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Claudia Madiai Dipartimento di Ingegneria Civile – Università di Firenze 1. INTRODUZIONE

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IL MANUALE INTERNAZIONALE TC4 PER LA ZONAZIONE DEI RISCHI GEOTECNICI: UN ESEMPIO DI APPLICAZIONE AL CONTESTO ITALIANO

Claudia Madiai

Dipartimento di Ingegneria Civile – Università di Firenze

1. INTRODUZIONE

L’osservazione dei danni causati da numerosi terremoti distruttivi avvenuti in varie parti del mondo, ha evidenziato ripetutamente che una corretta progettazione strutturale antisismica non è da sola sufficiente a garantire condizioni di sicurezza adeguate e che strutture e infrastrutture dimensionate per resistere ad azioni sismiche anche molto violente possono perdere la loro efficienza per problemi dipendenti dalla natura del terreno di fondazione.

In relazione al comportamento che i terreni di fondazione presentano in occasione di un determinato evento sismico, essi possono essere suddivisi, in prima approssimazione, in due grandi categorie : “terreni instabili” e “terreni stabili”.

Alla prima categoria appartengono quei terreni in cui si manifestano, durante un terremoto, fenomeni di instabilità o deformazioni permanenti che, essendo associati a grandi movimenti, causano inevitabilmente il collasso delle opere sovrastanti. È questo il caso di movimenti franosi di varia natura, crolli di ammassi rocciosi, cedimenti legati alla presenza di cavità o causati da fenomeni di liquefazione di terreni saturi o di densificazione di terreni granulari sopra falda, dislocazioni lungo faglie attive (Fig.1).

La seconda categoria comprende invece quei terreni in cui gli sforzi generati dal terremoto risultano inferiori alla loro resistenza al taglio e nei quali, tuttavia, le condizioni morfologiche e le proprietà geotecniche possono favorire fenomeni di focalizzazione delle onde sismiche o di risonanza tra onde sismiche e terreno che esaltano l’ampiezza delle

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vibrazioni del moto sismico, dando luogo a livelli di danneggiamento molto diversi in siti posti anche a breve distanza tra loro (Fig.1).

Per la progettazione e la salvaguardia di costruzioni ed infrastrutture non si può,

pertanto, prescindere dall’analisi dei fenomeni legati agli effetti di interazione tra moto sismico e terreno, dei quali la liquefazione, la franosità e l’amplificazione della risposta sismica rappresentano le categorie più significative.

Effetti amplificativi

Crolli

Liquefazione

Addensamento

Frana

Ipocentro

Figura 1 - Possibili effetti locali indotti da un evento sismico

La scelta di un livello di protezione adeguato per una singola opera di ingegneria civile o, più in generale, per un insediamento, implica l’assunzione di un valore accettabile del rischio, R, che, secondo una definizione correntemente usata in ingegneria sismica, è dato dal prodotto tra vulnerabilità (V) e pericolosità (H).

La vulnerabilità è il livello di danno atteso nel sito di interesse in seguito a un evento sismico di assegnata intensità. Dipende dalle caratteristiche del contesto ambientale, fisico, economico, sociale, storico e culturale al quale appartiene l’opera o l’insediamento.

La pericolosità è la probabilità di occorrenza, in un periodo prestabilito, di un terremoto con prefissate caratteristiche. È funzione della sismicità di riferimento e delle condizioni fisiche del sito. Di conseguenza può essere determinata a partire dalla definizione di un moto sismico di riferimento su terreno rigido standard, tenendo conto di eventuali effetti locali dovuti a fenomeni di natura geotecnica, quali, ad esempio, la liquefazione, la franosità e l’amplificazione della risposta sismica.

Da tutto ciò appare chiaro quindi che il rischio in territori a media e alta sismicità può essere, almeno in parte, mitigato attraverso l’individuazione di zone a diversa pericolosità,

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identificando quelle in cui possono manifestarsi fenomeni di instabilità del terreno e fornendo per quelle stabili indicazioni utili per una corretta progettazione.

Lo scopo di uno studio di (micro)zonazione sismica è appunto quello di assicurare, a opere con caratteristiche simili, un livello di protezione sismica uniforme su tutto il territorio. Anche alla luce dei contenuti del Manual for Zonation on Seismic Geotechnical Hazards (TC4, 1993), uno studio di (micro)zonazione sismica può essere quindi definito come (Crespellani,1998): “l’insieme degli studi sismologici, geologici, di ingegneria geotecnica e strutturale che, sulla base di analisi degli effetti prodotti dai terremoti occorsi in un dato territorio e anticipando con valutazioni quantitative gli scenari e gli effetti che possono essere indotti a scala locale (cioè nei siti, nei terreni di fondazione e nelle costruzioni e infrastrutture, nuove ed esistenti) da un ‘terremoto di riferimento’, stabilisce dei criteri di suddivisione dell’area in esame indicando per ogni zona individuata i parametri ingegneristici da utilizzare per la pianificazione urbanistica e per la progettazione delle costruzioni e delle infrastrutture, indicando le indagini, gli accertamenti e le verifiche da effettuare nel sottosuolo e gli eventuali interventi di stabilizzazione”.

Il Manual for Zonation on Seismic Geotechnical Hazards, redatto dal Comitato TC4 (Technical Committee n° 4 for Earthquake Geotechnical Engineering) della ISSMFE (International Society of Soil Mechanics and Foundation Engineering) (indicato più semplicemente nel seguito come Manuale TC4 o Manuale di Zonazione), rappresenta una guida molto chiara e utile dal punto di vista metodologico per lo sviluppo di studi di zonazione e microzonazione sismica. Oltre agli aspetti che riguardano l’impostazione metodologica, il Manuale TC4 contiene anche la descrizione di alcune procedure standardizzate per la zonazione relativa alla definizione del moto sismico atteso, alla liquefazione e ai movimenti franosi. Ciò appare di grande interesse, in quanto rende possibile il confronto tra i risultati ottenuti in diversi contesti cui tali metodi sono applicabili.

Dopo la sua pubblicazione, sono state promosse numerose iniziative per la sua divulgazione e una parte della Comunità Scientifica Internazionale che si occupa di problemi di zonazione sismica, ha dato inizio a una sperimentazione per verificare l’applicabilità dei criteri proposti nel Manuale TC4 alle realtà di vari paesi del mondo.

Recentemente i risultati di alcune di queste ricerche sono stati presentati in una sessione speciale della 14th International Conference on Soil Mechanics and Foundation Engineering tenutasi ad Amburgo (1997); di questi fa parte l’esempio di applicazione ad una situazione tipica del contesto italiano, riportato nella parte conclusiva del presente lavoro.

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2. STRUTTURA DEL MANUALE DI ZONAZIONE

Nel Manuale di Zonazione vengono prese in esame tre grandi categorie di fenomeni di natura geotecnica associate ad un evento sismico:

− la risposta sismica locale;

− l’instabilità dei pendii;

− la liquefazione.

Per ciascuna di queste vengono presentate alcune metodologie di zonazione, suddivise secondo tre diversi livelli di approfondimento (I,II,III), in relazione all’estensione dell’area da esaminare, al tipo di dati disponibili o acquisibili, al livello di dettaglio della cartografia.

Il I livello (denominato nel Manuale TC4 “Zonazione Generale”) è suggerito per la zonazione di aree molto estese; fornisce indicazioni abbastanza approssimative e richiede un impegno economico limitato. Necessita della raccolta e dell’interpretazione di dati esistenti: notizie sui terremoti storici avvenuti nella zona in esame, informazioni relative alla sismicità, alla geologia e alla geomorfologia. Consente la redazione di mappe in scale comprese tra 1:1.000.000 a 1:50.000, con un contenuto informativo strettamente dipendente dalla qualità dei dati utilizzati.

I metodi di II livello (denominato nel Manuale TC4 “Zonazione Dettagliata”) richiedono, rispetto ai precedenti, la disponibilità di una documentazione più specifica e di maggior dettaglio per la caratterizzazione geologica, geotecnica e geomorfologica dell’area oggetto di studio, da integrare eventualmente mediante analisi speditive in sito. Per ciascuna delle tre categorie di fenomeni geotecnici considerate, i vari metodi possono prevedere anche l’utilizzo di dati particolari relativi al territorio e alle condizioni ambientali: ad esempio la misura di microtremori per la previsione del moto sismico atteso in superficie, i dati pluviometrici e sulla vegetazione per l’instabilità dei pendii, la raccolta di testimonianze locali sugli effetti di terremoti passati e l’uso di foto aeree e telerilevamento per la zonazione nei riguardi di franosità e liquefazione. Le metodologie di II livello comportano costi contenuti e consentono la redazione di carte in scale comprese tra 1:100.000 e 1:10.000.

L’applicazione dei metodi di III livello (denominato nel Manuale TC4 “Zonazione Rigorosa”) richiede una caratterizzazione approfondita e accurata dell’area in esame, ottenuta per mezzo di rilievi topografici e di specifiche indagini geologiche e geotecniche in sito e in laboratorio. Il modello analitico definito sulla base di questi dati viene poi trattato facendo generalmente ricorso all’impiego di procedure numeriche di calcolo automatico. Gli studi di zonazione condotti con un livello di approfondimento così alto presentano costi elevati, anche se spesso costituiscono uno strumento indispensabile per la prevenzione sismica. Per la rappresentazione cartografica dei risultati delle analisi di III livello, vengono indicate nel Manuale di Zonazione scale comprese tra 1:25.000 e 1:5.000.

Il tipo di dati richiesti per ciascuna categoria di fenomeni e le scale di rappresentazione relative ai tre livelli di approfondimento sono riassunti nella Tabella 1.

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Poiché lo scopo del presente lavoro è quello di illustrare alcune metodologie applicabili alla zonazione di grandi aree, nel seguito verranno esaminati in dettaglio solo i metodi proposti dal Manuale TC4 per i primi due livelli di approfondimento.

Tabella 1 - Uso dei dati e scale di rappresentazione per i tre livelli di zonazione (TC4, 1993)

I Livello II Livello III Livello Moto sismico

atteso al sito

• Dati su terremoti storici e informazioni esistenti

• Carte geologiche

• Testimonianze locali

• Microtremori

• Indagini geotecniche speditive

• Indagini geotecniche

• Valutazione della risposta sismica locale Franosità • Dati su terremoti

storici e informazioni esistenti

• Carte geologiche e geomorfologiche

• Foto aeree e telerilevamento

• Indagini geotecniche speditive

• Dati pluviometrici e sulla vegetazione

• Indagini geotecniche

• Analisi

di stabilità dei pendii

Liquefazione • Dati su terremoti storici e informazioni esistenti

• Carte geologiche e geomorfologiche

• Foto aeree e telerilevamento

• Indagini geotecniche speditive

• Testimonianze locali

• Indagini geotecniche

• Stima del potenziale di liquefazione

Scala cartografica

1:1.000.000÷1:50.000 1:100.000÷1:10.000 1:25.000÷1:5.000

3. MOTO SISMICO ATTESO AL SITO

Il moto sismico in prossimità della superficie terrestre è il risultato di una serie di complessi fenomeni di interazione tra il terreno e l’onda sismica nel suo cammino dalla sorgente al sito e la sua conoscenza è di importanza fondamentale per valutare il rischio sismico associato a qualunque fenomeno di natura geotecnica.

Definire il moto sismico in un sito significa individuarne uno o più parametri rappresentativi (per esempio l’intensità, la magnitudo, il valore massimo dell’accelerazione o della velocità, o l’intera storia di accelerazioni, velocità o spostamenti nel dominio del tempo o delle frequenze, ecc.) attraverso l’analisi di un modello che tenga conto dei meccanismi di generazione, di propagazione e degli effetti di sito.

Per la previsione del moto sismico atteso al sito in superficie è dunque necessario tenere conto di tre aspetti fondamentali:

− la sismicità regionale;

− l’attenuazione dell’intensità della scossa sismica con la distanza;

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− gli effetti di sito.

La definizione della sismicità regionale e l’applicazione di adeguate leggi di attenuazione consentono di ricavare i parametri rappresentativi del moto sismico di riferimento (su roccia o su terreno rigido); le procedure che trattano questi aspetti risultano praticamente indipendenti dal livello di approfondimento scelto per la zonazione: il problema viene affrontato su vasta scala e coinvolge competenze specifiche della Sismologia e della Geofisica.

Per questo motivo, nel Manuale TC4, ai fini della determinazione delle caratteristiche del moto sismico atteso al sito, vengono differenziati per livelli di approfondimento soltanto i metodi per la stima degli effetti di sito.

3.1 SISMICITÀ REGIONALE E LEGGI DI ATTENUAZIONE

Per l’analisi della sismicità regionale vengono utilizzate informazioni di tipo sismico e di geologia strutturale.

Le prime possono essere ricavate dalla consultazione dei cataloghi di terremoti storici, in cui generalmente sono contenuti, oltre alla localizzazione geografica e temporale dell’epicentro, sia dati di tipo macrosismico, quindi basati su descrizioni soggettive degli effetti, per i terremoti più antichi, sia dati di tipo strumentale, per gli eventi più recenti.

Le informazioni di geologia strutturale consentono di individuare sul territorio le strutture sismicamente attive e di identificarne alcune caratteristiche principali, quali la geometria, la velocità di scorrimento, i tempi che intercorrono tra successivi rilasci di energia, gli spostamenti rilevati in occasione di terremoti passati.

Sulla base di tali dati, le caratteristiche del moto sismico atteso al sito, su roccia o su terreno duro di riferimento, possono essere determinate seguendo due tipi di approccio, uno probabilistico, l’altro deterministico.

Nel primo caso viene stimata la probabilità di avere al sito un terremoto con assegnate caratteristiche, in un periodo di tempo prestabilito, dopo aver identificato, attraverso l’analisi statistica degli eventi passati e in accordo con i caratteri geologico-strutturali del territorio, le potenziali aree sorgenti sismiche per le quali possono aversi effetti di risentimento al sito, e aver definito, per ciascuna di esse, un valore limite della magnitudo attesa e una relazione tra magnitudo e frequenza dei terremoti; nel secondo caso, dopo aver stabilito in base alle stesse informazioni, la posizione di un epicentro e alcune caratteristiche dell’evento sismico, viene valutato l’effetto di risentimento al sito del terremoto scelto.

Nella Figura 2 è riportata la zonazione sismotettonica del territorio italiano proposta dalla Linea di Ricerca 2 (Sismotettonica) del Gruppo Nazionale per la Difesa dai Terremoti (Scandone, 1997).

Indipendentemente dal tipo di approccio utilizzato, probabilistico o deterministico, occorre valutare in quale misura un terremoto che ha origine da una determinata struttura sismogenetica o in una data area sorgente è risentito nel sito in esame. Ciò richiede la definizione della legge di attenuazione di uno o più parametri sismici di interesse per il

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tipo di problema in esame, come ad esempio, l’intensità, l’accelerazione o la velocità di picco, o i valori spettrali in termini di accelerazione o di velocità.

Figura 2 – Zonazione sismotettonica del territorio italiano

Le leggi di attenuazione dipendono da numerosi fattori, tra cui la severità del terremoto, la distanza epicentrale, il meccanismo di rottura di faglia, la morfologia superficiale e sepolta, le caratteristiche del mezzo in cui si propaga l’onda sismica. Fino ad oggi la determinazione delle leggi di attenuazione in un’area è consistita nella ricerca di relazioni empiriche ottenute su base statistica dai dati relativi ad eventi storici che hanno interessato l’area in esame; approcci di tipo teorico o semiempirico sono ancora in fase di approfondimento.

Nella Tabella 2 sono riportate alcune leggi di attenuazione dell’intensità e dell’accelerazione di picco ricavate per il territorio italiano; mentre nella Figura 3 e nella

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Tabella 3 è mostrato il confronto tra la relazione di Sabetta e Pugliese (1987) e le leggi di attenuazione dell’accelerazione di picco proposte da altri Autori per siti americani e giapponesi.

Tabella 2 – Leggi di attenuazione per siti italiani Autore Legge di attenuazione Crespellani e al. (1992) IMCS=6.39+1.756 M -2.746ln(R+7)

Sabetta e Pugliese (1987) log(A)=-1.845+0.363 M -log D2 +25+0.195S A in g Tento e al. (1992) ln(A)=4.73+0.52M -0.00216R-ln(R) A in gal IMCS= Intensità MCS al sito

A = Accelerazione di picco al sito M = Magnitudo

R = distanza ipocentrale (km)

D = distanza epicentrale (km) S = coefficiente pari a:

0 per terreni duri e profondi 1 per terreni superficiali

Figura 3 – Confronto tra alcune leggi di attenuazione per l’accelerazione di picco

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(TC4, 1993)

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Tabella 3 – Confronto tra alcune leggi di attenuazione per l’accelerazione di picco Autori e Base dati Legge di attenuazione

Sabetta e Pugliese (1987) 190 registrazioni italiane

S 169 . 0 8 . 5 D log - M 0.306 1.56

-

log(A)= + 2+ 2 +

6.8 M 4.6 Joyner e Boore (1981)

182 registrazioni nordamericane

2 2 2

2 7.3 -0.00255 D 7.3 D

log - M 0.249 1.02

-

log(A)= + + +

7.7 M 5.0 Fukushima e Tanaka (1990)

486 registrazioni giapponesi log(A)=-1.69+0.41 M -log( R+0.032100.41 M)-0.0034R 7.9

M 6.0 A = Accelerazione di picco al sito (g) M = Magnitudo

R = distanza dalla faglia (km)

D = distanza dalla proiezione in superficie della faglia (km) S = coefficiente pari a:

0 per terreni duri e profondi 1 per terreni superficiali 3.2 EFFETTI DI SITO

L’analisi degli effetti di sito consente di definire le caratteristiche del moto sismico atteso, a partire da quelle del moto sismico di riferimento su roccia o su terreno rigido, determinato sulla base della sismicità regionale mediante l’applicazione di una opportuna legge di attenuazione per tener conto della distanza dalla sorgente sismica. Per l’analisi degli effetti di sito il Manuale di Zonazione individua, come già detto, tre livelli di approfondimento, di cui solo i primi due verranno presentati nei paragrafi che seguono.

3.2.1 Analisi di I Livello

Con i metodi di I Livello la valutazione degli effetti di sito è basata sull’impiego di informazioni esistenti. Nell’ambito di questi metodi il Manuale TC4 distingue due tipi di approccio, che considerano rispettivamente:

a) la distribuzione del danno e dell’intensità osservati nell’area oggetto di studio in occasione di terremoti passati;

b) la geologia di superficie.

a) Metodi basati sull’osservazione del danno e dell’intensità

L’elaborazione dei dati relativi alla distribuzione del danno indotto nell’area in esame da terremoti storici distruttivi rappresenta il tipo di approccio più semplice per la valutazione degli effetti di sito. Sulla base delle notizie dirette e indirette di danni strutturali ed effetti locali (frane, crolli, evidenze di liquefazione, ecc.) riportate in testi, documenti e giornali, in occasione di eventi distruttivi avvenuti nel passato, è infatti possibile stimare i valori di intensità in diversi punti del territorio ed eventualmente tracciare il corrispondente andamento delle isosiste. Un esempio di applicazione di questa metodologia è rappresentato dalla carta delle isosiste della città di S. Francisco, elaborata

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da Everdnden e al. (1973), utilizzando i dati relativi al danneggiamento provocato dal terremoto del 1906 (Fig. 4).

Figura 4 - Mappa delle isosiste di S. Francisco durante il terremoto del 1906 (Evernden e al., 1973)

Per l’applicazione dei metodi basati sull’osservazione del danno e dell’intensità ai fini della previsione, è necessario che il terremoto storico analizzato sia forte almeno quanto quello massimo previsto per la zona oggetto di studio, nell’intervallo di tempo prestabilito.

Tuttavia, non sempre è possibile disporre di notizie su terremoti storici sufficientemente rappresentativi; per questo motivo sono stati sviluppati approcci alternativi per il rilevamento delle intensità associate a terremoti piccoli o moderati, in modo da poterne ricavare informazioni utili, anche se in termini relativi piuttosto che assoluti, per eventi più forti. Tali metodi si basano sulla raccolta di informazioni attraverso questionari che contengono domande molto dettagliate sull’esperienza personale in occasione dell’evento sismico (effetti osservati, sensazioni percepite) e che vengono distribuiti non solo alla popolazione delle aree danneggiate, ma anche a quella delle località in cui sono stati risentiti effetti più deboli. L’elaborazione statistica di questo tipo di dati consente la stesura di mappe di intensità o di incrementi di intensità.

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Riguardo al territorio italiano, la distribuzione delle intensità e l’andamento delle isosiste dei maggiori terremoti storici (con I ≥ IX MCS) sono contenute nell’Atlante delle isosiste redatto dal Gruppo Catalogo dei Terremoti del CNR (Postpischl, 1985b), dal quale è tratta la mappa delle isosiste relativa all’evento dell’Irpinia del 1980, ricostruita sulla base del danneggiamento rilevato in circa 300 abitati e dei dati raccolti attraverso un questionario distribuito in circa 1300 località appartenenti all’area di risentimento (Fig. 5).

Figura 5 - Isosiste del terremoto irpino del 1980 (Postpischl e al., 1985b)

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b) Metodi basati sulla geologia di superficie

Alcuni metodi di I livello utilizzano le conoscenze esistenti sulla geologia superficiale, correlando qualche parametro significativo del moto sismico atteso al sito alla natura dei litotipi presenti in superficie.

Poiché le carte geologiche costituiscono un genere di informazione largamente diffusa e facilmente reperibile, l’uso di correlazioni di questo tipo, almeno su larga scala, risulta relativamente semplice, anche se il loro campo di applicabilità rimane a priori ristretto al contesto di origine.

In letteratura sono state proposte una serie di relazioni empiriche tra incrementi di intensità, ∆I, e natura del litotipo affiorante. In particolare, nel Manuale di Zonazione sono riportate le relazioni di Medvedev (1962), Kagami e al. (1988), Astroza e Monge (1991), Evernden e Thomson (1985), ricavate rispettivamente sulla base di osservazioni effettuate durante terremoti avvenuti in Asia Centrale, California, Giappone e Cile. Come si può notare dalla Tabella 4, l’incremento di intensità osservata è inversamente proporzionale alla rigidezza dei diversi litotipi; inoltre, mentre le prime tre correlazioni tengono conto dell’origine e della composizione granulometrica, l’ultima fa riferimento soprattutto all’età geologica e forse questo la rende più affidabile nel caso che venga applicata a zone diverse da quella per la quale è stata ottenuta.

Altri Autori esprimono gli effetti locali in termini di amplificazione relativa, attribuendo a questo termine differenti significati.

Borcherdt e Gibbs (1976) definiscono l’amplificazione relativa come amplificazione spettrale orizzontale media nell’intervallo di frequenze 0.5÷2.5 Hz (AHSA). Dalla misura delle vibrazioni prodotte da una serie di esplosioni nucleari su roccia affiorante e in siti caratterizzati da diverse condizioni geologiche, Borcherdt e Gibbs hanno determinato le amplificazioni spettrali con riferimento al moto registrato su roccia e trovato una correlazione tra l’amplificazione relativa (AHSA) e la geologia di superficie. Gli stessi Autori hanno suggerito l’uso della seguente correlazione per passare poi da AHSA ad incrementi di intensità, ∆I: ∆I = 0.27 + 2.7 log (AHSA).

Shima (1978) ha proposto una correlazione in termini di amplificazione relativa, basata sull’analisi della risposta sismica locale eseguita su modelli numerici. Egli definisce l'amplificazione relativa come il valore massimo del rapporto di amplificazione valutato rispetto al moto di un litotipo di riferimento (limo) nel campo di frequenze 0.1÷10 Hz.

Utilizzando una procedura simile, Midorikawa (1987) ha ricavato una correlazione per categorie più ampie di formazioni geologiche, indicando con il termine amplificazione relativa la media delle amplificazioni nel campo di frequenze da 0.4 a 5 Hz, con riferimento al moto ottenuto per formazioni del Pre-Terziario.

Nella Tabella 5 sono riportati i fattori di amplificazione relativa dei metodi sopra menzionati in funzione delle diverse unità geologiche.

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Tabella 4 – Incrementi di intensità in funzione del litotipo (TC4, 1993) Autore

Unità geologica - Litotipo

Incremento di intensità ∆I Medvedev (1962)

Graniti

Calcari, Arenarie, Scisti Gesso, Marna

Materiali grossolani (ghiaie e ciottoli) Sabbie

Argille Riporti

Terreni saturi (ghiaie, sabbie, argille) Riporti e terreni sotto falda

Scala M.S.K.

0 0.2÷1.3 0.6÷1.4 1.0÷1.6 1.2÷1.8 1.2÷2.1 2.3÷3.0 1.7÷2.8 3.3÷3.9 Kagami e al. (1988)

Detriti di roccia Andesiti Ghiaie

Depositi fluviali Ceneri vulcaniche Limi sabbiosi Limi argillosi Limi

Torbe

Scala J.M.A.

0 0 0.2 0.4 0.5 0.7 0.8 1.0 0.9 Astroza e Monge (1991)

Rocce granitiche Pomici vulcaniche Ghiaie

Colluvioni Depositi lacustri

Scala M.S.K.

0 1.5÷2.5 0.5÷1.0 1.0÷2.0 2.0÷2.5 Evernden e Thomson (1985)

Rocce granitiche e metamorfiche Rocce paleozoiche

Rocce del Primo Mesozoico Rocce dal Cretaceo all’Eocene Rocce del Terziario

Rocce dall’Oligocene al Medio Pliocene Rocce Plio-Pleistoceniche

Rocce vulcaniche del Terziario Rocce vulcaniche del Quaternario Alluvioni (livello di falda < 10m)

(10m < livello di falda < 30m) (livello di falda > 30m)

Scala M.M.

0 0.4 0.8 1.2 1.3 1.5 2.0 0.3 0.3 3.0 2.0 1.5

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Tabella 5 – Fattore di amplificazione relativa in funzione del litotipo (TC4, 1993) Autore

Formazione - Litotipo

Fattore di amplificazione relativa Borcherdt e Gibbs (1976)

Fanghi di baia Alluvioni

Formazione di Santa Clara Sequenza della Great Valley Formazione Franciscana Granito

11.2 3.9 2.7 2.3 1.6 1.0 Shima (1978)

Torba

Terreno vegetale Argilla

Limo Sabbia

1.6 1.4 1.3 1.0 0.9 Midorikawa (1987)

Olocene Pleistocene

Rocce vulcaniche quaternarie Miocene

Pre-Terziario

3.0 2.1 1.6 1.5 1.0

3.2.2 Analisi di II Livello

Nei metodi di I livello sopra considerati la stima degli effetti di sito è basata unicamente su informazioni relative alla geologia di superficie e di conseguenza i risultati che con essi si ottengono sono soltanto qualitativi e molto approssimati. Per migliorare la qualità delle previsioni è necessario caratterizzare il sottosuolo anche in profondità, definendone, mediante l’esecuzione di prove geotecniche e geofisiche, i parametri più influenti sulla risposta sismica.

In particolare, il numero di parametri richiesti per l’applicazione dei metodi di II livello è piuttosto ridotto e la loro determinazione può essere fatta anche sulla base di indagini speditive, utilizzando prove di uso comune e di costo limitato e ricorrendo, se necessario, all’impiego di correlazioni empiriche. Un ulteriore contenimento dei costi può essere ottenuto attraverso la raccolta e l’elaborazione dei dati relativi a prove eseguite precedentemente sull’area in studio.

I metodi di II livello possono essere suddivisi in tre categorie principali:

− metodi basati sulla definizione della velocità delle onde di taglio, Vs;

− metodi basati sulla classificazione dei depositi;

− metodi basati sulla misura dei microtremori.

a) Metodi basati sulla definizione della velocità delle onde di taglio

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L’analisi teorica della propagazione delle onde in uno strato di terreno omogeneo, uniforme, a comportamento viscoelastico, posto su un substrato di rigidezza finita (bedrock), mostra che la velocità delle onde di taglio è un parametro fondamentale per la valutazione della risposta sismica locale di un deposito. In particolare, si ha che il valore massimo della funzione di amplificazione (rapporto tra le ordinate dello spettro di Fourier relativo ai due segnali considerati, al variare della frequenza) tra il moto in sommità e alla base dello strato è dato dall’espressione:

2 ) 1

( 0

Aω µ πD

+

= , dove ωo è la frequenza fondamentale dello strato,

r r

s s

V V

= ρ

µ ρ è il

rapporto di impedenza terreno-roccia (essendo ρr e Vr, ρs e Vs rispettivamente densità e velocità delle onde di taglio nel bedrock e nello strato) e D è il fattore di smorzamento del terreno.

Nel caso dei depositi reali la funzione di amplificazione non è esprimibile in forma analitica, ma può essere determinata mediante l’analisi di modelli semplificati con l’impiego di opportune tecniche numeriche.

Figura 6 - Relazione tra il fattore di amplificazione ed il rapporto delle velocità delle onde di taglio tra bedrock e superficie(TC4, 1993) Nella Figura 6 è riportata la relazione trovata

da Shima (1978) tra i valori di picco della funzione di trasferimento tra superficie e base di uno strato e il rapporto tra le velocità delle onde di taglio al bedrock e in superficie.

Utilizzando le registrazioni di alcuni eventi reali, diversi ricercatori hanno evidenziato la dipendenza dell’amplificazione relativa (termine generale che può assumere diversi significati) dalla velocità media delle onde di taglio nella zona più superficiale del deposito e hanno proposto le correlazioni riportate nella Tabella 6.

Tabella 6 – Correlazioni tra il fattore di amplificazione e la velocità media delle onde di taglio (TC4, 1993)

Autore Equazione

Midorikawa (1987) A = 68⋅V1-0.6 (V1 < 1100 m/s)

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A = 1 (V1 > 1100 m/s) Joyner and Fumal (1984) A = 23⋅V2-0.45

Borcherdt et al. (1991) AHSA = 700 / V1

AHSA = 600 / V1

(weak motion) (strong motion) A = fattore di amplificazione relativa per il picco di accelerazione AHSA = amplificazione spettrale orizzontale media nel range 0.4 ÷2 s V1= velocità media delle onde di taglio fino alla profondità di 30 m (m/s) V2= velocità media delle onde di taglio fino alla profondità di ¼ di lunghezza

d’onda per un periodo d’onda di 1 s (m/s)

In pratica quindi, i metodi basati sulla definizione della velocità delle onde di taglio richiedono:

− L’individuazione del bedrock o comunque dello strato in cui la velocità delle onde di taglio, Vs, è molto maggiore di quella degli strati sovrastanti. Spesso viene assunto convenzionalmente come bedrock lo strato in cui Vs risulta dell’ordine di 600÷700 m/s.

− La stima dell’andamento della velocità delle onde di taglio con la profondità. Tale determinazione può essere fatta direttamente mediante prove per la misura delle proprietà dinamiche in sito (down-hole, cross-hole, SASW) o, secondo quanto consigliato nel Manuale di Zonazione, indirettamente, per mezzo di correlazioni empiriche, a partire dai dati di prove penetrometriche (SPT, CPT). In questa seconda eventualità, è opportuno ricordare che l’uso di relazioni empiriche, ricavate con riferimento a specifiche situazioni locali, richiede comunque una certa cautela.

La maggior parte delle correlazioni esistenti in letteratura tra Vs e gli indici NSPT e qc, delle prove penetrometriche dinamiche e statiche, si presenta nella forma esponenziale:

oppure ; altre tengono conto anche della profondità, D, assumendo la forma: . Alcune di queste correlazioni sono riportate a titolo di esempio nella Tabella 7.

b SPT

s aN

V = Vs =aqcb

c b SPT

s aN D

V =

(18)

Tabella 7 – Correlazioni tra Vs e gli indici di prove penetrometriche

Autori Equazione Coefficienti Terreno

Ohta e Goto (1978) Vs= 68 N0.17D0.2E F E=1.0 E=1.3 F=1.00 F=1.09 F=1.07 F=1.14 F=1.15 F=1.45

Olocene Pleistocene Argilla Sabbia fine Sabbia media Sabbia grossa Sabbia ghiaiosa Ghiaia

Imai (1977) Vs= α Nβ α=102 β=0.29 α=81 β=0.33 α=114 β=0.29 α=97 β=0.32

Argille Olocene Sabbie Olocene Argille Pleistocene Sabbie Pleistocene Lee (1990) Vs= α Nβ α=57.4 β=0.49

α=105.6 β=0.32 α=114.4 β=0.31

Sabbie Limi argille Carrubba e Maugeri (1988) Vs= α Nβ α=48 β=0.55 Argilla*

Muzzi (1984) Vs= α Nβ α=80.6 β=0.331 α=102 β=0.292

Sabbia*

Argilla*

Crespellani e al. (1989) Vs= α Nβ α=71.5 β=0.535 Argilla*

Barrow e Stokoe (1983) Vs= α + β qc α=506 β=2.1 Tutti Mayne e Rix (1995) Vs= α qc β α=1.75 β=0.627 Argilla

* terreni italiani

Dai valori dei coefficienti αeβ che compaiono nella Tabella 7 (nella quale N=NSPT) si ricava che, per terreni della medesima zona e della stessa età geologica, a parità di NSPT, la velocità delle onde di taglio dei terreni coesivi è maggiore di quella dei terreni incoerenti, ad eccezione della relazione di Lee per cui ciò si verifica per valori di NSPT inferiori a circa 40.

b) metodi basati sulla classificazione dei depositi

Con l’applicazione di questi metodi è possibile identificare zone a diverso comportamento nei confronti della risposta sismica locale, disponendo di alcune conoscenze sul terreno fino a una certa profondità. Le informazioni necessarie sono quelle relative allo spessore e alla successione degli strati, al loro stato di addensamento o di consistenza, espressi in termini qualitativi o definiti quantitativamente mediante i parametri di prove geotecniche standard e possono essere acquisite attraverso indagini speditive in sito o tramite la raccolta di informazioni esistenti.

Scelto un sistema di classificazione, si procede ad identificare, per ciascuna delle diverse situazioni stratigrafiche rilevate nell’area in esame, la classe di appartenenza.

(19)

Nei sistemi di classificazione le diverse categorie litostratigrafiche sono definite sulla base dell’analisi statistica di dati reali acquisiti in occasione di terremoti passati o di risultati ottenuti tramite modellazione numerica dall’applicazione di registrazioni su roccia a stratigrafie tipo. I parametri utilizzati nell’individuazione delle classi sono lo spessore e la rigidezza dei vari strati presenti nella successione; il comportamento di ciascuna classe è generalmente descritto in termini di forma dello spettro di risposta elastico.

Un esempio di classificazione per l’applicazione di metodi di questo tipo è contenuto nella normativa giapponese (Tab. 8), dove sono individuate 4 classi a ciascuna delle quali viene attribuito un diverso spettro di risposta elastico (Building Research Institute, 1969) (Fig. 7).

Tabella 8 – Classificazione dei depositi adottata dalla normativa giapponese Tipo di terreno

I. Rocce, ghiaie sabbiose dense, ecc., classificate come depositi Terziari o più antichi.

II. Ghiaie sabbiose, argille consistenti sabbiose, limi, ecc., classificati come depositi Pleistocenici, o alluvioni ghiaiose di spessore maggiore di 5 m.

III. Terreni che non rientrano nella classe II, costituiti da sabbie, argille sabbiose, argille, classificati come alluvioni.

IV. Terreni scadenti e soffici appartenenti ad una delle seguenti categorie:

1) alluvioni costituite da depositi deltaici soffici, terreni di copertura, fanghi o simili con spessore maggiore di 30 m;

2) terreni bonificati e riempimenti di vario tipo.

Figura 7 – Spettri di progetto per strutture in cemento armato indicati nella normativa giapponese (TC4, 1993)

Il sistema di classificazione riportato nell’Eurocodice 8, invece, suddivide i depositi nelle tre classi seguenti:

− Classe A

(20)

- rocce o altre formazioni geologiche caratterizzate da una velocità delle onde di taglio Vs di almeno 800 m/s, con al massimo 5 m di copertura di materiale più deformabile;

- depositi rigidi di sabbie, ghiaie o argille sovraconsolidate, di spessore fino ad alcune decine di metri, caratterizzati da un incremento graduale delle proprietà meccaniche con la profondità e con valori di Vs di almeno 400 m/s a 10 m di profondità;

− Classe B

- depositi profondi di sabbie o ghiaie mediamente addensate o argille mediamente compatte con spessori da alcune decine a molte centinaia di metri, caratterizzate da valori minimi di Vs crescenti da 200 m/s alla di profondità di 10 m fino a 350 m/s a 50 m di profondità;

− Classe C

- depositi di terreni incoerenti sciolti con eventuali intercalazioni di materiali coesivi, caratterizzati da valori di Vs minori di 200 m/s nei primi 20 m di profondità;

- depositi costituiti prevalentemente da terreni coesivi da soffici a mediamente compatti, caratterizzati da valori di Vs minori di 200 m/s nei primi 20 m di profondità;

attribuendo a ciascuna classe una diversa forma dello spettro di risposta elastico (Fig. 8).

Figura 8 – Spettro di risposta elastico contenuto nell’Eurocodice 8 e valori dei parametri per ciascuna classe di deposito

(21)

c) metodi basati sulla misura dei microtremori

I microtremori sono vibrazioni ambientali a basso contenuto energetico indotte nel terreno da cause naturali (vento, moti ondosi, fenomeni geotermici, attività sismica di bassissimo livello, ecc.) o artificiali (traffico, attività industriali, ecc.); hanno ampiezze di alcuni micron e vengono registrati con sismometri ad alta sensibilità.

Il primo metodo basato sulla registrazione dei microtremori è stato proposto all’inizio degli anni ’60 da Kanai e Tanaka (1961) sulla base di evidenze sperimentali che avevano mostrato in alcuni siti una buona corrispondenza tra le forme spettrali delle registrazioni di terremoti e microtremori. Purtroppo, però, alcune delle numerose verifiche sperimentali condotte successivamente da altri ricercatori non hanno confermato l’applicabilità di tale approccio ad ogni situazione (Faccioli e al., 1986). Un esempio di applicazione di questo metodo è mostrato nella Figura 9 dove sono rappresentati gli abachi proposti da Kanai e Tanaka (1961) per classificare i depositi secondo i criteri contenuti nella normativa giapponese (Tab. 8), attraverso la misura dei microtremori.

Figura 9 - Abachi proposti da Kanai e Tanaka (1961) per classificare i depositi secondo i criteri contenuti nella normativa giapponese

Il metodo attualmente più utilizzato, basato sulla misura dei microtremori, è quello di Nakamura (1989), in cui la funzione di amplificazione locale è determinata come rapporto tra le componenti spettrali orizzontali e verticali della stessa registrazione. Il metodo di Nakamura è stato recentemente impiegato anche per l’interpretazione degli effetti locali finalizzata alla microzonazione sismica di alcuni centri colpiti dal terremoto umbro- marchigiano del 26 settembre 1997. In questo caso, poiché l’analisi spettrale è stata eseguita su vibrazioni a contenuto energetico elevato (aftershocks), i risultati ottenuti potrebbero essere significativi sia in termini di frequenze che di amplificazione. La loro validità deve essere comunque intesa più in senso relativo che assoluto, dal momento che il contenuto spettrale di una scossa sismica è strettamente legato, oltre che alle caratteristiche del sito, al meccanismo focale della scossa.

(22)

A titolo di esempio, è riportato nella Figura 10 l’andamento delle risposte di sito ottenute con il metodo di Nakamura per una delle scosse più forti di tutta la sequenza sismica (7 ottobre) nelle stazioni accelerometriche poste in due frazioni dell’abitato di Annifo, di cui la prima si trova su sito roccioso (marna), mentre la seconda poggia su detriti di falda sciolti. In questo caso è possibile osservare che il fattore di amplificazione per il sito posto su sedimenti risulta maggiore di quello del sito su roccia per quasi tutto il campo di frequenze analizzato e che i valori massimi di amplificazione per i due siti si registrano in corrispondenza di frequenze molto diverse tra loro.

Figura 10 – Confronto tra risposte di sito ottenute su roccia (Annifo 1) e su sedimenti (Annifo 2) (da Capotorti e al., 1997)

(23)

4. INSTABILITÀ DEI PENDII

Secondo la classificazione proposta da Keefer e Wilson (1989) e riportata nel Manuale di Zonazione i fenomeni franosi possono essere suddivisi in tre grandi categorie:

I. Crolli e scorrimenti con disgregazione della massa in frana : interessano pendii acclivi e sono caratterizzati da movimenti rapidi e superficiali;

II. Scorrimenti e scivolamenti senza disgregazione della massa in frana: interessano pendii con acclività da media ad alta; sono caratterizzati da movimenti piuttosto rapidi e profondi;

III. Espansioni laterali e colamenti: interessano pendii con acclività da bassa a media;

sono superficiali e caratterizzati da movimenti lenti in terreni argillosi, più rapidi nei terreni granulari.

Per i primi due livelli di analisi vengono presi in considerazione nel Manuale TC4 soprattutto gli eventi appartenenti alla prima categoria, che, come mostrato da Keefer e Wilson sulla base dell’osservazione di numerosi casi reali, sono quelli che si manifestano a maggiore distanza dall’epicentro (Fig. 11). Studi condotti da Yasuda e Sugitani (1988) mostrano, inoltre, che la massima distanza epicentrale di frane superficiali è maggiore di quella di frane profonde.

Figura 11 – Massima distanza epicentrale per le diverse categorie di frane indotte da terremoti di differente magnitudo (TC4, 1993) 4.1 ANALISI DI I LIVELLO

(24)

Per le analisi di I livello, ai fini della zonazione per franosità, sono presentati due tipi di approccio:

a) i metodi basati sulla relazione magnitudo-distanza;

b) i metodi basati sul criterio della minima intensità.

Tali metodologie considerano solo la numerosità e la distanza epicentrale degli eventi franosi osservati in occasione di terremoti passati e correlano questi elementi alla intensità o alla magnitudo del sisma. In questo modo viene evidenziata l’influenza di un solo fattore scatenante (il terremoto) e trascurata completamente sia quella dei fattori predisponenti (condizioni morfologiche, geotecniche e idrauliche del pendio), sia quella di un altro importante fattore scatenante (le piogge). Di conseguenza, le relazioni così trovate risultano avere una validità strettamente locale e non sono direttamente applicabili al di fuori del contesto originario.

a) metodi basati sulla relazione magnitudo-distanza

Anche recentemente è stato osservato che, per un terremoto di assegnata magnitudo, la distanza è uno dei parametri che controllano il manifestarsi di frane di I categoria e il riattivarsi di frane di II categoria (Faccioli, 1995). Nel Manuale di Zonazione vengono riportati e messi a confronto i risultati degli studi condotti da alcuni ricercatori sui terremoti occorsi in diverse parti del mondo per stabilire un legame tra la massima distanza alla quale si sono verificati i movimenti franosi e la magnitudo dell’evento sismico (Figg.

12 e 13). I differenti criteri usati dai diversi Autori nell’interpretazione e l’estensione della base dati sono indicati nella Tabella 9.

Figura 12 – Relazioni tra magnitudo e distanza massima di frane dall’epicentro o dalla faglia (TC4, 1993) faglia (TC4, 1993)

Tabella 9 – Criteri e base dati utilizzati da alcuni Autori per la determinazione di relazioni tra magnitudo e distanza massima di frane

Autore Località Note

(25)

Tamura (1978) Giappone Base dati: 37 terremoti degli ultimi 100 anni

Le regressioni in funzione della magnitudo sono date per 4 tipi di distanza:

- Df , distanza dalla faglia sorgente del limite dell’area in cui ricadono molte frane;

- df , distanza dalla faglia sorgente del limite dell’area in cui ricadono poche frane;

- Dp, distanza dall’epicentro del limite dell’area in cui ricadono molte frane;

- dp, distanza dall’epicentro del limite dell’area in cui ricadono poche frane;

Yasuda e Sugitani (1988)

Giappone Base dati: 105 terremoti degli ultimi 100 anni

Le regressioni in funzione della magnitudo sono date per 2 tipologie di frane: superficiali e profonde

Keefer e Wilson (1989)

Varie parti del mondo

Base dati: 47 terremoti dal 1811

Le regressioni in funzione della magnitudo sono date per tre categorie di frane (I,II,III) (par. 4)

Ishihara e Nakamura (1987)

Equador Base dati: 1 terremoto (1987) di magnitudo 6.8

Stimano la regressione tra magnitudo e distanze epicentrali per diverse percentuali di pendii franati Mora e Mora

(1992)

Costa Rica Base dati: 11 terremoti dal 1888 al 1991

Stimano la regressione tra magnitudo e distanze epicentrali per due areee: quella in cui sono franati almeno il 60% dei pendii e quella in cui sono franati meno del 15% dei pendii, con almeno 1 frana per Km2 ADEP (1990) Loma Prieta

(U.S.A.)

Base dati: 1 terremoto (1989) di magnitudo 6.8 Massima distanza epicentrale: 97 km

Ishihara (1991a) Manjil (Iran) Base dati: 1 terremoto (1990) di magnitudo 7.1 Massima distanza epicentrale: 40 km

Arboleda (1991) Luzon (Filippine) Base dati: 1 terremoto (1990) di magnitudo 7.8 Massima distanza epicentrale: 210 km

Massima distanza dalla faglia: 130 km

Ishihara (1991b) Armenia Base dati: 1 terremoto (1988) di magnitudo 7.0 Massima distanza epicentrale: 15 km

Le Figure 12 e 13 indicano che l’estensione dell’area interessata da eventi franosi in paesi con clima arido (Iran e Armenia) è minore di quella in paesi con clima umido (Giappone e Filippine) e che la massima distanza rispetto a una faglia è minore che rispetto a un epicentro. Sulla base di queste considerazioni vengono proposte nel Manuale TC4 una serie di curve che definiscono la relazione distanza epicentrale massima-magnitudo per frane distruttive e non distruttive in paesi con clima arido e con clima umido (Fig. 14).

(26)

L’osservazione degli eventi franosi avvenuti in seguito al terremoto umbro- marchigiano del settembre 1997 ha mostrato un buon accordo con le relazioni indicate nella Figura 14. La distanza delle frane dagli epicentri delle due scosse principali (rispettivamente di magnitudo 5.5 e 5.8) è risultata infatti compresa tra 0 e 20 km (Fig.14) (D’Elia 1998).

b) metodi basati sul criterio della minima intensità

Con questi metodi viene stabilito per la zona in esame il valore minimo dell’intensità cui è associato il manifestarsi di fenomeni franosi.

Keefer e Wilson (1989), ad esempio, analizzando la distribuzione del numero di terremoti che hanno causato fenomeni di instabilità dei pendii, in funzione della loro intensità, indicano che il valore minimo dell’intensità che può indurre instabilità è pari a V÷ VI gradi nella scala Mercalli Modificata.

4.2 ANALISI DI II LIVELLO

I metodi di I livello visti nei paragrafi precedenti forniscono risultati di scarso interesse ai fini della zonazione per instabilità dei pendii. In particolare, quelli basati sulle relazioni magnitudo-distanza consentono di stimare l’estensione dell’area in cui possono manifestarsi eventi franosi a condizione che siano state identificate le eventuali sorgenti sismiche, epicentri o faglie sismogenetiche. Fatta eccezione per alcuni casi particolari, questa informazione è generalmente molto incerta, soprattutto in territori, come ad esempio quello italiano, a sismicità molto diffusa. Ne consegue che, essendo di difficile impiego come strumenti di previsione, il loro campo di applicazione finisce per essere limitato allo sviluppo di analisi a posteriori.

Inoltre, tutti i metodi di I livello, prescindendo da qualunque informazione morfologica, geotecnica e idraulica, non sono in grado di fornire nessuna indicazione specifica sulla pericolosità del singolo sito.

I metodi di II livello consentono di migliorare notevolmente la qualità dei risultati con l’aggiunta di alcuni dati relativi alla topografia, alla geologia, alle condizioni idrauliche e alla piovosità, acquisiti con indagini speditive e/o da rapporti e documenti esistenti. Tali metodi sono finalizzati soprattutto alla redazione di carte di suscettibilità e vengono generalmente applicati suddividendo l’area in esame in celle quadrate di dimensioni opportune (con lunghezza del lato generalmente compresa tra 500 e 1000 m).

(27)

Figura 13 – Relazioni tra magnitudo e distanza dall’epicentro o dalla faglia in funzione della percentuale di frane indotte dal terremoto (TC4, 1993)

Figura 14 – Relazioni tra magnitudo e distanza massima epicentrale di frane indotte da terremoti. L’area tratteggiata si riferisce alle frane indotte dal

terremoto umbro-marchigiano del 26.9.1197 (da D’Elia, 1998)

(28)

Nel Manuale di Zonazione sono presentati tre metodi di II livello:

a) il metodo del Kanagawa Prefectural Government (1986);

b) il metodo di Mora e Vahrson (1994);

c) il metodo della Japan Road Association (1988).

Tra questi, i primi due si basano sui risultati dell’analisi statistica dei dati relativi a diversi terremoti, mentre il terzo fa riferimento alle informazioni ricavate da un unico terremoto.

A motivo della loro maggiore generalità verranno discussi nel seguito soltanto i primi due.

a) Metodo del Kanagawa Prefectural Government

Con questo metodo l’area investigata viene suddivisa in celle di dimensioni 500x500 m2, per produrre una carta di suscettibilità in scala 1:50.000 o 1:25.000. In ciascuna cella la suscettibilità all’instabilità, W, è espressa mediante la relazione:

=

= 7

1 i

Wi

W

dove Wi sono parametri che tengono conto di alcuni fattori predisponenti (morfologia, consistenza del terreno) e di un fattore scatenante (accelerazione di picco). Il metodo trascura l’influenza delle condizioni idrogeologiche per quanto riguarda i fattori predisponenti, e non considera l’effetto di eventuali precipitazioni precedenti l’evento tra i fattori scatenanti. Nella Tabella 10 sono riportati i valori dei coefficienti Wi relativi alle diverse condizioni.

Alcune applicazioni del metodo a casi reali ben documentati (Komak Panah e Hafezi Mogaddas, 1993; Yasuda, 1993; Yasuda, 1997) hanno messo in evidenza che i risultati ottenuti sono molto conservativi, cioè che il numero di frane previsto è molto maggiore di quello rilevato in seguito al terremoto. Ciò sembra imputabile principalmente al peso del coefficiente W1, che risulta troppo sensibile al valore di amax (Yasuda, 1997).

b) Metodo di Mora e Vahrson

In questo metodo viene considerata l’influenza sulla franosità di tre fattori predisponenti: la morfologia, la litologia e l’umidità del terreno, e di due fattori scatenanti:

la sismicità e l’intensità delle precipitazioni. In base a questi viene definito l’indice del rischio di frane, Hl, espresso dalla relazione:

Hl = (Sr ⋅ Sl ⋅ Sh) ⋅ (Ts + Tp)

dove Sr è l’indice di rilievo relativo (rapporto tra la massima differenza di quota e l’area della cella di lato 1 km), Sl l’indice di suscettibilità litologica , Sh l’indice di umidità naturale, Ts è il fattore di intensità sismica e Tp il fattore di intensità delle precipitazioni.

Alcune verifiche successive del metodo hanno mostrato un’eccessiva influenza dei fattori Tp e Sr sull’indice del rischio di frane e l’opportunità di una suddivisione del range di valori sia di questi parametri che di Hl (Yasuda, 1997).

Tabella 10 – Valori dei coefficienti Wi (Kanagawa Prefectural Government, 1986)

(29)

Fattori Wi

W1 Accelerazione massima in superficie (gal) <200 200÷300 300÷400

>400

0.0 1.004 2.306 2.754 W2 Lunghezza della curva di livello a quota media (m) <1000

1000÷1500 1500÷2000

>2000

0.0 0.071 0.320 0.696 W3 Massima differenza di quota (m) < 50

50÷100 100÷200 200÷300

>300

0.0 0.550 0.591 0.814 1.431 W4 Rigidezza del terreno in un pendio rappresentativo Terreno

Roccia tenera Roccia dura

0.0 0.169 0.191 W5 Lunghezza totale delle faglie (m) Nessuna faglia

<200

>200

0.0 0.238 0.710 W6 Lunghezza totale dei pendii artificiali (m) <100

100÷200

>200

0.0 0.539 0.845 W7 Topografia di un pendio rappresentativo

0.0 0.151 0.184 0.207

(30)

Tabella 11 – Valori del parametro Sr in funzione del rilievo relativo (Mora e Vahrson, 1994)

Rilievo relativo (m/km2) Suscettibilità Parametro Sr

0 ÷ 75 Molto bassa 0

76 ÷ 175 Bassa 1

176 ÷ 300 Moderata 2

301 ÷ 500 Media 3

501 ÷ 800 Alta 4

>800 Molto alta 5

Tabella 12 – Valori del parametro Sl in funzione della litologia, validi per l’America centrale (Mora e Vahrson, 1994)

Litologia Suscettibilità Valore di Sl

Calcare permeabile, rocce intrusive poco fessurate, basalto, andesiti, graniti, ignimbrite, gneiss, orneblende con feldspati;

rocce con basso grado di alterazione, falda freatica profonda, fratture spigolose e pulite, elevata resistenza al taglio

Bassa 1

Rocce delle litologie sopradette ma fortemente alterate e ammassi di rocce dure, clastiche e sedimentarie; di bassa resistenza al taglio e con fratture non resistenti al taglio

Moderata 2

Rocce notevolmente alterate sedimentarie, intrusive, metamorfiche, vulcaniche, terreni regolitici sabbiosi compatti, sensibilmente fratturati, con oscillazione della profondità delle falde freatiche, colluvium e alluvium compatti

Media 3

Rocce di qualunque tipo, notevolmente alterate, anche per effetto termico e idraulico, molto fratturate e fessurate, con argilla interstiziale; terreni piroclastici e fluvio-lacustri poco compatti, falda freatica a piccola profondità

Alta 4

Rocce molto alterate, terreni alluvionali, colluviali e residuali di bassa resistenza al taglio, falda freatica a piccola profondità

Molto alta 5

Tabella 13 – Classi di piovosità media mensile (Mora e Vahrson, 1994)

(31)

Piovosità media mensile (mm/mese)

Valore assegnato

<125 0

125 ÷ 250 1

>250 2

Tabella 14 – Valori del parametro Sh in funzione della piovosità media annuale (Mora e Vahrson, 1994)

Somma delle precipitazioni medie (somma dei valori della tab. 13 per 12 mesi)

Suscettibilità Parametro Sh

0 ÷ 4 Molto bassa 1

5 ÷ 9 Bassa 2

10 ÷ 14 Media 3

15 ÷ 19 Alta 4

20 ÷ 24 Molto alta 5

Tabella 15 – Valori del parametro Ts in funzione dell’intensità sismica attesa (Mora e Vahrson, 1994)

Intensità M.M.

(periodo di ritorno 100 anni)

Suscettibilità Parametro Ts

III Leggera 1

IV Molto bassa 2

V Bassa 3

VI Moderata 4

VII Media 5

VIII Considerevole 6

IX Rilevante 7

X Forte 8

XI Molto forte 9

XII Fortissima 10

Tabella 16 – Valori del parametro Tp in funzione dell’intensità delle precipitazioni (Mora e Vahrson, 1994)

(32)

Precipitazione massima (n>10 anni; p. di ritorno 100 anni)

Precipitazione media (n<10 anni)

Suscettibilità Parametro Tp

<100 mm <50 mm Molto bassa 1

101 ÷ 200 51 ÷ 90 Bassa 2

201 ÷ 300 91 ÷ 130 Media 3

301 ÷ 400 131 ÷ 175 Alta 4

>400 >175 Molto alta 5

Tabella 17 – Classi di suscettibilità in funzione del valore dell’indice del rischio di frana Hl (Mora e Vahrson, 1994)

Valore di Hl Classe Suscettibilità

0 ÷ 6 I Trascurabile

7 ÷ 32 II Bassa

33 ÷ 162 III Moderata

163 ÷ 512 IV Media

513 ÷ 1250 V Alta

>1250 VI Molto alta

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