura forme di selezione diretta del Capo dello Stato o del Primo Ministro) la dinamica che si mette in moto è ragionevolmente prevedibile, nel bene come nel male. Abbiamo davanti agli occhi sufficienti esperienze storiche e possediamo sufficiente maturità democratica per discutere con chiarezza, senza lanciare anatemi catastrofici. L'evocazione di fantasmi schmittiani è fuori luogo. La prospettiva peggiore è quella tracciata da Gianfranco Miglio (anzi dalla sua filosofia personale, non dal modello

costituzionale offerto dal cosidetto gruppo di Milano nel suo complesso). Tutto questo è un invito a non sollevare un polverone «anti-decisionista», a non dirottare in polemica ideologica una

impasse che va affrontata

con strumenti più precisi. Non si tratta affatto di banalizzare la serietà della posta in gioco. Al contrario occorre trovare concetti giusti per una battaglia giusta.

® n questa sede non si ^ È farà alcuna proposta M * istituzionale più o meno decisionista. Solo alcune riflessioni preliminari sul nodo centrale del rapporto parlamento-governo. Le critiche principali al rafforzamento dell'esecutivo vengono da coloro che già lamentano la crescente emarginazione del parlamento italiano. Ma la perdita di centralità dell'assemblea legislativa non è uno specifico risultato perverso del nostro sistema partitico o un episodio congiunturale. Se ne parla da anni fuori Italia a proposito di sistemi ben più stabili e funzionanti. Anzi proprio l'instabilità del nostro sistema di coalizioni, tenendo occupato il nostro parlamento nella sua prerogativa di fare e disfare i governi, gli ha consentito per molto tempo di percepirsi al centro della politica. Ora di colpo molti si interrogano sul senso della sua crescente o latente emarginazione. Lo scorso anno fu l'episodio del primo «scambio politico» (il famoso accordo del 22 gennaio) ufficializzato sulla testa del parlamento; settimane fa l'uso spregiudicato del governo Craxi dei decreti-legge e dei voti di fiducia. Si tratta ovviamente di due fenomeni di natura diversa, che portano tuttavia all'identico problema.

Per spiegare l'indebolimento del ruolo del parlamento in sistemi politici stabili si portano due ragioni. Innanzitutto il crescente peso politico delle organizzazioni degli interessi le pone in diretto rapporto con l'esecutivo. Le grandi organizzazioni degli interessi controllano e mobilitano quel consenso di massa che è la risorsa diretta per lo «scambio politico». Non hanno bisogno della mediazione del parlamento per stabilire termini favorevoli di scambio. Questo rapporto diretto e privilegiato è legittimato da un secondo elemento. Nei grandi sistemi democratici esiste una sostanziale simmetria tra interessi organizzati e schieramenti partitici. Ad un sindacato unitario

corrisponde un grande partito dei lavoratori che, a sua volta, è o al governo o all'opposizione senza possibilità di equivoco. Questa simmetria tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica semplifica enormemente i meccanismi decisionali, almeno dal punto di vista delle procedure. Il depotenziamento del parlamento è un effetto secondario di questa

semplificazione. Questo meccanismo viene spesso definito con tono scandalizzato «neo-corporativismo» che attenta alla sovranità del

parlamento. È un giudizio piuttosto affrettato. Quello che succede è qualcosa di diverso: il parlamento ratifica, certo, accordi stipulati da altri attori politici. Ma questi attori sono in sostanziale consonanza con le forze che siedono in parlamento e vi detengono una posizione omogenea, sia essa al governo o all'opposizione. Le cose cambiano completamente se ci spostiamo in Italia — non foss'altro per la sistematica asimmetria tra

rappresentanza sociale e rappresentanza politica (i lavoratori organizzati si sentono rappresentati metà da forze al governo e metà da quelle d'opposizione). Un eventuale intervento del parlamento non semplificherebbe affatto il problema — tanto meno farebbe passare da una pratica «corporativa» ad una «democratica». È quanto invece si sente dire con insistenza. Massimo Riva ad esempio su La Repubblica spesse volte insiste su questo motivo, stigmatizzando accordi del tipo gennaio 1983 come involuzione neo-corporativa da correggere con l'intervento del parlamento. Soltanto se il compromesso tra le parti sociali — scriveva il 5 novembre u.s. — «viene raggiunto con una combinazione di fattori liberamente pilotata dal parlamento, si ha democrazia parlamentare». Confesso di non comprendere il senso di questo correttivo democratico-parlamentare. Si deve mandare una

Commissione parlamentare al tavolo delle trattative con sindacati e imprenditori? Si deve dibattere in assemblea il testo dell'accordo sul costo del lavoro sovrapponendo al compromesso tra le parti sociali anche il compromesso tra i partiti? Se questo avvenisse, vuol dire che si è irreversibilmente deteriorato il rapporto fiduciario costituzionale tra governo e parlamento. Ma allora non si tratta del contrasto tra «coatte procedure

corporative» (del governo) di contro a corrette «procedure democratiche» (del

parlamento). Semplicemente si ha un governo che non governa. Non governa perché non dispone di una

maggioranza sicura e omogenea. È a questo punto che compare la tentazione «decisionista» di eludere o allentare il controllo del

(12)

parlamento.

Slamo in pieno nell'aporia del rafforzamento dell'esecutivo. Inutile nasconderla. La filosofia del rafforzamento dell'esecutivo (al di là delle sue tecniche) consiste nell'assegnare un plusvalore istituzionale ad una sicura compagine politica. Sarebbe

completamente snaturata se premiasse per via istituzionale un governo incapace di una propria consistente base. Ma un governo con una solida base parlamentare non dovrebbe aver bisogno di plusvalore istituzionale. Da qui il paradosso che — in un sistema come il nostro — il rafforzamento dell'esecutivo ha un effetto deterrente innanzitutto sulla propria base.

La cosa è meno scandalosa nella sostanza di quanto non appaia nella sua forma logica. In un sistema di intersecazione degli interessi e di lealtà incrociate (come è il caso dei sindacati verso l'attuale governo) non è più razionale avere un governo che, anziché sopravvivere a colpi di decreto-legge e altre manipolazioni, dispone di un riconosciuto margine di autonomia per decisioni nette, trasparenti, calcolabili nelle premesse e nelle conseguenze? Scatta subito l'obiezione: in questo modo si trasforma in questione istituzionale una questione politica; si cerca di risolvere, anzi di neutralizzare con mezzi istituzionali, un problema che è squisitamente politico.

Naturalmente si può contestare la validità di questa contrapposizione tra «politico» e «istituzionale», replicando che una riforma istituzionale è un atto altamente politico. Ma non è questa la strada corretta per affrontare la sostanza della obiezione, che non a caso è centrale nelle argomentazioni della sinistra. ^ tefano Rodotà è ritornato ancora recentemente su questa problematica in Laboratorio politico (1983, N. 2-3). Il tono è quello

duro e amaro di chi è costretto sulla difensiva, dopo aver creduto di poter sfondare con una strategia d'attacco. Fuor di metafora, rivendica alla stagione alta delle trasformazioni degli anni '70 (divorzio, aborto, Statuto dei lavoratori, Regioni, numerose iniziative di legge ecc.) il carattere di vere e proprie innovazioni istituzionali che ora rischiano di essere neutralizzate da una prospettiva solo-istituzionale e decisionista, restauratrice. «Non si esclude l'opportunità o la necessità di interventi sul terreno strettamente istituzionale, ma si impone di misurare il loro significato e le loro conseguenze anche su obiettivi politici non su un astratto, asettico, imparziale bisogno di rivitalizzare il sistema». In realtà il discorso di Rodotà insiste quasi esclusivamente sui rischi dei correttivi istituzionali: restrizione dell'area della politica, limitazione della rappresentanza, compressione delle domande sociali, esaltazione del momento puro della decisione. È evidente che se questi sono i costi di una riforma istituzionale che accompagna la prospettiva della alternativa di sinistra, è meglio lasciarla perdere. Nel testo tuttavia invano cerchiamo riferimenti precisi a questo o a quello schema di riforma, del partito socialista o di altri. Vi sono soltanto allusioni a progetti inaccettabili perché mere operazioni ingegneristiche anziché strumenti di ricollocazione del potere. «La ridistribuzione dei poteri» rimane per Rodotà il criterio per misurare anche oggi l'efficienza politica. Questa va ricercata nella direzione opposta alla concentrazione. Il parlamento è riproposto nella sua sovrana centralità di grande legislazione e indirizzo, con

funzione di controllo non occasionale né rituale. Esso è il primo garante della visibilità delle decisioni prese nell'area dell'esecutivo. Insomma siamo agli antipodi

del cosidetto decisionismo, dipinto con le tinte più fosche.

Nulla da dire sul

parlamentarismo perfetto di Rodotà. Tutti vorremmo un parlamento così.

Particolarmente interessanti sono le considerazioni sulle procedure legate a maggioranze speciali per le «grandi decisioni». Ma a parte il grado di realizzabilità, molto di quanto è detto non solo è compatibile ma richiederebbe un forte esecutivo. No, non voglio trovare convergenze a tutti i costi. La filosofia del parlamentarismo perfetto fa del governo letteralmente l'esecutore delle proprie direttive. La filosofia dell'esecutivo forte parte dal presupposto che il

parlamento di fatto è incapace di esprimere direttive univoche. Ma sposando la prima filosofia, Rodotà si trova di fronte a cattive sorprese nei suoi ragionamenti. Tutto preso dall'ottica dei primi anni '70 che avrebbero creato sintonia tra richieste emergenti dalla società e capacità di risposta del sistema politico, osserva con soddisfazione che allora non si cercò alcuna correzione istituzionale ma solo «fatti politici». Ma poi si trova bruscamente di fronte al fatto che la «fase costituente del 1976» finisce nel nulla. Appunto. Rodotà individua anche la ragione principale nella mancanza di un «potere di coordinamento». Appunto. Perché allora prende la strada opposta della dispersione dei poteri e contropoteri?

Al di là della sacrosanta preoccupazione per gli spazi di libertà, trovo solo una spiegazione: in un mutato quadro di rapporti di forza tra i partiti l'accrescimento del potere decisionale centrale andrebbe a favore di forze politiche inaffidabili (o semplicemente avversarie). Allora diciamo le cose come stanno: dentro il dibattito istituzionale si incrociano due questioni distinte. Una generale riguarda il «circutio istituzionale» parlamento-governo minacciato da paralisi o intasamento, da cui si potrebbe uscire con una maggiore autonomia dell'esecutivo di fronte ad un parlamento garantito nelle sue piene prerogative di controllo.

E una questione particolare: quale forza politica o coalizione gestirà per prima questa esperienza? Questi sono i punti da affrontare senza enfasi decisionistica o antidecisionstica.

(13)

VALUTAZIONE E

CONTROLLO

DELL'EFFICIENZA

PRODUTTIVA NEL

SETTORE PUBBLICO

Alcuni recenti filoni

di indagine

di Piervincenzo Bondonio

/

a crescita della dimensione del settore pubblico, che concorre a caratterizzare la storia dei paesi industriali dell'occidente negli ultimi decenni, continua a riproporre l'annoso tema della valutazione della spesa, ed in particolare della valutazione dell'efficienza di quella parte della spesa che finanzia la produzione di servizi pubblici1.

È diffusa infatti l'opinione che in essa si annidino cospicui sprechi, per cui i risultati ottenuti sono inferiori a quelli potenzialmente ottenibili a parità di risorse impiegate. Sprechi, inefficienze e bassi profili qualitativi dei servizi pubblici sono in particolare evidenziati, per quanto riguarda il nostro paese, da confronti — peraltro unicamente condotti con criteri di scientificità — con ciò che succede in altre nazioni, ove pure non dissimile è la quota di risorse assorbite dai consumi collettivi.

Il tentativo di trovare spiegazioni di ordine generale al fenomeno dell'inefficienza nella produzione di servizi pubblici caratterizza quel settore della moderna finanza pubblica noto con il nome di teoria dell'offerta pubblica. Esso si articola in due filoni principali.

Da un lato, l'approccio della scuola di Public Choice, che evidenzia l'assenza o la scarsità di competitività all'interno del settore pubblico, da cui discendono eccessive rigidità o, all'opposto, troppo ampie discrezionalità nelle scelte operate dagli apparati burocratici, entrambe mal conciliabili con i paradigmi dell'efficienza economica. Stilizzando al limite della parodia la linea di

ragionamento, si sostiene che i burocrati non sono interessati al benessere della collettività ma al proprio, e tendono a massimizzare le risorse loro assegnate (le quote di bilancio) perché così aumentano prestigio, potere e retribuzioni; e che i loro controllori naturali, i politici, non sono in grado di opporsi a ciò, in quanto disinformati ed interessati primariamente al

mantenimento della carica2.

D'altro lato, l'approccio della teoria economica dei diritti di proprietà sottolinea le difficoltà con le quali si attua il controllo delle gestioni nel settore pubblico, per effetto dell'intrasferibilità dei diritti di proprietà. Ne discende che gli attori delle scelte non sono incentivati a massimizzare i risultati economici delle gestioni perché questi presentano

riflessi deboli ed indiretti su ciò che affluisce ai cittadini, i potenziali «proprietari». L'inefficienza discende perciò dal contrasto che sussiste tra le regole di comportamento proprie degli amministratori (politici e burocrati) e quelle degli imprenditori che operano sul mercato, ove è presente un continuo controllo — da parte della proprietà — sull'operato dei manager3.

Numerose sono le verifiche empiriche cui queste interpretazioni sono state sottoposte, che ne hanno confermato, pur con ambiguità, gli assunti di base4. Ma, come è stato

osservato5, ciò non può

indurre a proporre come soluzione al problema un massiccio «ritorno al privato», che — tentato o almeno proposto altrove con esiti ancora tutti da verificare — è certamente improponibile nel nostro paese, per consolidate ragioni storiche e per ragioni politiche, quanto piuttosto a dedicare maggiore attenzione, sul piano sia culturale che operativo, al tema dell'efficienza nella produzione dei servizi pubblici e quindi a sviluppare tecniche di misurazione e di analisi di tale fenomeno e poi a proporre articolate proposte di riassetto.

u questo piano di indagine, in tempi recenti si sono venuti sviluppando in Italia numerosi filoni di ricerca e di proposta. Essi utilizzano metodi diversi e manifestano obiettivi non coincidenti, ma presentano almeno un connotato comune: quello di privilegiare, come oggetto di analisi, singole unità operative-amministrative (un ente locale, specifici servizi prodotti da più enti di pari livello, uffici e comparti della PA centrale,...). Sono tutti, cioè, approcci di tipo sostanzialmente «micro», che cercano di situare la ricerca del controllo dei risultati economici delle gestioni partendo dal basso, dall'analisi dei

comportamenti delle singole unità, pensando di riuscire così a cogliere meglio la realtà e ad ottenere valide indicazioni sui punti di attrito specifici e più generali . Come tali, si contrappongono gli approcci «macro», che hanno caratterizzato precedenti fasi di ricerca, esauritesi in conati di riforma generale delle istituzioni, con risultati ampiamente inferiori alle attese. In quanto segue soffermerò brevemente l'attenzione su tre filoni di ricerca.

(14)

n primo filone, facendo uso di tecniche relativamente sofisticate, propone di applicare al settore pubblico strumenti di analisi economica ed econometrica originariamente elaborati con riferimento alla produzione di mercato1.

Alcune caratteristiche della produzione di servizi pubblici (locali, nelle applicazioni finora realizzate) vengono studiate attraverso la stima di funzioni di costo, che collegano i costi di produzione ai prezzi dei fattori e alle altre variabili esplicative dei differenziali di costo. Il problema proposto consiste essenzialmente nel ricavare le informazioni sulle caratteristiche produttive e sull'efficienza (o meglio, su due tipi diversi di efficienza produttiva: tecnologica e gestionale) dai costi di produzione applicando uno dei risultati più rilevanti del cosiddetto «approccio duale», secondo cui, a certe condizioni, la funzione di costo racchiude in sé tutte le informazioni rilevanti sulla tecnologia adottata da un'unità produttiva. L'estensione delle tecniche di rilevazione della produzione in regime di mercato alla produzione di servizi pubblici può essere realizzata, in linea teorica, senza difficoltà eccessive, purché siano adeguatamente evidenziati alcuni aspetti tipici di quest'ultima, quali: 1) la definizione di prodotto; 2) le caratteristiche qualitative dei servizi offerti; 3) l'influenza dei fattori di ambiente; 4) gli elementi di inefficienza insiti nell'organizzazione pubblica8.

Le applicazioni potenziali dell'analisi sono numerose; tra le più rilevanti si possono citare la stima dell'efficienza di forme gestionali alternative (quali la produzione diretta o tramite aziende speciali);

l'individuazione e la stima di eventuali economie di scala nella produzione; l'analisi delle economie connesse alla dimensione demografica degli enti produttori e del grado di divisibilità dei servizi. Le prime applicazioni sono incoraggianti; i risultati conoscitivi, peraltro, sono certamente migliorabili quando le stime potranno utilizzare dati di base più ricchi ed articolati, specie quelli che descrivono i costi dei fattori, o le variabili ambientali rilevanti o, ancora, la qualità dei servizi prodotti.

nche ad arricchire le informazioni di base è finalizzato il filone di ricerca rappresentato dal cosiddetto «movimento

degli indicatori». In termini generali, costituisce un indicatore una caratteristica 0 un insieme di

caratteristiche empiricamente osservabili o calcolabili, secondo gli obiettivi dell'analisi ed il modello interpretativo utilizzato per svolgerla. In una loro prima applicazione, si sono enfatizzate le possibilità di elaborare indicatori di tipo generale (gli indicatori «sociali», di cui quelli economici rappresentano solo una sottospecie), assegnando ad essi, ambiziosamente, il compito di rappresentare una misura diretta del benessere sociale. Nel senso che, se essi si evolvono nella direzione desiderata, a parità di altre circostanze, se ne deduce un miglioramento del «benessere»5.

1 limiti di questo approccio macro sono stati tuttavia presto messi in evidenza: si collegano all'impossibilità di effettuare oggettive valutazioni sul senso della variazione quando gli indicatori segnalano movimenti in direzioni contrastanti, senza che si faccia ricorso a giudizi di valore, fondando su di essi l'assegnazione di pesi ai singoli indicatori, per renderli confrontabili. Dal quadro di sintesi messo in luce dagli indicatori non è quindi possibile trarre indicazioni univoche sulle politiche da perseguire per correggere i movimenti negativi. Riflettendo su queste debolezze delle impostazioni generali, si sono proposte applicazioni più ristrette degli indicatori (ad esempio a singoli settori della vita sociale o economica) e meglio finalizzate (ad esempio, alla valutazione del grado di conseguimento di specifici obiettivi programmatici). Il modello concettuale nel quale l'utilizzo degli indicatori è venuto generalizzandosi utilizza un approccio iterativo: si inizia definendo un primo, grezzo modello interpretativo dei fenomeni oggetto di analisi, da cui si trae una sintesi provvisoria i cui termini sono oggetto di rilevazione sistematica nella loro evoluzione, ottenendo informazioni che permettono di raffinare il modello, dal quale trarre una seconda sintesi e così via. Le applicazioni degli indicatori sono state particolarmente numerose nei settori ove si ha una rilevante produzione pubblica di servizi (sanità, istruzione, sicurezza sociale). Qui la gamma degli indicatori rilevanti è ampia e variegata: si hanno infatti indicatori di risorse, di domanda, di attività, di efficienza, di bisogno, di

risultato, di efficacia... Nel nostro paese è il settore sanitario a catalizzare attualmente risorse di ricerca ed attenzioni particolari. Indicatori per il Servizio Sanitario Nazionale sono infatti in corso di elaborazione, a livello sia nazionale che regionale, per la verifica e la valutazione dei piani sanitari10.

jm m n terzo filone, M M y elaborato con

riferimento alla produzione di servizi pubblici locali (ma poi anche ad altri comparti delle

amministrazioni pubbliche) si propone obiettivi più specificamente normativi, in termini di coerenti azioni di miglioramento dell'efficienza operativa e, a più lungo termine, dell'efficacia. Esso si ispira ad alcuni dei metodi per la misurazione della produttività pubblica e, ancor più, per tentare di aumentarne il livello, che hanno trovato iniziale elaborazione, negli ultimi trent'anni, nell'ambiente scientifico ed amministrativo americano, con differenziate applicazioni in alcuni paesi europei".

L'approccio alla valutazione dell'efficienza produttiva è «integrato», nel senso che tende ad avvalersi sistematicamente di metodiche proprie di una gamma ampia di scienze sociali (non solo l'economia, ma anche la scienza dell'organizzazione e la politologia, la psicologia) ed è molto attento ai risvolti normativi, rappresentati dalle modifiche che occorre introdurre nei processi decisionali per produrre risultati tangibili in termini di utilizzo «razionale» delle risorse (finanziarie, umane, tecnologiche, organizzative) impiegate nella produzione dei servizi12. Le prime

applicazioni hanno — a parere di chi scrive — evidenziato una buona potenzialità dello strumento, che risulta particolarmente accentuata in una prospettiva di determinazioni di processi di autoanalisi da parte delle amministrazioni pubbliche che lo adottano. Nel contempo ha sottolineato la rilevanza dei vincoli che discendono dalle imperfezioni dei processi decisionali e del sistema di incentivi propri del pubblico impiego (riconducibili, nella sostanza, ad alcune delle ipotesi richiamate nel par. 2). Vincoli ed imperfezioni risultano peraltro meglio compresi nel loro impatto effettivo, e ciò può contribuire a creare condizioni favorevoli ad interventi che ne allentino gradualmente la portata.

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