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PRODUZIONE DI BIOPLASTICHE DA MATERIE PRIME E SCARTI ALIMENTARI

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D

IPARTIMENTO DI

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CIENZE

A

GRARIE

A

LIMENTARI E

A

MBIENTALI CORSO DI LAUREA IN: SCIENZE E TECNOLOGIE ALIMENTARI

PRODUZIONE DI BIOPLASTICHE DA MATERIE PRIME E SCARTI ALIMENTARI

TIPO TESI: Compilativa

Studente:

SALVATORE DI SANTO

Relatore:

DOTT. DANIELE DUCA

ANNO ACCADEMICO 2018-2019

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INDICE

ABSTRACT ... 3

CAPITOLO 1SPRECO ALIMENTARE, DEFINIZIONE E DATI ... 5

CAPITOLO 2PLASTICA E INQUINAMENTO ... 8

2.1 Emissione di gas serra ... 10

CAPITOLO 3BIOPLASTICA, DEFIZIONE E TIPOLOGIE ... 12

3.1 Tipologie di bioplastica ... 13

3.2 Bioplastica nel food packaging ... 14

CAPITOLO 4 BIOPLASTICHE DA MATERIE PRIME E SCARTI ALIMENTARI ... 16

4.1 I poliidrossialcanoati (PHA) ... 16

4.2 Produzione di PHA da siero di latte ... 30

4.3 Acido polilattico (PLA)... 33

4.4 Accenni sul Bio-PE ... 37

CONSIDERAZIONI ... 38

CONCLUSIONI ... 42

BIBLIOGRAFIA ... 43

(3)

3

ABSTRACT

L’inquinamento da plastiche, in crescita in modo smisurato, non è più un fenomeno trascurabile.

In un periodo dove anche governi, istituzioni e società civile hanno preso coscienza del fenomeno, le aziende alimentari (e non solo), dovrebbero entrare nell’ottica dell’economia circolare, dove il riuso delle risorse svolge un ruolo fondamentale nel contenimento dei fenomeni inquinanti.

Dalla scoperta della plastica, nel 1907, la sua produzione e quindi il suo utilizzo è cresciuto in maniera esponenziale anche grazie alle sue proprietà principali: economicità e versatilità d’uso.

Essendo però, un derivato del petrolio, è causa di grande inquinamento sia in fase di produzione, ma soprattutto si tratta di un prodotto non degradabile, che quindi rimane nell’ambiente senza subire variazioni sostanziali, alterando la biosfera in cui si trova: emblematiche sono le ‘isole’ di plastica che si formano negli oceani.

Una prospettiva molto interessante, che porrebbe una soluzione a due grandi problemi dei nostri tempi (inquinamento da plastica e spreco alimentare), è la produzione di poliidrossialcanoato (PHA), ottenuto attraverso la fermentazione di particolari tipi di microorganismi, su substrati creati ad hoc da scarti alimentari.

Lo spreco alimentare infatti, ha raggiunto anch’esso proporzioni gigantesche, creando problematiche etiche ed umanitarie. La FAO stima che oltre 1/3 del cibo prodotto per consumo umano, ogni anno, venga sprecato. L’economia circolare, nell’ottica di un’industria sempre più sostenibile, potrebbe far sì che questi scarti anziché andare ad alimentare lo spreco, vengano valorizzati in produzioni sostenibili.

Il poliidrossialcanoato (PHA) è una materia bioplastica, ottenuta attraverso processi che non prevedono utilizzo di petrolio, ma bensì prodotta con metodiche biologiche. Può essere ottenuto attraverso fermentazione, che viene attuata su substrati ricavati in parte da scarti alimentari ricchi di risorse organiche e la sintesi di PHA avviene in particolari condizioni (eccesso di carbonio e scarsità di altri elementi), che il microrganismo accumula al suo interno sottoforma di granuli.

Questo biopolimero oltre che essere prodotto da microrganismi, senza utilizzare petrolio e derivati, è anche altamente biodegradabile, non creando problemi di sorta per l’ambiente.

Il PHA sta assumendo sempre più importanza sia per le sue proprietà, molto simili a quelle delle materie plastiche più tradizionali, sia per il suo interessante ed innovativo processo di produzione.

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4 La sfida futura per questo materiale sarà l’abbattimento del suo costo di produzione; questo infatti ad oggi è ancora il suo più notevole gap rispetto alle plastiche tradizionali in quanto il processo è ancora molto dispendioso.

Nell’ottica invece dell’utilizzo di plastica biodegradabile derivante da materie prime alimentari, è bene citare il PLA, ossia l’Acido Polilattico. Il PLA è un bio-polimero ottenuto a partire da amido (estratto prevalentemente dal mais) che presenta ottime proprietà chimico-fisiche oltre a possedere ottime capacità di degradazione nell’ambiente, riducendo fortemente l’impatto sull’ecosistema.

Materia d’interesse è anche il Bio-PE, l’alternativa sostenibile del polietilene tradizionale, ottenuto da fermentazione di biomasse.

Lo scopo di questa tesi è di descrivere i processi di produzione delle sopracitate bioplastiche, che intersecano la loro tecnologia nel settore alimentare, mostrarne pregi e difetti e confrontare il loro impatto rispetto alla plastica tradizionale.

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Capitolo 1

SPRECO ALIMENTARE, DEFINIZIONE E DATI

Secondo la FAO (Food and Agricolture Organization), esistono due definizioni di spreco alimentare. Quello che avviene durante la supply chain, ovvero durante le fasi di raccolta (per quanto riguarda prodotti vegetali) e produzione, viene definito perdita alimentare (Food loss); per quanto concerne la fine della catena, si parla di spreco alimentare (Food waste) ossia quando è il consumatore stesso a gettare cibo [1].

Le perdite a livello di produzione sono da associare alle problematiche tecniche, ed in parte alle condizioni di benessere di un paese; infatti nei paesi in cui gli standard qualitativi sono più alti, la raccolta di frutta e verdura subirà una cernita in cui inevitabilmente ci sarà perdita di prodotto che seppur commestibile, non rispecchierà gli standard estetici minimi per la vendita. [2].

Come possiamo vedere nella figura 1, sono segnalate le percentuali di perdite e sprechi nei vari continenti, suddivise nei vari livelli della supply chain. Nei paesi più industrializzati, come in Europa e Nord America abbiamo perdite maggiori a livello del raccolto (segnalato come

‘Agricolture’), per i motivi illustrati precedentemente, e sempre per gli stessi motivi (livello economico del paese) perdite limitatissime a livello del processo, avendo accesso a macchinari più performanti.

Sempre la FAO inoltre segnala che oltre 1/3 del cibo prodotto globalmente per il consumo umano è perso o sprecato durante tutta la supply chain [1].

Grafico 1.1 – Percentuali perdite e sprechi alimentari nei vari continenti. [43]

Imma

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6 In Europa approssimativamente, il dato dello spreco si attesta sugli 88 milioni di tonnellate ogni anno, equivalenti a circa 173 kg pro capite [3]. Lo spreco non si traduce solamente in perdita monetaria e mancato accesso di altre persone a quel bene, ma anche in inquinamento.

L’impatto ambientale aumenta quando più lo spreco è avanti nella catena alimentare: infatti è più impattante lo spreco alimentare che la perdita, perché il cibo arrivato al consumatore ha subito una serie di trasformazioni e/o trasporti per cui le emissioni associate e i relativi impatti sono maggiori [3].

Per quanto riguarda i dati in Italia, diverse istituzioni monitorano la situazione fornendo nel dettaglio una panoramica sugli sprechi domestici.

Il progetto ‘Reduce’ del Ministero dell’ambiente in collaborazione con il dipartimento di scienze e tecnologie agroalimentari dell’Università di Bologna, ha sperimentato i ‘diari di famiglia’, un campione di 400 nuclei famigliari che per una settimana hanno monitorato e annotato sprechi, le loro quantità e la causa degli stessi [4].

I dati (pro capite) che sono stati riscontrati sono i seguenti:

- 100,1 grammi spreco quotidiano - 700,7 grammi spreco settimanale - 3,76 € valore dello spreco settimanale - 196 € valore dello spreco annuale

Considerati i dati, il valore dello spreco domestico nazionale è di quasi 12 miliardi di Euro, pari allo 0,7% del Pil nel 2017 [4].

I dati forniscono però cifre molto basse se rapportati agli sprechi continentali. Questo è principalmente dovuto a due fattori: il primo è che l’Italia ha un enorme cultura culinaria molto spesso basata su piatti poveri mirati ad annullare quasi in toto qualsiasi spreco; in secondo luogo la statistica può essere falsata dal condizionamento che le famiglie campione avevano prendendo parte a questo tipo di esperimento, tendendo a sprecare meno del solito.

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7 La tabella sottostante (1.1), elaborata anch’essa dal progetto ‘Reduce’ del Ministero dell’ambiente, ci mostra quali sono le tipologie di cibo più sprecato in Italia a livello domestico.

Da questi dati è chiaro quindi che i numeri delle perdite durante la supply chain e spreco del consumatore finale sono notevoli. La sensibilizzazione del consumatore è quindi percepita come la miglior soluzione a questo problema dal legislatore, ma nell’era dell’economia circolare sviluppare una soluzione ‘green’ per il recupero di questi scarti è anch’essa considerata una priorità. Uno dei temi più interessanti per il recupero e la valorizzazione degli scarti alimentari è il loro utilizzo per la produzione di bioplastica.

Tabella 1.1 – Elaborazione sprechi alimentari effettuata dal progetto ‘Reduce’ [4]

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Capitolo 2

PLASTICA E INQUINAMENTO

La definizione di plastica data dallo IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry) è la seguente: “Termine generico nel caso di materiali polimerici che possono contenere altre sostanze per migliorare le performance e/o ridurre i costi” [5].

Per polimero, si intende una macromolecola costituita dalla multipla ripetizione di una subunità.

I polimeri possono essere sintetici, come le plastiche che normalmente usiamo quotidianamente (Es. Polietilene), o create in natura, come il DNA, che non è altro che una ripetizione della stessa subunità base (nucleotide) [6].

Nell’immagine sopra è raffigurata la struttura base di un polimero sintetico, il polietilene, costituito dalla ripetizione dell’unità base evidenziata (monomero).

La prima plastica sintetica fu ideata nel 1907, da Leo Hendrik Baekeland, a cui diede il nome di Bakelite. Dal questo momento, che possiamo definire come l’inizio dell’era della plastica, i materiali sintetici vedranno una crescita rapidissima [7].

Il processo di produzione della plastica si ha a partire dal petrolio, da cui, dopo raffinazione, si ricavano svariati tipi di polimeri, dopo un processo detto appunto polimerizzazione.

In base alla norma ISO 1043/1, le materie plastiche hanno tutte una sigla identificativa.

Nonostante siano decine i polimeri conosciuti ed utilizzati, sono sei quelli più comuni codificati Figura 2.1 – Struttura molecolare generica di un polimero

[http://www.marmon-ad.com/polymer-cross-linking]

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9 proprio in base alle norme dal numero 1 al 6; la loro utilizzazione più diffusa rispetto agli altri è data anche dalla loro più facile modalità di riciclo.

- 1 (PET o Polietilene tereftalato): spesso usato in bottiglie

- 2 (HDPE o Polietilene alta densità): spesso usato in flaconi, tappi, giocattoli - 3 (PVC o cloruro di polivinile): spesso usato in edilizia, serramenti

- 4 (LDPE o polietilene a bassa densità): spesso usato in pellicole, film - 5 (PP o polipropilene): spesso usato in articoli casalinghi o giocattoli - 6 (PS o polistirolo): spesso usato in contenitori per take away, imballaggi

- 7 (ALTRI): il numero 7 è la sigla numerica per tutti gli altri polimeri che non siano i sei sopraelencati

Un dato davvero significativo è quello dell’incremento della produzione di materie plastiche, dal 1950 al 2015. Infatti, dai 2 milioni di tonnellate di plastica prodotta a metà del Novecento, si passa ai 380 milioni di tonnellate del 2015. Una crescita prima esponenziale e ora tendenzialmente costante [8].

Un aumento così imponente però, porta dietro di se problematiche ambientali non indifferenti.

Difatti, nonostante le innumerevoli proprietà della plastica, dalla versatilità all’economicità, si tratta di un materiale non biodegradabile, e che quindi risulta altamente inquinante per l’ambiente [9].

Grafico 2.1 – Crescita produzione di plastica dal 1950 al 2015.

[https://ourworldindata.org/plastic-pollution]

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10 Nel 2010, si stima una produzione di circa 100 milioni di tonnellate di rifiuti plastici. Di questa produzione, quella impropriamente trattata, circa 32 milioni di tonnellate, era a rischio di finire nelle acque (mari e fiumi). 8 milioni di tonnellate, infine, è la cifra che risulta aver inquinato le acque nel 2010 [10].

Nel recente rapporto ‘Plastic in Seafood’ di Greenpeace, sono stati evidenziati alcuni dati sull’ingestione di plastica in pesci che potenzialmente possono essere ingeriti anche dall’uomo.

Le analisi in 121 specie nel Mediterraneo centrale, tra cui anche specie commerciali come tonno e pesce spada, hanno mostrato nel 18,2% dei casi, presenza di plastica nel tratto digestivo.

L’impatto che i frammenti di plastica possono avere sugli organismi marini è duplice: danni fisici, dovuti alla presenza del frammento che può danneggiare gli organi interni dell’organismo stesso e danni chimici, dati dal trasferimento di sostanze dalla plastica al pesce.

Tutto ciò fa sì che alla fine della catena alimentare, quando il pesce arriva all’uomo, verosimilmente avvenga trasferimento di plastica, con possibili danni alla salute umana. Gli studi sui danni sono ancora agli albori, ma si pensa che per loro natura, le sostanze all’interno dei polimeri plastici siano dannose anche per l’essere umano.

Anche la commissione Europea si è mossa in tal senso, affermando che secondo vari studi oltre l’80% dei rifiuti nel mare sono composti da plastica e approvando nei primi mesi del 2019 una nuova direttiva volta a fermare l’uso di plastica monouso.

Secondo la direttiva, che entrerà in vigore nel 2021, gli stati membri dovranno vietare oggetti in plastica monouso come piatti, bicchieri, cannucce, bastoncini cotonati e aste per palloncini. Sono previste inoltre norme sulla composizione del polimero che andrà a costituire le bottiglie in plastica, che via via dovrà contenere una percentuale sempre maggiore di materiale riciclato [11].

2.1 Emissione di gas serra

Oltre all’inquinamento ‘fisico’ causato dall’utilizzo di plastica che rimane nell’ambiente per tempo indefinito, esiste anche un altro grave tipo di inquinamento: l’emissione di gas serra, soprattutto CO2. Infatti, l’estrazione del petrolio e la successiva raffinazione sono passaggi molto inquinanti. L’emissione di gas serra avviene ad esempio a seguito del processo di ‘Gas Flaring’.

Il gas flaring rappresenta la combustione dei gas in eccesso che fuoriescono dai pozzi petroliferi (ad esempio metano) e per praticità ed economicità vengono direttamente bruciati sul posto; un

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11 impianto complementare per la loro raccolta sarebbe troppo esoso. Questa combustione rilascia nell’atmosfera gas serra. Ulteriore emissione di gas serra avviene nelle fasi

di trasporto e raffinazione del petrolio. Infine se la plastica viene bruciata o comunque degradata, il carbonio fossile che la compone entra nel ciclo del carbonio biogenico.

Sono chiamati gas serra le molecole gassose che hanno la proprietà di riflettere i raggi infrarossi emessi dalla terra, ma non la radiazione solare in entrata. Una volta rilasciati nell’atmosfera quindi, l’aumento della loro concentrazione fa sì che una parte sempre maggiore del calore terrestre riemesso dalla terra non riesca a fuoriuscire dall’atmosfera proprio a causa di queste stratificazioni gassose. Tutto ciò contribuisce al surriscaldamento globale.

Figura 2.2 – Gas Flaring in un impianto di estrazione di petrolio

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Capitolo 3,

BIOPLASTICA, DEFINIZIONE E TIPOLOGIE

Secondo la definizione di ‘European Bioplastics’, un materiale plastico per essere definito bioplastico deve possedere almeno una di queste caratteristiche: essere biodegradabile o essere

‘biobased’[12]. Quest’ultimo è un termine inglese che indica un materiale ottenuto, del tutto o in parte, da risorse rinnovabili [13].

La biodegradazione di un materiale invece, indica la sua possibilità di essere trasformato da parte di microorganismi, in sostanze naturali che non impattano in maniera negativa sull’ambiente.

Bisogna specificare però, che la biodegradabilità non dipende dall’origine di un materiale, ma piuttosto, dalla sua struttura chimica [12].

I principali vantaggi delle bioplastiche sono molteplici [14]:

- Riduzione dell’impatto da CO2

- Minore costo di produzione (in alcuni casi)

Grafico 3.1 – Grafico elaborato dalla European Bioplastic [https://www.european-bioplastics.org/bioplastics]

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13 - Riduzione nell’uso di risorse fossili (petrolio)

- Riduzione dei rifiuti plastici non degradabili

Il mercato delle bioplastiche è in continua crescita e la produzione di conseguenza cresce di anno in anno. Dal 2010, dove venivano prodotte 700.000 tonnellate di bioplastica, si è passati alle 1,7 milioni di tonnellate del 2015 [15]. Le previsioni inoltre, confermano il trend di crescita per i prossimi anni anche supportato dalle politiche attuali.

Il grafico 3.2 (che esprime valore in 1.000 tonnellate), mostra i dati acquisti per i 2017 e il 2018, e le previsioni fino al 2023, dove saranno prodotte, secondo le stime, 2.6 milioni di tonnellate di bioplastiche.

3.1 Tipologie di bioplastica

Come per le plastiche normali, esistono vari tipi di bioplastiche, classificate in base al monomero, ossia all’unità base, che si ripete nella catena strutturale.

Bioplastiche direttamente estratte dalla biomassa

In questa categoria rientrano i polisaccaridi, un gruppo di carboidrati, formati dalla ripetizione di monosaccaridi. Esistono in natura, per esempio nelle piante e possono essere estratti tal quali. I principali esempi sono cellulosa e amido. Queste due sostanze vengono trattate e miscelate a dei coadiuvanti per adattarsi a diversi tipi di utilizzi [16].

Grafico 3.2 – Previsioni sul mercato [https://www.european-bioplastics.org/market]

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14 Bioplastiche ottenute da monomeri bioderivati

In questa categoria ricade il PLA (Acido polilattico), il polimero dell’acido lattico. E’ uno dei biopolimeri più conosciuti e prodotti. Si ottiene per fermentazione di biomasse come mais o canna da zucchero. Si utilizza in vari settori data la sua versatilità.

Il PGA (Acido poliglicolico) è un polimero ottenuto per apertura dell’anello dell’acido glicolico, per condensazione o polimerizzazione. Si produce a partire dalla fermentazione di biomasse, ma è anche un derivato petrolchimico.

Il bio-polietilene è un polimero bioplastico. Sebbene il più conosciuto polietilene (PET) sia una delle plastiche più diffuse, esiste anche una sua versione di origine bio. E’ prodotta a partire dall’etilene, derivato dell’etanolo, a sua volta prodotto da fermentazione di biomasse [16].

Bioplastiche ottenute direttamente da microrganismi

Un particolare tipo di bioplastiche, viene sintetizzata dai microrganismi attraverso la fermentazione. Vengono accumulate all’interno di un microorganismo sottoforma di granuli, ed è un meccanismo naturale di riserva energetica [16]. Questo tipo di polimeri sono conosciuti con il nome di poliidrossialcanoati (PHA), che approfondiremo nel capitolo successivo, essendo esso stesso uno dei principali temi di interesse di questa tesi.

Biocomposti

Classe di bioplastiche ottenute dall’unione di due o più tipi di biopolimeri, per migliorarne caratteristiche fisiche e/o chimiche [16].

3.2 Bioplastiche nel food packaging

Nel settore delle plastiche, il segmento più grande è occupato dal packaging. Infatti, più di un terzo della plastica prodotta finisce per essere utilizzata in imballaggi di qualsiasi tipo [17].

Oggi, sebbene non abbiano ancora preso il sopravvento, le bioplastiche rappresentano una sempre più valida alternativa alle plastiche tradizionali. Nel settore del food packaging, stanno trovando uso un numero via via maggiore. In particolare:

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15 - Negli imballaggi rigidi vengono usati PLA e Bio-PE

- Negli imballaggi flessibili possiamo trovare esempi disparati come imballaggi di amido, capsule di caffè compostabili, vaschette di gelato compostabili

Per quanto riguarda gli imballaggi di servizio come i sacchetti, ormai da anni, GDO e piccola distribuzione hanno adottato l’utilizzo di sacchi compostabili, che vengono poi spesso riutilizzati per gettare il cibo. Per essere compostabile un sacchetto deve rispettare lo standard EN13432, che definisce che la struttura chimica ed è direttamente collegato alla degradabilità, quindi non per forza il materiale è bio-based, ma può essere un derivato fossile con determinate caratteristiche [18].

Ci sono infine alcuni esempi virtuosi di packaging derivante da biomassa organica.

È stato sviluppato un box in cartone per pomodori contenente una cospicua percentuale di bucce degli stessi pomodori. Inoltre, il cartone è riciclato, consentendo così di avere un packaging totalmente green. Un altro esempio è costituito dal polimero Solanyl®, ottenuto dagli scarti della patata, utilizzando principalmente l’amido contenuto in essa. Nel 2015, in accordo con l’azienda produttrice di ‘Mars’, il Solanyl® è stato utilizzato per sviluppare un packaging per lo stesso snack [19].

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16

Capitolo 4,

BIOPLASTICHE DA MATERIE PRIME E SCARTI ALIMENTARI

I poliidrossialcanoati (PHA)

I poliidrossialcanoati (di seguito PHA, abbreviazione della dicitura inglese PolyHydroxyAlkanoates), sono una classe di poliesteri, di natura biologica, che consistono in una ripetizione di idrossialcanoati [20].

Hanno attratto l’attenzione della comunità scientifica per la loro particolarità di essere completamente formati biologicamente. Infatti, i PHA vengono sintetizzati da numerose specie di microrganismi. Essi vengono accumulati sottoforma di granuli, in risposta ad uno stress causato da un bilanciamento errato di risorse. I granuli accumulati sono una riserva di carbonio ed energia.

In particolare, lo stress deve essere causato da un minor apporto di alcuni elementi (P, S, N, O) e un eccesso di carbonio, che porta all’accumulazione dello stesso all’interno dei granuli [21].

Figura 4.1 – Granuli di PHA all’interno di microorganismi [http://newtrients.ucc.ie/bioplastics]

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17 I PHA si dividono in 3 categorie in base alla lunghezza della catena carboniosa del monomero:

PHA a corta catena (scl-PHA) se si hanno meno di 5 atomi di carbonio, PHA a media catena (mcl- PHA) se si hanno tra 5 e 14 atomi di carbonio e PHA a lunga catena (lcl-PHA) se gli atomi di carbonio sono più di 14. Questi ultimi però risultano poco comuni per cui meno studiati [22].

Nell’immagine sottostante abbiamo la struttura base del PHA, e nella tabella sono sintetizzati i tipi di catena monomerica che si possono formare al variare degli atomi di C.

Caratteristiche dei PHA

L’attenzione che si è venuta a creare su questo tipo di polimero, oltre che per l’aspetto ambientale, è soprattutto dovuto alle sue caratteristiche, molto simili a quelle delle plastiche tradizionali ottenute dalla raffinazione dei prodotti petroliferi. Di seguito le caratteristiche principali dei PHA [23] [24]

- Insolubili in acqua - Resistenti ai raggi UV

- Resistenti all’attacco idrolitico - Solubili in cloroformio

- Non tossici

- Biodegradabili, possono essere ridotti ad acqua e anidride carbonica grazie all’azione di microrganismi naturalmente presenti nel suolo, nei fiumi e nei mari

- Biocompatibili, quindi potenzialmente utilizzabili in campo medico chirurgico per la preparazione di dispositivi medici

- Termoplastici, che li rende lavorabili

- Transizione vetrosa tra -50 C° e +4 C° (in relazione alla lunghezza della catena del polimero)

- Punto di fusione tra 40 C° e 180 C° (in relazione alla lunghezza della catena del polimero)

<5 Short Chain Length

5 – 14 Medium Chain Length

>14 Long Chain Length

Atomi di carbonio (R) Catena

Figura 4.2 – Struttura molecolare generica di un PHA

Tabella 4.1 – Classificazione PHA

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18 Possibili applicazioni dei PHA

Nel corso degli ultimi anni, i PHA sono stati studiati e adattati per molteplici utilizzi. Le sue caratteristiche, come detto in precedenza, ne fanno un ottimo sostituto di plastica. Tra gli utilizzi principali testati fino ad oggi troviamo:

Dispositivi medici

Si stanno testando, con buoni risultati, i PHA per la fabbricazione di protesi cardiovascolari (come valvole cardiache), prodotti per la somministrazione locale di farmaci, protesi ortopediche, materiali vari come i punti per la sutura delle ferite e tamponi [24].

Farmacia

Attraverso la modifica genetica di Pseudomonas Entomophila, è stato prodotto un importante PHA, precursore per la sintesi di sostanze farmaceutiche come antibiotici [24].

Additivi per biocarburanti

È stata recentemente dimostrato il miglioramento del potenziale di combustione in alcuni carburanti come diesel o benzina, usando come additivi derivati dei PHA [24].

Packaging

I PHA hanno una buona attitudine a fare da barriera a gas e ossigeno. Proprio per questo motivo il loro utilizzo nel campo del packaging alimentare (ma non solo) è più che sensato. Sono stati sviluppati già diversi tipi di packaging rigidi e flessibili, che hanno delineato ottime qualità, sia per quanto riguarda la permeazione ai gas sia per la loro durabilità [24].

(19)

19 I microorganismi

Come illustrato in precedenza, la produzione di PHA avviene attraverso i microrganismi, che in particolari condizioni di stress ed eccesso di carbonio, accumulano granuli di PHA all’interno del citoplasma.

Negli anni, in letteratura sono stati descritti numerosi batteri, la cui osservazione ha dimostrato la loro capacità di accumulare PHA al loro interno, sempre grazie allo stesso meccanismo.

Per migliorare il processo, questi batteri hanno subito degli screening per fornire dati riguardo la loro produzione, così da discriminare quali sono i migliori batteri da utilizzare per produrre PHA.

Uno dei batteri più studiati e citati in letteratura è il Cupriavidus necator. Il motivo è la sua particolarità di riuscire ad accumulare una quantità molto elevata di PHA al suo interno (fino all’80% del suo peso secco) [25].

Il Cupriavidus necator è una specie facente parte del genere Cupriavidus. I microrganismi di questo genere sono Gram negativi, mobili per 2-10 flagelli peritrici, aerobi facoltativi [26].

Il Cupriavidus Necator negli anni ha subito diversi cambi di nomenclatura; alla sua scoperta gli è stato dato il nome Alcaligenes Eutrophus, successivamente Wautersia eutropha e Ralstonia eutropha, per poi chiamarsi con la nomenclatura attuale) [27].

Un interessante aspetto legato alla produzione dei PHA grazie ai microrganismi è che con le attuali conoscenze, si possono ‘ingegnerizzare’ i batteri per modificarne alcune caratteristiche metaboliche e avere una produzione in un certo senso controllata.

Uno studio condotto dall’Università di Padova [28], ha ingegnerizzato il Cupriavidus necator per permettergli di fermentare il lattosio. Infatti, per la produzione di PHA, gli scarti della produzione dei latticini, rappresentano un’abbondante fonte. Il Cupriavidus necator però non ha i geni necessari alla fermentazione del lattosio.

I ricercatori hanno inserito all’interno del genoma (precisamente nel gene phaZ1) del C.necator, i geni lacI, lacZ e lacO dell’Escherichia coli. In questo modo si è ottenuto un C.necator in grado di sviluppare su lattosio, cosa che prima non era possibile.

Nella tabella sottostante vengono riportati una serie di microrganismi, e la loro capacità di accumulo di PHA [29].

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20 Microrganismo Substrato PHA x L di substrato

Rielaborazione dei dati riportati nella fonte [29]

Pseudomonas mendocina Glucosio 0.316 g/L

Pseudomonas mediterranea Glicerolo 0.52 g/L

Cupriavidus necator Glucosio 12.0 g/L

Sinorhizobium meliloti

MTCC100 Crusca di riso 3.6 g/L

Azotobacter chroococcum Melassa di canna da zucchero 0.75 g/L Burkholderia thailandensis Olio da cucina esausto 2.2 g/L Halomonas salina DSM 5928 Glucosio + Glutammato

monosodico 6.0 g/L

Paracoccus sp. LL1 Glicerolo 9.52 g/L

Rhodobacter sphaeroides O.U.001

Acque di scarico frantoio 60mg/L

Cupriavidus sp. USMAHM13 Glicerolo+1,4-butanediolo 2.94 g/L E. coli KNSP1 Glicerolo + Acidi grassi 0.90 g/L

Anabaena cylindrica Acetato 0.01 g/L

Azotobacter beijerinckii Glucosio + Mannitolo 2.73 g/L Tabella 4.2 – Alcuni microorganismi utilizzati per la produzione di PHA

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21 Il metabolismo

I PHA vengono prodotti dai microrganismi attraverso tre vie metaboliche principali: beta ossidazione, biosintesi degli acidi grassi e biosintesi dei carboidrati [30].

I geni che intervengono nella produzione di PHA sono gli stessi in tutti i batteri produttori: PhaA, PhaB e PhaC sono i geni cruciali nella sintesi del polimero. Altri geni coinvolti sono PhaG e PhaJ [31].

La via metabolica più semplice e comune è la sintesi di PHA dall’Acetil-COA. Quest’ultimo, derivante dalla biosintesi dei carboidrati, viene convertito in R-3-idrossiacil-COA, substrato per la produzione di PHA. La conversione avviene attraverso gli enzimi beta-chetotiolasi (espresso dal gene PhaA) e acetoacetil-COA reduttasi (espresso dal gene PhaB). Il gene PhaC esprime l’enzima finale, il Pha polimerasi, che trasforma il R-3-idrossiacil-COA in PHA.

Le altre due vie metaboliche, beta ossidazione e biosintesi degli acidi grassi, prevedono che i loro intermedi vengano convertiti in R-3-idrossiacil-COA (l’intermedio finale che viene converito in PHA) tramite l’intervento di enzimi codificati dai geni PhaB, PhaJ e PhaG [32].

Figura 4.3 – Vie metaboliche utilizzate dai M.O. nella produzione di PHA [32]

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22 Processo di produzione dei PHA

Come è stato precedentemente descritto, i PHA sono materie bioplastiche che non seguono il processo di produzione convenzionale di tutte le altre plastiche. Essi infatti, sono formati direttamente nei processi biologici di particolari tipi di microorganismi.

Proprio per questo il processo di produzione ha uno schema ben diverso dalle tradizionali produzioni delle plastiche derivanti dal petrolio.

Nel diagramma in basso è schematizzato in sintesi il susseguirsi delle fasi principali che riguardano la produzione di PHA.

Preparazione del substrato

Il substrato è di fondamentale importanza per la produzione di PHA: deve avere infatti le giuste caratteristiche fisico-chimiche per l’ottimale sviluppo dei microrganismi che, a loro volta, produrranno la materia bioplastica.

Il substrato può essere formato da diversi tipi di sostanze, ma nell’ottica di un’economia circolare e sostenibile, spesso sono portate avanti sperimentazioni usando scarti alimentari ricchi in carbonio.

La preparazione del substrato richiede un trattamento preliminare, volto a rendere il substrato fermentabile dai microrganismi. Le operazioni effettuabili sono molteplici: modifica del pH, se quest’ultimo non favorisce i microrganismi, un eventuale diluizione del composto in acqua, aggiunta di micronutrienti e sterilizzazione prima di inoculare la coltura.

Una volta che il substrato è pronto, viene inserito in un fermentatore, per avanzare alla fase di fermentazione.

Preparazione del substrato

Inoculo di microrganismi e fermentazione

Estrazione dei granuli di PHA

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23 Fermentazione

Una volta preparato il substrato di fermentazione si procede all’inoculo di microrganismi produttori di PHA. Anche in questo caso non esiste un protocollo specifico in quanto ogni azienda sceglie i microbi fermentanti a seconda delle caratteristiche di produzione che si vuole ottenere ed in base al tipo di substrato (Es. canna da zucchero o scarti di ortaggi).

La fermentazione avviene in tank, molto spesso in acciaio, variabili in grandezza e disposti singolarmente o in linea, sempre in base a scelte aziendali.

La fermentazione avviene sotto il controllo dei basilari parametri per permetterne lo svolgimento ottimale: vengono infatti tenuti sotto controllo i valori del pH, della temperatura ed ulteriori parametri in modo da non permettere arresti di fermentazione.

Il controllo dei parametri è fondamentale in quanto la fermentazione deve permettere il più alto tasso di conversione di carbonio in PHA; solitamente per il microrganismo Cupriavidus necator ha un indice di conversione dell’80%. Ciò significa che a termine della fermentazione il suo peso secco sarà costituto all’80% da granuli di PHA [31].

Bioreattore

La fase principale del processo di produzione dei PHA risulta quindi essere la fermentazione.

Questa come accennato, è anche una delle fasi più critiche, in quanto una fermentazione condotta in maniera non ottimale causerebbe uno scompenso nella produzione: in termini pratici tutto ciò si traduce in una notevole perdita economica.

Per una resa finale in PHA di buon livello, sono diversi i parametri di fermentazione che vanno tenuti sotto controllo come la temperatura, il pH, il livello di ossigeno e i nutrienti.

Il processo di fermentazione avviene quindi in un sistema tecnologico chiamato bioreattore.

Il bioreattore, molto spesso un cilindro in acciaio inox, è lo strumento che permette la crescita di materiale biologico tenendo sotto controllo i parametri di cui sopra. Possono essere di diverse capacità, dai pochi litri dell’impianto pilota utile per esperimenti e/o ricerca agli impianti da decine di ettolitri per le produzioni industriali [33].

(24)

24 Schema dell’impianto

L’impianto del bioreattore è costituito dai seguenti componenti:

- Motore, il quale mette in movimento le pale

- Pale rotanti, azionate dal motore, tengono in agitazione il substrato di crescita - Rubinetti per inoculo di microorganismi e di substrato di crescita

- Computer per controllo di temperatura e pH, entrambi all’occorrenza possono attivare rispettivamente sistemi di integrazione di acqua di refrigerazione e acido/base.

- Pompa di sfiato per la fuoriuscita di gas - Pompa di ingresso di ossigeno

- Pompa di scarico, da dove fuoriescono biomassa ed il terreno esausto

Il cilindro del bioreattore non lavora mai completamente pieno. Si deve infatti avere uno spazio di lavoro (tra il 70 e l’80% dello spazio totale) dove è presente la biomassa fermentante e il substrato e uno spazio di testa, dove si accumulano i gas che vengono espulsi dall’apposita valvola provvista di pompa, come visibile nello schema [34].

Figura 4.4 – Schema del bioreattore

(25)

25 Batch, fed batch e sistema continuo

Il sistema tecnologico può essere progettato in maniera diversa a seconda delle esigenze di produzione e costi.

Batch

Il sistema di coltivazione di microrganismi in ‘batch’ è il metodo più semplice; esso prevede l’iniziale inserimento di substrato che verrà fermentato. Non sono previste aggiunte di ulteriori nutrienti. Al termine della fermentazione avviene lo scarico della biomassa.

Sistema continuo

Il sistema di coltivazione di microrganismi in ‘continuo’ è il metodo più avanzato che permette di allungare la fase di crescita logaritmica, ottenendo la massima resa finale in biomassa e quindi in PHA.

Il metodo prevede un inserimento continuo di terreno di crescita fresco e il contemporaneo scarico di terreno esausto. In questo modo i microrganismi crescono privi dalle scorie che si maturano durante il processo, avendo invece a disposizione molecole pronte all’utilizzo.

Figura 4.5 – Spazi di lavoro nel bioreattore [34]

(26)

26 Fed batch

Il sistema di coltivazione di microrganismi in ‘fed-batch’ può essere considerato un’integrazione dei due precedenti sistemi. Il fed batch infatti, prevede l’inserimento di terreno di crescita fresco ma a differenza del sistema continuo non avviene lo scarico di terreno esausto. Questo permette tuttavia un allungamento della fase logaritmica rispetto al ‘batch’, quindi anche in questo caso una resa migliore.

Curve di crescita batterica nei 3 sistemi di coltivazione

BATCH FED BATCH CONTINUO

N° di cellule

Tempo Grafico 4.1 – Curve di crescita nei 3 sistemi

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27 Downstream (Recupero del materiale intracellulare)

Il recupero dei PHA dalle cellule a fine fermentazione rappresenta la fase fondamentale e più critica della produzione e può contribuire significativamente al costo finale: questo processo è indicato con il nome di ‘downstream’ e prevede la lisi cellulare per recuperare il materiale polimerico all’interno della cellula stessa.

Ad oggi gli studi hanno dimostrato l’efficacia di molteplici metodi di downstream. La scelta del metodo più adatto viene fatta dal produttore in base a numerose discriminanti come il tipo di polimero, il tipo di microrganismo utilizzato, purezza del prodotto finito e costo.

Dissoluzione della massa cellulare

In questo metodo, si prendono in considerazione le 2 masse principali: una chiamata NPCM (Non Pha Cell Mass) e la PCM (Pha Cell Mass). L’obbiettivo è la distruzione della NPCM, in modo da ottenere, infine, solo la massa di polimero. Questo avviene attraverso l’utilizzo di coadiuvanti chimici, che dissolvono la massa cellulare. Gli ossidanti più utilizzati sono ipoclorito di sodio o idrossido di sodio. Bisogna prestare attenzione però alla concentrazione degli agenti chimici, in quanto un loro scompenso porta alla dissoluzione anche dei PHA [35].

Digestione enzimatica

Nella digestione enzimatica vengono utilizzati enzimi proteolitici per dissolvere le masse cellulari dei microrganismi, avendo un minimo impatto sui PHA. Questo metodo non richiede costi onerosi, e, data la sua specificità nel dissolvere le masse cellulari indesiderate è ritenuto uno dei metodi migliori per l’estrazione dei PHA.

Il metodo spesso è abbinato ad un preliminare riscaldamento della massa, che disattiva gli acidi nucleici, i quali rendono più difficoltosa l’estrazione [35].

Metodi meccanici

I metodi meccanici rappresentano l’alternativa meno impattante in quanto non si fa utilizzo di agenti chimici per l’estrazione. Tra i metodi meccanici più in uso troviamo la fresatura a sfere e l’omogeneizzazione ad alta pressione. Questi metodi permettono la distruzione della massa

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28 cellulare con un minimo impatto sul PHA. Gli aspetti negativi solo gli alti investimenti per i macchinari ed i tempi di lavorazione elevati.

Per migliorare la resa dei metodi meccanici è stata studiata la possibilità di rendere la cellula più fragile facendola crescere in un substrato con assenza di acido diaminopimelico (costituente fondamentale della parete cellulare). In questo modo sono state ottenute cellule molto fragili, facilmente lavorabili con i metodi di cui sopra [35].

Estrazione tramite solvente

Questo metodo di estrazione prevede di immergere la biomassa contente PHA in un solvente chimico (comunemente si usano cloroformio o cloruro di metilene) e la successiva precipitazione dei granuli di PHA sottoforma di cristalli all’interno della soluzione. Anche in questo caso, in ragione dei solventi utilizzati si crea un problema ambientale, che si va a scontrare con il concetto di base della produzione delle bioplastiche. Recenti studi hanno dimostrato però, come sia possibile sostituire i solventi tradizionali con solventi che non impattano sull’ambiente come metanolo e propanolo.

Al termine dell’estrazione dalla biomassa cellullare, il polimero viene sottoposto a trattamenti di pulizia tramite lavaggi al fine di rendere il prodotto più puro possibile, andando quindi ad eliminare qualsiasi residuo della lavorazione.

Il prodotto finale si presenta sottoforma di granuli, adatti alle successive lavorazioni di trasformazione [35].

Trasformazione

Al termine dei processi di raffinazione il prodotto finale è un granulato del tutto simile a come si presentano inizialmente tutte le altre materie plastiche, bio e non.

Il granulato viene trasformato attraverso i diversi sistemi già usati per le plastiche tradizionali. I metodi più comuni sono l’estrusione e lo stampaggio a iniezione [36].

Nell’estrusione il granulato viene inserito in un sistema tecnologico che convoglia la materia plastica sulla superficie di una grossa vite inserita all’interno di un cilindro. La spinta della vita fa sì che il granulato al termine dell’operazione assuma la forma desiderata, ottenuta attraverso

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29 un apposito filtro (nella forma che si desidera) posto all’uscito della vite stessa. Generalmente l’estrusione si utilizza per ottenere tubi o altri tipi di manufatti che si sviluppano per lunghezza.

Nello stampaggio a iniezione invece, il granulato viene fuso e iniettato ad alta pressione all’interno degli stampi, che verranno aperti alla solidificazione del materiale. Generalmente lo stampaggio si utilizza per ottenere materiali plastici con delle forme particolari, che l’estrusione non permette di ottenere.

Figura 4.6 – Esemplificazione del processo di trasformazione: dai granuli di Pha vengono formati prodotti finiti attraverso l’estrusione

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30 4.2 Produzione di PHA da siero di latte

Uno degli scopi della tesi, come esposto inizialmente, era quello di dimostrare che esiste la possibilità di produrre bio-plastica a partire da substrati formati da matrici alimentari residuali o di scarto. Quest’innovativa maniera di produzione di plastica avrebbe un notevole impatto ambientale, sostituendo la plastica tradizionale con una biodegradabile ma soprattutto avrebbe un gran risvolto etico, utilizzando quelle matrici alimentari che altrimenti diventerebbero rifiuto.

Di seguito verrà esposta una sintesi dell’esperimento dell’Institute of Biotechnology &

Bioprocess Engineering, (Graz University of Technology) [37], dove uno scarto della produzione casearia (siero di latte) viene lavorato per essere poi convertito dai microrganismi in PHA.

Siero di latte: descrizione e composizione

Il siero è la parte liquida del latte che si ottiene dopo il processo di caseificazione; il siero viene sottoposto a concentrazione (tramite filtrazione) per ottenere il siero permeato, ovvero siero con un alta percentuale di lattosio e scarsità di proteine del siero.

Il siero di latte contiene per la maggiorparte acqua; la frazione secca è composta da lattosio (fonte di carbonio per produzione di PHA), minerali, lipidi, tracce di acido lattico e proteine del serio (ma non caseine) [38].

Operazioni preliminari

L’esperimento inizia con la preparazione di un normale terreno di crescita, a cui successivamente saranno aggiunte le fonti di carbonio provenienti dal siero permeato.

Il siero di latte viene sottoposto ad idrolisi per estrarre glucosio e galattosio; la coltura utilizzata (viene citato Escherichia Coli ricombinante) infatti non è in grado di utilizzare il lattosio.

L’idrolisi è stata ottenuta mediante l’aggiunta di 2,5 mL di una soluzione di Beta-Galattosidasi per ogni litro di siero. L’idrolisi è stata eseguita in beuta di vetro in agitazione per 25 ore a parametri controllati (pH 6.5, T= 38°-40°).

Fermentazione

La fermentazione avviene in un bio-reattore da 42 L, in cui viene inserito il terreno di crescita e la coltura di microrganismi per la produzione di PHA; nel caso specifico il polimero è ottenuto è il poli [3-idrossibutirrato-co-idrossivalerato].

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31 All’inizio della fermentazione vengono aggiunti zuccheri (glucosio e galattosio) ottenuti per idrolisi del lattosio contenuto nel siero di latte; gli zuccheri vengono aggiunti nell’ordine di 10g/L.

All’occorrenza, durante la fermentazione gli zuccheri possono essere reintegrati.

Vengono inoltre aggiunti come fonte di azoto, per aiutare la fermentazione, 2.5g/L di peptone e 2.5g/L di estratto di lievito.

Le cellule vengono coltivate in condizioni controllate di pH (7.0) e temperatura (37°).

Il grafico 6.1 mostra il tempo occorrente per l’utilizzo dei due esosi da parte dei microrganismi, e contemporaneamente indica la biomassa (determinata dal campionamento delle proteine) e la quantità di PHA ottenuto.

Come si vede chiaramente, il microrganismo è in grado di utilizzare entrambi gli zuccheri, ma metabolizza più velocemente il glucosio (l’andamento a picchi delle curve di glucosio e galattosio è dato dal reintegro degli zuccheri nel terreno di coltura).

Al termine della fermentazione il contenuto massimo di PHA è stato di 5.5 g/L.

Estrazione

Al termine della fermentazione, il contenuto del bioreattore viene centrifugato per la separazione dei componenti. L’estrazione avviene per lisi cellulare mediante solvente.

Grafico 4.2 – Curve dei dati ottenuti durante l’esperimento [37]

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32 Benefici economici

L’utilizzo di sottoprodotti dell’industria agroalimentari come materia prima per la produzione di PHA ha come obbiettivo l’abbattimento dei costi. Il costo stimato del siero di latte è di circa 116 dollari per tonnellata contro i 493 dollari per tonnellata del glucosio puro.

Grafico 4.3 – Diagramma di flusso della produzione da siero a PHA

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33 4.3 L’acido polilattico (PLA)

L’acido polilattico, o anche poli(acido lattico) o polilattato, comunemente abbreviato in PLA è il polimero dell’acido lattico. Il PLA, come il PHA, è un polimero bioplastico ottenuto a partire da matrici alimentari.

Più precisamente, il PLA è ottenuto attraverso un processo tecnologico che prevede nella sua fase iniziale l’estrazione di amido da elementi vegetali che lo contengono: il mais è il prodotto più utilizzato per l’estrazione dell’amido anche se in letteratura altri tipi di matrici vegetali, come la patata, vengono citate.

Per le sue proprietà, la relativa economicità rispetto alle altre bioplastiche e la comprovata biodegradabilità il PLA detiene un’importante fetta di mercato nel mercato globale delle plastiche; nelle oltre 2 milioni di tonnellate di bioplastica prodotta, il 10% è rappresentato dal PLA (il PHA si ferma all’1,4%). (https://www.european-bioplastics.org/market/)

Figura 4.7 – Produzione globale di bioplastica [https://www.european-bioplastics.org/market]

(34)

34 Le caratteristiche positive del PLA sono molteplici. Oltre agli indiscutibili benefici ambientali, come la biodegradabilità, le scarse emissioni di CO2 e rinnovabilità, presenta caratteristiche chimico fisiche interessanti:

- Ottima trasparenza - Rigidità e robustezza

- Resistenza allo schiacciamento - Barriera per aromi e ossigeno - Resistenza a grassi e oli - Bassa barriera al vapor acquo - Buona stampabiltà

I numeri indicano che per la produzione di 1kg di PLA, servono 1,4kg di acido lattico che a sua volta corrispondono a 2,8kg di mais [39]

Quest’aspetto rappresenta la critica più comune alla produzione di PLA. Critica che però, non trova risconta in quanto l’aliquota di mais destinata alla produzione di PLA è irrisoria (1% della produzione totale di mais) e non impatta sulla produzione per il consumo umano e/o animale. Il semilavorato di mais inoltre può essere processato di nuovo per ottenere mangimi animali, azzerando di fatto lo spreco [39].

Produzione del PLA

Si può sintetizzare il processo di produzione di PLA in 5 step, così come seguono (il seguente processo è quello attuato dalla NatureWorks ®, azienda americana leader nella produzione di PLA)

- Produzione e raccolta del mais

- Estrazione dell’amido e sua conversione in destrosio - Conversione destrosio in acido lattico

- Conversione acido lattico in lattide

- Conversione lattide in polilattide (polimero)

Nel dettaglio, dopo le fasi di raccolta il mais è trasportato nello stabilimento dove avviene l’estrazione di amido. Con l’utilizzo di enzimi successivamente l’amido viene idrolizzato a destrosio, attraverso l’utilizzo di specifici enzimi.

(35)

35 Il destrosio appena ottenuto viene posto in fermentazione in un reattore, in aggiunta come fonte di carbonio ad un terreno di crescita e viene inoculata coltura microbica.

Al termine della fermentazione, l’acido lattico formatosi viene separato dal restante brodo di coltura tramite concentrazione per evaporazione.

Viene poi catalizzata la reazione che converte l’acido lattico in lattide (estere ciclico dell’acido lattico). Prima di formare il polimero, il lattide ottenuto viene posto in distillazione per ottenere una purificazione finale.

Infine, come ultimo step, avviene la polimerizzazione che apre gli anelli di lattide, che formano i monomeri del polimero PLA. Gli eventuali monomeri di lattide rimanenti vengono riciclati per il successivo processo [40].

Impianto per la produzione di PLA.

Utilizzi del PLA

Il PLA è un polimero termoplastico, ciò significa che può passare allo stato liquido una volta raggiunta la temperatura di fusione, che per questo polimero è compresa in un range che va dai 150°C ai 160°C.

Per la sua versatilità può essere lavorato in differenti maniere in base al loro utilizzo finale. Il PLA può essere processato attraverso estrusione, stampaggio a iniezione, fusione, termoformatura, film soffiato e filatura di fibre.

Figura 4.8 – Schema dell’impianto di produzione del PLA [40]

(36)

36 Come illustrato in precedenza, le sue caratteristiche di barriera ai gas e resistenza a grassi e oli lo rendono particolarmente indicato per il food-packaging.

Il PLA è ampiamente usato in campo medico per la sua capacità di degradarsi in acido lattico (non tossico). Gli impianti medici come viti, aste, perni (utilizzate ad esempio per fissare le protesi) possono essere realizzate in PLA. All'interno del corpo del paziente, questi impianti si degradano completamente tra i 6 mesi e i 2 anni, eliminando la necessità di ulteriori interventi chirurgici.

Inoltre, il PLA viene utilizzato per formare fibre molto resistenti con cui fabbricare indumenti sportivi e non.

Negli ultimi anni, con l’avvento della stampa 3D, il PLA è divenuto una della due plastiche più utilizzate per questo tipo di tecnologia (per completezza, l’altra è l’ABS, Acrilonitrile Butadiene Stirene).

Figura 4.9 – Box in PLA per frutta e verdura

Figura 4.10 - Fibra in PLA per la stampa 3D Figura 4.11 – Materiale ortopedico in PLA

(37)

37 4.4 Accenni sul BIO-Polietilene (Bio-PE)

Il Bio-polietilene è una bioplastica biobased (la sua materia prima è rappresentata da biomassa) ma non biodegradabile; è però al 100% riciclabile. Si ottiene attraverso la polimerizzazione del Bio-etilene. Il Bio-etilene è sostanzialmente identico all’etilene, il quale è il composto più utilizzato nell’industria della plastica per la produzione di vari polimeri, uno su tutti il notissimo PET.

L’etilene è un prodotto della raffinazione petrolifera mentre il Bio-etilene è ottenuto grazie alla lavorazione del Bio-etanolo. Il Bio-etanolo è ottenuto a sua volta per fermentazione di biomasse:

le più utilizzate sono canna da zucchero e mais.

Grazie al non utilizzo di petrolio quindi non vengono usate risorse fossili per la produzione, riducendo di fatto le emissioni, caratteristica comune a tutte le bioplastiche.

Entrando più nel dettaglio, le biomasse che vengono fermentate per la produzione di Bio-etanolo sono di due tipi. Le biomasse derivanti da canna da zucchero vengono facilmente fermentante dai lieviti in quanto la fonte di glucosio è il saccarosio, un semplice disaccaride. Ad oggi 2/3 della biomassa formata da canna da zucchero deriva dalle regioni subtropicali (il Brasile è leader mondiale).

L’altro tipo di biomassa utilizzata sono le biomasse formate da amido derivante da mais ma in parte anche da grano. In questo caso prima di attuare la fermentazione gli amidi, formati da una lunga catena di D-glucosio, vengono idrolizzati e poi utilizzati dai microorganismi.

Il Bio-etanolo ottenuto tramite fermentazione alcolica viene convertito in Bio-etilene attraverso un processo chimico attivato dal catalizzatore allumina. 1 tonnellata di Bio-etilene richiede per la sua produzione circa 1.75 tonnellate di Bio-etanolo [41].

(38)

38

CONSIDERAZIONI

Se negli ultimi anni gli studi, ricerche ed investimenti si sono fatti sempre più numerosi nell’ambito dei PHA, è fuori dubbio che l’interesse acquisito nei confronti di questo materiale sia molto elevato.

Come illustrato nell’elaborato, i PHA si sono dimostrati degli ottimi sostituti alle plastiche tradizionali derivanti dal petrolio (le quali sono difficilmente biodegradabili); le caratteristiche chimico-fisiche sono del tutto o in larga parte similari a quelle dei polimeri classici.

I campi di applicazione, inoltre, sono molto vari: i PHA sono una grande famiglia di polimeri ed a seconda del monomero di base si ottengono plastiche con caratteristiche diverse, fornendo di fatto una gran versatilità. Si va quindi dall’utilizzo in campo medico, piuttosto che nel food- packaging o nell’utilizzo come bioplastica da oggettistica.

Il vantaggio principale infine, come già detto, è la sua biodegradabilità, che nell’ottica di un consumo sempre più responsabile da parte della società civile e non, è un valore aggiunto non trascurabile.

Il gran problema dei PHA resta però la competitività con le plastiche derivanti dal petrolio.

Nonostante un inevitabile espansione del mercato negli anni a venire, il prezzo finale dei PHA agisce come una zavorra nella sua diffusione capillare. Il giro di affari dei PHA nel 2021 è stimato a 94 milioni di dollari a fronte dei 73,6 milioni di dollari nel 2016 (il tasso di crescita annuale è del 4,88%) [40].

Il prezzo di mercato può arrivare ad essere quasi 10 volte superiore a quello di un tradizionale materiale plastico; il prezzo dei PHA varia da 3,5 dollari/kg fino ad arrivare ai 10 dollari/kg (la varietà è data dal tipo di substrato utilizzato e dalla qualità finale), mentre allo stesso tempo si può acquistare polietilene a 1,47 dollari/kg e polipropilene a 1,15 dollari/kg [25].

Il costo dei PHA deriva per il 50% dalla materia prima, ossia dalla fonte di carbonio. Il 30%

invece dalle operazioni di downstream dopo la fermentazione (che comprende anche costi di smaltimento di solventi inquinanti). Il restante 20% sono i costi fissi aziendali [25].

(39)

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Per questo motivo, si stanno studiando soluzioni alternative che prevedono l’utilizzo di scarti alimentari come substrato di fermentazione. In questo modo abbatterebbe il principale costo di produzione, ottenendo al contempo un’alternativa ‘green’ andando ad utilizzare materie alimentari considerate rifiuto ma contenti sostanze completamente utilizzabili [40].

Un obbiettivo futuro potrebbe essere lo sviluppo di un protocollo standard che preveda l’utilizzo di scarti alimentari ben definiti (dopo lo studio di numerosi fonti, scegliendo le più performanti per la produzione) implementando la raccolta dei suddetti scarti nella filiera di produzione.

Per quanto riguarda il PLA invece la situazione nel mercato globale e nell’ambito della tecnologia produttiva è molto diversa. Come precedentemente descritto il PLA rappresenta una delle bioplastiche più prodotte ed utilizzate; i suoi ambiti di applicazione sono vari grazie alle sue proprietà ed in aggiunta è diventata la bioplastica di riferimento per la produzione di oggettistica mediante stampa 3D.

Diversamente dal PHA inoltre, il PLA non ha bisogno di particolari processi di estrazione (che rappresentano un’aliquota importante nel prezzo finale del PHA).

Il Bio-Pe infine, ha ormai assunto la sua importanza nel mercato globale in quanto si presenta come un’affidabile alternativa al ben più inquinante polietilene, aggiungendo alla sua sostenibilità caratteristiche chimico fisiche interessanti e un prezzo di mercato quasi concorrenziale.

Di seguito viene proposto un confronto tra PHA, PLA, PET e Bio-PE.

50%

30%

20%

Materia prima Downstream Costi fissi

Grafico 5.1 – Ripartizione dei costi nella produzione di PHA [25]

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40 Confronto dei principali dati per 4 tipi di plastica: Il pet come rappresentante delle plastiche tradizionali, il Bio-PE, il PLA e il PHA come esempi di bioplastiche.

La tabella è frutto di rielaborazione di varie fonti [41] [42]

[http://www.worldcentric.org/sustainability/manufacturing/PLA].

I dati qui indicati sono solo indicativi, in quanto numerose ricerche e studi riportano dati differenti in base ai tipi di lavorazione (che variano soprattutto nella produzione di bioplastiche).

La bioplastica più innovativa, ossia il PHA, è anche quella che richiede un maggior quantitativo di energia; ciò è dettato dal fatto che il PHA richiede delle lavorazioni particolarmente dispendiose e lente, una su tutte l’operazione di downstream (estrazione finale).

Il PLA fa registrare performance positive, anche se il suo consumo in acqua risulta essere alto per via della sua materia prima principale: infatti il mais destinato a fornire l’amido per la produzione richiede per la sua coltivazione ingenti quantitativi di acqua.

L’alternativa green del PET, il Bio-PE richiede costi di produzioni molto bassi, emissioni scarsissime (1,4 kg di CO2 per 1kg di plastica); il dato del consumo di acqua è molto variabile perché le biomasse per la produzione possono variare sia come tipo di prodotto (canna da zucchero piuttosto che mais) sia come zone di produzione dove le esigenze idriche possono variare per ragioni climatiche.

L’impatto delle altre due bioplastiche risulta comunque essere molto basso, arrivando al minimo con il PHA (1Kg di CO2 prodotta per ogni Kg di bioplastica) e l,8Kg di CO2 per il PLA; tutte e 3 le bioplastiche performano in maniera eccellente nel campo delle emissioni se messe a confronto con la plastica tradizionale.

PET Bio-PE PLA PHA

ENERGIA (Mj) 70-75 12 58 85

ACQUA (L) 8 Variabile* 30 10

CO2 (Kg) 13,5 1,4 1,8 1

RINNOVABILE NO SI SI SI

PREZZO ($)/Kg 1 – 1,5 2 – 2,5 3 – 5 6 - 10

Tabella 5.1 – Confronto dati

(41)

41 Infine i prezzi, i quali rispecchiano il ritardo che le bioplastiche hanno accumulato nei confronti dei derivati del petrolio, superando tal volta anche di 10 e più volte il prezzo del PET anche se il Bio-PE inizia ad essere competitivo anche a livello economico. In tal senso la ricerca basata sull’utilizzo di scarti alimentari per la produzione di PHA va nella direzione dell’abbattimento del costo che, come mostrato in tabella, risulta essere non conveniente.

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CONCLUSIONI

La molteplicità delle bioplastiche presenti sul mercato, ma anche in quelle in fase di sviluppo, renderanno probabilmente più semplice l’utilizzo delle stesse in tutti i settori dove oggi si utilizza plastica tradizionale. Gli studi fatti sull’impiego nel campo del food-packaging hanno evidenziato che le performance tecniche spesso più ricercate come la capacità di fare più o meno da barriera a determinati gas, risultano discrete. Il food-packaging da bioplastiche ad oggi è un esempio di applicazione piuttosto diffuso, con imballaggi in PLA biodegradabili molto apprezzati dal mercato.

Anche il PHA mostra risultati interessanti ma gli studi evidenziano che ricerche future dovranno focalizzarsi sul rendere più competitivo dal punto di vista economico questo tipo di bioplastica. I primi passi avanti fatti con il possibile utilizzo di scarti organici per la produzione sono comunque incoraggianti. In ogni caso gli studi hanno evidenziato come sia PLA che PHA determinano significativi risparmi in termini di emissione di gas climalteranti, uno degli impatti considerati più importanti attualmente e la cui mitigazione è al centro delle politiche mondiali.

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