• Non ci sono risultati.

cambia il mondo, cambia la scuola

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "cambia il mondo, cambia la scuola"

Copied!
140
0
0

Testo completo

(1)

Metaforicamente, è tutta la ricchezza del gioco della presenza e dell’assenza, del comparire e dello scompa- rire, tutta la ricchezza del gesto fotografico che scompa- re con l’avvento del digitale.

Sono il mondo e la visione del mondo a venirne modifi- cati. Soprattutto in questi tempi di cambiamento tecno- logico ultrarapido, è nata l’idea assurda di “liberare” la realtà attraverso l’immagine, e di “liberare” l’immagine attraverso il digitale. La “liberazione” della realtà e quella dell’immagine passerebbero per la profusione e la proliferazione. Vuol dire dimenticare la sfida, il rischio che costituisce il passaggio all’atto fotografico, la fragilità e l’ambivalenza del rapporto con l’oggetto – l’“insuccesso” dello sguardo, si potrebbe dire: tutto ciò è essenziale per la fotografia – ed è una cosa rara! Non si libera la fotografia!

Ancora una volta, questo non è che un esempio di quan- to sta avvenendo massicciamente in tutti i campi. In particolare in quelli del pensiero, della concezione, del linguaggio e della rappresentazione. Lo stesso destino

digitale minaccia l’universo mentale e tutta l’estensio-

BARTOLI| BAUDRILLARD |CARSETTI

ANNO III - APRILE/MAGGIO 2013 POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L.353/03(CONV IN L.27/02/2004 N°46)ART.1 COMMA 1 AUT C/RM/04/2013 € 8,50

BIMESTRALE

E D U C A Z I O N E E I N T E R V E N T O S O C I A L E

Il bambino artigiano Diventare adulti in Italia 2013, il voto dei giovani Le domestiche della globalizzazione I diritti di un immigrato Fuga dalla scuola media Elogio dell’età ingrata La mischia gallese Le mura di un’aula Le parole non bastano Il testamento di Jean Baudrillard Giovani e media Le tecniche non sono neutrali I cani di Zevola Al cinema e in libreria

cambia il mondo, cambia la scuola

DOSSIER

Il digitale a scuola e dovunque

CAPUTO | CASATI | COLLETTIVO IPPOLITA LAFFI | LORENZONI | PASQUINELLI SCENINI|VILLA

15

15

2013

(2)

“Ci sono pagine in cui Dagerman acquista una forza così straordinaria che regge paragoni spropositati: Shakespeare, Dostoevskij, il miglior

Stig Dagerman

PERCHÉ I BAMBINI DEVONO UBBIDIRE?

pp. 96 - €9,00

“Dagerman istintivamente sceglie sempre la parte dei perdenti [...]

e degli emarginati, in un tempo in cui l’emarginazione sembra quasi continuare a colpire le maggioranze.” Goffredo Fofi

La rinascita del

subcontinente americano, attraversata da

contraddizioni, luci e ombre, discusse da un importante analista e studioso dell’America latina.

La sinistra in Italia, la fine di una storia e l’affermarsi di un’altra attraverso una serie di interventi che ripercorrono acutamente e causticamente una vera e propria tragedia nazionale.

OPUSCOLII LIBRI DE LO STRANIERO

ovvero

Il silenzio dei post comunisti

di Piero Giacchè

Ci fu una voltala sinistra

No vità in libr eria e sul sito www .asinoedizioni.it

La straordinaria figura di Nicola Chiaromonte, discepolo di Caffi, amico di Camus, Hannah Arendt e Dwight Macdonald, critico di ogni ideologismo, di ogni totalitarismo, di ogni società che vive nella malafede, e che è pronta a credere a ogni menzogna.

La lucida analisi della situazione politica degli anni venti, il dopoguerra che vide scontrarsi da un lato le forze del movimento operaio e dall’altro la marea montante de fascismo, da subito identificato come un male italiano, l’“autobiografia di una nazione”.

PICCOLA BIBLIOTECA MORALE

Il tempo della malafede

e altri scritti

PICCOLA BIBLIOTECA MORALE

La rivoluzione italiana

(1918-1925)

(3)

cambia il mondo, cambia la scuola

(4)

Bimestrale · anno III · n. 15 aprile / maggio 2013

Redazione via Buonarroti, 39 - 00185 Roma tel. 06.8841880 e-mail: rivista@gliasini.it sito web: www.gliasinirivista.org Editore Edizioni dell’asino Stampa Grafica Giorgetti Distribuzione Pde S.p.A.

via Forlanini, 36 · 50019 Osmannoro · Sesto F.no (FI) tel. 055.301371 · fax 055.301372

Direttore Luigi Monti Vice-direttore Nicola Villa Direttore responsabile Goffredo Fofi Redazione Cecilia Bartoli, Maurizio Braucci, Gianluca D’Errico, Vittorio Giacopini, Sara Honegger, Federica Lucchesini, Nicola Missaglia, Ludovico Orsini, Ivan Pagliaro, Fabio Piccoli, Nicola Ruganti, Giulio Vannucci, Giovanni Zoppoli.

Collaboratori Vinicio Albanesi, Fulvia Antonelli, Linda Babbini, Giuliano Battiston, Marcello Benfante, Stefano Benni, Giacomo Borella, Beatrice Borri, Marco Carsetti, Simone Caputo, Roberto Catani, Francesco Ciafaloni, Francesco Codello, Nunzia Coppedé, Costantino Cossu, Nicola De Cilia, Dario Dell’Aquila, Danilo De Luise, Lorenzo Donati, Enzo Ferrara, Marina Galati, Nicola Galli Laforest, Piergiorgio Giacchè, Grazia Honegger Fresco, Nicola Lagioia, Stefano Laffi, Luca Lambertini, Alessandro Leogrande, Franco Lorenzoni,

Lorenzo Maffucci, Emanuele Maspoli, Giulio Marcon, Giorgio Morbello, Emiliano Morreale, Giacomo Panizza,

Roberta Passoni, Mimmo Perrotta, Giordana Piccinini, Giacomo Pontremoli, Maria Chiara Rioli, Achille Rossi, Rodolfo Sacchettini, Maria Salvati, Matteo Schianchi, Chiara Scorzoni, Serena Terranova, Manuela Trinci, Emilio Varrà, Cristina Ventrucci.

Progetto grafico orecchio acerbo Abbonamenti annuale (6 numeri): 50,00 euro Per informazioni: abbonamenti@gliasini.it Si collabora su invito della redazione, i manoscritti non vengono restituiti.

Finito di stampare aprile 2013 Registrazione presso il Tribunale di Roma 126/2012 del 03/05/2012

Hanno collaborato a questo numero: Castelvecchi editore, Diletta De Sanctis, Federico Cinetto, Matteo Micalella, Carolina Purificati, Alessio Trabacchini, Duccio Zola

(5)

15

Strumenti

4 Il bambino artigiano di Marco Carsetti 17 Diventare adulti in Italia di Stefano Laffi 24 Il voto dei giovani di Alessandro Leogrande

32 Nadea e Sveta. Le domestiche della globalizzazione di Cecilia Bartoli 40 Un immigrato che conosce i suoi diritti di Yvan Sagnet

incontro con Nicola Villa

Strumenti: Fuga dalla scuola media

46 Mura da abbattere di Goffredo Fofi

48 Elogio dell’età ingrata di Piergiorgio Giacchè 53 In una stanza non può accadere di Luca Mori 57 Le parole non bastano di Federica Lucchesini 63 La mischia gallese di Nicola De Cilia

I doveri dell’ospitalità

69 Dall’analogico al digitale... all’egemonico di Jean Baudrillard

Film: L’educazione e le nuove tecniche digitali

73 Cosa è successo tra giovani e media di Stefano Laffi 79 Prima di ogni schermo di Franco Lorenzoni

83 Contro la colonizzazione digitale di Roberto Casati 89 La classe capovolta di Francesca Scenini

94 Come parlare a un muro di Simone Caputo 102 Molti dessert per il cervello di Elena Pasquinelli 112 Le tecniche non sono neutrali del Collettivo Ippolita

incontro con Nicola Villa

Immagini

117 Attenti ai cani di Oreste Zevola

Scenari

116 Andare, aspettare (un film di Giorgio Diritti) di Goffredo Fofi 122 Dentro la Grande Vasca (un film di Benh Zeitlin) di Luigi Monti 124 Alberi e bambini (un romanzo di Alberto Capitta) di Sara Honegger 127 Perché muore l’amore (i racconti di Carson McCullers) di Nicola Villa

APRILE/MAGGIO 2013

(6)

Strumenti

Il bambino artigiano

di Marco Carsetti

Leggendo Le nuove tecniche didattiche di Bruno Ciari

(Edizioni del- l’asino) si ristudia Freinet, di cui Ciari fu sperimentatore e poi divulgatore. E rileggendo Freinet ci si imbatte in una determinazione, una forza, una moti- vazione così incisive che rimandano a un uomo mosso e sostenuto nel suo cam- mino da una profonda fede. “Ci sarebbe bisogno di una fede, quella stessa fede che riesce a smuovere le montagne. Ma dove la possiamo ancora trova- re?”, si domandava. Questa spinta, se ha ancora qualcosa da insegnarci, non è solo dal punto di vista operativo contro ogni didatticismo, ma dal punto di vi- sta morale perché la motivazione della sua fede era riposta direttamente nei bambini, nei ragazzi i cui vizi e difetti, diceva, non sono i loro ma causati da altro, tra cui la scuola: la pedagogia del cavallo che non ha sete.

“Spesso la scuola pretende di far bere l’acqua di cui il ragazzo non ha vo- glia; soprattutto pretende l’astrattismo, il verbalismo, la passività; esigendo si- lenzio e impersonalità dei compiti e delle lezioni, essa riesce a togliere al bambino il gusto dello studio, ne soffoca il desiderio di conoscere, distrugge la sua sana curiosità”.

Felici i pochi, invece, che per strani e diversi motivi hanno potuto almeno una volta toccare con mano la fiducia che viene dal vedere agire l’energia dei ragazzi, controllata da loro stessi, all’interno di una comunità vivente orienta- ta “in un certo modo” e “da un certo modo di essere”. Freinet, a guardare la sua motivazione inesauribile, era uno di questi.

La fede di Freinet non era rivolta verso l’efficacia delle sue tecniche, che difendeva e divulgava a spada tratta, ma nei confronti dei bambini e ragazzi vi- sti come possibilità, e quindi speranza in atto, che per trasformarsi in vivace realtà portatrice di valori positivi aveva bisogno di trovare la giusta luce e il giusto cammino davanti a sé. Freinet ci ha fatto intravedere questa luce e que- sto cammino fondato sui bambini e sui ragazzi portatori di vita. La parola vi- ta in questo caso non è una parola ameba, come direbbe Illich, cioè una di quelle parole che come un sasso lanciato nello stagno producono delle onde senza colpire nulla, ma una parola chiave di quella tradizione pedagogica di cui Freinet e poi tanti altri sono stati sperimentatori e testimoni.

Strumenti

(7)

I continui riferimenti alla vita nascono dalla convinzione che l’essere uma- no sia dotato come ogni altro organismo di autoregolazione, che ogni sua rea- zione e comportamento vadano alla ricerca del mantenimento o ritrovamento di un equilibrio, del soddisfacimento dei bisogni elementari mediante una di- retta integrazione col mondo circostante. Questo istinto primigenio si com- pleterà, anche grazie all’educazione, quando l’individuo, tramite un dialogo costante, intimo e aperto con il suo ambiente di vita, potrà avvalersi di un’al- tra tecnica di vita: il tatonnement, un procedere per tentativi, che non è altro che la capacità di fare ricorso alle esperienze vissute e applicarle ai nuovi con- testi esistenziali.

È da questa fiducia riposta già nel bagaglio “ancestrale” con cui si viene al mondo, e poi nelle potenzialità di sviluppo del fanciullo, che bisognerebbe ri- partire per avere fede nell’educazione, mentre è proprio questa fiducia che sem- bra smarrita più che mai. È questo smarrimento, questa mancata fiducia riposta in ogni nuovo bambino che nasce a far mancare quella determinazione neces- saria a immaginare soluzioni operative adatte ai nostri tempi. Quella che non era mancata a persone come Freinet, che avevano conosciuto la guerra, le de- portazioni, i campi di concentramento, la bomba atomica, lo spopolamento delle campagne, la crescita delle città satellite e dei quartieri dormitorio, la te- levisione, l’insorgere delle gang giovanili e della violenza di strada, il disastro della scuola, ma che prima e dopo la seconda guerra mondiale continuavano a lottare e a usare sistematicamente la parola vita e sostantivi a lei correlati per definire il loro operare: didattica viva, grammatica vivente, calcolo vivente, comunità vivente, vita di scuola, fecondità espressiva, pensiero vivo, processo vitale, libro della vita, lingua viva, atto vivo, cooperazione fraterna, gioia di donare, scuola e vita, autocorrezioni viventi, conquista viva, tecniche vitali, ma- nifestazione vitale, processo di vita genuina e calda, slanci di vita, il soffio cal- do e impetuoso della vita. E poi un continuo riferimento all’apertura e all’espressione libera, per cui: apertura espressiva, manifestare se stessi, aprirsi, dire quel che si ha dentro, storia personale di ciascuno, attività comuni, prospettiva sempre aperta, lottare per qualcosa, comunità organica, sinceri bisogni, ascoltare le vo- ci interiori del ragazzo, spinte interne, testo libero, cooperazione. A questo pun- to il dubbio è lecito: se c’era una necessità così impellente di affermare la vita e la libertà di espressione del ragazzo all’interno della scuola, forse è vero che innanzi si avevano morte e mortificazione del pensiero e dell’azione. Perché era alla scuola e ai maestri e insegnanti che prima di tutto ci si rivolgeva.

La scuola è morta! La scuola è fallita! Basta con la separazione ancestrale tra scuola e vita! Basta con le lezioni! Basta con i compiti! Così dicevano.

Strumenti

(8)

E così oggi siamo di fronte alla stessa morte e mortificazione ma abbiamo ancora quelle convinzioni per lottare? Che cosa è cambiato? Freinet e gli altri come lui potevano ancora contare su un dialogo aperto e conflittuale con il mondo, la società, le famiglie, il progresso, la tecnica, la scienza, la comunica- zione. È vero anche per noi, oggi? Freinet è morto nel 1966. Il mondo è cam- biato ulteriormente e velocemente, il mutamento è ancora in corso e di quale mutazione si tratti è difficile dire. E la scuola?

Prima si percepiva la scuola lontana dalla realtà e cambiare, riformare vo- leva soprattutto dire aprire, far entrare. È ancora così? “È inutile voler conti- nuare a credere”, diceva Freinet, “che i valori, quelli presenti e quelli passati, siano qualcosa di astratto, di universale; essi sono incarnati nella realtà, nel- l’ambiente, solo partendo dall’ambiente di vita è possibile scoprire e possede- re questi valori”; chiaramente si riferiva ai ragazzi. E questo spiega il tentativo di abbattere il muro tra scuola e vita, scuola e società. Quindi l’ambiente di vi- ta, la famiglia, il lavoro dei genitori, il gioco, l’organizzazione sociale, tutto ciò che i ragazzi vivevano prima di essere rinchiusi dentro la scuola, era in qualche modo ancora percepito come portatore di valori presenti e passati, e da lì bi- sognava partire, riflettere, rielaborare, socializzare, cooperare, studiare, ricer- care, apprendere, comunicare, dialogare, diventare consapevoli. Più avanti, poco prima di morire, Freinet cominciò a parlare della scuola come ancora di salvezza davanti a una società che sentiva smarrire sempre di più quei valori che per lui erano ancora molto legati al mondo contadino da cui proveniva.

E oggi? La vita fuori, portata dentro la scuola, è ancora capace di esprime- re valori presenti e passati? Se non si può e non si deve escludere l’ambiente di vita, le famiglie, la realtà sociale dalla vita di scuola, è chiaro però che oggi più che l’affermazione di valori entrano contraddizioni e grandi domande aperte.

Siamo in pieno mutamento, di fronte a contraddizioni apertissime, senza bus- sola e senza punti di riferimento. Se prima la scuola era lontanissima dalla re- altà, dagli ambienti di vita, ora rischia di esserne uno specchio fedele, è la realtà stessa senza alterità e senza altrove, ha pienamente assunto in sé la fun- zione di adattare i ragazzi alla società e non, al contrario, attraverso l’opera edu- cativa, in prospettiva, con lentezza e profondità, adattare la società alla radice umana di cui le nuove generazioni sono i principali testimoni e protagonisti.

Ma dove scovarla questa radice? Dove riconoscerla, in cosa, in chi, come?

Le risposte non possono essere che le stesse di Freinet, con molti punti fer- mi in meno ma, sempre e proprio per questo, da adattare e reinventare alle nuove condizioni esistenziali. La radice è il bambino, il ragazzo, è da lì che bi- sogna ripartire, dalla sua voce, dal suo istinto, dalla sua intelligenza alla ricer-

Strumenti

(9)

ca di un equilibrio, dalla sua spontaneità, dalla sua curiosità, dalla sua sete di conoscenza – di tutto ciò bisogna continuare ad avere fiducia – e poi dalle tec- niche, da tutto il patrimonio ereditato di proposte operative, di lieviti, di ten- tativi. Cercare sempre soluzioni operative a partire dalla vita dei ragazzi. Anzi, di più: immaginare e praticare proposte operative in cui i ragazzi possano vi- vere sinceramente, apertamente, naturalmente e spontaneamente in comuni- tà organizzate, operose, in cui il controllo sociale, l’autorità, non sia una formalità data e discendente, ma conquistata giorno per giorno attraverso le attività, le regole, la stessa vita di comunità.

“Non ci limitiamo a invitare i ragazzi a organizzarsi, a fissare un regolamen- to di vita in comune e a designare dei responsabili; offriamo loro delle reali pos- sibilità di lavoro e il vero lavoro presuppone la cooperazione: suddivisione dei compiti, condizioni della collaborazione, buona conservazione degli utensili, ordine, pulizia, interesse generale del gruppo...” Tutto questo è cooperazione, diceva Freinet.

Un’altra risposta di quell’impianto pedagogico fu il lavoro, attualissima più che mai come bisogno educativo completamente inespresso e inesprimibi- le non solo dai ragazzi ma anche da maestri, insegnanti, educatori. Il lavoro- gioco, l’educazione che viene dal lavorare, dal fare insieme cose vere, con una funzione e una utilità attraverso cui il bambino ragazzo può riconoscersi come membro effettivo in seno all’ambiente di vita, scuola, società, famiglia, ed es- sere riconosciuto come uomo nel pieno delle sue forze. Su questo aspetto il fal- limento è totale, il lavoro-gioco che era proprio di ogni bambino si è trasformato in gioco fine a stesso senza più alcun ruolo sociale o di socializzazione, nessun riconoscimento; le scuole sono ambienti del tutto inospitali e incapaci di acco- gliere il corpo, l’attività manuale, la pratica e quindi il benché minimo lavoro che abbia un senso per la vita della comunità. Già solo per aver escluso questo si può affermare che la scuola è morta, e con essa ogni educazione che abbia caratteristiche simili. Senza un giardino, una cucina, laboratori artigianali, uten- sili e attrezzi, macchinari, un posto dove tenere e accudire gli animali, che non siano concepiti come svago o extra ma che siano il centro pulsante della vita a scuola, i bambini e i ragazzi rimarranno schiavi del verbalismo, delle lezioni, dei compiti, dei voti, del gioco fine a se stesso, e il risultato sarà la mortifica- zione della loro spinta vitale, dello spirito. Spirito e tecnica, si diceva.

Tolstoj dedica l’ultimo dialogo de La saggezza dei bambini all’istruzione.

La situazione in cui si svolge è questa: “Il portiere sta lucidando le serrature.

Katja, di 7 anni, sta facendo delle casette con le costruzioni. Nikolàj, un gin- nasiale di 15 anni, entra e getta un libro in un angolo”.

Strumenti

(10)

Nikolàj: “Se lo porti il diavolo quel ginnasio maledetto”.

Il portiere: “Perché, che c’è?”

Nikolàj: “Mi hanno dato un altro uno... Che il diavolo li squarti. Sai che me ne faccio io, di quella geografia schifosa. La California, pensa te. Che diavolo mi serve conoscerle, le loro Californie” (...).

Il portiere: “Ma perché non studiate, dico io”.

Nikolàj: “Perché? Perché non le posso studiare, io, le scemate. Ah, se ne vadano a quel paese. (Si lascia cadere sulla sedia). Vado a dirlo alla mamma. Non ce la faccio, le dirò, non ce la faccio e basta. Facciano quello che vogliono, ma io non ce la faccio.

E se non mi toglieranno dal ginnasio, scapperò. Scappo via, com’è vero Iddio”.

Il portiere: “E dove andrete?”

Nikolàj: “Andrò via di casa. Andrò a fare il cocchiere, il portiere. Qualsiasi cosa è meglio di queste scemate del diavolo”.

Il portiere: “Ma anche a fare il portiere non è mica facile, sapete. Bisogna svegliar- si presto, spaccare la legna, caricare le stufe”.

Nikolàj: “Fiù! (fischia) Sarebbe una festa. Spaccare la legna sì che mi piace. Dici di no? E invece ti dico che è la cosa più bella che c’è. No, altroché, provaci a studiare la geografia”.

Il portiere: “Bé, questo è giusto. A che vi serve saperla. Ma com’è vi costringono?

(...) Servirà a trovarsi un impiego, a fare carriera, a prendere lo stipendio, come vostro papà, come vostro zio”.

A questo punto entra in scena la madre con un foglietto inviatole dal di- rettore che la informa dell’uno preso da Nikolàj in geografia. Adirata con il fi- glio gli dice di non pensare alle sue stupidaggini ma ai compiti.

“Perché continuate a torturarmi, voi non capite”, e così Nikolaj esce di corsa sbattendo la porta. A questo punto Katja di 7 anni prende le difese del fratello e co- mincia a rimproverare la madre.

“Stai attenta a non fare anche tu come lui”, dice la madre.

“Io invece è proprio così che voglio fare. A nessun costo mi metterò a studiare quello che non voglio studiare”.

Tolstoj lavorò al diario La saggezza dei bambini tra il 1909 e il 1910. Ep- pure, Nikolaj, quella geografia, quell’uno, quella voglia di “stramaledire”, “squar- tare” e scappare e quella difesa dei compiti da parte della madre contro le stupidaggini (i pensieri) del figlio li abbiamo conosciuti tutti, li continuiamo a conoscere attraverso i nostri figli, nipoti, conoscenti, qualcuno attraverso il Strumenti

(11)

lavoro da educatore. Tutti o quasi, avendo vissuto infanzia e adolescenza, sia- mo stati un tempo dalla parte di Nikolaj e Katja, e più o meno tutti crescen- do siamo passati dalla parte della madre. Soprattutto dalla parte delle parole che chiudono il dialogo, che ammoniscono Katja e l’avvertono che quando sa- rà grande la penserà come lei. Un ammonimento per tutti noi, parole profeti- che dell’inevitabile passaggio dall’altra parte. Tutta la storia e la realtà della scuola passata e moderna, anche quella che dice di mettere al centro l’indivi- dualità del ragazzo, è la storia di questo tradimento, della sottomissione, alla fine, dei Nikolaj alle ragioni di adulti, “maturi” solo nel loro utilitarismo, che credono o fingono di credere in certi mezzi perché adatti a certi fini, come ci ricorda il portiere, “a trovarsi un impiego, a fare carriera, a prendere lo stipen- dio”. Ma è questo il fine ultimo della scuola? In termini utilitaristici neppure l’università risponde più ormai da molto tempo a quei fini, figuriamoci la scuo- la primaria, le medie, il liceo. I fini raggiunti da questa scuola, come effetti, conseguenze di certe cause e mezzi sono però sotto gli occhi di tutti, e non da oggi. Ovvero tutti vedono gli effetti devastanti della scuola, che sbaglia tanto i mezzi quanto i fini del suo mandato educativo.

Siamo convinti come lo era anche Freinet che all’origine del pervertimen- to sociale, antropologico, culturale, valoriale dei nostri tempi non ci sia solo la scuola, ma sicuramente la scuola doveva tentare una risposta “operativa” per illuminare diversamente la strada delle nuove generazioni, essere un’ancora di salvezza. Questo compito non se lo è saputo assumere perché irrimediabilmen- te specchio della società stessa, strumento asservito e forma di potenziamento di quel pervertimento e peggio ancora forma e contesto di frustrazione e mor- tificazione dell’energia vitale dei bambini e ragazzi.

“Ma tutto sommato cosa siamo in grado di offrir loro per illuminarli e in- coraggiarli alle soglie della vita, per indicar loro uno scopo ai loro sforzi? Es- si possono intravedere soltanto un lumicino acceso lungo la strada dove vogliamo che si incamminino e non sono completamente responsabili se si lasciano in- gannare da bagliori artificiali che qualche volta posseggono la falsa luminosi- tà dei chiarori ancestrali di cui esaltiamo i pregi e le virtù. Una scuola disadattata, esami disumani, un lavoro immotivato, e in prospettiva, lo sfruttamento e la guerra! Valutiamo le responsabilità e cerchiamo, ora, di trovare delle soluzio- ni operative”.

Cosa sia diventato Nikolaj non ci è dato sapere, lo possiamo solo immagi- nare. E non possiamo sapere cosa sarebbe diventato, e con lui la società, se aves- se potuto seguire la sua inclinazione a lavorare, a spaccare legna, a fare il cocchiere;

se la sua protesta fosse stata riconosciuta e ascoltata e se a scuola avesse potu-

Strumenti

(12)

to spaccare legna insieme ai suoi compagni all’interno di una vita comunita- ria ordinata e utile alla crescita della sua coscienza e consapevolezza di uomo e cittadino.

In fondo, quello di Nikolaj era un grido che richiamava a sé la vita, la vo- glia di vivere realmente, concretamente, indirizzando le proprie energie in at- tività vere e utili, contro il nozionismo esasperante e aleatorio, fine a se stesso.

Tutto lo sforzo dell’educazione attiva, da Dewey a Freinet alla testimonian- za di Ciari che da lì discende, è stato il tentativo di eliminare quell’incompren- sibile muro che si era alzato tra vita e scuola; è stato provare a rendere la scuola un contesto il più armonico possibile alla realtà viva dei ragazzi, che non vole- va dire inseguire il mito della naturalezza e della spontaneità, ma vivere secon- do autentiche regole comunitarie in cui il maestro fosse padre e regista, modello di attività organizzate intorno a tecniche precise, sviluppo delle potenzialità del bambino-ragazzo.

Un esempio tra tutti fu la tipografia a scuola, che era scuola e non, come si potrebbe pensare, un’attività di sfogo ed extrascolastica. A Nikolaj un mae- stro “simpatico”, ovvero empatico con la sua energia e voglia di vivere, avreb- be potuto proporre di spaccare legna per sfogo e continuare a studiare la geografia nello stesso modo odiato da Nikolaj. Freinet, Ciari e tanti altri invece inverti- rono l’ordine, e magari avrebbero detto, dentro un piano di lavoro organizza- to e condiviso con gli altri ragazzi: “Studiamo la geografia a partire dalla qualità del legno che spacchiamo per le nostre stufe e andiamo a vedere dove è pro- dotto, come, a quali altitudini cresce, in quale stagione si raccoglie, come si organizza l’attività sociale ed economica intorno a questa risorsa. E così si sa- rebbe fatta geografia e tanto altro. Non è questo un modo per ingerire meno faticosamente la medicina, per aggirare le resistenze del ragazzo”.

Oggi la scuola è piena di questi sotterfugi e stratagemmi che sono un insul- to all’intelligenza dei ragazzi. Ultima tra queste è l’introduzione della Lim (La- vagna interattiva multimediale), che non significa portare a scuola strumenti tecnologici o tecnici per fare ricerca scientifica, ma solo scimmiottare la realtà e replicare l’instupidimento e la passività da schermo, l’immobilità ulteriore del- l’esperienza corporea. Nella scuola non sono state ancora introdotte videocame- re, registratori, macchine fotografiche, elementi basilari per la stampa digitale, e si pensa di fare questo salto tecnologico che, come la televisione, serve ai ge- nitori per imbalsamare i figli perché non gli pestino i piedi; nello stesso modo la Lim è solo un ulteriore gradino della degenerazione da finta interattività.

Oggi nessuno tra gli adulti che presiedono nelle classi di scuola ha mai spaccato la legna. Non sanno riconoscere un ciocco di faggio da uno di Strumenti

(13)

quercia o di abete, o di noce, non sanno che il salice che cresce lungo i fiu- mi non è buono da ardere perché è cresciuto velocemente, è pieno di acqua e quando si asciuga è pieno di aria e non fa la brace ma la cenere. Se il no- stro adulto insegnante non sa queste cose, come può organizzare un’attività viva intorno allo spaccare la legna? È lecito domandarsi allora se un insegnan- te può essere tale se ha perso ogni rapporto corporeo ed empirico con il mon- do. Nel 1938, durante un convegno a Orleans, così si esprime Freinet nei confronti degli educatori: “Pensiamo con preoccupazione alla gran massa di educatori formata in maniera scolastica, statica e libresca, per i quali avvita- re un bullone, raddrizzare un chiodo, mettere in moto una macchina signi- fica spesso (e purtroppo!) fare qualcosa che è al disopra delle loro forze e della loro competenza. Rilevare un fatto come questo non significa disprezzare de- gli educatori che invece vogliamo servire; significa invece condannare la lo- ro formazione”.

Proviamo a immaginare quali e di quale natura potrebbero essere le attivi- tà da organizzare intorno allo spaccare legna in una scuola. Intanto c’è il lavo- ro così caro a Freinet, il centro di tutta la sua pedagogia, poi c’è la lingua che chiama in causa sostantivi e aggettivi specifici per nominare cose e azioni lega- te a quell’attività, poi c’è l’organizzazione del lavoro, chi taglia, la mano che aiuta a posizionare il ciocco, chi raccoglie, chi fa la catasta e poi come si fa per- ché non crolli, il peso della legna fresca (e dopo qualche mese verificare come sia cambiato per mezzo della seccatura), e poi il processo chimico del fuoco, come brucia e perché, e il calore, il calore per riscaldarsi e per cucinare, e co- me l’energia intrappolata in un ciocco di legno (che non è altro che l’energia del sole) ci viene restituita e la utilizziamo per passare dai cibi crudi a quelli cotti, il vero grande passaggio dalla preistoria alla civiltà. E come, cuocendo, gli elementi subiscono una trasformazione e quindi come il cuoco è un tra- sformatore. Si può lavorare sulla matematica, sul peso specifico, sul metro cu- bo (dieci quintali di legna occupano circa un metro cubo). Cosa dire poi dell’attività manuale, l’uso dello strumento, la conoscenza attraverso il taglio delle specificità di un materiale così prezioso come il legno. Come si impugna una sega, un’accetta, come si arrota e qual è il sincronismo necessario, ovvero la concentrazione necessaria per svolgere un lavoro così delicato e anche peri- coloso? La rispondenza mano/occhio/testa, la scoperta che in ogni attività ma- nuale la precisione è determinata dal rilascio della forza, dalla cooperazione delle due mani, e della terza, quella cooperativa di chi appunto dà una mano e aiuta il compagno, e quindi il lavoro si fa collaborando e quindi cooperan- do e quindi è collettivo, comunitario.

Strumenti

(14)

E poi questa attività diventa il cuore pulsante di una piccola comunità di fatto e il centro del nostro interesse. Il buon esito di questo procedere sta nel fattore tempo. La scuola più delle famiglia ha a sua disposizione i nostri figli, e non separati e isolati l’uno dall’altro come quando stanno ognuno nelle pro- prie case davanti a uno schermo, ma tutti insieme e potenzialmente attivi. Ma che vantaggio! Che privilegio hanno questi maestri e insegnanti e non sanno che farsene, che spreco!

Evidentemente si obietterà che nelle nostre scuole le famigerate leggi sul- la sicurezza e il tipo di ambienti scolastici non permettono di avere una fale- gnameria, un deposito legname. Non ci sono stufe a legna su cui mettere a scaldare un tè, del latte, una torta da mangiare insieme ai propri compagni. Fi- guriamoci cucinare piatti più complessi. Non è una provocazione, ma l’amara constatazione che, essendo così, la scuola non può che dirsi morta e condan- nata al nozionismo o solo a un certo tipo di esperienze. La tipografia di Frei- net a scuola oggi non si potrebbe fare per il semplice fatto che per pulire gli stampi serve la benzina. La partita è quindi da considerare persa? In una certa misura sì. L’esempio della legna è evidentemente estremo ma non potevamo non seguire la provocazione di Nikolaj e vedere come poteva essere recupera- ta all’interno di una scuola senza vederlo fuggire.

Tanto Freinet quanto Ciari non si stancano di ripetere che l’impianto pe- dagogico delle loro scuole non sta in un metodo e in tecniche fisse, perché il principio ispiratore è sempre come la scuola possa mantenersi in comunica- zione con la società e con le famiglie in una dialettica costante. Il principio e i valori da loro espressi valgono sempre e comunque in qualunque condizione, le tecniche e la programmazione del lavoro non possono far altro che reinven- tarsi a partire dal contesto sociale. Per cui si tratta di impegnarsi in questa ri- cerca e trovare il modo, i modi, le tecniche per rispondere all’imprescindibile desiderio di cultura con cui ogni bambino nasce, e che invece di frustrare bi- sogna sviluppare nel migliore dei modi perché domani sia un buon cittadino.

Domandarsi come e perché. Sapere che è necessario riunire le due facce della stessa medaglia, “l’animal laborans” di Sennett e “l’homo faber” di Hanna Arendt. Un bravo educatore non può fare a meno di tenere insieme queste due domande, “come” e “perché”.

Ogni insegnante che fa in un certo modo sa che se la catasta di legna non se l’è inventata lui ma è stata portata dalla curiosità, dal racconto, da un biso- gno di uno dei ragazzi, potrà diventare interesse generalizzato, si potrà strut- turare in un buon programma di lavoro, e tutto questo mobiliterà la curiosità, la ricerca del gruppo intorno a un oggetto così tipico ed essenziale nella vita Strumenti

(15)

dell’uomo come la legna, lo scaldarsi, il cuocere, il lavorare attraverso stru- menti. Poi, mediante i testi liberi, la tipografia, il giornalino, la biblioteca, la corrispondenza, tutto questo lavoro si potrà trasformare in un numero mono- grafico che attraverserà racconti, ricordi, interviste, scienze, mestieri e materie.

Si può star certi che quello che si imparerà a partire dall’esperienza fatta intor- no a un ciocco di legna ci accompagnerà per il resto della nostra vita e non sa- rà perso o stramaledetto, come nel caso di Nikolaj.

Quando la madre irrompe nel dialogo riportato da Tolstoj accenna a un tipico lamento genitoriale: “Ah quante me ne ha fatte passare. E lo so, lo so io da dove gli viene tutto questo. E tutto perché non pensa a quello che deve, ma soltanto alle sciocchezze: ai cani, ai polli”. “Ma mamma, non ti ricordi, sei sta- ta proprio tu a dirmi che non si può non pensare all’orso bianco”.

“Non si può non pensare all’orso bianco” è un detto proverbiale per dire che non si può smettere di pensare a qualcosa finché ci obbligano di smettere.

Tolstoj stesso fece esperienza del significato del proverbio quando era an- cora piccolo e il fratello maggiore, Nikolenka, lo sfidò a restare in un angolo finché non fosse riuscito a non pensare a un orso bianco. Una sfida che il pic- colo Tolstoj accettò anche se scriverà poi: “Non ce l’ho fatta a tenere lontano dai miei pensieri la creatura ursina”.

A quali e quanti orsi bianchi che non hanno legittimità agli occhi e alle orecchie degli adulti costringiamo i ragazzi a non pensare, imponendogli di rimanere sommersi dentro pensieri inconfessabili, inesprimibili? Il primo obiettivo della scuola di Freinet era quello di liberarsi degli orsi bianchi, quel- la era la prima materia di scuola. E così la mente si liberava e progrediva. In- vece la separazione tra loro e la scuola che imponiamo ai ragazzi li costringe a immergersi come sommergibili in fantasticherie inesprimibili, fino all’an- nullamento attraverso lo schermo. Sarà mica che quello che comunemente chiamiamo “disturbo da deficit di attenzione” non sia altro che il rimanere legati al pensiero dell’orso bianco proprio in virtù dell’imposizione a non pensarci?

Dove, come e quando i bambini, i ragazzi sono liberi di esprimersi e far vedere i propri orsi bianchi, bisogni e desideri, fantasticherie e avventure, pren- dere forma magari in una dimensione collettiva, cooperativa, comunitaria? Mai e poi mai. I bambini sommergibile non hanno a disposizione che un perisco- pio per capire quando non c’è pericolo per salire in superficie e guardare il mon- do alla loro altezza. Basterà offrirgliene l’occasione e loro verranno, come è naturale che sia. Tutta la scuola freinettiana, a cui partecipa anche Ciari e il suo Le nuove tecniche didattiche, risponde a un tentativo in funzione di questa

Strumenti

(16)

emersione. Restituire ai ragazzi la vita che la scuola gli toglie e oggi anche tan- to altro, totalmente indifesi.

E così già sappiamo che diventeremo grandi e allora... tradiremo...

Katja: “E quando sarò grande e avrò dei figli, a nessun costo li obbligherò a stu- diare. Se vorranno studieranno, sennò, no”.

La madre: “Quando diventerai grande non farai così”.

Katja: “No, farò proprio così, invece”.

La madre:“Vedrai che non lo farai”.

Katja: “No, lo farò, lo farò, lo farò”.

La madre: “E allora sarai una stupida”.

Katja: “La njanja dice che Dio ha bisogno anche degli stupidi e delle stupide”.

Quello che esprime la madre di Nikolaj e Katja è qualcosa di molto comu- ne e che tutti conosciamo bene, ovvero le piccole virtù. Per cui la madre si af- fretta a ribadire, negando l’orso bianco, negando la ricerca di Nikolaj della sua vocazione, la piccola virtù del pensare ai compiti ed essere conseguente al vo- lere degli adulti. Allora la scuola dovrebbe insegnare non le piccole virtù ma le grandi. “Non il risparmio ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiet- tezza e l’amore per la verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’ab- negazione; non il desiderio per il successo, ma il desiderio di essere e di sapere”

(Le piccole virtù, di Natalia Ginzburg). Dobbiamo essere consapevoli che un clima, un ambiente tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù porta insensi- bilmente al cinismo e alla paura di vivere. Quella paura di vivere a cui si ribel- lano Nikolaj e Katja.

Dovrebbe invece starci a cuore che nei bambini e ragazzi non venga mai meno l’amore per la vita. Questo amore è la vera vocazione del bambino. E che cos’è la vocazione d’un essere umano se non la più alta espressione del suo amore per la vita? E così ritorniamo ancora a Freinet, a quelle parole che con- tinuamente rimandano alla vita.

Se il fine ultimo è la società di domani e in mezzo c’è la qualità dell’espe- rienza e della crescita del bambino-ragazzo, come si può pensare che domani potrà essere un buon cittadino, non nel senso della capacità di adattarsi ma di trasformare, se non ha mai avuto la possibilità di imparare a far bene una co- sa spinto dalla motivazione a far bene? Anche lo studio è un lavoro, ma lo si farà bene solo se la spinta interiore sarà auto-motivata e non indotta dall’ester- no da voti e minacce, per esempio. I bambini e i ragazzi imparano a studiare Strumenti

(17)

nella nostra scuola? Imparano a fare ricerca, imparano la concentrazione, im- parano la soddisfazione di un risultato raggiunto valorizzato dal mondo circo- stante e quindi il valore della loro fatica, del loro sforzo, del loro lavoro?

Bisogna rimettere al centro dell’educazione il lavoro-gioco svolto come membro attivo di una comunità e il lavoro-gioco come trasformatore, creato- re di cose materiali attraverso l’acquisizione di abilità tecniche, in poche paro- le il lavoro artigianale. Il bambino-artigiano, artigiano nella costruzione dei suoi libri di studio e ricerca, artigiano quando lavora in funzione della sua co- munità, artigiano quando produce cose vere che funzionano. E quindi la scuola non si avvale di laboratori ma è laboratorio, e il bambino il suo appren- dista, il maestro in alcuni casi il mastro, in altri la guida, in altri la regia, in al- tri il sollecitatore, il modello e tante altre cose insieme. Ma la scuola è il laboratorio del bambino e il maestro la sponda.

Perché sarebbe così importante il lavoro-gioco nelle scuole? Che accada fuori, in corsi o saltuariamente a scuola attraverso laboratori dedicati non ci interessa perché non è strutturante di un piano di lavoro, poi si torna sempre al verbalismo, ai compiti, al nozionismo. Coltivare un orto, costruire con la falegnameria, la ceramica, stampare un giornalino, produrre i propri materia- li di ricerca e la propria biblioteca, cucinare, creare momenti pubblici, feste, costruire i propri giochi; vuol dire impostare un processo di apprendimento per imparare a fare bene una cosa, a svolgere bene un lavoro e questo è uno dei fondamenti della cittadinanza, non domani, ma qui e ora.

Il lavoro artigianale, le varie arti utili a fabbricare oggetti fisici ci insegna- no gli ostacoli, le difficoltà, le soluzioni e l’apertura di nuove strade di ricerca.

Ci insegnano l’unità tra mente e corpo, atti semplici come l’afferramento e la prensione e atti complessi, come l’imparare dalla resistenza e dall’ambiguità dei materiali che voglio trasformare come degli strumenti che utilizzo. Ci inse- gnano come gli atti fisici della ripetizione e dell’esercizio consentono alla per- sona di sviluppare abilità tecniche che interiorizziamo, e di riconfigurare il mondo materiale attraverso un lento processo di metamorfosi. Le difficoltà e le possibilità di fare bene le cose valgono anche per la costruzione dei rappor- ti umani, ci forniscono spunti sulle tecniche che possono aiutarci nei rappor- ti con gli altri. E poi il fabbricare cose ci dà lo spunto per riflettere su uno degli aspetti più incisivi dell’educazione dei bambini e dei ragazzi che è proprio l’edu- cazione delle cose, i “discorsi” che subiamo delle cose soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza. Abbiamo già detto che non è solo la scuola oggi diseduca- tiva, ma soprattutto il resto. Il solo fatto che l’Italia è per esempio uno degli ultimi paesi europei in cui i bambini possono andare da soli a scuola ci fa pen-

Strumenti

(18)

sare che non solo lo stare a scuola è diseducativo ma anche l’andarci in mac- china, da soli con uno dei genitori, invece che a piedi, in bici, insieme agli amici, con i mezzi pubblici. Allora la scuola non è la principale esperienza di- seducativa, il suo ruolo oggi sembra più che altro incapacità nel far fronte, nel migliore dei casi, e scimmiottamento e adesione al reale nel peggiore.

Siamo naturalmente immersi in un mondo fatto di cose, di oggetti, di be- ni materiali. Consumatori più che fabbricatori di cose. Quelle cose che furo- no offerte agli uomini dallo scoperchiamento del vaso di Pandora, Pandora che significa “tutti i doni”. Quando il vaso viene aperto soltanto il più immateria- le dei doni, la speranza, non vola fuori per diventare una forza distruttiva. So- no gli attrezzi materiali, gli elisir e i medicamenti in esso contenuti a provocare il danno; i beni materiali costituiscono un male bellissimo. Pandora scoper- chia il vaso solo dietro le pressioni degli uomini; il pericolo risiedeva nella lo- ro fame di cose materiali, nella curiosità di impossessarsi delle cose contenute nel vaso. Pandora soddisfece il loro desiderio, ma sollevando il coperchio tra- sformò i dolci profumi in esalazioni venefiche, le spade d’oro ferirono le ma- ni degli uomini, le morbide tele soffocarono coloro che le manipolavano.

Così oggi i bambini e i ragazzi, attraverso “i discorsi delle cose”, quello che le cose comunicano loro, subiscono una forza distruttiva, un preoccupante im- poverimento della loro esperienza.

“L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale, rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A esse- re educata è la sua carne come forma dello spirito”. Così scriveva Pasolini par- lando a Gennariello e poi continuava, insistendo sul punto che ci interessa:

“Io potrò cercare di scalfire, o almeno mettere in dubbio, ciò che ti insegnano genitori, maestri, televisioni, giornali, e soprattutto ragazzi tuoi coetanei. Ma sono assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegna- no le cose. Il loro linguaggio è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inar- ticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento e delle opinioni non verbali che in te, attraverso quell’apprendimento, si sono formate”.

Le cose nella nostra esperienza, ormai da molto tempo, rimandano solo al giogo della proprietà e del consumo. Le cose sono linguaggio e messaggio e so- no inattaccabili perché si riproducono ipertroficamente distruggendo il mondo.

È doveroso, davanti e con i ragazzi, provare a mettere in discussione que- sto giogo e il suo potere distruttivo, provare a criticarlo e a rendersene consa- pevoli. Ma senza prediche, senza giudizi, facendo insieme. Il bambino-artigiano nell’apprendimento dell’arte di fabbricare attraverso il lavoro-gioco non è com- Strumenti

(19)

pletamente innocente, ma è possibile quanto meno aprire uno spiraglio, vede- re nel bambino, nella sua possibilità di riscoprire facendo, cosa c’è dietro le co- se e quindi il nesso “anima/occhio/mano”, un nesso che è l’essenza stessa del linguaggio delle cose, quella sostanza etica che regge la vita materiale e spiri- tuale e reinserirla nella Storia, rinarrarla facendo, risvegliarla.

Se la migliore educazione, come diceva Dostoevskij, sono i sacri ricordi del- l’infanzia, noi abbiamo il compito, il dovere di aiutare la creazione di questi momenti che si iscriveranno nell’esperienza di crescita come sacri ricordi e che risveglieranno l’infanzia nell’adulto di domani. Il futuro come tempo ritrova- to attraverso il ricordo di ambienti, momenti, esperienze, oggetti materiali, ri- sonanze emotive. Se tutto ciò si impoverisce come si è impoverito, non si può sperare in nulla di migliore.

Una risposta possibile alla ricerca di soluzioni operative che illuminino la stra- da nel difficile compito educativo sta nel risvegliare in noi il bambino-artigiano, il lavoro-gioco, e provare con i mezzi che abbiamo, negli ambienti a disposizio- ne, con le poche risorse, a praticarlo. Risvegliare il bambino-artigiano significa ridare valore all’intimo nesso tra mano e testa, affermare che tutte le abilità an- che le più astratte nascono come pratiche corporee, e che una buona educazio- ne è quella che conduce un dialogo tra le pratiche concrete e il pensiero.

Intanto la realtà è di grande crisi e disagio, di genitori e figli, di maestri- insegnanti e studenti. Intanto la realtà continua a reggersi soprattutto grazie ai bambini. I bambini sanno sopportare e resistere e questa è l’unica ragione per cui la scuola e il mondo rinvia il suo definitivo crollo e autodistruzione.

Diventare adulti in Italia

di Stefano Laffi Orfani

Essendo un “ricercatore sul campo” prendo il treno

tre o quattro volte la settimana per raggiungere la mia meta, per andare in diverse città a svolgere ricerche sociologiche, fare interviste, studiare i dati, chiamato da as- sessori, da amministratori locali e funzionari, ovvero da qualcuno che deve ri- solvere i conflitti sociali sul territorio, gestire i rapporti con segmenti diversi di popolazione, scoprire bisogni e risorse di un quartiere. Ho però una visione che non è larga quanto l’Italia perché raramente riesco a scendere sotto Roma, è più difficile essere chiamati nel senso che c’è meno tradizione di ricerca e

Strumenti

(20)

meno possibilità di lavoro, spesso anche meno risorse. Ho un punto di vista molto legato al Nord, ai temi che investono i giovani, i bambini, l’infanzia, la condizione dell’adolescenza.

Cosa emerge da questo spaccato, di là delle tante cose che ovviamente ca- pita di leggere sui giovani senza futuro? Incontrando spesso anche gruppi di ragazzi, insegnanti, associazioni di genitori e così via, ho la netta sensazione di una condizione generale che chiamerei di “orfanezza”: vedo ragazzi, bambini ma anche adulti letteralmente orfani in questo periodo, privi dei padri che va- levano fino a ieri, degli adulti e genitori che avevano fino a ieri. A me sembra che la cosa più clamorosa avvenuta negli ultimi anni sia proprio la perdita di qualsiasi riferimento istituzionale: a Milano, dove vivo, ma anche in altre cit- tà del Nord la credibilità delle istituzioni è bassissima, la corruzione a Milano ha coinvolto tanto le giunte provinciali di centro sinistra quanto le giunte co- munali di centro destra, e la crisi attuale della Lega nord ha finito per corrom- pere una forma possibile di cittadinanza – la protesta –, e per molti questo ha significato il tramonto del miraggio di portare il dissenso dentro le istituzioni, di andare al potere per scardinarne i meccanismi.

La questione oggi non è più chi andare a votare ma se andare a votare. Al Nord è letteralmente così, non perché si sia diffusa l’anarchia come forma di ri- bellione ma per la perdita radicale di riferimenti istituzionali credibili. Sicura- mente si è orfani delle forme di rappresentanza e delle istituzioni, si è persa l’idea che il voto sia la scelta di chi si occuperà della “cosa pubblica”, perché nessun luogo più dell’istituzione in questi anni ha consentito di fare i propri affari e i propri interessi. Il paradosso è che questa sfiducia, questo disincanto vale anche per chi ci vive nelle istituzioni, chi ci lavora e ne trae lo stipendio, dentro un’Asl o una sede comunale. In fondo sono orfani anche gli elettori del Movimento 5 Stelle, delusi dai partiti o nati già senza partiti, e sono orfani i giovani, degli adulti e dei loro padri in generale – perché hanno assistito negli ultimi anni alla caduta di qualunque esemplarità – come lo sono di prospettive di lavoro, di red- dito e possibilità di cittadinanza, perché al di là di qualunque annuncio di ripre- sa nel tempo a venire, oggi nessuno crede che la crisi sia temporanea. Pensiamoci:

quando un ragazzo di 12-13 anni ha sentito negli ultimi tre anni parlare più di crisi che di qualunque cosa, ci è nato dentro, conosce a memoria il rammarico tardivo degli adulti sul fatto che il suo futuro sarà peggiore del presente.

Figli unici

Come stanno gli italiani, allora? Qualcuno bene, per il semplice fatto che non è affatto orfano. Penso a quelli che hanno le loro rendite di posizione e di pro- Strumenti

(21)

fessione, devono amministrare beni, incassare affitti, manovrare capitali in bor- sa, ricchi e meno ricchi. Penso a tutti quelli che hanno i posti fissi e le rendi- te, penso ai tanti italiani pensionati pre-riforma che si sono comprati case e servitù in Kenya o Venezuela e si godono al sole i benefici del sistema retribu- tivo sulla spalle dei ragazzi, penso a quelli che non si sono accorti di niente perché di fatto la loro vita è protetta, semmai hanno sviluppato un po’ di ci- nismo perché hanno a che fare con gente che ha più difficoltà a pagare. Ma nella sostanza c’è un mondo del tutto opaco a quello che è successo. Poi ci so- no gli avvoltoi, gli speculatori che vedono la crisi come occasione per fare af- fari comprando a buon prezzo, prestando a tasso elevato, ma questa minoranza finanziaria e predatoria meriterebbe un sistema giudiziario in grado di perse- guirla, non altro.

Stare male, stare meglio

Gli altri, i più, cioè gli orfani, stanno male, ma in un certo senso stanno anche meglio. In che senso? Si sta male perché sicuramente gli ultimi patiscono e que- sto è evidente, abbiamo vissuto anni in cui non solo la classe media ha esordi- to nelle categoria del precariato, dell’incertezza e del rosso in banca, ma anche di una povertà divenuta ancora più grave, di classi marginali ancora più esclu- se. Chi lavora coi margini ha visto allungarsi le code alla distribuzione viveri o abiti, ovvero i bisogni primari: in Italia non si muore di fame ma si sta in coda ore, si fanno chilometri per un pasto. In carcere si sta male, negli ospedali chi è malato sta peggio, nei servizi sociali si dispone di meno aiuto e meno risorse:

tutto il welfare è sotto tensione, la parola d’ordine degli operatori è occuparsi solo dei casi più gravi, gestire le emergenze, trovare le risorse personali, familia- ri o di vicinato in chi chiede aiuto, perché altro non si può offrire. Ma stanno male anche quelli che prima se la cavavano, lo si capisce da un dato indiretto, ovvero la crescita delle forme di dipendenza, come a dire che gli italiani stanno consumando di tutto pur di curarsi da soli, di fronte a situazioni che non stan- no più insieme. Il lavoro è iper-frustrante, oppure lo si perde o lo si cerca inva- no, le famiglie esplodono, la scuola vacilla: la fatica a stare nei diversi contesti di vita comporta questo tipo di soluzione, l’autocura, con l’alcol, coi farmaci, con l’evasione mentale del gratta e vinci. Bar e tabaccherie sono pieni di gente che beve e che gioca, non per festeggiare ma perché tutto gira a vuoto.

A questa fatica esistenziale e morale corrisponde però anche il beneficio di un’inedita libertà. Senza soldi e senza vincoli istituzionali, senza quindi ri- spondere a criteri di redditività e a legami di potere, si inventano cose straor- dinarie, le fanno le associazioni di volontariato non cooptate da amministrazioni

Strumenti

(22)

prive di soldi, le fanno i gruppi spontanei e i singoli che finalmente possono giocarsi le loro passioni... Tutti i ragazzi che io conosco non fanno un lavoro ma tre o quattro, sanno che questo è il loro destino, nessuno ha un padrone ma ne ha diversi, e si muovono in queste situazioni molto fluide, non hanno categorie rigide di appartenenza, sono pronti a partire e provare, non parlano il linguaggio dei diritti – questo può essere il problema – ma chiedono rispet- to, che si faccia quel che si dice, che le cose succedano e non siano solo annun- ciate, che ci siano criteri trasparenti rispetto ai quali si è valutati, si è scelti.

In università, a Milano, in un gruppo di quaranta persone di 23 anni la metà lavora – al pub, al bar, come commessa, come hostess, come intervista- tore – e si dà da fare, navigando senza scandalo fra opportunità deboli in que- ste situazioni complicate. Da orfani i giovani crescono soli, riorganizzano le loro vite come possono, costruiscono le loro esperienze, in modo molto oriz- zontale, molto tra pari, proprio perché non c’è la verticalità del riferimento adulto. L’autoimprenditoria è una necessità e non una scelta, perché non c’è più un ufficio dove andare, non ci sono posti vacanti né pare aver senso at- tendere.

Parole, parole, parole

Si stanno creando solchi profondi fra chi è dentro e chi è fuori, fra giovani e adulti, fra precari e garantiti, fra possidenti e nullatenenti... Come tenere in- sieme i pezzi? In passato sono state le parole a saldare le generazioni, sono sta- te orazioni civili e grandi narrazioni a tenerci insieme, a legare nel patto sociale chi è distante nelle possibilità materiali. La sensazione è che questo oggi non basti, anzi. Il marketing e la pubblicità hanno corrotto la comunicazione, la ricerca spasmodica del consenso nella società della comunicazione ha porta- to a promettere tutto, a disegnare sogni con le parole, alla seduzione come lo- gica di relazione: ora si è consumato il tempo in cui i frutti maturano, le promesse si avverano, il riscontro è possibile, e il bluff è palese. L’immigrazio- ne si è fermata, qualcuno torna indietro, i canali Mediaset non funzionano più da sirena per i più giovani perché i format sono planetari, e qui tutto è sa- turo, in mano ad adulti e vecchi che non arretrano dalle loro posizioni di pri- vilegio. Per questo i ragazzi popolano la notte e il web, gli unici spazi rimasti liberi, e diffidano delle parole, del verbale degli adulti, perché tutto è già sta- to smentito.

Anche un bambino sa che la pubblicità mente per sedurre – ma non sa che oggi preferisce costruire storie e personaggi per affiliare, per cooptare il suo immaginario – mentre dalla comunicazione istituzionale ci si attende altro, il Strumenti

(23)

resoconto della realtà. L’approfondimento, invece, o lo svelamento delle vi- cende più complesse, si avrebbe voglia di leggerlo sui giornali. Non è così: la realtà trapela da intercettazioni, disposte da magistrati e passate ai giornali, mentre le inchieste televisive sono fatte sulle libere denunce dei cittadini, ma se subisci un torto o qualcuno di caro scompare sono i carabinieri a suggerir- ti di “chiamare la tv”. Se siamo sempre noi cittadini a scoprire, denunciare, sve- lare... a cosa servono le istituzioni?

Ma la forza delle parole è indebolita non solo dalla mancata corrisponden- za col vero nel discorso pubblico – il vero malato di questi anni – ma anche per l’innocua ipertrofia del discorso privato. Paradossalmente, credo che la li- bera circolazione dei saperi sul web abbia depotenziato le parole, perché una lavagna infinita dove scrivere qual che si vuole quando si vuole non produce sapere. Ora che tutti abbiamo un muro e una vernice spray nel pc portatile, che ne facciamo?

Chimica della trasformazione

Le parole su cui vale la pena concentrare gli sforzi sono forse quelle che han- no forza trasformativa. Per me la questione oggi è come innescare meccanismi di trasformazione della realtà. Per esempio, mi è chiaro che occorre rompere l’incantesimo dello scenario di crisi, che è ricattatorio quanto quello magico del paradiso in terra, professato fino a poco prima. Tutto oggi è ancora raccon- tato in modo incombente, secondo rapporti di scala che non lasciano margi- ni per azioni possibili: le parole della crisi creano pubblico e non attori, costruiscono sceneggiature dove le parti a disposizione sono quelle di chi at- tende, teme, si lamenta, diffida. È chiaro che quelle parole ingessano e conge- lano, fanno il gioco di chi le diffonde: sono efficaci, ma nel senso che immobilizzano una reazione civile.

I ragazzi, e non solo loro, stanno scrivendo, tantissimo, solo che tutto que- sto avviene su display, quasi sempre senza la responsabilità di un discorso pub- blico, ovvero senza assumersi la responsabilità delle parole, preferendo la confidenza, lo sfogo, l’evasione. Scrivere una lettera di protesta al sindaco, scrivere una “lettera alla professoressa”, redigere un manifesto di intenti, sten- dere lo statuto di un’associazione che combatte una causa, preparare un grup- po di ragazzi a sostenere un’intervista con un ministro: sono esempi di pratiche di parole su cui vale la pena misurarsi, per cercare oggi dove avviene quella chimica della trasformazione. Se voglio consegnare il mio tesoro alla ge- nerazione che avviene, la aiuto a dire con forza ed efficacia come le cose do- vrebbero andare per dare a tutti cittadinanza.

Strumenti

(24)

Dalle parole alle immagini

Prima di scrivere e fare ricerche organizzavo, in modo volontario, rassegne di film, a Milano: orfano a mia volta di cineclub che chiudevano, volevo regala- re insieme ad amici e compagni di viaggio altrettanto ai più giovani, secondo un concetto di “militanza culturale” che è impossibile spiegare anche a un un- der 30. In circa quindici anni di attività, terminata verso l’anno 2000, abbia- mo visto moltiplicarsi le tessere, a parità di spettatori per sera. Che cosa stava succedendo? Non c’era più il pubblico, c’erano i pubblici. Ogni rassegna, ogni film differenziava il proprio pubblico, ogni pubblico era diverso. Quello che era stato per noi – cresciuti al calduccio di un cineclub – un rapporto di fidu- cia e formazione in un luogo, era cambiato completamente: quello non era più un luogo di formazione, tu andavi a vedere solo ciò che conoscevi. Ho vis- suto l’insorgere di una logica di consumo culturale, contro l’idea di un luogo di formazione, era l’esordio della segmentazione del target, oggi prevalente.

Ciascuna ha il suo oggetto, il suo film, il suo libro e così via. Questo comporta la possibilità di mostrare cose ricercate e sofisticate che apparten- gono a nicchie, in grado di disporre di canali propri per accedere al proprio filone di consumo. Ma contemporaneamente questo implica l’abdicazione della programmazione culturale alla logica del target. Nella vulgata commer- ciale e di senso comune disponiamo oggi del paradiso in terra – “a ciascuno il suo” – ma con un po’ di lucidità ci rendiamo conto che il profilare prodot- ti e programma per target è regressivo, impedisce alle persone di evolvere in- contrando l’inatteso, ciò che spiazza anziché confermare. Ognuno cerca ciò che conosce e ha già sperimentato, ma senza esposizione ad altro le cerchie di preferenze si restringono, ognuno si riconferma e cerca la comunità di ap- partenenza, la cultura produce isole di fan e non spettatori curiosi o appas- sionati sperimentatori.

Self made

L’altro dato eclatante di questi anni è la mutazione del rapporto con le imma- gini. Lo slogan “a ciascuno il suo” si è spinto fino all’autoproduzione, alla sta- gione della creatività di massa. Oggi in prima media quasi tutti i ragazzi hanno in dotazione uno smartphone con cui possono girare film, montarli, inserire effetti speciali dal telefono stesso e proiettarlo nella più grande sala ci- nematografica del mondo, Youtube.

Non sembra tanto la celebre “morte dell’autore” per estinzione dell’aura, ma un omicidio collettivo grazie all’autorialità di massa: il pubblico che si fa il suo cinema è qualcosa di potente dal punto di vista dell’immaginario, e for- Strumenti

(25)

se non è che un’evoluzione della segmentazione per target, in cui ora l’agget- tivo possessivo “mio” indica non tanto il film che vedi ma quello che fai.

Più che della creatività – e tanto meno dell’arte – questa è l’epoca dell’espres- sività, dell’autorappresentazione, il digitale ha dato in mano a tutti questa oc- casione. Si può essere molto perplessi sull’inflazione di immagini inutili, brutte e malfatte in circolazione sul web e messe sullo stesso piano delle altre – l’uni- co criterio di autorialità in internet è l’algoritmo di Google, il palinsesto lo fa la prima pagina del motore di ricerca – ma dal punto di vista della ricerca que- sta è una novità potentissima, perché esiste una sorta di sequenza forte nella scelta di cosa metti in scena: prima te, poi i tuoi amici, le tue cose e poi – qui sta il passaggio forte, il salto – una storia. Ma prima ci sei tu e ci sono i tuoi amici, le tue cose, e la possibilità dell’autorappresentazione è stata una trappo- la formidabile per i narcisismi, le frustrazioni, gli esibizionismi, i protagoni- smi vari di cui siamo ampiamente malati, se solo ci si presenta l’occasione.

Che fare

L’abbattimento di barriere all’acquisto e all’autoproduzione di immagini ha comportato l’appropriazione individuale e solitaria di un altro segmento pri- ma condiviso, la formazione, divenuta sistematicamente fra i ragazzi autofor- mazione o sperimentazione fra pari: in questo mondo orfano di adulti, non solo non vai da qualcuno a chiedere una telecamera o una sala di montaggio, non senti il bisogno di cercare un interlocutore adulto o esperto per imparare, ma ti formi da solo provando a utilizzare quanto hai in mano e usando i cana- li educational e tutorial sul web per guardare pillole di istruzioni.

Come ogni novità anche questa ha risvolti ambigui, può generare straor- dinari autodidatti e può legittimare la nostra stupidità che non incontra più un filtro critico: i video più visti su Youtube sono sconfortanti. Sul web si pos- sono trovare interviste a Pasolini un tempo inaccessibili, ma anche le peggiori nefandezze (in questo momento il video più cliccato risulta “scoregge della gen- te”): è uno straordinario archivio, ma come ogni campo libero si espone a quel- lo che una volta era il cinema di Alvaro Vitali, semplicemente trapiantato lì e per di più senza nemmeno la fatica di una storia, con la sola “scena madre” che tutti cercano.

Per chi come me è cresciuto nei cineclub e ha provato a dare la stessa op- portunità agli altri è un cambiamento epocale. Ma se provo a riprendere quel- la vis pedagogica, mi viene da notare due cose. Prima di tutto, chiedersi quando e come si passa dalle immagini di sé, moltiplicate per quante ce ne stanno nel- la memoria del telefono, al desiderio di costruire una storia, cioè di racconta-

Strumenti

(26)

re. Se è legittimo e normale avere uno specchio, per me è più interessante esplo- rare quella soglia, capire cosa dà il clic. Secondo aspetto: più che i soldi o le tecnologie credo contino nell’epoca dell’espressività di massa le esperienze di vita. Alla fine quel mezzo in mano tua regala immagini preziose se hai una vi- ta che ha senso, una vita che fa attrito col mondo, se hai un’urgenza di raccon- to. Come a dire che, se ci fosse una scuola di cinema sensata, ragionerebbe sulle vite dei ragazzi che ha di fronte, sul promuovere viaggi esperienziali e incontri significativi. Infine credo sia importante – se penso agli adulti – favorire i mo- menti riflessivi, in cui ragioni su quello che stai facendo, ed esporsi a un’este- tica, a un immaginario e a un cinema che si possa considerare tale. La democrazia delle immagini non è formativa, la lavagna di massa non porta a selezionare il messaggio; aiutare la formazione del gusto non per target di consumo è un con- tromovimento importante da agire.

Il voto dei giovani

di Alessandro Leogrande

incontro con Ludovico Orsini e Nicola Villa

Il dato nazionale

A livello nazionale, il primo elemento che voglio sottolineare

del risultato elettorale è che il Movimento 5 Stelle ha preso le stesse percentuali dappertutto, al Nord come al Sud, in città come in provincia, nelle zone ric- che come in quelle schiacciate dalla crisi. Si tratta di un aspetto inedito per un paese come l’Italia, dove il voto registra normalmente molte differenze da re- gione a regione. Forse è un dato da mettere in relazione all’orizzontalità della rete e all’approccio che un certo settore dell’elettorato ha all’informazione on- line. O forse dimostra semplicemente che l’Italia è un paese molto più omo- geneo di quanto si pensi, nonostante le differenze tra le sue parti.

C’è un altro fattore poi che era evidente anche a piazza San Giovanni, la sera del comizio conclusivo di Grillo, come rilevato in seguito da Renato Mannheimer: al di là della questione se il M5S abbia sottratto maggiormente voti al centrosinistra o al centrodestra, la questione più rilevante è che dei cir- ca 8 milioni e mezzo di voti che il M5S ha ottenuto, il 20% proviene da per- sone che in precedenza si sono astenute, e il 16% dai giovani che hanno votato per la prima volta. Tale dato si evince anche confrontando la differenza dei vo- ti ottenuti tra Camera e Senato. Alla Camera, dove votano anche gli elettori Strumenti

(27)

Strumenti tra i 18 e i 25 anni, il M5S ha ottenuto un milione e quattrocentomila voti in

più, cioè più o meno il 16% di cui parla Mannheimer.

Davanti a noi c’è quindi un voto giovanile precisamente orientato. Elemen- to confermato anche da un ricerca Tecnè: se a livello nazionale Grillo ha pre- so il 25,5%, il Pd il 25,4%, il Pdl il 21,5%, tra gli under trenta Grillo ha preso il 38% e il Pd il 26%, mentre il Pdl è un partito quasi da anziani. Ma tra gli studenti – e questo è il dato più impressionante – Grillo ha preso il 54,8%, il Pd il 22% e il Pdl l’11%. Tra i disoccupati, tra i giovani disoccupati, Grillo ha preso invece il 41%. I dati dicono questo. E Grillo, che rimane uno con del fiuto, quest’aspetto l’ha colto subito, fin dal primo commento post-elettorale:

è un commento intelligente, politicamente criticabile ma intelligente. “Gli italiani non votano a caso”. “In Italia”, ha argomentato Grillo, “ci sono due blocchi sociali. Il primo blocco, che chiameremo Blocco A, è fatto di milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario, disoccupati spesso laurea- ti che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere (...). A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, co- loro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori strozzati. Il secondo blocco sociale, il Blocco B, è costituito da chi vuole man- tenere lo status quo, da tutti coloro che hanno passato indenni la crisi” (ovvia- mente per lui in tale blocco ci sono tutti i lavoratori dipendenti). “Il Blocco A vuole il rinnovamento, il Blocco B la continuità, il Blocco A ha votato in mas- sa per il Movimento 5 stelle”. Al di là della ricostruzione pro domo sua, in re- altà Grillo ha colto degli elementi di verità. La cosa interessante di questo post è che tra i cinquemila commenti che sono seguiti, nell’80% dei casi la gente scriveva “Beppe io sono un professore e ho votato per te”, oppure “io appar- tengo al Blocco B e ho votato per te”.

Secondo me ci sono due aspetti in questo fenomeno da cui è necessario partire. Il primo è che nel M5S c’è una forte componente peronista (non nel senso del populismo, del giustizialismo, elementi che pure ci sono): la cosa che più colpisce è questa capacità di raccogliere gente di destra e di sinistra, o gente che non ha mai votato, e di incorporare una destra e una sinistra al pro- prio interno, ovviamente in una dimensione liquida, frullando insieme le due cose; quest’aspetto costituisce qualcosa di radicalmente nuovo. Se vogliamo ri- manere nel suo schema, in realtà Grillo ha preso voti sia nel Blocco A che nel Blocco B. Per quanto lui racconti il proprio movimento come un movimento di rottura, in realtà io credo che il 25% dei voti non li ha ottenuti con la “rot- tura”, e neanche con la voglia di cambiamento come dice, ma catalizzando que- sto rancore sordo, plurale, che è percepibile nel paese. Ovviamente il rancore

Riferimenti

Documenti correlati

Tale sviluppo non sarebbe tuttavia univoco, poiché continua anche la più tra- dizionale politica americana di rafforzamento solidale delle Alleanze e delle istituzioni

Nella maggior parte dei casi, non si tratta di errori riconducibili a fenomeni evoluti- vi della lingua, tuttavia rappresentano uno degli aspetti della scrittura su cui la scuola

piegando la grafia. Tutto quel che ha a che fare con il corsivo è sostituito dall’uso delle virgolette, quando va bene. Tra le virgolette, sempre per la difficoltà grafica, e

assumere una notevole importanza, far sognare grandi e piccini, far fatica ad arrivare a fine mese, andare inevitabilmente a scontrar- si, dichiarare a chiare lettere, creare

• L'alunno sa riflettere ed esporre su conoscenze e concetti appresi usando il linguaggio specifico della disciplina.. • L'alunno sa usare fonti di diverso tipo

ABILITA  cognitive e pratiche di base necessarie per utilizzare le informazioni rilevanti, al fine di svolgere compiti e risolvere problemi di routine utilizzando regole

Cioè, tutti quegli anni dal primo dopo guerra alla fine degli anni ’60, con la laboriosità di quegli anni, senza la fretta dei nostri giorni, li abbiamo buttati via,

2) con due o piu' casi di positivita' accertati tra gli alunni presenti in classe, per coloro che diano dimostrazione di avere concluso il ciclo vaccinale primario o di