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EDILIZIA URBANISTICA ESPROPRI

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Academic year: 2022

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Cendon / Book

EDILIZIA

URBANISTICA ESPROPRI

Barbara Cusato

DIRITTO AMMINISTRATIVO

P ROFESSIONAL

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Edizione APRILE 2015 Copyright © MMXV KEY SRL

VIA PALOMBO 29 03030 VICALVI (FR) P.I./C.F. 02613240601

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione, di

adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi.

ISBN

978-88-6959-1471

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Cendon / Book

DIRITTO AMMINISTRATIVO Professional

EDILIZIA

URBANISTICA ESPROPRI

Barbara Cusato

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L'autore

Barbara Cusato è dipendente pubblico del Ministero della Giustizia nel ruolo di Funzionario UNEP presso il Tribunale ordinario di La Spezia. Svolge anche la funzione di Giudice onorario di Tribunale presso il Tribunale di Genova.

Ha pubblicato “Il pegno" (Giuffrè editore 2006), "L'ipoteca"

(Cedam 2007), "La notificazione degli atti civili, penali, amministrativi e tributari" (Cedam 2008), "Il credito. Forme sostanziali e procedurali" (Cedam 2010), "Il recupero del credito"

(Giuffrè editore 2015), "Recesso e inadempimento" (Key editore 2015), "Edilizia" (Key editore 2015) e numerosi commenti a sentenze con riviste giuridiche, Guida normativa (Il Sole 24 ore), Giurisprudenza di merito (Giuffrè editore), Diritto e pratica tributaria (Cedam).

Autrice di varie pubblicazioni anche su www.dirittoitalia.it.

E' autrice del capitolo CXXXV "La violazione degli obblighi comunitari” in Trattato Breve dei Nuovi Danni", Cedam spa, 2011; rivisto "Il diritto comunitario e il diritto nazionale: obblighi e violazioni", Cedam, 2014; del capitolo CXIV " Il danno all'immagine nella Pubblica Amministrazione" in Trattato Breve dei Nuovi Danni, Cedam spa, 2011, rivisto "La Pubblica Amministrazione e l'immagine violata", Cedam, 2014.

L’Opera

Mira ad offrire un quadro generale su tematiche di interesse pubblico e comune. Racchiude l'evoluzione normativa subita dall'argomento generale concernente il territorio, inteso come ambiente di tutti, laddove richiede la convivenza accettabile e regolamentata della collettività e dei singoli individui e laddove interessa la sfera privata nel rispetto sempre della globalità. Evidenzia, inoltre, come l'interesse pubblico possa soffocare l'interesse privato nei limiti dettati dalla legge. Mette, in ultimo, in risalto come la maturazione collettiva del rispetto dell'ambiente abbia meglio regolamentato ed irrigidito le disposizioni normative per impedire un progressivo degrado nella tenuta del territorio non solo sotto un profilo estetico ma anche sotto il profilo della sicurezza. La giurisprudenza, soprattutto, penale ha apportato a tal riguardo significative puntualizzazioni perseguendo condotte illecite e dannose al territorio in senso generale.

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INDICE

Capitolo Primo

C

ONSIDERANDO L

'

INTERESSE PUBBLICO

1. Premessa generale - 1.1. Le origini storiche - 1.2. L'urbanistica: il punto di vista della Consulta - 1.3. L'edilizia - 1.4. L'espropriazione - 1.5. L'ambiente e il territorio - 1.6. Le preoccupazioni dei giudici

Capitolo Secondo

Q

UEL CHE RIGUARDA L

'

URBANISTICA

2. Che cosa tratta l'urbanistica - 2.1. Gli strumenti dell'urbanistica - 2.2. Il piano regolatore generale - 2.3. Come si forma il piano regolatore - 2.3.1. La procedura seguita - 2.4. E se si applicano delle varianti - 2.5. La pianificazione urbanistica consensuale - 2.6. Il diffuso metodo della lottizzazione - 2.7. Perequazione - 2.7.1. La previsione di altri modelli - 2.8. Cosa pensano i giudici - 2.9. Gli enti territoriali, che ruolo?

Capitolo Terzo

E

DILIZIA

:

CONCETTO ALLA PORTATA DI TUTTI

3. Perché si parla di edilizia - 3.1. Quali diritti maturano - 3.2.

Secondo la natura giuridica - 3.3. I regimi che si applicano - 3.4. I casi più diffusi della giurisprudenza

Capitolo Quarto

I

VINCOLI ESPROPRIATIVI

4. Che cosa significa espropriare - 4.1 In generale, la pubblica utilità - 4.2. E gli interventi della Corte - 4.3. Come interviene la Corte Europea per i diritti dell'uomo - 4.4. La procedura espropriativa:

occupazione bene - 4.4.1. Le oscillanti vedute dei giuristi - 4.5. E' previsto il danno? - 4.6. E quanto si quantifica

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Capitolo Primo

C ONSIDERANDO L ' INTERESSE PUBBLICO

SOMMARIO 1. Premessa generale - 1.1. Le origini storiche - 1.2.L'urbanistica: il punto di vista della Consulta - 1.3. L'edilizia- 1.4.

L'espropriazione - 1.5. L'ambiente e il territorio - 1.6. Le preoccupazioni dei giudici

1. Premessa generale

Nell’ordinamento italiano la tutela, la salvaguardia ed i limiti che coinvolgono il tema della proprietà, intesa come diritto privato del singolo, vengono presi in considerazione anche dalla branca del diritto pubblico, cioè, del diritto amministrativo, e, segnatamente, del cosiddetto diritto urbanistico.

Infatti, per diritto urbanistico si intende quell’insieme di istituti giuridici e di norme positive che regolano le attività di uso e di trasformazione del territorio poste in essere sia da soggetti privati sia da soggetti pubblici.

Si differenzia, pur essendone complementare ed assorbente, dal concetto di edilizia, la cui disciplina ed i cui strumenti, appunto, costituiscono una logica prosecuzione ed una specificazione di dettaglio della disciplina contenuta nei piani urbanistici.

La dottrina ha da sempre riconosciuto la complessità della definizione di urbanistica (Torregrossa 1987, 46) a causa della estrema mutevolezza (Stella Richter 2002, 9).

In verità, come in più occasioni ha asserito la dottrina, le due componenti della materia, urbanistica ed edilizia, sono distinte laddove con la prima si intende determinare le potenzialità edificatorie del territorio e le ordina rispetto ai vari interessi pubblici in gioco, assicurando la conservazione e l’uso dei suoli; con la seconda, diversamente, si assicura che le attività costruttive rispondano a standard e a criteri di salubrità, di sicurezza, di efficienza energetica e si conformano ai caratteri propri e tipici della zona.

Non manca chi, invece, sostiene che il rapporto fra pianificazione ed esplicazione del diritto di proprietà consente di affermare che questa particolare branca del diritto si pone come tutela della individualità del cittadino e della sua libertà (Mengoli 2003, 8).

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Non a caso, l’urbanistica ha rappresentato la sede di sviluppo del concetto di merito amministrativo, nel quale l’Autorità giurisdizionale non può penetrare, pena l’indebita sua sostituzione nei confronti dell’Ente al quale è affidato il compito di assicurare il razionale uso del territorio (Sabbato 2010, www.giustizia-amministrativa.it).

1. 1. Le origini storiche

Le normative che hanno caratterizzato nel tempo il tema dell’urbanistica, in senso ampio, risalgono, le prime, alla fine dell’Ottocento, allorquando con la legge 25.6.1865, n. 2359, sull’argomento dell’espropriazione di pubblica utilità, è stato previsto il primo piano regolatore comunale.

E se, inizialmente, ci si curava maggiormente dell’aspetto architettonico dei centri abitati, successivamente, prendeva corpo la filosofia di vita secondo cui occorreva, principalmente, operare un ordinato ed equilibrato sviluppo degli insediamenti nell’intento di garantire e regolare la necessità abitativa. Donde, l’evoluzione culturale portava all’emanazione della legge 17.8.1942, n. 1150 che disegnava il sistema della pianificazione urbanistica come un insieme articolato di piani tra loro in rapporto di dipendenza gerarchica che conferiva l’obbligo di dotarsi di licenza edilizia per eseguire nuova costruzione per ampliare e/o modificare una esistente.

Altra tappa significativa è rappresentata dalla legge 18.4.1962, n.

167 che prevedeva l’adozione di piani di zona da attuare anche con ampia possibilità di ricorso all’espropriazione.

Va osservato che l’applicazione della licenza edilizia viene estesa con la cosiddetta legge Ponte, legge 6.8.1967, n. 765.

Successivamente, con la legge 22.10.1971, n. 865 si potenziano le aree da destinare all’edilizia residenziale pubblica e si amplia anche la facoltà di esproprio rivolto alla localizzazione di impianti produttivi.

Continua il percorso evolutivo con la legge cosiddetta Bucalossi, legge 28.1.1977, n. 10 che, specificatamente, prevede la concessione edilizia per tutte quelle attività comportanti trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.

Apprende quanto statuito con la suddetta normativa, l’art. 34 del dlgs n. 80 del 1998 secondo cui la materia urbanistica concerne tutti gli aspetti dell’uso del territorio. Ed, infatti, la concezione di urbanistica intesa come sistema di norme per lo sviluppo e sfruttamento del territorio è, quindi, superata e l’urbanistica si trasforma in una

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disciplina tesa alla conservazione del territorio (Fiale 1997, 39).

Vieppiù. Il termine urbanistica riguarda l’aspetto pianificatorio e lo stesso etimo aiuta nella comprensione del concetto.

Urbs da urbare indicava la curvatura dell’aratro con il quale si segnava il solco per il tracciato delle mura della città. Il che significa che con il termine urbanistica si indica la disciplina del territorio urbano ed extraurbano, considerato sotto l’aspetto pianificatorio, e nella salvaguardia dei valori collegati con l’impianto urbano e della qualità della vita (Italia 2007, 727).

Risulta evidente che questo proliferarsi nel giro di pochi anni di leggi atte ad introdurre nuovi sistemi e/o a modificare quelli già presenti, ha determinato una tale confusione, disordine normativo che ha, per certi aspetti, favorito l’espandersi dell’abusivismo edilizio.

Addirittura, anche per ragioni economiche, il legislatore, ad un certo punto, ha deciso di legittimare l’abuso come previsto dalla legge 28.2.1985,n. 47 che, per la prima volta, dà origine al cosiddetto condono edilizio, atto a regolarizzare tutte quelle irregolarità latenti, previo rilascio di una sanatoria.

Ma in questo quadro generale, disordinato, a lungo andare, si è ritenuto opportuno oltre che necessario procedere ad una raccolta di leggi, il cosiddetto Testo Unico dell’edilizia di cui al d.p.r. 6.6.2001 n.

380, la cui funzione, unita sempre a quella dettata da altre leggi speciali ovvero dalle leggi regionali, per la parte di potere in concorrenza con quello dello Stato, è stato ed è, ancora oggi, quello di dettare dei principi generali e fondamentali univoci in tema di urbanistica e di edilizia.

Nondimeno è il risultato della modifica all’art. 117 Cost. in forza di legge costituzionale n. 3 del 2001 che usa il termine governo del territorio.

Alcuni studiosi, nell'affermare che la versione di cui all’art. 117 Cost.

sostituisce a pieno titolo l’urbanistica dell’originaria versione anche se ritiene che i contenuti siano diversi, non mancano di evidenziare la non coincidenza tra urbanistica e governo del territorio nel senso che il secondo comprende la prima, ma non si esaurisce nella prima (Amorosino 2003, 78).

1.2. L'urbanistica: il punto di vista della Consulta

La materia urbanistica trova il suo principale fondamento nei principi generali dettati dalla Costituzione e, segnatamente, laddove si parla

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di tutela della proprietà ex art. 42 Cost. e dell’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. ed, in termini di competenze legislative, nell’art.

117 Cost, anche se, secondo il nuovo titolo V della Costituzione, si fa riferimento all’espressione generica “governo del territorio”.

E’ propria questa ultima espressione che ha dato origine a dibattiti dottrinali ed interventi giurisprudenziali, non ultimo della Corte Costituzionale, ponendo fine ad interpretazioni disparate.

Per quanto riguarda il pensiero della dottrina, non è mancato chi, esaminando i lavori preparatori della riforma del Titolo V, abbia ritenuto che con l’espressione “governo del territorio” si è inteso inserire una materia indipendente e separata dalla urbanistica ed edilizia, trasferendo il tema dell’urbanistica e quello della edilizia alla competenza esclusiva delle Regioni (Portaluri 2002, 356 ss).

All’opposto, altri ritengono che la locuzione governo del territorio non rappresenti altro che una versione aggiornata della stessa materia, nel suo affermato significato di disciplina avente ad oggetto l’intero territorio, indipendentemente dal grado della sua urbanizzazione (Stella Richter 2002).

Ma il passo decisivo è dato dai numerosi contributi della giustizia attiva.

Il primo pronunciamento della Corte costituzionale (Corte Cost.

7.10.2003, n. 307) ha chiarito che il governo del territorio comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività e, comunque, trattasi di ambiti rientranti nella sfera della potestà legislativa concorrente delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 117, 3°comma Cost. e caratterizzati dal vincolo al rispetto dei principi fondamentali delle leggi statali.

Qualche mese dopo la Consulta viene, di nuovo, investita della stessa tematica e conclude in ordine all’appartenenza di due ambiti materiali a quello di governo del territorio se si considera che altre materie o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, sono specificamente individuate nello stesso terzo comma dell’art. 117 Cost. e non rientrano, quindi, nel governo del territorio, appare del tutto implausibile che dalla competenza statale di principio su questa materia siano stati estromessi aspetti così rilevanti, quali quelli connessi all’urbanistica, e che il governo del territorio sia stato ridotto a poco più di un guscio vuoto. Nella medesima prospettiva, anche l’ambito di materia costituito dall’edilizia va ricondotto al governo del territorio. Del resto

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la formula adoperata dal legislatore della revisione costituzionale del 2001 riecheggia significativamente quelle con le quali, nella più recente evoluzione della legislazione ordinaria, l’urbanistica e l’edilizia sono state considerate unitariamente (Corte Cost.

19.12.2003, n. 362, www.cortecostituzionale.it).

Diversamente, per quanto attiene l’urbanistica laddove si parla di piani regolatori che stabiliscono la disciplina dell’intero territorio comunale incidendo in via diretta sulla proprietà, principalmente, la dottrina e la giurisprudenza rispondono sostenendo il carattere relativo e non assoluto della riserva di legge di cui all’art. 42 Cost.

Tuttavia, uno dei problemi principali riguarda il fatto che i piani regolatori creano delle disparità tra i diversi proprietari qualificando diversamente le aree (edificabili, agricole, industriali e via dicendo) ledendo o meno il principio di uguaglianza. In tal modo, si è sollevata la questione se, alla luce dei principi costituzionali, sia possibile imporre attraverso gli strumenti urbanistici, vincoli di inedificabilità assoluta a tempo indeterminato finalizzata ad una futura e incerta espropriazione, senza corrispondere ai proprietari delle relative aree un indennizzo per il periodo di durata del vincolo stesso.

Una sentenza costituzionale risalente (Corte Cost. n. 55/1968) aveva affermato che, interpretando estensivamente l’art. 42 Cost., tale norma si applica sia alla espropriazione classica sia a quella definita anomala, cioè, a quella che comporta compressione della facoltà di godimento a tempo indeterminato che non comporta un trasferimento del bene da un soggetto all’altro. E secondo la Corte si pongono in contrasto solo quei vincoli che si caratterizzano per la inedificabilità assoluta del bene, per il tempo indeterminato di vigenza del vincolo e per la non previsione di un indennizzo.

1.3. L'edilizia

L’edilizia è parte dell’urbanistica.

Infatti, la materia è meglio identificata nella disciplina relativa all’attività costruttiva contenuta nel dlgs 6.6.2001, n. 380 (Testo unico dell’edilizia), con precipuo riferimento agli istituti del permesso di costruire, del contributo di costruzione, della denuncia d’inizio attività, del certificato di agibilità e della vigilanza sull’attività.

Ed oggi un distinguo tra le due materie, quella urbanistica e quella edilizia, è più netto di come, un tempo, invece, veniva concepito.

Nessuna differenza, si può, però, evidenziare sussistere in termini di titolarità della potestà legislativa che, in materia di “governo del

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territorio”, nella sua accezione includente l’urbanistica e l’edilizia, spetta alle Regioni in concorrenza con lo Stato, nel rispetto dei principi fondamentali della normativa statale, fatta eccezione delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano la cui potestà legislativa è esclusiva.

Va osservato che, in particolar modo per un settore, come quello edilizio in cui subentrano in gioco fattori di interesse pubblico, a maggior ragione di veduta, la legge regionale, pur dopo la riforma disposta al titolo V parte II della Costituzione, incontra dei limiti dettati dalla legge statale e, ad ogni modo, non solo deve rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi.

Le due materie sopra indicate si contraddistinguono, a questo punto, in termini di applicazione delle disposizioni di cui al Testo Unico, per cui la dottrina non ritarda ad osservare che il fatto che un intervento edilizio rientri in una delle tipologie definitorie indicate da tale disposizione applicabile, essendo differente il titolo abilitativo che occorre conseguire (De Gioia 2009, 121).

E proprio su questa prevalenza la dottrina controbatte.

Alcuni affermano che va estesa a tutte le disposizioni locali e non solo a quelle contenenti definizioni (Italia 2002, 40); altri, diversamente, mantengono salvo il ruolo assunto dallo strumento urbanistico locale dando una interpretazione più restrittiva della disposizione (Mengoli 2003, 84).

Orbene, il Testo Unico dell’edilizia che risulta essere la fonte della disciplina edilizia, laddove, particolarmente, dedica nella parte I una rubrica titolata “attività edilizia”, senza ombra di dubbio, ha fatto ordine in merito alle distinte tipologie di interventi edilizi.

Riconosce che vi sono opere che rientrano nel concetto generale di interventi di manutenzione ordinaria ovvero di manutenzione straordinaria ovvero di ristrutturazione edilizia ovvero di restauro e di risanamento conservativo ovvero di nuova costruzione.

L’individuazione delle peculiarità delle opere edilizie in una categoria piuttosto che in un’altra riconduce, infatti, a tre principali regimi costruttivi: l’attività edilizia libera, il permesso di costruire e la denuncia di inizio attività ora segnalazione certificata di inizio attività.

Veniva, dunque, soppressa la figura della autorizzazione edilizia, prevista nella legislazione speciale antecedente al Testo Unico e si frapponeva tra la concessione edilizia (ora permesso di costruire) e la denuncia di inizio attività.

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Non sono mancati ulteriori aggiustamenti alle ipotesi edilizie con ampliamento, in alcuni casi, delle fattispecie sottoposte alla cosiddetta attività edilizia libera, distinguendo, con legge 22.5.2010, n. 73, le attività totalmente libere e le attività soggette a preventiva comunicazione di inizio lavori.

Con, invece, recente decreto legge 13.5.2011, n. 70 convertito in legge 12.7.2011, n. 106 (cosiddetto decreto per lo sviluppo per il 2011) si confermava che la segnalazione certificata di inizio attività sostituiva la denuncia di inizio attività, fatta eccezione per le ipotesi assoggettate in precedenza alla super denuncia di inizio attività ove la stessa, in base alla normativa statale o regionale, sia alternativa o sostitutiva al permesso di costruire.

Ma è l’attuale figura della segnalazione certificata di inizio attività a sollevare, di nuovo, problematiche in ordine ai poteri sanzionatori della Pubblica Amministrazione nelle fattispecie per cui è prevista la formula della segnalazione certificata di inizio attività.

Sul punto gli interventi della giurisprudenza costituzionale hanno riposto il problema sul quale una parte della dottrina muove delle critiche. Invero, la Corte costituzionale (Corte Cost. 27.6.2012, n. 164 e Corte Cost. 16.7.2012, n. 188, www.neldiritto.it) ha inteso fornire chiarimenti, per un verso, con riguardo al titolo di competenza sotto cui inscrivere la disciplina della segnalazione certificata di inizio attività (d'ora innanzi s.c.i.a.) e, per altro verso, in merito all’interpretazione del combinato disposto dei commi 3, 4 e 6 bis dell’art. 19 della l. n. 241 in tema di poteri sanzionatori della Pubblica Amministrazione nella fattispecie della segnalazione certificata di inizio attività. Quanto al primo aspetto, la Consulta, escluso che la disciplina della cosiddetta s.c.i.a. sia ricollegabile alla tutela della concorrenza, - come peraltro disponeva il comma 4 ter dell’art. 49 del d.l. n. 78 del 2010, convertito in l. n. 122 del 2010 – sostiene che si tratti di una normativa afferente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, come tale rientrante nella competenza esclusiva del legislatore statale.

La soluzione fornita non si mostra del tutto in linea con altri recenti arresti della Consulta circa la tutela della concorrenza.

Infatti, la sentenza n. 200 del 2012 ha chiarito che la liberalizzazione (cui va senz’altro ascritto il modello della s.c.i.a.) rientra tra gli strumenti di promozione del gioco concorrenziale. Per quanto concerne la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, un’altra coeva pronuncia in tema di conferenza di servizi (la n. 179 del 2012) chiarisce che la relativa

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disciplina (riportabile anch’essa al principio di massima semplificazione dell’azione amministrativa) non mira a determinare uno standard strutturale o qualitativo di prestazioni determinate, attinenti a questo o a quel diritto civile o sociale, ma assolve al ben diverso fine di regolare l’azione amministrativa, in settore vastissimi ed indeterminati, molti dei quali di competenza regionale, in modo da soddisfare l’esigenza, diffusa nell’intero territorio nazionale, di uno svolgimento della stessa il più possibile semplice e celere.

Quanto al secondo aspetto, la Corte Costituzionale sconfessa una possibile interpretazione dell’art. 19, come riformato, nel senso che in materia edilizia (atteso il mancato richiamo del comma 3 da parte del comma 6 bis) non sarebbe possibile, dopo il decorso del termine (di trenta giorni), altro intervento sanzionatorio che quello diretto a salvaguardare i beni-interessi di particolare rilevanza contemplati dal quarto comma: al contrario - si rileva - il legislatore ha inteso implementare i poteri di controllo e vigilanza (ed eventualmente sanzionatori) della Pubblica Amministrazione, consentendo in ogni caso (quindi anche in materia edilizia) l’adozione delle determinazioni di cui agli artt. 21 quinquies e 21 nonies, nell’ipotesi in cui sia spirato il termine previsto dal comma 6 bis, ed anche quando non siano in pericolo i suddetti interessi sensibili (Auletta 2012, www.neldiritto.it).

Altro passo importante per il territorio è dettato dall’art. 12 del d.l.

22.6.2012, n. 83 convertito in legge 7.8.2012, n. 134 con il quale è previsto, in materia di interventi nelle aree urbane, un nuovo strumento operativo, detto piano nazionale per le città, volto a consentire la realizzazione, in modo coordinato e razionale, di interventi nelle aree urbane, con particolare riferimento a quelle degradate, alla riqualificazione urbana, alla costruzione di parcheggi e alloggi e scuole. Non diversamente da quanto sopra è l’innovazione dettata da ulteriore semplificazione per autorizzazioni e pareri per l’esercizio di attività edilizia, come disposto dall’art. 13 del decreto legge convertito.

1.4. L'espropriazione

Il principio costituzionale dettato dall’art. 42 Cost., unitamente a quanto previsto all’at. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (firmato a Parigi nel 1952), in materia di proprietà privata, rappresenta il diritto reale per eccellenza a favore dell’uomo, in generale.

Il contenuto e, quindi, le facoltà, inerenti al diritto di proprietà sono le più ampie previste dall’ordinamento giuridico e si sostanziano nella

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utilizzazione a fini economici del bene, segnatamente del bene immobile ovvero di area potenzialmente edificabile.

Il diritto di proprietà, quale diritto reale, è soggetto alla normativa codicistica del 1942, per quanto concerne gli aspetti privati, ma è assoggettato anche alla disciplina pubblica attraverso leggi speciali che trattano i vari aspetti del diritto proprietario laddove si incontra con gli interessi pubblici.

In particolare, la disciplina dei vincoli è contenuta nella legge urbanistica di cui alla l. n. 1150 del 1942 ed, ora, pure dal Testo Unico sulle espropriazioni per pubblica utilità, il d.p.r. 8.6.2001, n.

327 oltre che nell’art. 834 c.c.

Il legislatore speciale si è posto come obiettivo quello di considerare che, in un ambito urbanistico dettagliato dai piani regolatori, occorre individuare delle zone che necessitano di uso pubblico, quali per citare qualche esempio, le vie di comunicazione stradali, ferroviarie, zone sottoposte a servitù o zone sottoposte a vincoli storici, ambientali e paesaggistici e, dunque, se di proprietà di privati, assoggettate ad espropriazione.

Come attentamente osserva la dottrina, l’espropriazione è facoltativa, nell’evenienza in cui la Pubblica Amministrazione intervenga direttamente per acquisire ed urbanizzare le aree considerate per legge.

L’Ente deputato all’espropriazione è, di norma, il Comune, il cui compito è quello di realizzare questo strumento coercitivo di cui all’art. 7 del d.p.r. 8.6.2001, n. 327.

In altre parole, può espropriare o delle aree individuate dal piano regolatore generale, inedificate o su cui poggiano costruzioni in contrasto con la destinazione di zona, oppure gli immobili ai quali va incorporata un’area inserita in un piano particolareggiato e non utilizzata, quando il suo proprietario non intenda farne uso dopo l’avviso del dirigente dell’ufficio espropriazioni.

Si rileva che questi vincoli espropriativi sono il risultato del procedimento di individuazione delle aree su cui realizzare opere pubbliche e di interesse pubblico ed impongono all’area una destinazione che prosciuga del tutto lo jus aedificandi relativo al bene interessato. Vero è che, sino al compimento dell’intera procedura espropriativia il bene resta nella disponibilità del proprietario, ma il vincolo implica l’obbligo di osservare la destinazione impressagli, cioè, di non realizzare interventi edilizi o qualsiasi alterazione in

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contrasto con la localizzazione effettuata dal piano di zona (Caringella 2010, 619).

1.5. L'ambiente e il territorio

Un sistema socio economico che in maniera esponenziale ha visto modificare, attraverso, anche leciti, strumenti urbanistici, l’assetto del territorio, non può far altro che intensificare le modalità di tutela del bene colpendo quelle condizioni e situazioni, non solo non previste ma anche al limite della liceità.

E proprio sul tema della tutela dell’ambiente in senso generale si aprono fervidi dibattiti tra studiosi e giuristi.

Numerose e controverse le opinioni espresse per garantire all’ambiente il massimo rispetto non pregiudicando, comunque, nel frattempo, le innovazioni a benessere della collettività.

E’ sufficiente prendere in considerazione i numerosi casi di cosiddetta lottizzazione mista, cioè, di frazionamento di terreni a scopo edilizio, che, in sé per sé, non appare illecito, invece, in determinate condizioni, come di recente ha sollevato la giustizia penale, può assumere i connotati del reato.

Va precisato che l’attività lottizzatoria consiste nell’utilizzazione del suolo, indipendentemente dall’entità di frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, con realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo residenziale turistico o industriale, che postulino l’attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrente per la necessità dell’insediamento.

Orbene, si ritiene lottizzazione abusiva allorquando l’intervento sul territorio comporta una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, sicchè occorre attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale redigendo convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova realizzazione.

Va, altresì, rilevato che detto intervento non avrebbe avuto realizzo altrimenti poiché le sue connotazioni oggettive lo pongono in contrasto con previsioni di zonizzazioni e/o localizzazioni dello strumento generale di pianificazione, non modificabili dagli strumenti urbanistici attuativi.

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1.6. Le preoccupazioni dei giudici

Tutto quel che ruota attorno all'ambiente è molto allarmante, atteso che per lungo tempo la lavorazione del territorio è stata posta in essere anche con autorizzazioni pressochè selvagge. Tuttavia, già da qualche decennio gli operatori hanno iniziato ad interessarsi delle conseguenze del fenomeno estremo adottato in tempi remoti ed, in particolare, i giudici penali si sono interessati delle conseguenze della lottizzazione.

Significativa, al riguardo, è una pronuncia delle Sezioni Unite penale in cui si consolida il principio di massima secondo cui l'identificazione del reato di lottizzazione abusiva, malgrado la presenza di un'autorizzazione emessa in base all'art. 28 l. 17 agosto 1942 n.

1150, nel testo modificato dall'art. 8, l. 6 agosto 1967 n. 765, non postula alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo, ma presuppone l'accertamento del fatto concreto in rapporto alla fattispecie astratta descrittiva del reato, prescindendo da qualunque giudizio sull'autorizzazione (Cass. pen. sez. un. 8.2.2002, n. 5115, Foro amm. CDS, 2002, 631).

Tuttavia, è interessante porre in evidenza il fatto che il reato di lottizzazione abusiva non riguarda solo terreni inedificati, ma può anche riferirsi ad immobile già regolarmente edificato, mutato nella destinazione d’uso.

Questa filone di pensiero va controcorrente rispetto a quella opinione che la dottrina più tradizionale ha fino ad oggi sostenuto e sostiene ancora. Infatti, questa parte di studiosi afferma che il reato di lottizzazione abusiva, come definito dall’art. 30 del d.p.r. n. 380 del 2001, si può configurare nei confronti del venditore e degli acquirenti di terreni illegittimamente frazionati, e non, quindi, di edifici già costruiti.

All’opposto la giurisprudenza abbraccia la prima tesi esposta in quanto ritenga che la norma sopra citata vada interpretata attenendosi in particolare alla ratio della stessa. E già nel 2007 la Suprema Corte affermava per quanto concerne la modificazione della destinazione d’uso, che, secondo un’opinione dottrina, la lottizzazione cosiddetta materiale non presuppone necessariamente il compimento di opere su un suolo edificato, ma può verificarsi anche in occasione di un mutamento della destinazione d’uso di un edificio già esistente, allorché la modificazione della destinazione d’uso si ponga in contrasto con un piano di fabbricazione già approvato e richieda la necessità di nuovi interventi di urbanizzazione.

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Siffatto orientamento, in passato respinto in base al rilievo che una corretta interpretazione della l. n. 47 del 1985, articolo 18 (ora articolo 30 del Testo Unico) consentiva di intravedere la lottizzazione materiale solo quando fossero modificati i terreni e non gli edifici, è stato recentemente di nuovo recepito proprio con riferimento, in specie, alla modificazione di un albergo in civili abitazioni allorché ovviamente la modificazione si ponga in contrasto con il piano di lottizzazione. Richiamati i principi vigenti in questa materia si rileva che nella fattispecie non v’è alcun riferimento ad un’eventuale lottizzazione abusiva e che l'imputazione illecita ascritta non riguardava la modificazione della sagoma dell’edificio o l'aumento delle superfici o dell’unità abitative, tra l'altro, coperte dal permesso di costruire, ma la semplice modificazione della destinazione d’uso nell’ambito della categoria residenziale (Cass. pen. sez. III, 2007, n.

594).

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Capitolo Secondo

Q UEL CHE RIGUARDA L ' URBANISTICA

SOMMARIO 2. Che cosa tratta l'urbanistica - 2.1. Gli strumenti dell'urbanistica - 2.2. Il piano regolatore generale - 2.3. Come si forma il piano regolatore generale - 2.3.1. La procedura seguita - 2.4. E se si applicano varianti al piano regolatore generale - 2.5. La pianificazione urbanistica consensuale - 2.6. Il diffuso metodo della lottizzazione - 2.7.

Perequazione - 2.7.1. La previsione di altri modelli - 2.8. Cosa pensano i giudici - 2.9. Gli Enti territoriali, che ruolo?

2. Che cosa tratta l'urbanistica

Le origini del concetto di urbanistica sono remote e la stessa storia insegna l'arte della collocazione generale della crescita urbana seguendo criteri idonei ed utili al tempo storico della costruzione territoriale.

Orbene, l'urbanistica appare un concetto molto tecnico e meno alla portata del cittadino per via di tutti quei criteri, metodi che vengono adottati tenuto conto della morfologia del territorio, della sua composizione, delle sue esigenze di espansione e della tipologia di espansione che si ha in quel contesto storico.

In altre parole, il modo e le fasi della progettazione urbana sono cambiate rispetto al tempo passato sicché ad oggi ogni struttura architettonica è posta in essere tenendo conto della sua forma e della sua intrinseca funzione, ma, soprattutto, significa inserire le singole parti che compongono la città all'interno di relazioni, a valutazioni di fattibilità e di materialità, all'evento storia che ha determinato il territorio attuale, alle ricadute nei processi di coesione e di riproduzione sociale, alle regole che si occupano della forma della città.

Orbene, si può sostenere che l'urbanistica studia, programma la città attraverso piani necessari ed opportuni per la convivenza della collettività le cui risorse ed equilibri vanno difesi.

2.1. Gli strumenti dell'urbanistica

Lo sviluppo armonioso del territorio interessa particolarmente la pianificazione generale degli interventi urbanistici.

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Una parte consistente della programmazione dell’azione amministrativa ruota attorno questo tema perché mira alla tutela, alla salvaguardia, al controllo del complesso territoriale, sotto un profilo ambientale e paesistico oltre che, non di meno, sociale ed economico.

L’esigenza di uno strumento urbanistico generale già prende corpo con la legge sulle espropriazioni per pubblica utilità (l. n. 2359 del 1865) pur con i suoi limiti in quanto non regolamentava limitandosi a dettare linee di massima. Si attende l’elaborazione della legge 17.8.1942, n. 1150, la cosiddetta legge urbanistica, che, ancora oggi, rappresenta il perno principale di regolazione degli strumenti generali e di quelli particolari dell’assetto territoriale. Si sono susseguite diverse leggi speciali che tendenzialmente erano dirette a fronteggiare fattori e realtà circoscritte e contingenti senza, però, offrire un panorama organico. A quanto sopra si aggiunge anche il riconoscimento del potere legislativo in capo alle Regioni.

E' evidente che il quadro normativo appare variegato perché l’attività edilizia ed urbanistica viene trattata da una pluralità di fonti primarie e secondarie, tanto è vero che la dottrina asserisce che non appare eccessivo ritenere superata addirittura la nozione di diritto urbanistico statale (Portaluri 2007).

In questo quadro normativo si delinea il concetto di pianificazione urbanistica, quale aspetto rilevante del governo del territorio, che si sviluppa attraverso concreti piani, generali o particolareggiati.

Tra i numerosi piani generali rientrano, per fare qualche citazione, i piani territoriali di coordinamento, regionali e provinciali; il piano regolatore generale comunale, il piano intercomunale, il programma di fabbricazione. Tra, invece, i piani attuativi, si ricorda, il piano particolareggiato, il piano per l’edilizia economica e popolare, i piani per gli insediamenti produttivi, i piani di recupero e i piani di lottizzazione.

2.2. Il piano regolatore generale

Il piano regolatore generale è considerato l’asse portante della pianificazione urbanistica di un Comune, il quale è libero di determinare, nel rispetto degli altri piani territoriali di coordinamento, il contenuto e le indicazioni più consone alle esigenze ed ai bisogni del proprio territorio e della propria popolazione (Cons. St. sez IV 4.12.1998, n. 1732, Foro amm. 1998, 3024).

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Risulta disciplinato, come più volte affermato, dalla legge n. 2359 del 1865, completamente regolamentato con la legge n. 1150 del 1942 e, specificatamente, dettagliato da leggi regionali.

Il Comune è considerato l’Ente che detiene il potere di programmazione e di pianificazione.

Pertanto, il piano regolatore generale si qualifica come lo strumento di rilevanza ed estensione comunale, a carattere generale laddove deve rispettare ed attuare i piani esecutivi di secondo grado.

In termini di contenuto, è l’insieme di prescrizioni e previsioni, normative e grafiche il cui oggetto è l’interesse pubblico alla regolamentazione urbanistica del territorio comunale.

Qualche studioso ritiene che il contenuto del piano regolatore sia una combinazione di prescrizioni, di atti non collegati in senso stretto alla pianificazione, e prescrizioni autonome di rilievo urbanistico- territoriale (Assini Mantini 1997, 243).

In concreto, l’art. 7 della legge urbanistica detta i caratteri principali che deve avere il piano regolatore generale; vale a dire, per citare qualche aspetto, la rete delle principali vie di comunicazione stradale, ferroviaria e navigabili con i relativi impianti; la divisione delle zone del territorio comunale con specifica di quelle destinate ad espansione dell’aggregato urbano, le aree destinate a formare spazi di uso pubblico nonché opere ed impianti di interesse sociale, i vincoli ai quali sono sottoposte le zone, storico, ambientale, paesistico e le norme di attuazione.

In sintesi, il contenuto del piano regolatore generale concerne: la zonizzazione, le localizzazioni, l’individuazione delle zone a carattere storico ambientale e paesistico, la individuazione delle zone di degrado, la individuazione delle aree destinate ad attività turistiche e ricettive.

Va osservato che la distinzione del territorio in zone, è una delle divisioni che meglio rappresenta il piano regolatore regionale, soprattutto, in termini di determinazione e di valutazione dei beni da espropriare. In altre parole, il legislatore nazionale esprime l’elementare esigenza che il nuovo strumento urbanistico si traduca in uno quadro di agevole e razionale decifrazione non soltanto nel versante di quanti sono chiamati ad adottarlo, ma soprattutto per coloro che sono direttamente incisi dall’esercizio di una così lata discrezionalità, qual è quella che la legge attribuisce agli enti territoriali in sede di pianificazione.

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La suddivisione in zone del territorio pianificato costituisce, infatti, l’elemento fondamentale di ogni piano regolatore generale, sulla base del chiaro disposto dell’art. 7 n. 2 della legge n. 1150/1942, secondo il quale il piano deve contenere la divisione in zone dell’abitato, con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano, della determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona. La zonizzazione nel suo duplice aspetto funzionale e architettonico, in quanto espressione sia della suddivisione del territorio in base alle caratteristiche edilizie ed alle dimensioni degli edifici, sia delle funzioni da svolgere nelle sue diverse parti, mira ad assicurare l’uniformità di disciplina nell’ambito delle diverse realtà presenti all’interno del territorio comunale (Tar Lombardia Brescia 20.11.2001, n. 1000, Riv. Giur, edilizia, 2002, I, 496).

Per quanto riguarda, invece, le norme di attuazione, esse rappresentano il complesso di prescrizioni che regolano gli interventi da compiere nel territorio comunale; hanno contenuto generale, recano prescrizioni normative e programmatiche destinate a regolare la futura attività edilizia.

Le norme di attuazione prevalgono sulle prescrizioni grafiche del piano regolatore generale, sempre che siano tali da garantire sicurezza sul loro contenuto (Cons. St. 5.6.1998, n. 917), poiché tanto le prime, quanto le seconde costituiscono manifestazioni del pensiero necessariamente da interpretare.

Altro aspetto che, spesso e volentieri, viene dimenticato parlando di piano regolatore generale è la relazione illustrativa, parte del piano e costituisce la motivazione del piano, cioè, in esso va segnalato il lavoro effettuato per la formazione dello stesso, le scelte e le soluzioni seguite.

2.3. Come si forma il piano regolatore generale

Analogamente agli altri strumenti urbanistici, l’iter formativo del piano regolatore generale viene annoverato tra i procedimenti cosiddetti precettivi o conformativi nei quali la funzione normativa dell’Ente di riferimento è tale solo in senso lato (Giannini 1982, Piccozza 1983).

E’ sicuramente un meccanismo complesso e composto da due sub- procedimenti tra loro collegati: l’uno, per l’adozione, l’altro per l’approvazione.

Il primo compete al Comune, il secondo alla Regione.

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Trattasi di un atto di formazione complessa, obbligatorio per i Comuni inclusi in un elenco previsto dalla Regione; per quei Comuni, invece, che non hanno l’obbligo di dotarsi di un piano regolatore generale, devono necessariamente approvare il programma di fabbricazione connesso al regolamento edilizio.

Lo strumento urbanistico del piano regolatore segue un percorso lungo: inizia con la nomina dei progettisti che possono essere scelti anche all’interno del Comune medesimo. Dopodiché si determina l’istruttoria vera e propria caratterizzata dall’effettiva progettazione e dall’acquisizione di pareri e giudizi degli organi competenti, cioè, ufficio tecnico assemblee di circoscrizioni, Asl, Camere di commercio, Università, Enti del turismo e Comunità montane.

Una volta che questa istruttoria iniziale si è conclusa, il Consiglio comunale delibera l’adozione del progetto di piano generale.

Ed in questa fase si caratterizzano le scelte discrezionali della Pubblica Amministrazione, sulle quali è ormai ritenuta in maniera consolidata tra i giudici amministrativi l’insindacabilità. Infatti, si osserva che le scelte effettuate dalla Pubblica Amministrazione in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un’amplissima valutazione discrezionale che, nel merito, appaiono insindacabili e che sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e per irrazionalità delle stesse.

In ragione di tale discrezionalità, l’Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate nella predetta sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l’impostazione del piano. Vieppiù. Le scelte adottate per quel che attiene la destinazione delle singole aree non necessitano di una specifica motivazione se non nel caso che la scelta vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate ravvisabili unicamente, però, nell’esistenza di piani e/o di progetti di lottizzazione convenzionati già approvati o situazioni di diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato (Cons.

St. sez. IV 16.2.2011, n. 1015, www.giustizia-amministrativa.it).

2.3.1. La procedura seguita

E continuando nell’iter, posto che il piano viene adottato, la delibera relativa corredata di progetto viene depositata in segreteria comunale per trenta giorni consecutivi durante i quali chiunque può prenderne

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visione, previo pubblico avviso di questo deposito alla collettività su albo pretorio on line.

La pubblicazione ha lo scopo di rendere noto alla cittadinanza e agli interessati del contenuto del piano ed è preordinata alla raccolta delle osservazioni degli interessati, prima della formulazione delle deduzioni sulle stesse da parte del Comune e, poi, dell’introduzione della fase conclusiva di approvazione, senza nulla incidere sulla fase precedente.

Infatti, si evidenzia che, nel procedimento di formazione dei piani regolatori generali, la pubblicazione prevista dall’art. 9 l. 17.8.1942, n. 1150, è finalizzata alla presentazione delle osservazioni da parte dei soggetti interessati al progetto di piano adottato dal Comune, ma non è richiesta per le successive fasi del procedimento, anche se il piano originario risulti modificato a seguito dell’accoglimento di alcune osservazioni o di modifiche introdotte in sede di approvazione regionale. Ne deriva che, addirittura, il Comune non è tenuto a pubblicare la deliberazione di controdeduzioni alle osservazioni mosse dalla Regione in sede di approvazione del piano regolatore, così riaprendo i termini per nuove osservazioni dei privati, a meno che non abbia introdotto variazioni rilevanti al piano adottato, ossia quando la deliberazione si presenta come una sostanziale nuova adozione (Cons. St. sez IV 10.8.1990, n. 601, Foro amm. 1990, 1746; anologamente, Cons. St. sez. IV 20.11.2000, n. 6178, Cons.

St. 2000, I, 2494).

Lo strumento delle osservazioni da presentare al piano regolatore generale è altamente utile, in quanto espressione di collaborazione tra Ente e i privati; in particolare, le osservazioni presentate dai privati costituiscono lo strumento di partecipazione amministrativa attraverso il quale questi possono prospettare all’Amministrazione, secondo il principio del contraddittorio, il proprio punto di vista a che la scelta urbanistica assunta dall’Ente possa realizzarsi con il minor sacrificio ovvero possa realizzarsi nel rispetto dei principi di imparzialità, di buon andamento (Cons. St. sez. IV, 1.7.1992, n. 654, Giust. Civ. 1993, I, 284; Mafrica, Petruli 2009, www.unitel.it).

Oltre alle osservazioni sono previste come strumenti di contestazione dei punti del piano regolatore concessi ai privati anche le opposizioni in senso stretto. Esse sono vere censure a specifiche previsioni urbanistiche.

Le osservazioni vengono valutate ed istruite dall’ufficio tecnico comunale che si impegna ad elaborare opportune e motivate controdeduzioni da sottoporre all’esame del Consiglio. Nell’ipotesi in

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cui il Comune le accolga, il Comune stesso necessita degli elaborati tecnici e non ha alcun obbligo di ripubblicazione del piano (Tar Toscana sez, II 21.1.2011, n. 123, www.ambientediritto.it).

Si precisa, però, che l’accoglimento delle osservazioni non comporta variante allo strumento urbanistico, anzi, la prassi invalsa tende a riconoscere agli organi comunali il semplice potere di prendere atto dell’iniziativa dei privati per, poi, trasmettere il tutto all’organo regionale, in tal modo confermando, nei fatti, che il procedimento di adozione del piano regolatore generale si intende concluso e non più condizionabile.

La prassi sopra descritta si conclude con il passaggio alla Regione affinché o approvi definitivamente o modifichi o respinga.

Se la Regione approva il piano con modifiche, la propria determinazione deve essere motivata altrimenti comprime l’autonomia del Comune (Cons. St. sez. IV 17.3.2003, n. 2017).

In altre parole, la giurisprudenza ha osservato che le modifiche della Regione devono essere limitate a fattori che non innovano sostanzialmente (Tar Brescia, 23.4.2002, n. 800).

Le proposte di modifica vanno comunicate al Comune che adotta le proprie controdeduzioni entro novanta giorni con deliberazione di Consiglio.

Una volta che la Regione ha approvato definitivamente il piano regionale generale deve essere sottoposto a pubblicità tramite il bollettino ufficiale regionale o sulla gazzetta ufficiale, poi va depositato nella segreteria comunale e reso noto con avvisi alla cittadinanza.

Le prescrizioni del piano regolatore generale hanno valore a tempo indeterminato. Unica eccezione temporale è quella quinquennale che interessa i vincoli imposti ai sensi dell’art. 2 legge 19.11.1968, n.

1187, cioè, quelli preordinati all’espropriazione, quelli che comportano l’inedificabilità dei beni, quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale.

2.4. E se si applicano le varianti

Il piano regolatore generale, come in più occasioni, elaborato nella prassi, talvolta, necessita di modifiche nella sua stesura originaria definite “varianti”.

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In origine, esse erano disciplinate nell’art. 10, commi 7,8,9, della legge urbanistica e si sosteneva che potevano essere approvate in quanto si fosse ottenuta la preventiva autorizzazione regionale;

successivamente, l’ostacolo della preventiva autorizzazione veniva superato, rendendo più agevole l’utilizzo delle varianti.

Infatti, la dottrina ha più volte affermato che la logica sottesa alle varianti è direttamente derivata dal fatto che il piano regolatore non è un istituto immodificabile di pianificazione del territorio sul quale i privati possono fondare sine die le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qualvolta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, che siano obiettive ed adeguatamente documentate, facciano ritenere superata in tutto o in parte la disciplina originaria (Morelli 2009, 32).

Le varianti, per quanto attiene alla sostanza, sono distinte in generali, specifiche e normative. Sul punto, la giurisprudenza maggioritaria ha sostenuto che la variante generale al piano regolatore generale, la quale consiste in una nuova disciplina dell’assetto urbanistico del territorio, non necessita, in quanto atto pianificatorio generale, di una motivazione specifica, diversa ed ulteriore rispetto a quella che può evincersi dai criteri generali di ordine tecnico rinvenibili nella relazione di accompagnamento al progetto di modificazione del piano regolatore generale (Cons. St. sez. IV, 19.2.2007, n. 865, www.lexitalia.it, n. 2/2007).

E le varianti generali costituiscono un vero e proprio nuovo piano regolatore, snaturando la portata originaria e costringendo la Pubblica Amministrazione ad un riesame dell’intero assetto del territorio.

Ma, d’altra parte, una periodica revisione del piano è indispensabile per adeguarlo ai cambiamenti sociali, culturali esistenti. Non manca il pensiero della dottrina secondo cui la variante generale al piano regolatore generale costituisce atto pianificatorio del territorio comunale che comporta radicali modifiche al piano vigente, dal che la revisione di direttive urbanistiche pregresse per realizzare un processo di adeguamento, potenziamento, e modernizzazione delle strutture territoriali esistenti si traduce in nuove scelte urbanistiche che, in vista di obiettivi generali da raggiungere, ben possono sacrificare interessi specifici di privati (Politi 1994, 1159).

Diversamente, le varianti specifiche comportano modificazioni parziali delle zonizzazioni o di destinazioni urbanistiche di determinate zone e, dunque, a differenza di quelle generali, richiedono una motivazione laddove la disciplina nuova venga a

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stravolgere aspettative legittime, qualificate da speciali atti amministrativi dell’Amministrazione (Cons. St. sez. IV, 16.10.2006, n.

6134, Urbanistica e appalti, 2006, 1481).

In ultimo, le varianti cosiddette normative incidono direttamente sulle norme di attuazione del piano regolatore e, dunque, sull’assetto urbanistico del territorio.

Significativa è la natura di queste modifiche al piano regolatore generale, considerate, da alcuni studiosi, in quanto alterazione di un equilibrio ormai conseguito nel piano regolatore, come evento puramente patologico nella pianificazione del territorio (Vinti 1989, 351).

Secondo una prima tesi, prevalente in dottrina, si tratta di atti amministrativi; secondo altra tesi, ancora, si tratta di atti normativi. Di recente, l’orientamento dottrinale si è spinto a ritenere che le varianti abbiano natura mista.

In merito, invece, alla procedura di approvazione delle varianti, le stesse sono contemplate nell’art. 34 del dlgs n. 267 del 2000 e vengono distinte in ordinarie, semplificate.

Le varianti ordinarie richiamano la stessa procedura di approvazione del piano regolatore, con una logica sub-divisione del procedimento nelle fasi di preliminare adozione comunale e di successiva approvazione regionale. Le varianti semplificate, di regola, vengono richiamate dall’art. 25 della legge 28.2.1985, n. 47 che impone alle Regioni di provvedere a determinare norme per garantire procedure semplificate per l’approvazione di varianti agli strumenti urbanistici generali.

Oggi si fa riferimento alle varianti semplificate nell’art. 19 del d.p.r.

8.6.2001, n. 327 in tema di espropriazioni per pubblica utilità.

In termini applicativi, i giudici amministrativi hanno rilevato che, allorquando un Comune adotta una variante al proprio strumento urbanistico, le misure di salvaguardia consentono la sospensione dei procedimenti sulle istanze per il rilascio delle concessioni edilizie, ma non l’annullamento di quelle già rilasciate ed in contrasto con la proposta di modificazione del predetto strumento (Cons. St. sez. V, 12.7.1996, n. 847).

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2.5. La pianificazione urbanistica consensuale

Il concetto di pianificazione è connaturale all’uomo sin dai tempi più remoti, giustificato dal bisogno di decidere come impiegare le risorse a sua disposizione per il raggiungimento nel tempo obiettivi prefissati.

Se il concetto è applicato nella sfera di determinazione degli Enti pubblici, senza ombra di dubbio, costituisce una delle tecniche fondamentali della loro azione al fine di raggiungere un obiettivo (Giannini 1983).

In altre parole, diviene uno strumento di razionalizzazione dell’azione dei pubblici poteri che si frappone – come fattore di mediazione – tra il disporre in via generale e preventiva ed il provvedere in concreto caso per caso.

Il termine “pianificazione” viene, altresì, utilizzato per individuare il prodotto di un siffatto modus agendi, ossia il piano.

La natura necessariamente finalistica sottesa all’idea di piano ne rivela, del resto, l’analogia con il procedimento amministrativo, mentre in quest’ultimo si individua l’unità di una serie di atti come funzione di una comune destinazione cui essi sono preordinati. Nel piano, invece, è l’unità delle sue disposizioni che si pone in funzione di un’unità di obiettivi (Miele).

Il susseguirsi di disposizioni normative tormentate nella loro elaborazione trova arresto positivo nella legge 17.8.1942, n. 1150 con cui vengono prospettate tre livelli di pianificazione: quella per area vasta (piano territoriale di coordinamento), quella comunale (il piano regolatore generale), e quella comunale esecutiva (piano regolatore particolareggiato).

Va osservato che il piano territoriale di coordinamento orientava e coordinava l’attività pianificatoria del Comune e fungeva, così pure, da parametro alla cui stregua verificare la conformità del piano regolatore generale; il piano regolatore generale si occupava delle previsioni delimitate nel suo territorio e costituiva il parametro sulla cui base operare il controllo di conformità dei piani esecutivi.

Tuttavia, questo sistema pianificatorio di fatto non è mai decollato a causa, in particolare, di ragioni storiche che hanno comportato per estrema necessità piani di ricostruzione. Ed occorre raggiungere, in termini temporali, alla fine, gli anni Sessanta per avere un cambiamento.

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La legge 6.8.1967, n. 765, la cosiddetta legge Ponte, dà un grande impulso alla pianificazione, riprendendo il concetto iniziale, anche se resta un tentativo, ripreso, successivamente, dalle Regioni, le quali si fanno carico di sperimentare nuove soluzioni di governo del territorio, iniziando a considerare il menzionato principio di pianificazione.

Infatti, la dottrina osserva che nelle diverse esperienze regionali le regole di governo del territorio risultano ora affidate ad un sistema di pianificazione in cui coesistono un piano regionale, un piano provinciale ed un piano comunale generale e, limitatamente ad alcune parti del territorio comunale, anche un piano esecutivo. E si può dire che oggi il processo di pianificazione urbanistica appare assolutamente affermato.

Non si può fare a meno di citare l’espressione urbanistica consensuale con cui si intende una nuova modalità di pianificazione, caratterizzata dalla co-determinazione delle scelte urbanistico- progettuali.

In altri termini, si parla di una tecnica pianificatoria che ha il suo fulcro nel collegamento sempre più stretto che si è venuto a determinare, nell’ambito delle scelte pianificatorie, tra l’azione dei pubblici poteri e l’intervento dei privati.

All’occasione la dottrina osserva come è sempre più frequente che l’Amministrazione locale adotti metodi d’agire, nel rapporto con la definizione degli interessi della collettività, che tendono a distaccarsi dall’amministrare classico mediante il provvedimento amministrativo, per ricercare l’accordo con i privati nella definizione concreta degli assetti urbanistici (Urbani 2000, 74).

Ne discende la circostanza che le scelte urbanistiche sono sempre più il frutto di una negoziazione tra l’Ente detentore del potere di pianificazione ed i singoli privati che da tali scelte verranno, poi, direttamente incisi.

Non si può dire, ad avviso della dottrina, che questo tipo di pianificazione porti a scemare il potere autoritativo della Pubblica Amministrazione, anzi, questo è un modo moderno per rendersi disponibile a negoziare al fine del rispetto degli obiettivi politici prefissati in maniera celere ed efficiente.

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2.6. Il diffuso metodo della lottizzazione

Come già fatto cenno nel paragrafo precedente, ha preso corpo l’utilizzo di moduli consensuali adottati dalla Pubblica Amministrazione nel suo esercizio nei rapporti con i privati, in materia di urbanistica; utilizzo che ancora oggi per alcuni aspetti viene discussa dalla dottrina.

Trattasi, dunque, di convenzioni urbanistiche, cioè, accordi tra Pubblica Amministrazione e privati finalizzati alla realizzazione di beni urbanistici. In altre parole, in ambito urbanistico il bene pubblico da perseguire consiste nel corretto e nell'ordinato sviluppo del territorio.

Interviene anche la giurisprudenza a dare una definizione delle convenzioni, asserendo che le stesse hanno lo scopo di garantire alla edificazione del territorio minime di infrastrutture pubbliche e una normale qualità del vivere di un aggregato urbano. Si può, pertanto, dalle stesse prescindere solo quando tali condizioni siano altrimenti rispettate, giacchè in caso di rilascio di concessione edilizia in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero abilitati all’utilizzo dell’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi consegnati alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti (Tar Campania, Salerno sez. II, 18.3.2008, n.

308).

Le origini delle convenzioni di lottizzazione derivano dallo strumento di frazionamento, inizialmente, di un terreno, per una agevole utilizzazione a fini edilizi. Infatti, costituisce lottizzazione l’assoggettamento di un’area, avulsa da aggregati abitativi, ad un processo di urbanizzazione, mediante la realizzazione di manufatti per la residenza e di opere di urbanizzazione, necessari a soddisfare le elementari esigenze di vita, con l’emersione di un disegno di conferire un nuovo assetto ad una porzione di territorio comunale (Cons. Stato, sez IV, 9.11.1993, n. 980, cons. St. 1993, I, 1400).

Ma è con la legge 6.8.1967 n. 765 (la cosiddetta legge Ponte) che vengono introdotti, novellando l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, due principi fondamentali: da un lato, la necessaria armonizzazione delle scelte lottizzatorie con quelle di pianificazione generale effettuate dal Comune; dall’altro lato, la partecipazione dei privati costruttori alla realizzazione delle infrastrutture necessarie ed al pagamento dei relativi oneri.

La possibilità di procedere alla lottizzazione dipendeva dal rilascio di un apposito provvedimento autorizzativo da parte del Comune, a sua volta, subordinato al concorrere di due condizioni: l’esistenza di uno

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strumento urbanistico generale e la stipula di una convenzione con cui il privato si assume puntuali oneri patrimoniali connessi alle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, fornendo, altresì, adeguate garanzie del relativo adempimento. La preesistenza del piano urbanistico generale si rende necessaria perché in esso è contenuta l’indicazione sia dei terreni nei quali la lottizzazione è vietata in modo assoluto, sia di quelli nei quali essa non è necessaria come intervento preventivo sia dei terreni soggetti a tale obbligo, ossia in cui è consentita l’edificazione solo previa lottizzazione.

In particolare, ci si occupa delle convenzioni di lottizzazione, definite come una fattispecie tipica di accordo. Ma la dottrina ritiene che questo assunto non è così pacifico; le soluzioni prospettate dalla stessa dottrina sono molteplici e differenziate, tutte concordi solo sul fatto che le convenzioni di lottizzazione sono fattispecie complesse in cui convivono un atto di pianificazione territoriale ed un’intesa tra Amministrazione e privati, potendosi configurare un contratto connesso ad un provvedimento.

Se la sua figura è alquanto controversa in dottrina, nondimeno è la posizione assunta dagli studiosi in ordine alla sua natura giuridica.

Secondo alcuni studiosi si tratta di un atto di natura privatistica (Galletto 1989, 359); ed in questo ambito taluno addirittura azzarda che le convenzioni hanno natura privatistica in quanto soggetti ad un cosiddetto vincolo di scopo (Manfredi 2001, 138).

Altri, invece, ritengono che trattasi di un accordo dettato dall’art. 11 della l. n. 241 del 1990 in quanto la convenzione è conseguente ad un pregresso atto di pianificazione (Urbani, Civitarese Matteucci 2000; 341); altri, ancora, pur conservando un pensiero pubblico, affermano che la convenzione abbia natura di contratto ad oggetto pubblico (Pericu 2001, 1697). Vi è tra gli studiosi chi se ne discosta integralmente dalla classifica di cui sopra e sostiene che la convenzione urbanistica non presenti né i caratteri privati, né pubblici né di accordo (Dugato 1993, 970).

Sono i giudici amministrativi che si cimentano in diverse teorie, legate anche alla loro competenza giurisdizionale o meno.

Sulle prime la Suprema Corte a Sezioni Unite riconosce nelle convenzioni di lottizzazione accordi sostitutivi, affermando che proprio tali convenzioni hanno costituito, in anticipo rispetto alla legge sul procedimento il paradigma concettuale degli accordi (Cass. sez.

un. 1.2.2000, n. 8).

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