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Strade da vera PAURA!

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Academic year: 2022

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Organo Ufficiale ASAPS

numero

211

Anno 25 - Aprile/Maggio 2018 Spedizione in abbonamento postale (Tassa riscossa) - Aut. n. 1475 del 23/12/2015 Direzione Generale Poste San Marino. Rep. San Marino

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Organo Ufficiale ASAPS

Le immagini di armi nei social media:

conseguenze giuridiche

La storia della patente di guida italiana

Osservatorio il Centauro/ASAPS Sbirri Pikkiati 2017 Forte incremento

Strade da vera

PAURA!

(2)
(3)

il Centauro

Organo Ufficiale A.S.A.P.S.

Associazione Sostenitori Amici Polizia Stradale

Anno 25 - Aprile/Maggio 2018 N° 211 Iscrizione Tribunale

Forlì/Cesena n. 1/95 del 26.01.95

Direttore Responsabile Giordano Biserni

Redazione

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Articoli, fotografie, disegni e manoscritti anche se non pubblicati, non si restituiscono.

È vietata la riproduzione. Asaps © 1991 - 2017

Aprile/Maggio 2018

Editoriale

3 Strade da vera paura!

Serve un piano Marshall per la sicurezza delle strade

di Giordano Biserni Sicurezza

4 Buche stradali e responsabilità degli enti:

non c’è concordia, ma vale la regola dell’equilibrio

di Ugo Terracciano

6 Strade “groviera”: la situazione è devastante di Lorenzo Borselli

10 E ora come si esce dall’emergenza buche?

di Riccardo Matesic

18 Il tragitto casa-scuola-casa:

minori e sicurezza integrata di Stefania Rossi

Attualità

12 L’opposizione del segreto professionale nelle operazioni di polizia amministrativa di Lorenzo Savastano

16 Le immagini di armi nei social media:

conseguenze giuridiche di Andrea Girella

25 Serve una urgente indagine sulla neve di Giordano Biserni

27 Arriva il decreto sulla privacy per il trattamento dei dati personali per finalità di polizia di Luigi Altamura

42 Segreto industriale e invenzioni nel mondo dei motori

di Paolo Carretta

54 I benefici sul gasolio per autotrazione utilizzato nel settore del trasporto di Francesco Pittaluga

Pubblicazioni

22 La storia della patente di guida italiana di Raffaele Chianca

Fisco

26 Bollo auto e assicurazioni dei veicoli commerciali Chiarimenti

Psicologia

46 Padri che uccidono di Davide Stroscio

Osservatorio il Centauro/ASAPS 15 Osservatorio ASAPS “Sbirri Pikkiati” 2017 Al vostro servizio

32 La circolazione su strada delle macchine operatrici

Ufficio Studi ASAPS Giurisprudenza 28 a cura di Franco Corvino I vostri quesiti 30 a cura di Franco Medri Scrivono di noi 34

Sicurstrada

38 La sicurezza stradale secondo i giovani:

un racconto, un manifesto e una canzonee Redazionale S.T.E.A. System 48 Un dispositivo che segnala l’arrivo dei mezzi di emergenza

S.T.E.A. System, acronimo di “Safe Traffic Emergency Alert”

Sulle strade d’Europa e del mondo 40 a cura di Lorenzo Borselli

Fondazione ASAPS

52 Un tuo piccolo gesto a sostegno delle vittime: parte la raccolta fondi promossa dalla Fondazione ASAPS

Dafne Chitos Notizie lampo 58

La posta 62

Libri 63

Amarcord 64

L’informazione sulla Sicurezza Stradale

(4)

Il periodico ufficiale ASAPS,

Il Centauro tratta in maniera approfondita temi di attualità di forte rilevanza sociale legati alla sicurezza stradale:

• Informazioni, articoli, inchieste e osservatori sulla sicurezza stradale e sul codice della strada

• tutte le novità sul codice della strada

• News e Giurisprudenza

• Le novità sul trasporto di mezzi pesanti

• Risposte ai quesiti e rubriche dei lettori

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(ASAPS) Ce lo chiedevano in tanti, perché non mettete On line la vostra/

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Editoriale

e strade del nostro Paese se la passano male da molto tempo. E’ innegabile. Ma in questo inizio 2018, dopo che l’inverno ha fatto semplicemente il suo mestiere, sono ridotte da far paura. Veramente paura, in tutti i sensi. E’ evidente che questa coda invernale ha fatto emergere una situazione che è frutto dell’abbandono ormai datato della manutenzione.

Si dice che in questi ultimi anni si siano risparmiati circa 10 miliardi nei tagli per la manutenzione delle strade e ora per rendere almeno decenti e praticabili in sicurezza gli 850mila km della rete stradale (7 mila di autostrade, 25.000 di statali e il resto di extraurbane secondarie e urbane), secondo alcuni esperti, serviranno almeno 40 miliardi. Un affarone!

La situazione ha tutta l’aria di essere compromessa come ha spiegato bene Stefano Ravaioli direttore di SITEB l’associazione che riunisce le aziende del settore stradale, il quale afferma che non possiamo pensare di cavarcela col rifacimento di qualche tappetino di asfalto. Sono ormai intaccati sotto l’asfalto deteriorato i livelli inferiori e la stessa fondazione.

“Certe strade andrebbero rifatte da capo. Occorre formare anche dei tecnici competenti” (QN del 12 marzo scorso), siamo a posto!

Anche come ASAPS ci siamo uniti in questo grido di allarme sempre sul QN: «La situazione – dice Giordano Biserni, presidente dell’ associazione amici della polizia stradale – è vergognosa. Un Paese che si picca di essere la settima potenza industriale ha una manutenzione delle strade indecente che è frutto di una disattenzione che dura da anni. I costi per il settore dei trasporti, del turismo, per i cittadini sono altissimi. Quando la politica avrà finito la ricreazione spero che si rimbocchi le maniche avviando un piano Marshall per la sicurezza delle strade, dalle statali alle comunali». Chiaro no? Ma intanto dovremo fare i conti

con la situazione attuale e di tempo ce ne vorrà tanto, troppo per tornare ad una situazione solo decente. Sì è vero che nella legge di bilancio sono stati previsti 1.620 milioni di euro per la manutenzione delle strade, ma attenzione sono solo 120 milioni per il 2018 e 300 milioni l’anno per il quinquennio 2019-2013. E cosa pensiamo di fare con queste somme?

Quanti danni dovranno ancora sopportare gli automobilisti per lo stato delle strade? E con poche speranze di essere rimborsati dall’ente proprietario della strada alla luce anche della recente sentenza della Cassazione: “Se la buca stradale è prevedibile, magari perché l'utente conosce la strada,oppure perché è segnalata, questi non può invocare il risarcimento del danno per insidia stradale” (Cass. civ., sez. VI, 30.01.2018, n. 2298). Ne parliamo in un articolo di Ugo Terracciano a pag.4. Una situazione viaria umiliante e indecorosa in un Paese erede della grande cultura stradale degli antichi Romani.

Non osiamo pensare a cosa potrà accadere sulle strade appena fiorirà la buona stagione e cominceranno gli esodi primaverili e i motociclisti ricominceranno a percorrere a frotte le strade (strade?) di questo martoriato Paese. Prudenza ragazzi!

Per ora i più fortunati saranno gli abitanti delle zone posizionate lungo gli itinerari del Giro d’Italia, perché – lo sappiamo – quando passa il Giro le strade d’incanto vengono asfaltate e i tappeti diventano come biliardi. Ma ci vorrebbero almeno 12 giri d’Italia l’anno.

Riteniamo che il nuovo Governo appena sarà insediato dovrà intervenire su questa situazione a suon di decreti legge prima che scatti una class action degli automobilisti contro i proprietari delle strade. E la sicurezza stradale? C’è qualcuno che ne parla??

*Presidente ASAPS di Giordano Biserni*

STRADE DA VERA

PAURA!

Serve un piano Marshall

per la sicurezza delle strade

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di Ugo Terracciano*

Sicurezza

hi cade rovinosamente inciampando, chi ci lascia il semiasse dell’auto, chi squarcia le gomme: l’Italia “groviera”, disseminata di buche stradali peggio che nel primo dopoguerra, parrebbe essere diventata il piccolo Eden di meccanici e gommisti. Tutti gli altri invece sono a rischio caduta. Ma la domanda è: chi paga i danni e, soprattutto, in una situazione delle strade così degenerata è ancora ipotizzabile quel trattamento preferenziale riservato dalla giurisprudenza civile agli Enti proprietari?

L’Ente è responsabile solo se la buca è un’insidia nascosta – Evidentemente la risposta al quesito è affer- mativa – nel senso della posizione di favore riservata dagli ermellini agli Enti - visto l’ultimo caso trattato dalla Cassazione civile (Sez. VI, 15 gennaio 2018, n. 2298) che ha assolto il Comune di Reggio Calabria dall’obbligo di risarcire il danno ad un motociclista caduto a causa di una buca sul manto stradale. Motivo?

Il conducente in questione, nel processo, non aveva provato che la buca non fosse stata adeguatamente segnalata. Il ragionamento è il seguente: l’anomalia sul percorso deve certamente essere segnalata ad opera dell’Ente proprietario della strada, altrimenti si trasformerebbe in un trabocchetto per gli utenti destinati con ogni probabilità a finirci dentro.

Ma in base ai principi generali enunciati dall’art. 2043 cod.

civ. (norma base del risarcimento danni) chi vuol far valere la sua pretesa davanti al Giudice deve produrre le prove in giudizio. C’era una foto della buca che ne rappresentasse l’abbandono? Qualcuno poteva comprovare l’insidiosità dell’anomalia di cui trattasi? Niente di tutto questo? Allora, fino a prova contraria, non si poteva sostenere che l’Ente non avesse fatto la sua parte, anzi a conti fatti non c’era proprio bisogno che facesse nulla. Che dire: dopo una decisione del genere i Sindaci metropolitani ( e non solo quello di Reggio Calabria) avranno sicuramente brindato. Si pensi che a Roma, dove mentre si sta ragionando di un catasto delle buche stradali i cittadini esasperati hanno iniziato a provvedere da soli al ripristino del manto stradale costituendosi addirit- tura in associazioni di volontari del bitume. Una di queste, eloquentemente denominata “Tappami”, pare abbia chiuso con tamponamenti a freddo nell’ultimo anno circa tremila buche. E gli Enti ringraziano.

Esiste una disciplina assai più svantaggiosa per gli Enti, se si considera il loro dovere di custodia del bene strada - Il timore degli amministratori, in realtà, sta tutto in una diversa norma del codice civile che qualora applicata renderebbe le cose ben diverse. L’art. 2051 sancisce che ciascuno è responsabile del danno delle cose che ha in custodia. Ed è custode colui che ha il potere di vigilanza e di controllo sia di diritto che anche solo di fatto sulla cosa

Buche stradali e responsabilità degli enti: non c’è concordia,

ma vale la regola dell’equilibrio

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(nel nostro caso l’Ente proprietario della strada). Così se la strada è sconnessa con buche e rattoppi si presume che ciò che lì accade, compresa ad esempio la caduta di un pedone distratto che inciampa in una buca, possa essere addebitato all’Ente secondo il principio sancito dall’art. 2051 cod. civ., appunto (Cass.

Civ. Sez. III, 29 luglio 2016, n. 15761).

Cosa significa in termini pratici? Pensate che nel caso di danno da cosa in custo- dia, ad escludere la responsabilità, può essere solo il caso fortuito, cioè l’evento non prevedibile nemmeno adoperando la massima diligenza. Secondo questa impostazione è sempre colpa dell’Ente proprietario, insomma, salvo che provi l’avverarsi di un accadimento impon- derabile. Volendo fare riferimento agli ultimi casi di cronaca, ad esempio, si a Roma si è aperta una voragine e un’auto ci è cascata dentro. Chi poteva prevederlo (salvo che il fatto non sia attribuibile a negligenza, come i lavori in corso o la costruzione non a regola d’arte del fondo stradale, cause che chiamerebbero peraltro in causa altre responsabilità)? D’altra parte, però, che un pedone inciampi e cada su una strada sconnessa, la quale in quanto aperta al transito avrebbe dovuto essere tenuta in buono stato, non è un fatto così imprevedibile. Ha affermato la Corte nella sentenza già richiamata n. 15761/2016:

“l’Ente proprietario di una strada aperta al pubblico transito si presume respon- sabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze, indipendentemente dalla loro riconducibilità a scelte discrezionali della P.A.; su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art. 1227 c.c.”.

Ma tanto per comprendere quanto la giurisprudenza – soprattutto quella di merito – sia discorde sulle soluzioni di diritto prospettate, basta ricordare che la sentenza di cui trattasi ha dato torto ad una diversa visione espressa da diversi Tribunali, tra cui ad esempio quello di Lecce che nella sentenza 16 novembre 2016 affermava: “in ordine al danno da insidia stradale, quanto più

la situazione di pericolo connessa alla struttura od alle pertinenze della strada pubblica è suscettibile di essere prevista e superata dall’utente-danneggiato con l’adozione di normali cautele, tanto più rilevante deve considerarsi l’efficienza del comportamento imprudente del medesimo nella produzione del danno, fino a rendere possibile che il suo contegno interrompa il nesso eziologico tra la condotta omissiva dell’ente proprietario della strada e l’evento dannoso”.

Una diatriba storica e alcuni parametri di giudizio – Continua dunque l’infinita querelle della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dalla cattiva manutenzione della strada.

La domanda è sempre la stessa: quando e a che titolo chi cade per una buca sull’asfalto o rompe l’auto ha diritto al risarcimento da parte dell’Ente proprie- tario (Comune, Provincia, ANAS, ecc.)?

E’ interessante citare per rispondere al quesito un significativo precedente giurisprudenziale costituito dalla sentenza Cass. Civ. 8 maggio 2012, n. 6903, che diede ragione ad un motociclista il quale ben 15 anni prima, nel lontano giugno 1997, alle ore 8 del mattino, nel centro abitato di Nicotera a causa di una anomalia della sede stradale cadde rovinosamente. Il giudice di primo grado aveva condannato il Comune, ma poi in appello la situazione si era ribaltata (tanto per dire come la faccenda della responsabilità degli Enti è di ondivaga decisione). Anche in quel caso il punto centrale della controversia ruotava intorno all’applicabilità o meno dell’art. 2051 cod.

civ. (in materia di responsabilità civile del custode). Se custodisci una cosa – dice tradotta in termini poveri la citata norma – devi evitare che questa possa arrecare danni ad altri e se ciò dovesse accadere ne risponderai sicuramente, salvo che provi che il fatto è avvenuto fuori da ogni umana possibilità di controllo (caso fortuito o forza maggiore).

Scegliere la disciplina applicabile (tra quella dell’art. 2043 cod. civ. o quella dell’art. 2051 dello stesso codice) non rappresenta una mera questione di stile, ma una decisione di notevole rilievo processuale: infatti, se si applica l’art.

2051, il danneggiato dovrà semplice- mente comprovare la connessione del danno con la cosa mal custodita (ho riportato lesioni e danni perché c’era una buca); se invece non si ritenesse applicabile la citata norma, secondo i principi generali di cui all’art. 2043 cod.

civ., il danneggiato dovrebbe provare in giudizio la colpa del danneggiante.

Ma un Comune può custodire tutte le strade e rispondere quindi della loro manchevole custodia? Secondo la Corte, almeno in linea di principio, sì, salvo che ricorrano alcuni fattori che la stessa Cassazione ha individuato con le sentenze 16770/2006, e 9546/2010. La possibilità concreta di esercitare la custodia del demanio stradale “va valutata alla luce di una serie di criteri, quali l’estensione della strada, la posizione, le dotazioni e i sistemi di assistenza che la connotano, sì che soltanto l’oggettiva impossibilità della custodia, intesa come potere di fatto sulla cosa, esclude l’applicabilità dell’art. 2051 cod. civ., che peraltro non sussiste quando l’evento dannoso si è verificato su un tratto di strada che in quel momento non era in concreto oggetto di custodia - come nel caso del demanio stradale comunale all’interno della perimetrazione del centro abitato (L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 quinquies; come modificato dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17; D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 9; D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 4: Cass. 5308 del 2007), o quando sia stata proprio l’attività compiuta dalla P.A. a rendere pericolosa la strada medesima, con conseguente obbligo della stessa di osservare le specifiche disposizioni normative disciplinanti detta attività nonché le comuni norme di diligenza e prudenza, ed il principio generale del

“neminem laedere”, essendo altrimenti responsabile per i danni derivati a terzi”

(Cass. 2566 del 2007, 23562 del 2011)”.

Dall’altra parte, va valutato l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poiché esso incide sul nesso causale, potendo escluderlo o ridurne l’apporto in relazione ai danni subiti, secondo la regola di cui all’art. 1227 cod. civ., espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso. Nè sempre colpa dell’Ente, né assoluta è la ragione dell’utente: la massima non è contenuta in nessun codice ma si chiama regola dell’equilibrio.

*Presidente della Fondazione ASAPS S.S.U.

(8)

di Lorenzo Borselli*

Sicurezza

i sono buche e buche: a noi interessano soprattutto quelle che rendono la vita impossibile agli automobilisti, e che a volte quella vita la mettono in serio pericolo.

In Italia ci sono poco più poco meno di 850mila chilometri d’asfalto, tra autostrade, statali, provinciali e comunali, ma la manutenzione è ormai ridotta al lumicino, visti i buchi – e non è un eufemismo – nei bilanci di quasi tutti gli enti proprietari, società concessionarie a parte, che sorreggono i propri bilanci col pedaggio. Le inchieste giornalistiche degli ultimi anni (l’ultima del Quotidiano Nazionale del 12 marzo scorso, con il contributo del presidente ASAPS Giordano Biserni) si fondano su due dati oggettivi: l’osservazione delle strade – che tutti facciamo ogni giorno – e l’analisi, semplicissima, dei dati forniti dalla Siteb (l’associazione dei costruttori e manutentori delle strade), secondo la quale nel 2016 il consumo di asfalto in Italia è stato nuovamente al minimo storico, con 22 milioni di tonnellate per costruire e tenere in salute le nostre strade, contro i 23 del 2015 e i 29 del 2010 (1) .

Lo status quo: anche se a farla da padrona, sulle pagine dei giornali, c’è la situazione di Roma, che secondo un rapporto della Corte dei Conti a luglio 2017 aveva ricevuto circa 2.700 richieste di risarcimento danni, non è che altrove la situazione sia migliore e il problema è ovviamente collegato ai portafogli pubblici ormai svuotati e alle difficoltà di utilizzo dei fondi a causa del patto di stabilità.

In pratica succede questo: una strada si manutiene in maniera ordinaria e straordinaria.

Al novero degli interventi ordinari vanno ricondotti tutti quei lavori destinati a eliminare le

L’assurda contraddizione di un sistema che non investe e che però chiama in causa gli enti

proprietari in caso di omicidio o lesioni stradali

Strade “groviera”:

la situazione è devastante

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cause più comuni del degrado nel corpo stradale, nei suoi accessori e nelle sue pertinenze, al fine di conservarne lo stato e la fruibilità. Tutte queste operazioni – per definirsi ordinarie – devono (o dovrebbero) essere programmate ciclicamente o comunque previste per alcune specificità.

Vi rientrano lavori come il taglio dell’erba, la potatura delle piante, la pulizia delle scarpate, la salatura o lo sgombero della neve, mantenimento degli impianti elettrici, di aereazione, della segnaletica verticale e orizzontale, il ripristino delle buche e via discorrendo.

Si tratta di una lista lunghissima che non possiamo riportare per intero: ci limitiamo ad aggiungere la pulizia delle gemme o la loro sostituzione, il mantenimento delle barriere di contenimento e perfino azioni di pronto inter- vento come la rimozione di frane.

In pratica tutto ciò che serve (o dovrebbe servire) a tenere aperta un’arteria.

Per manutenzione straordinaria, invece, si intende quel complesso di attività destinate a rimediare al degrado profondo dovuto alla perdita di caratteristiche strutturali della strada e necessarie al ripristino della funzionalità della viabilità, non comportanti modifiche al corpo stradale, alle opere ed agli impianti. Un esempio è la chiusura di un viadotto o di una galleria per una reimmissione in sicurezza del manufatto, oppure il rifacimento ex novo di un tratto di arteria, magari a seguito di uno smottamento, con una riparazione, ripristino o sostituzione degli elementi profondi del corpo stradale (piano di posa dei rilevati, strato di fondazione, strato di base, strato di collegamento).

Di soldi, per lavori di manutenzione ordinaria, ne servono tanti: perché se è vero che delle buche ce ne accorgiamo tutti, l’occhio allenato di uno operatore di polizia stradale capisce anche da tutto il resto che la malattia è profonda, non solo sul piano orizzontale. Vogliamo parlare dello stato della segnaletica? Della situazione indecorosa di viadotti o tunnel? Di come i marciapiedi siano ridotti o del livello di degrado di lampioni, guardrail e jersey?

Ma tant’è.

Già nel 1865, la legge 2248 del 20 marzo, prevedeva come “obbligatoria la conservazione in istato normale delle stradi provinciali e comunali sistemate”. Succes- sivamente nel Regio Decreto del 15 novembre 1923 n.

2056, art. 5, recante “Disposizioni per la classificazione e manutenzione delle strade pubbliche” era esplicitamente indicato che “alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle strade di quarta classe provvedono i rispettivi comuni a totali proprie spese”. Attualmente, la questione è regola- mentata nel Codice della Strada (D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285), riformato dalla Legge n. 120 del 29 luglio 2010.

All’art. 14 comma 1 è sancito che “gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta”(2).

Dunque, in capo all’ente proprietario la responsabilità c’è, eccome se c’è, ma i soldi? Se non ci sono i soldi

come si fa?

Già da tempo assistiamo al proliferare di limitazioni al traffico, spesso totale o dei mezzi pesanti) e di velocità, ormai con limiti anche di 5 km/h in prossimità di dissesti che nessuno ha i soldi per ripristinare e con limiti di 30 sulle strade più a rischio: così le amministrazioni riten- gono di potersi tutelare penalmente e civilmente, ma la conseguenza è la delegittimazione della segnaletica e in pochi rispetteranno quegli obblighi considerati assurdi e “il contagio” si allarga presto al resto di tutta la segnaletica stessa.

Con l’introduzione della Legge 23 marzo 2016 n. 41 (Omicidio stradale e lesioni personali stradali), è arrivato però il famigerato “comma 7”: si tratta di una circostanza attenuante che comporta la diminuzione della pena fino alla metà qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole. Secondo uno studio di Paolo Bernazzani, riportato sul bollettino dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, “l’estensione semantica della formula utilizzata dal legislatore lascia ritenere che l’attenuante possa ricorrere non soltanto nelle ipotesi di contributo della vittima nella causazione del sinistro, ma anche nelle diverse ipotesi in cui l’incidente sia riconducibile alla condotta di più conducenti”, vale a dire, essenzialmente, nei casi di cooperazione colposa ex art. 113 C.P. o di concorso di cause colpose indipendenti ex art. 41 C.P. (3)

In sostanza, se si trova qualcun altro cui dare la colpa, la pena può essere dimezzata.

Il comma 7, anche in relazione al comma 1, è divenuto così famigerato soprattutto per gli enti proprietari delle strade: è qui opportuno indicare che il Ministero dell’Interno – Servizio Polizia Stradale ha emanato la circolare n.

300/A/2251/16/124/68 del 25 marzo 2016 a firma del Prefetto dr. Roberto Sgalla, che oltre a dare disposizioni generali in relazione alla neonata Legge 41/2016 soprattutto in chiave operativa per gli organi di polizia stradale sul Territorio Nazionale, ribadisce – al punto 1.1 “omicidio stradale non aggravato” – che il reato può essere commesso da chiunque viola le norme che disciplinano la circolazione stradale, che sono costituite da quelle del Codice della Strada e delle relative disposizioni complementari. In virtù di tale previsione, il reato ricorre in tutti i casi di omicidio che si sono consumati sulle strade, come definite dall’art.

2 comma 1 C.D.S., anche se il responsabile non è il conducente di un veicolo. Infatti, le norme del Codice della Strada disciplinano anche comportamenti posti a tutela della sicurezza stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle strade e dei veicoli.

La figura del consulente tecnico assume dunque un’importanza fondamentale: si pensi a quanti eventi infortunistici possono essere a posteriori attribuiti, eziologi- camente parlando, non solo al comportamento attivo di chi si trova al volante di un veicolo, ma anche a chi aveva il dovere di manutenere una strada o un veicolo stesso, aprendo alle indagini un ventaglio di ipotesi potenzialmente idonei a supportare una visione ex art. 113 o 41 C.P..

I tempi erano comunque già maturi, tanto che il 29 marzo 2016 la Corte di Cassazione (IV Sez. Pen. n. 17010),

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aveva sancito che “il rispetto delle norme cautelari che regolano la sicurezza stradale non è, infatti, esigibile esclusivamente dagli utenti della strada alla guida di veicoli, dunque in fase di circolazione, ma anche da coloro che svolgano attività diverse, come la manutenzione stradale [...], come si evince da quanto espressamente previsto dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 21, comma 2, (“Chiunque esegue lavori o deposita materiali sulle aree destinate alla circolazione o alla sosta di veicoli e di pedoni deve adottare gli accorgimenti necessari per la sicurezza e la fluidità della circolazione e mantenerli in perfetta efficienza sia di giorno che di notte”) e dal D.P.R.

16 dicembre 1992, n. 495, artt. 30 - 32, a proposito delle barriere che delimitano i cantieri sulla strada”.

I fatti di cui si è occupata la Suprema Corte erano ovviamente antecedenti all’entrata in vigore della Legge (24 marzo 2016) e riguardavano un sinistro con esito plurimortale avvenuto in prossimità di un cantiere di manutenzione, dove le protezioni per i lavori in corso si erano spostate per effetto del vento andando ad invadere la parte centrale della carreggiata su cui si era poi verifi- cato un frontale tra un autocarro e un’autovettura, i cui occupanti avevano perso la vita.

Oltre a chiamare in causa la società incaricata dei lavori, gli Ermellini hanno chiamato in causa l’Ente proprietario della strada, poiché le manutenzioni commissionate non prevedevano la chiusura del traffico, ma solo una sua parzializzazione. “[…] allorquando, invece, l’area su cui vengono eseguiti i lavori e insiste il cantiere risulti ancora adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di circolazione,

questa situazione denota la conservazione della custodia da parte dell’ente titolare della strada, sia pure insieme all’appaltatore. […] “la posizione di garanzia derivante dalla proprietà della strada e dalla destinazione di essa al pubblico uso comporta, infatti, il dovere per l’Ente di far sì che quell’uso si svolga senza pericolo per gli utenti […] l’obbligo di vigilanza la cui omissione è fonte di responsabilità qualora concorrano le circostanze della conoscenza del pericolo, dell’evitabilità dell’evento lesivo occorso a terzi e dell’omissione dell’intervento diretto all’eliminazione dei rischi”.

Anas Spa, poche settimane dopo l’emissione della circolare “Sgalla”, ha impugnato la circolare con ricorso straordinario al Capo dello Stato, ritenendola “lesiva” in quanto avrebbe esteso in maniera indiscriminata l’ambito soggettivo di applicazione del reato, poiché incorrerebbe nei reati in questione anche chi non è conducente di un veicolo.

Ad avviso di Anas la circolare avrebbe realizzato un pregiudizio diretto, grave e sostanziale della propria posizione, nella sua qualità di ente gestore della rete stradale di interesse nazionale non a pedaggio, e non avendo carat- tere meramente interpretativo della Legge nr. 41/2016, ma immediatamente lesivo, sarebbe immediatamente impugnabile, a tutela del bene della vita rappresentato dalla salvaguardia dei propri dipendenti e segnatamente del personale deputato allo svolgimento dell’attività di gestione e manutenzione della rete .

La I Sezione del Consiglio di Stato, con la decisione nr.

567 del 7 marzo 2017, ha dichiarato inammissibile il ricorso, giudicando il carattere della circolare non immediatamente lesivo, “contenendo l’interpretazione di una norma di legge la cui applicazione non è rimessa all’autorità che l’ha emanata bensì all’autorità giudiziaria penale cui spetterà il compito di chiarire se il legislatore al comma 1 dell’art.

589bis c.p. ha inteso costruire la fattispecie come ipotesi di reato comune contrapponendola a quella prevista dal comma 2 come fattispecie di reato proprio incentrata sul conducente dell’autoveicolo”.

Ma senza soldi, come si fa?

(*) Ispettore della Polizia di Stato – Comandante Squadra PG Sezione Polizia Stradale Prato

Sitografia e Fonti

“Manutenzione stradale, il grido d’allarme della Siteb. “In Italia si fa solo la metà dei lavori che servirebbero” – Il Fatto Quotidi- ano - di Omar Abu Eideh - 23 febbraio 2017.

“La responsabilità degli enti territoriali sulla manutenzione delle strade” - Marcella Guccione – Rivista Giuridica ACI - http://

www.rivistagiuridica.aci.it/documento/la-responsabilita-degli-enti-territoriali-sulla-manutenzione-delle-strade.html

Cass. Pen., sez. IV, 31 maggio 1983 Luciani Cass. pen. 1984, 277 (s.m.) - conforme – Cass. Pen., sez. IV, 23 novembre 1987 Mazzetti Cass. pen. 1989, 581 (s.m.). Giust. pen. 1989, II,88 (s.m.). “La differenza tra cooperazione colposa e concorso di cause indipendenti consiste unicamente nell’elemento psicologico, perché nella cooperazione colposa è richiesta la consapevolezza di ciascuno di conferire il proprio contributo alla condotta colposa che sbocca nella produzione dell’evento, mentre nel concorso di cause indipendenti, l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni non collegate ad alcun vincolo subiettivo”.

Luigi Altamura - “Anas ricorre con ricorso al Capo dello Stato avverso la circolare operativa del Servizio Polizia Stradale su omicidio stradale e lesioni personali stradali: il Consiglio di Stato lo dichiara inammissibile” – Asaps, 05.04.2017.

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Sicurezza

uante volte vi è capitato mentre guidate di spaventarvi per un veicolo proveniente dalla direzione opposta che vi punta o vi sfiora? Inizialmente non capivate quel comportamento, pensavate alla distrazione (che pure è un problema di sicurezza gravissimo), poi vi siete resi conto che quel conducente stava evitando una grossa buca.

Se guidate una moto o uno scooter, questo andamento imprevedibile degli altri veicoli diviene ancora più pericoloso. Perché -ad esempio- in fase di superamento di una fila capita che l’auto superata scarti all’improvviso verso di voi. Sempre per evitare un cratere stradale. Senza contare che a volte le buche da evitare sono due: una dalla parte del veicolo che viene verso di voi e una dalla parte vostra, con il rischio di finire in traiettoria di collisione.

Sembra uno scherzo, scritta così su carta, ma è una situazione che ben conoscono gli scooteristi di alcune zone urbane. La qualità delle strade è divenuta per l’Italia un problema assurdo, dai molteplici risvolti negativi.

Tanto per cominciare, sono enormi i danni materiali ai veicoli, con gomme squarciate e cerchioni piegati. E per le due ruote si aggiunge un’incidentalità da buca. Quadro nero anche per le amministrazioni che non hanno investito nella manutenzione delle strade: per loro si profila il boomerang di migliaia di richieste di risarcimento da parte di utenti infuriati.

Non manca infine un’immagine negativa sugli stranieri che vengono in vacanza nel

La stato delle strade di Roma (e di altre zone d’Italia) è disastroso. Colpa della mancata manutenzione e della

cattiva qualità di alcuni asfalti utilizzati. E mentre le Procure indagano su possibili casi di corruzione, noi fronteggiamo un problema che ha risvolti economici e di sicurezza stradale Dove si troveranno i fondi necessari alle tante riasfaltature integrali ormai necessarie?

di Riccardo Matesic*

E ora come si esce

dall’emergenza buche?

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nostro Paese. Perché basta attraversare la frontiera, per trovare strade in condizioni enormemente migliori. Una differenza palpabile, al punto che, secondo voci ben informate, un’importante casa di pneumatici avrebbe classificato le strade italiane al livello di quelle africane, destinando al nostro paese gomme irrobustite per ridurre le rotture.

La capitale delle buche sembra essere diventata Roma, dove il gelo seguito alle piogge abbondanti e alla nevicata di fine febbraio ha fatto letteralmente esplodere l’asfalto fessurato.

Manutenzione. Sarebbe servita manutenzione. Perché l’acqua penetra nell’asfalto danneggiato, vi scorre sotto, e porta via materiale, creando dei vuoti che poi si tramutano in buche. Se poi arriva il gelo, il ghiaccio si gonfia, spacca i vari strati di asfalto e il guaio è completo.

Il primo errore delle amministrazioni titolari delle strade è stato risparmiare sulla manutenzione ordinaria. Quell’opera di chiusura delle piccole buche e delle fessure. Problemi di bilancio, certo, ma i tecnici sanno bene che dopo tre anni di mancata manutenzione ordinaria, si finisce nella neces- sità di manutenzione straordinaria. Insomma, tocca riasfaltare la strada, con un lievitamento dei costi.

Ora fortunatamente, dopo la campagna #bastabuche dell’ANAS dello scorso anno, che ha sistemato diversi tratti di strade statali, stanno arrivando fondi anche per la viabilità locale. La Conferenza Stato-Città e autonomie locali ha approvato infatti un decreto proposto dal Ministero dei Trasporti che ripartisce 1,6 Miliardi di euro in 6 anni a province e città metropolitane per la manutenzione della rete stradale mirata soprattutto ad accrescerne la sicurezza.

Resta però il problema della diffusa scarsa qualità dei lavori effettuati.

Proprio a Roma il Codacons ha recentemente prelevato campioni d’asfalto, facendoli analizzare. Ne è risultato un composto povero di bitume: solo il 3,97% della massa, mentre i protocolli dell’ANAS prevedono un range dal 4,5 al 6,1%. Il bitume funge da collante, dà robustezza al composto steso a terra. Ovvio che mettendone poco, la superficie stradale tenda a sfaldarsi presto. Senza contare che con poco bitume scende anche il coefficiente d’aderenza.

Funzionano i controlli di qualità sui lavori stradali? Sicuramente no. E questo è un problema nel problema. Perché, al di là della qualità degli asfalti, basta vedere quanti tombini non a livello ci sono per rendersi conto di come i lavori siano fatti spesso frettolosamente.

A complicare le cose, ci si mette anche lo spezzettamento della rete stradale operato ormai da diversi anni con la nota “devolution”. Così capita di percorrere una strada, e di trovarla rimessa in ordine fino a un certo

punto. Poi, all’improvviso, ci si trova di nuovo a fare lo slalom fra le buche. E in caso di incidente o danneggiamento del veicolo, può essere difficile scoprire l’ente responsabile della tratto di strada in questione, visto il continuo alternarsi fra province e comuni attraversati.

Tutto questo, come dicevamo, per motociclisti e scooteristi ha importanti risvolti di sicurezza. Volete un esempio?

In Italia c’è la pessima abitudine di non rispettare la distanza di sicurezza. Se si prova a lasciare spazio dal veicolo che ci precede, subito da dietro si viene superati. Così si finisce per camminare stando vicini al veicolo davanti. Cosa che non dà modo di vedere le buche. E non se ne hanno neanche avvisaglie, perché il mezzo a due ruote di solito cammina a centro carreggiata, dove non mettono le ruote le auto che lo precedono.

Poi ci sono asperità e solchi longitudinali non visibili. In auto danno fastidio relati- vamente. In moto deviano la traiettoria del veicolo. Per l’utente esperto sono un fastidio; per il non esperto possono significare la caduta o la collisione con veicoli con i quali si marcia parallelamente.

Tutto questo sta cambiando anche il mercato della moto. Perché con lo stato attuale della rete stradale, la guida dei mezzi sportivi è divenuta sgradevole.

Meglio usare moto dotate di sospensioni dalla lunga escursione. Le enduro stradali, le moto africane. Che non a caso in Italia sono ormai il segmento di mercato più forte. L’unica difesa del motociclista per continuare a muoversi su due ruote.

Nel frattempo la Honda, che è leader nel mercato degli scooter, ha messo in commercio l’X-ADV, un ibrido fra una moto e uno scooter caratterizzato proprio dalle ruote grandi e tassellate e della sospensioni a lunga escursione. Prati- camente un mezzo da fuoristrada per...

andare in città!

Del resto, la casa giapponese produce e sviluppa i suoi scooter SH nello stabili- mento di Atessa, in provincia di Chieti, e invia i suoi collaudatori a Roma. Perché per le buche non esiste un banco prova migliore. Decisamente un primato molto poco invidiabile per la Capitale di uno dei paesi del G7.

*Fondatore e direttore di Netbikers.eu

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Attualità

Una disciplina senza “fissa dimora normativa”

Come noto, l’attività di polizia amministrativa non ha mai formato l’oggetto di un corpus di disposizioni specifico, in particolare sotto un profilo strettamente processuale(1) .

Seppure, difatti, i tratti essenziali del diritto amministrativo di polizia risiedano nella Legge 24 novembre 1981 n. 689, recante “Modifiche al sistema penale”, per risolvere importanti dubbi procedurali connessi all’attività che quotidie gli organi di polizia svolgono nella loro veste amministrativo-preventiva (e non, quindi, repressivo-giudiziaria ai sensi dell’art. 55 del codice di rito penale), occorre riferirsi alle norme esplicitate in singoli settori di polizia (2) . L’immagine che ne risulta è dunque quella di un diritto processuale di polizia amministrativa pulviscolare, privo di un complesso unitario di norme in cui trovi stabile dimora giuridica.

Segnatamente al tema del presente contributo, il comportamento proceduralmente corretto da tenere nel caso in cui – nel corso di un’operazione di polizia amministrativa – un professionista eccepisca il segreto professionale su informazioni e/o documenti cartacei o digitali al fine di evitarne il sequestro, non è disciplinato dalla richiamata Legge n. 689/1981. Occorrerà pertanto ricercare

di Lorenzo Savastano*

L’opposizione del segreto professionale nelle operazioni di polizia amministrativa

La disciplina pulviscolare degli accessi amministrativi impone l’intreccio e l’analisi di vari comparti di settore al fine di

ricercare la migliore best practice nel caso concreto

Cosa fare in caso di formale eccezione di segreto professionale

durante le operazioni di polizia

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aliunde una disciplina che funga – quantomeno – da punto di riferimento al fine di evitare non solo la nullità dell’atto del sequestro amministrativo ex art. 13 della richiamata L.

689/1981(3) ma, soprattutto, le gravose conseguenze penali e disciplinari a carico dell’operatore di polizia, derivanti dalla illegittima effrazione del segreto.

La forza giuridica soft del segreto professionale Prima di lumeggiare gli adempimenti degli organi di polizia operanti, occorre premettere che la nozione di segreto professionale è – tautologicamente – connaturata alla natura dell’attività professionale prestata. Una sua definizione in positivo è, pertanto, da ricercarsi nelle singole normative di settore che regolano la categoria professionale di riferimento.

A titolo d’esempio, si consideri la definizione che di esso offre la L. 31 dicembre 2012, n. 247, recante la “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, che all’art. 6, primo comma (rubricato: “Segreto Professionale”)

(4), dopo aver precisato che: “L'avvocato è tenuto verso terzi, nell'interesse della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e del massimo riserbo (…)”, sancisce al successivo terzo comma che “L'avvocato, i suoi collaboratori e i dipendenti non possono essere obbligati a deporre nei procedimenti e nei giudizi di qualunque specie su ciò di cui siano venuti a conoscenza nell'esercizio della professione o dell’attività di collaborazione o in virtu' del rapporto di dipendenza, salvi i casi previsti dalla legge”.

Su un piano civilistico, l’introduzione di una regolamentazione specifica del segreto professionale, discende direttamente dall’art. 12 D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 che, in materia di privacy, attribuisce al Garante il compito di promuovere la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, nell’ambito delle categorie interessate(5).

Parallelamente, il presidio in campo penale del segreto professionale è rappresentato dall’art. 622, cpv., del codice penale, il quale prevede che “Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione

o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 30 a euro 516”.

In sintesi, le disposizioni dei codici professionali, seppur aliene al diritto positivo strettamente inteso, non sono per questo prive di una propria ed autonoma vis normativa,

“dal momento che le regole dell’arte alle quali confrontare la condotta tenuta in concreto da qualsiasi professionista sono contenute in una normativa secondaria”(6) , integrando una sorta di soft law utile per comprendere i contorni ed i contenuti dell’obbligazione professionale, salvo le sanzioni penali previste in caso di disvelamento senza giusta causa o al fine di ottenere un indebito profitto(7) .

Il segreto professionale negli accessi di polizia Come anticipato, una disciplina inerente il corretto comportamento da tenere nei casi in cui il segreto professionale venga opposto durante operazioni di polizia amministrativa esiste solo partitamente nei singoli comparti di interesse operativo.

A tal riguardo, un valido riferimento è senz’altro la disciplina inerente gli accessi di polizia tributaria, non solo per la presenza di una norma positiva che regola l’ipotesi de qua discimur, ma soprattutto per l’interessante giurisprudenza che su tale normativa – nel tempo – si è innestata.

Procedendo con ordine il riferimento ampiamente ricorrente, testé accennato, è l’art. 52, comma 3, D.P.R. 633/1972, che regolamenta l’esercizio del potere di accesso di polizia tributaria in ambito sia IVA sia delle imposte sui redditi (in forza del rinvio operato dall’art. 33, primo comma, del D.P.R.

600/1973). Expressis verbis dispone il richiamato articolo: “È in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”.

Chiaramente, come precisato dalla Suprema Corte(8) , nel corso di accesso ai fini fiscali, il segreto professionale può essere opposto soltanto per quei documenti che rivestono un interesse diverso da quelli economici e fiscali del professionista o del suo cliente, potendo essere eccepito per le scritture ufficiali né per l’acquisizione dei documenti che costituiscono prova dei rapporti finanziari intercorsi fra professionista e cliente. Diversamente opinando, il segreto professionale si presterebbe ad essere uno strumento di elusione dei controlli.

La procedura operativa per gli operatori di polizia Il comma 3 dell’art. 52 fa salvo l’art. 103 c.p.p., che limita l’esecuzione di ispezioni, perquisizioni e sequestri nei confronti dei difensori di persone sottoposte a procedimenti penali e dei consulenti tecnici. In particolare, il sesto comma del richiamato art. 103, stabilisce che “Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”.

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Così ricostruita, la normativa in subjecta materia parrebbe investire due ipotesi fenomenologicamente distinte, a seconda cioè che il professionista opponga formalmente il segreto professionale su atti, documenti, dati, informazioni e programmi informatici che attengano, o meno, il rapporto con il proprio assistito in forza di un mandato professionale nell’ambito di un procedimento penale, in cui lo stesso risulti già imputato, ovvero:

- nel caso in cui la documentazione non afferisca documentazione che leghi il difensore al proprio assistito nell’ambito di un procedimento penale, ma rientri comunque nell’ambito di un mandato professionale, in caso di formale opposizione del segreto ai sensi dell’art. 200 c.p.p., la polizia operante dovrà interessare l’Autorità Giudiziaria competente che, se giudicherà infondata l’eccezione a seguito dei necessari accertamenti previsti dal secondo comma dell’art. 256 c.p.p., emetterà un decreto di esibizione, a fronte del quale il professionista ha obbligo di immediata rimessa degli atti e documenti. Tale iter procedurale è stato, inoltre, recentemente confermato dallo stesso giudice di legittimità(9) , che ha parlato di una tutela di carattere simmetrico rispetto a quella contemplata per la testimonianza (si veda, al riguardo, l’art. 200 cpv., del c.p.p., in materia di mezzi di prova(10) );

- nei casi in cui, al contrario, la documentazione attenga dati o informazioni strettamente inerenti il rapporto fiduciario fra difensore ed assistito nell’ambito di un procedimento

penale (costituisca, cioè, la loro corrispondenza)(11), occorrerà un quid pluris, dovendo tali informazioni costituire ex se il corpo del reato. Di conseguenza, gli organi di polizia operanti dovranno trasmettere, anche oralmente, ai sensi dell’art. 347 c.p.p., la notitia criminis al magistrato competente, affinché egli proceda al sequestro probatorio della documentazione.

La ratio della distinzione summenzionata, si lasci notare, risiede evidentemente nella diversa intensità della tutela del diritto di difesa ex art. 24 della Carta costituzionale, di cui il difensore ne rappresenta l’estrinsecazione nell’ambito delle indagini preliminari e del successivo processo. Lo scopo ultimo è, in altri termini, evitare che il diritto di difesa dell’imputato venga scalfito da un uso improprio dei doveri di polizia.

*Capitano della Guardia di Finanza, in servizio presso il Nucleo Polizia Economico-Finanziaria di Milano,

savastano.lorenzo@gdf.it

Note(1) Sul punto, amplius: U. NANUCCI, Altre attività di polizia, in AA.VV., Manuale pratico della polizia giudiziaria, Roma, 2013, pagg.

565 e segg..

(2) Come noto la polizia amministrativa rappresenta “il complesso di attività organizzate dalla Pubblica Amministrazione dello Stato, finalizzato all’attuazione delle leggi e dei regolamenti che disciplinano le attività dei privati, in modo da preservare la sicurezza generale della società e l’ordine pubblico” (cfr. V. INGLETTI, Diritto di Polizia Giudiziaria, Roma, 2010, pagg. 505 e segg.).

(3) Per sequestro amministrativo si intende il “provvedimento sanzionatorio di carattere cautelare, tendente a conseguire la custodia e la conservazione dei beni che siano stati strumento o risultato di un illecito amministrativo o che siano comunque pertinenti all’illecito stesso e come tali utili ai fini dell’accertamento della infrazione, in vista di un eventuale provvedimento definitivo di carattere ablativo (la confisca)” (Cfr. AltalexPedia, voce “Sequestro amministrativo”, a cura di F. CAMPOBASSO, agg. al 23/10/2015)

(4) Nel corso del tempo sono stati pubblicate diverse decine di altri codici con caratteri e finalità analoghi. Ex pluribus: il Codice di deontologia medica (approvato il 18 maggio 2014) dalla federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri; il Codice deontologico degli psicologi italiani, approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi; il Codice deontologico degli ingegneri, approvato dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri nella seduta del 9 aprile 2014 et cetera.

(5 ) L’aspetto nodale della nuova disciplina è che questi codici “(…) sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana a cura del Garante e, con decreto del Ministro della Giustizia, sono riportati nell’allegato A) del presente codice (…)”(cfr. art. 12, comma 2, D. Lgs. 196/2003). La conseguenza è che “il rispetto delle disposizioni contenute nei codici di cui al comma 1 costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici”, comportando l’obbligo al risarcimento del danno a carico del professionista, qualora con dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c., danneggi il proprio assistito (cfr.

art. 12, comma 3, D. Lgs. 196/2003).

(6) Così si esprime: M. FRANZONI, Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2016, pagg. 6 e segg.. Prosegue lo stesso A. “(…) tecnicamente le regole di deontologia appartengono al genere della normativa secondaria, diversa anche dagli usi, che mal si coniuga con l’idea del diritto positivo (…)”. Tuttavia, le regole dei codici deontologici (in cui trova cittadinanza la definizione dell’istituto del segreto professionale), sono “cogenti per la categoria che le ha volute”, comportando – quindi – la responsabilità disciplinare, civile (ex art. 2236 cod. civ.) e penale (v. infra) del professionista, qualora lo violi.

(7) M. FRANZONI, op. cit., pag. 13.

(8)Cfr. Cass. civ. SU, 7 maggio 2010, n. 11082.

(9)Cfr. Cass. pen., Sez. II, 10 novembre 2017, n. 51446.

(10)Cfr. Libro III, Titolo II, Capo I del codice di procedura penale.

(11)Ai sensi dell’art. 103, comma 6 c.p.p. ed art. 35 del D. Lgs.271/1989, recante le disposizioni attuative del codice di rito penale

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Osservatorio il Centauro/ASAPS

n fenomeno quello delle aggressioni alle divise sempre più preoccupante e in forte incremento.

Nel 2017, il nostro osservatorio “Sbirri Pikkiati” ha registrato 2.695 aggressioni nei confronti di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia municipale, di operatori delle altre forze di polizia e in questo caso parliamo ovviamente solo delle aggressioni avvenute su strada durante i controlli delle forze di polizia con esclusione quindi di tutto ciò che riguarda la gestione dell’Ordine pubblico (stadi, manifestazioni, No Tav ecc.).

Il numero è in forte aumento con 482 aggressioni in più e un incremento del 21,8% rispetto ai 2.213 attacchi del 2016.

Nel 2015 le aggressioni da noi registrate furono 2.256.

Nel 2014 erano stati 2.266 nel 2013 2.286, mentre nel 2012 si era arrivati a 2.290. In Italia, dunque siamo passati in 5 anni da una aggressione ogni 4 ore a una ogni 3 ore con almeno un operatore di polizia che finisce in ospedale, spesso con conseguenze invalidanti, fisiche e psicologiche, che lo accompagneranno per tutta la carriera.

Nel 2017 in 447 episodi (16,6%) l’aggressore ha fatto uso di armi proprie o improprie (bastoni, coltelli, crick, in molti casi la stessa vettura per travolgere il poliziotto o qualsiasi strumento idoneo ad aumentare le conseguenze dell’aggressione). Nel 2016 in 412 casi, pari al 18,6% del totale (19,6% nel 2015).

I più colpiti dalla violenza si confermano ancora una volta i carabinieri, che da soli hanno totalizzato il 46,5% delle aggressioni (in tutto 1.252), dato in aumento rispetto alle 1.091 del 2016, ma la percentuale è in calo in quanto era al 49,3%.

Seguono la Polizia di Stato con 1.016 (37,7%) aggressioni in netto incremento rispetto alle 799 (36,1%) del 2016 e la Polizia Locale con 283 attacchi (10.5%). Anche in questo caso l’incremento è netto rispetto ai 212 referti (9,6%) del 2016 e gli altri corpi con 189 attacchi, 7 %.

Nel corso del 2017, gli episodi avvenuti al nord sono stati 1.241 (46%) 989 (44,7%) nel 2016, quelli al centro 555 (20,6%), 496 (22,4%) nel 2016. Mentre le aggressioni registrate al sud sono state 899 (33,4%), 728 (32,9%) l’anno prima.

Sempre molto alto, purtroppo, il numero di aggressori stranieri (comunitari e non): nel 2017 si sono resi responsabili di 1.231 episodi pari al 45,7%. Incremento consistente rispetto al 2016 quando gli episodi con stranieri furono 947 pari al 42,8%.

In 721 casi 26,8% l’aggressore è risultato poi ubriaco o drogato. Nel 2016 gli attaccanti ubriachi o drogati furono 651 (29,4%) (303 gli episodi per la sola droga in netto aumento rispetto ai 266 del 2016 e i 235 del 2015).

I dati confermano ancora una volta che l’argine di contenimento delle divise rispetto alla violenza che si manifesta ogni giorno sulle strade è sempre più fragile.

Allora ci ripetiamo fino allo sfinimento. Tutto questo avviene nell’indifferenza pressoché totale dell’opinione pubblica e della stessa politica. Posizione pericolosa e ingenua.

Del dilagare della violenza contro le divise sulla strada dovrebbero invece preoccuparsi per primi i cittadini ancor più degli agenti e carabinieri perché dopo l’argine ci sono loro come destinatari e vittime di una violenza sempre più tracotante e ormai di fatto quasi impunita. Fino a quando si potrà continuare in questo modo? (ASAPS)

Forte incremento nelle aggressioni alle divise su strada

Gli “sbirri” sono sempre più pikkiati per controlli su strada

Nel 2017 l’Osservatorio ASAPS ha registrato 2.695 episodi con un incremento del 21,8% rispetto alle 2.213 violenze fisiche dell’anno precedente

Un referto ogni 3 ore! Il 27% degli aggressori è ubriaco, il 45,7% degli attacchi

da stranieri. Nel 16,6% dei casi usate armi proprie o improprie

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Attualità

ur se la circolazione sui social media di immagini e notizie sulla propria vita è diventata estremamente diffusa e veloce, chi utilizza tali strumenti per commentare od esprimere il proprio stile di vita non sempre dimostra di essere consapevole che tali informazioni producono una pubblicità senza controlli e sono accessibili ad una platea (potenzialmente) infinita di soggetti.

Chi diventa utente di un social network (si pensi a Facebook) decide di accettare, infatti, non solo le estese possibilità relazionali, ma anche le connesse generalizzazioni.

Tra gli aspetti patologici di tali interazioni possiamo eviden- ziare quelli relativi alla pubblicazione di immagini di armi, prescindendo dagli utili spunti investigativi che offre (in primis sulla propaganda terroristica o su quella estremista politica).

Oggetto di questo contributo sono le (prime) derivanti con- seguenze giuridiche sia nell’ambito lavorativo che in quello delle licenze di porto d’armi.

ARMI E LAVORO – Le conseguenze dell’aspetto “pubblici- tario” dei social media ha iniziato ad avere delle implicazioni anche per il lavoro, favorendo ovvero ostacolando nuove assunzioni sino a giungere, addirittura, al licenziamento.

Infatti, in taluni casi le informazioni presenti sui social pos- sono assumere rilievo anche ai fini del rapporto di lavoro essendo le stesse sostanzialmente accessibili al datore di lavoro, in maniera:

- diretta quando sono rese pubbliche alla generalità degli utenti direttamente da parte dello stesso soggetto interessato;

- indiretta nel caso l’accesso ad esse le divulga a terzi, il quale ne potrà fare uso sia prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro che durante il suo svolgimento.

È il caso affrontato dal Tribunale di Bergamo (Sez. lavoro Ordinanza, 24-12-2015): il datore di lavoro apprendeva che un proprio dipendente aveva “postato” su Facebook una foto nella quale era ritratto assieme ad un’altra persona (che, poi, si riscontrava essere il fratello) ed entrambi esibivano con particolare evidenza un’arma in pugno.

Il fatto aveva creato grave turbamento, anche perché anni prima si era verificato nell’azienda un terribile omicidio da parte di un dipendente, portando al licenziamento per giusta causa.

Nella sentenza con cui è stato accertata la legittimità del licenziamento, il giudice del lavoro ha affermato che “postare”

immagini su Facebook equivale ad inviarle non solo alle persone del proprio circolo di amicizie (cui sia stata “chiesta”

o “concessa” una preventiva amicizia), ma anche a chiunque viva nella stessa zona o lavori nella stessa azienda.

Le immagini di armi nei social media: conseguenze giuridiche

di Andrea Girella*

Pubblicazione sui social di immagini ‘in armi’

e connesse conseguenze giuridiche nei rapporti di lavoro (licenziamento) e nelle licenze

di porto d’armi (revoca);

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